diritto europeo - Ordine Avvocati Milano

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DIRITTO EUROPEO
LE FONTI DEL DIRITTO EUROPEO NEL PROGETTO DI
TRATTATO CHE ISTITUISCE UNA COSTITUZIONE PER
L'EUROPA (*)
1. Un panorama complesso da riordinare
Gli articoli dal 32 al 38 del “Progetto di Trattato che istituisce
una Costituzione per l'Europa” ridisegnano il quadro delle fonti
comunitarie, allo scopo di semplificare e ridurre gli “strumenti
giuridici” del diritto europeo derivato (normativi e non) di cui si
servono le istituzioni dell'Unione Europea (1).
L'opera sarebbe meritoria, poiché attualmente l'Unione offre in
questo settore un panorama di un certo disordine, che rende difficile
la compilazione di una lista esaustiva delle denominazioni di tutti gli
strumenti utilizzati (2). Infatti, accanto agli atti la cui conoscenza e i
cui effetti ormai possono dirsi assodati — le direttive, i regolamenti
e le decisioni — vi è una serie di altri atti (normativi e non) — quali,
ad esempio, i pareri e le raccomandazioni di cui all'art. 249 del
trattato CE, le risoluzioni del Consiglio, le comunicazioni della
Commissione, gli accordi inter-istituzionali, le dichiarazioni comuni
del Parlamento, del Consiglio e della Commissione — sui cui effetti
e obbligatorietà, in assenza di disposizioni chiare del diritto europeo
“originario”, è soltanto la Corte di giustizia a potersi esprimere (3).
In questo quadro complesso, giunge dunque il tentativo di
semplificazione contenuto nel Progetto. Può essere opportuno darvi
uno sguardo perché, ferma restando la possibilità di modifiche a
tutto campo da parte della Conferenza intergovernativa che dovrà
poi approvare il Progetto stesso, sembra di poter ragionevolmente
*
(*) Prof. Nicolò Zanon, Ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università degli studi di Milano.
1
In tal senso la Dichiarazione di Laeken del 15 dicembre 2001, la quale ha convocato la
Convenzione che ha poi predisposto il Progetto.
2
J. ZILLER, La nuova Costituzione europea, Mulino, 2003, 159.
3
G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 1996, 99-104.
ritenere che la parte dedicata agli atti giuridici non sia destinata in
quella sede a subire cambiamenti importanti.
Innanzitutto, va segnalato che il Progetto mette fine al sistema
dei “pilastri” separati: l'unificazione dei “pilastri” comporta, che,
anche dal punto di vista delle fonti, vi sarà un unico sistema che si
applicherà a tutti i settori di competenza dell'Unione. In futuro,
quindi, non verranno più utilizzati, come è accaduto fino ad oggi,
strumenti giuridici con nome ed efficacia diversa a seconda del
settore in cui la competenza viene esercitata, in special modo nel
terzo pilastro.
2. La legge europea
Analizzando da vicino l'articolato, si nota immediatamente una
nuova denominazione degli atti, indubbiamente più vicina alle
tradizioni tipiche dei sistemi delle fonti degli Stati membri europeocontinentali.
L'art. 32 del Progetto parla infatti — oltre che di decisioni, di
raccomandazioni e di pareri — anche di “legge europea”, di “legge
quadro europea” e di “regolamento europeo”.
In particolare, per ciò che attiene la legge europea, si dice che
essa “è un atto legislativo di portata generale, obbligatoria in tutti i
suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati
membri”.
Confrontando tale definizione con quella contenuta nell'art. 249
del trattato CE, sembrerebbe non esserci alcuna differenza rispetto
agli atti in quella sede denominati regolamenti. Infatti, l'art. 249
afferma a sua volta che il regolamento ha portata generale, che è
obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in
ciascuno degli Stati membri.
Appare quindi evidente che gli effetti di quelli che oggi si
definiscono regolamenti sono i medesimi di quelli che, domani,
saranno le leggi europee. La differenza che emerge dal confronto tra
le due formulazioni sta nel fatto che, in riferimento alla legge
europea, il Progetto aggiunge la precisazione che si tratta di “atto
legislativo”.
Apparentemente ciò non parrebbe di particolare importanza. E
tuttavia — salvo quanto si dirà nell'ultimo paragrafo — si tratta di
una precisazione dotata di significato: infatti, il Progetto,
distinguendo gli atti legislativi — nel cui ambito, oltre alla legge
europea, rientra la “legge quadro europea” — da quelli non
legislativi, ha previsto una differente disciplina per le due categorie
di atti per la procedura di adozione degli stessi.
In particolare, gli artt. 33 e III-302 del Progetto attribuiscono
alla procedura di codecisione il ruolo di procedura ordinaria per
l'adozione degli atti legislativi. Tali norme prevedono in sostanza
che per l'adozione di qualsiasi atto legislativo, la cui proposta spetta
in linea generale alla Commissione, è necessario l'assenso, oltre che
del Consiglio dei ministri, del Parlamento europeo, il cui ruolo
risulterebbe evidentemente rafforzato (4). Con tutte le cautele del
caso (5), sembra questo un passo nella direzione della riduzione di
quel ben noto (e spesso lamentato) deficit di democraticità, che in tal
caso riguarderebbe le fonti dell'Unione Europea e le procedure per la
loro adozione (6).
3. La legge quadro europea
Passando poi alla legge quadro europea, anch'essa disciplinata
dall'art. 32 del Progetto, possono farsi osservazioni analoghe a quelle
relative alla legge europea.
Infatti, essa viene definita come “atto legislativo che vincola
tutti gli Stati membri destinatari per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in
merito alla scelta della forma e dei mezzi”.
Anche in questo caso la formulazione riecheggia quasi
completamente quanto previsto dall'art. 249 del trattato CE in
4
Secondo G. F. FLORIDIA, Non abbastanza tuttavia molto, in Diritto pubblico comparato ed
europeo, 2003, e ora in Il cantiere della nuova Europa: tecnica e politica nei lavori della
Convenzione europea, Bologna, 2003, 411, la congiunta titolarità della funzione legislativa
potrebbe presentarsi come un embrione di bicameralismo federale.
5
Non va taciuto infatti che, assieme a quella ordinaria, sono previste in via generale dal
Progetto all'art. 33, secondo comma, alcune procedure speciali, in cui gli atti legislativi sono
adottati dal Parlamento o dal Consiglio con soltanto la partecipazione dell'altro organo. In
particolare, è lo stesso Progetto a riservare al Consiglio quegli atti legislativi su cui l'attenzione
degli Stati membri è maggiore: tra essi, la legge europea in materia di risorse economiche (art. 53)
e quella sul piano finanziario pluriennale (art. 54).
6
In tal senso G. AMATO, Verso la Costituzione europea, in Riv. ital. dir. pubbl. comunit.,
2003, 296. Sugli aspetti critici presenti nel Progetto, si veda invece R. MASTROIANNI, Fonti,
sussidiarietà ed iniziativa legislativa nel testo della Costituzione per l'Europa, in Diritto pubblico
comparato ed europeo, 2003, 1745-1748.
relazione alle direttive: “La direttiva vincola lo Stato membro cui è
rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando
la competenza degli organi nazionali in merito alla scelta della forma
e dei mezzi”.
Similmente a quanto visto prima, dunque, la sola differenza tra
le due formulazioni è la qualificazione esplicita di atto legislativo:
possono quindi valere le stesse considerazioni fatte sopra per quanto
riguarda la procedura d'adozione.
Dunque, se da una parte sarebbe ingenuo pensare che soltanto il
cambiamento del nome degli atti possa portare a una sorta di
“armonizzazione” del sistema delle fonti europee con la tradizione
degli ordinamenti degli Stati membri, dall'altra non si può negare
come il mutamento del nomen juris contribuisca all'obiettivo della
semplificazione e razionalizzazione del sistema.
Interessante sarebbe poi verificare se il cambiamento del nomen
juris possa avere altre conseguenze. Tra le prime questioni
problematiche poste, va segnalato il dubbio relativo alla possibilità
che gli effetti della legge quadro possano o meno essere direttamente
vincolanti nei confronti dei terzi, ovvero se essa necessiti di
un'applicazione legislativa da parte degli Stati (7).
Bisogna poi rilevare che l'art. 32, par. 2, introduce una norma di
chiusura: nel tentativo di diminuirne il numero, si sancisce infatti il
divieto per il Consiglio dei ministri e per il Parlamento di adottare
atti atipici su materie che siano già oggetto di un procedimento
legislativo in corso.
4. Gli atti non legislativi: i regolamenti
Come si accennava, il Progetto introduce la distinzione tra atti
legislativi e non legislativi. Prima di esaminare gli effetti che questa
distinzione potrebbe avere sull'intero sistema delle fonti comunitarie,
è bene analizzare sinteticamente come vengano disciplinati dall'art.
32 i tre singoli atti non legislativi: regolamenti, decisioni e
raccomandazioni.
7
Sul punto, c'è stato chi ha affermato [V. CERULLI IRELLI, F. BARAZZONI, Gli atti dell'Unione,
in F. BASSANINI, G. TIBERI (a cura di), Una Costituzione per l'Europa, Bologna, 2004, 148] che
l'intervento degli Stati sia sempre necessario, in virtù del fatto che il nuovo testo è fondato su un
riparto di competenze tra Unione e Stati membri meglio definito. In senso contrario R.
MASTROIANNI, Fonti, sussidiarietà, cit., 1740.
L'introduzione del cd. regolamento europeo, in particolare,
costituirebbe la più grande novità del Progetto, dal punto di vista
delle fonti (8): si tratterebbe, infatti, di un atto non presente nel
sistema originario disegnato dai trattati. Esso è “atto non legislativo
di portata generale, volto all'attuazione degli atti legislativi e di
talune disposizioni specifiche della Costituzione”.
Vanno però distinte due diverse specie di regolamento: a
seconda del contenuto, infatti, esso “può essere obbligatorio in tutti i
suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati
membri”, oppure vincolare “lo Stato membro destinatario per quanto
riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza
degli organi nazionali in merito alla scelta della forma e dei mezzi”.
Al di là degli effetti, va sottolineato che il Progetto affida in via
generale ai regolamenti europei un ruolo esclusivamente attuativo di
atti legislativi o di norme espressamente indicate dalla Costituzione
stessa. Correttamente è stato rilevato che sembra così prospettarsi
una “sorta di tipizzazione della normazione secondaria legata al
principio di legalità” (9).
La competenza ad emanare i regolamenti spetta, secondo l'art.
34 del Progetto, sia al Consiglio dei Ministri che alla Commissione,
a seconda delle specifiche disposizioni della Costituzione europea
stessa.
5. Segue: i regolamenti delegati
Oltre al regolamento europeo, l'altra novità sarebbe costituita
dal regolamento delegato: l'art. 35 del Progetto prevede infatti che
leggi e leggi quadro possano delegare alla Commissione —
stabilendo i criteri, gli obiettivi, la portata e la durata della delega —
la facoltà di emanare regolamenti che completino o modifichino
“determinati elementi non essenziali della legge o della legge
quadro”.
La norma prevede poi che Consiglio, a maggioranza qualificata,
e Parlamento, a maggioranza dei membri che lo compongono,
possano in ogni momento revocare la delega. Inoltre, il regolamento
8
A. CELOTTO, La “legge” europea”, in A. LUCARELLI, A. PATRONI GRIFFI (a cura di) Studi
sulla Costituzione europea. Percorsi e ipotesi, Napoli, 2003, 214.
9
F. SORRENTINO, Considerazioni introduttive sulle nuove fonti del diritto europeo, in Diritto
pubblico comparato ed europeo, 2003, 1749.
delegato può entrare in vigore soltanto se non vengono mosse
obiezioni dai due organi deleganti.
A differenza dei regolamenti europei, i regolamenti delegati
avrebbero così anche la possibilità di innovare — ma solo negli
elementi non essenziali — quanto stabilito nelle leggi. È da chiedersi
se ciò possa comportare l'estensione a livello comunitario delle
annose questioni, ben note al sistema italiano delle fonti, relative al
rango e alla posizione gerarchica dei regolamenti delegati di cui
all'art. 17, secondo comma, della legge n. 400 del 1988.
6. Gli altri atti non legislativi: decisioni, raccomandazioni, pareri
Per ciò che attiene agli altri atti giuridici dell'Unione elencati
dal progetto nel Titolo V, non sembrano esservi variazioni di grande
importanza. Quanto alle decisioni, infatti, l'unica precisazione
dell'art. 32 del Progetto, rispetto all'art. 249 del trattato CE, è che si
tratta di atti non legislativi. Per il resto, si dice che esse sono
obbligatorie in tutti i loro elementi, e che possono avere anche
efficacia non generale ma diretta soltanto ad alcuni destinatari. Nulla
di diverso, dunque, da quanto già previsto.
Medesimo discorso anche per le raccomandazioni e i pareri, di
cui la norma afferma soltanto la natura di atti non vincolanti,
esattamente come previsto nell'art. 249 trattato CE.
7. La separazione tra atti legislativi ed esecutivi e l'introduzione
di una gerarchia tra atti normativi
Come già accennato, oltre al mutamento del nomen juris degli
atti legislativi, e all'introduzione dei regolamenti — delegati e non
— la vera novità del Progetto, che in dottrina è stata messa
particolarmente in risalto (10), sta nell'avere segnato in maniera netta
i confini tra atti legislativi e atti esecutivi.
Ma ancora più importante è la conseguenza che da ciò deriva,
cioè la tendenza verso la creazione di un vero “sistema” delle fonti
con una delineata gerarchia tra le stesse: Costituzione al vertice,
legge e legge quadro in posizione primaria, regolamenti e decisioni
10
Oltre agli autori già citati, si veda anche G. TIBERI, La semplificazione degli atti
dell'Unione Europea e il metodo di coordinamento aperto, in Studi sulla Costituzione europea, cit.,
231 e sgg.
in quella secondaria, e infine regolamenti europei d'esecuzione e
decisioni europee di esecuzione, che però potranno essere adottati
dall'Unione, ex. art. 36, soltanto in via sussidiaria rispetto agli Stati
membri. Emerge quindi netta la distinzione non solo tra atti
legislativi e atti di attuazione, ma anche tra questi ultimi e quelli
strettamente esecutivi.
L'introduzione di una gerarchia a livello di fonti dovrebbe tra
l'altro comportare la possibilità, da parte della Corte di giustizia, di
annullare gli atti che si trovino ad essere in contrasto con una fonte
superiore. A livello di normazione secondaria, poi, essa dovrebbe
garantire la tassatività degli atti ammessi (11).
Restano da chiarire comunque diversi aspetti. Tra questi, come
già si accennava, la posizione nella gerarchia dei regolamenti
delegati: sono atti regolamentari o legislativi? In questo senso,
inoltre, incertezze potrebbero derivare dalla previsione relativa al
regolamento europeo: ci si potrebbe infatti chiedere se sarà
necessario distinguere la loro posizione gerarchica a seconda della
normativa, costituzionale o legislativa, che essi sono chiamati ad
attuare.
In conclusione, rispetto agli obiettivi di semplificazione e
razionalizzazione del sistema normativo che erano stati posti a
Laeken, il Progetto di Costituzione sembrerebbe consentire il
raggiungimento di qualche apprezzabile risultato, in particolare per
quanto riguarda la riduzione e la tipizzazione degli strumenti.
Numerose rimangono tuttavia le incertezze, anche perché è difficile
ragionare in astratto su un tema del genere: come è stato detto, per
essere sufficientemente proficua, “ogni riflessione sulle fonti deve
essere calata nell'effettività di un ordinamento” (12).
N.B. L'articolo del Prof. Nicolò Zanon, ovviamente ha
preceduto la recentissima approvazione della Convenzione
europea, per altro (al momento di questa nota) in attesa di
ratifica.
11
C. PINELLI, Appunto sulla delimitazione di competenza UE/Stati membri e sugli strumenti
(o fonti del diritto europeo), in www.associazionedeicostituzionalisti.it.
12
F. SORRENTINO, Considerazioni, cit. 1749.
NUOVE MISURE A TUTELA DELLE AZIENDE NELLA
LOTTA ALLA CONTRAFFAZIONE (*)
Regolamento CE n. 1383/2003: intervento delle autorità doganali nei
confronti di merci sospettate di violare taluni diritti di proprietà
intellettuale.
Il prossimo 1 luglio 2004 entrerà in vigore, in tutti i 25 paesi
membri, il regolamento CE n. 1383/03 del Consiglio “relativo
all'intervento delle autorità doganali nei confronti di merci
sospettate di violare taluni diritti di proprietà intellettuale e alle
misure da adottare nei confronti di merci che violano tali diritti”.
La nuova norma, secondo quanto si legge nei considerando
iniziali, è volta a migliorare il funzionamento del sistema relativo
all'introduzione nella Comunità e alla riesportazione dalla Comunità
di merci che violano diritti di proprietà intellettuale (materia
disciplinata dal regolamento 3295/94 che viene espressamente
abrogata dall'art. 25b del regolamento in esame), attraverso
l'attribuzione di poteri alle autorità doganali che dovrebbero
intervenire in presenza di merci contraffatte o usurpative che sono in
procinto di essere esportate, riesportate o in uscita dal territorio
doganale della Comunità.
Secondo quanto illustrato dal regolamento, inoltre, il Consiglio
ritiene anche che l'intervento dell'autorità doganale dovrebbe
consistere o “nella sospensione dell'immissione in libera pratica,
dell'esportazione e della riesportazione delle merci sospettate di
essere contraffatte o usurpative o di violare taluni diritti di
proprietà intellettuale, o nel blocco di tali merci quando siano
vincolate ad un regime sospensivo, in zona franca o deposito franco,
in procinto di essere riesportate previa notifica, introdotte nel
territorio doganale o di lasciare tale territorio, per tutto il tempo
necessario ad accertare se si tratti di merci siffatte”.
Oggetto e campo di applicazione
Passando all'illustrazione delle norme di particolare rilievo del
regolamento in esame occorre precisare che le autorità doganali
*
(*) Andrea Leoni, Avvocato in Milano.
potranno intervenire qualora le merci sospettate di violare i diritti di
proprietà intellettuale “siano dichiarate per l'immissione in libera
pratica, l'esportazione o la riesportazione” — ai sensi del
regolamento CEE n. 2913/92 che ha istituito il codice doganale
comunitario — e qualora le merci “siano scoperte in occasione di un
controllo effettuato su merci introdotte nel territorio doganale della
Comunità o in uscita da questo ai sensi del regolamento CEE
2913/92”.
Ai fini dell'identificazione specifica delle merci alle quali si può
applicare il regolamento 1383, l'art. 2 compie una distinzione tra:
— le merci contraffatte: i) le merci, compresi gli imballaggi,
sulle quali sia stato apposto senza autorizzazione un marchio di
fabbrica o di commercio identico ad uno validamente registrato per
gli stessi tipi di merci, o che non possa essere distinto nei suoi
aspetti essenziali da quello registrato — ii) qualsiasi segno distintivo
anche presentato separatamente che si trovi nella stessa situazione
delle merci di cui al punto i) — iii) gli imballaggi recanti marchi
delle merci contraffatte presentati separatamente, che si trovino nella
stessa situazione delle merci di cui al punto i);
— merci usurpative: merci che costituiscono o contengono
copie fabbricate senza il consenso del titolare del diritto d'autore o
dei diritti connessi o del titolare dei diritti relativi al disegno o
modello, registrato o meno a norma del diritto nazionale, o di una
persona da questi autorizzata nel paese di produzione, quando la
produzione delle copie costituisce violazione dei diritti in materia di
disegni e modelli comunitari o ai sensi della legislazione dello Stato
membro in cui è presentata la domanda per l'intervento delle autorità
doganali;
— merci che, nello Stato membro in cui è presentata la
domanda per l'intervento delle autorità doganali ledono i diritti
relativi a: i) un brevetto a norma della legislazione di tale Stato
membro — ii) un certificato protettivo complementare di cui al Reg.
CEE 1768/92 del Consiglio e Reg. CE 1610/96 del Parlamento e del
Consiglio — iii) una privativa nazionale per ritrovati vegetali a
norma della legislazione dello Stato membro o comunitaria — iv)
una denominazione d'origine e alle indicazioni geografiche;
Il legittimato attivo — il titolare del diritto — è il titolare dei
marchi, dei brevetti, delle privative o dei certificati protettivi delle
merci contraffate e/o usurpative, nonché qualsiasi altra persona
autorizzata ad utilizzare i diritti di proprietà intellettuale ovvero un
rappresentante del titolare del diritto o una persona autorizzata.
Non rientrano, nell'ambito di applicazione del regolamento, le
merci che rechino un marchio di fabbrica con il consenso del titolare
del medesimo.
Intervento delle autorità doganali
Il soggetto che assume di aver sofferto una violazione di un
proprio diritto, può presentare agli uffici doganali competenti una
richiesta di intervento (domanda d'intervento) contenente specifici
elementi che servono tanto per l'individuazione delle merci che si
assumono contraffatte, quanto per fornire elementi comprovanti la
frode, quanto per dimostrare l'esistenza del diritto di privativa ed, in
genere, per fornire alle autorità interpellate tutte le informazioni che
servono per identificare la merce (quali, ad esempio, i mezzi di
trasporto, il luogo in cui si trovano le merci, il numero di
identificazione dei colli, la prevista data di arrivo degli stessi etc.).
Nel caso in cui il diritto sia originato da marchio comunitario o
disegno comunitario, inoltre, la domanda alle autorità doganali di un
singolo Stato membro consente di ottenere l'intervento tanto di tali
autorità doganali, quanto delle autorità doganali di altri Stati
membri, consentendo al titolare del diritto di ottenere una tutela
territorialmente più ampia con una unica domanda di intervento.
La richiesta di intervento, inoltre, deve essere accompagnata da
una dichiarazione con la quale il richiedente si assume direttamente
la responsabilità nei confronti dei soggetti interessati qualora la
procedura avviata dal titolare non sia dallo stesso proseguita o
qualora si accerti che le merci in questione non violano alcun diritto
di proprietà intellettuale, e ciò al fine di evitare che l'intervento delle
autorità doganali possa essere utilizzato come strumento di
concorrenza, palesemente sleale, nei confronti di un concorrente.
Unitamente all'assunzione di responsabilità il richiedente si
accolla anche i costi e le spese sostenute per il mantenimento delle
merci sotto il controllo doganale.
Il servizio doganale, al quale è stata rivolta la domanda di
intervento del titolare del diritto, stabilisce anche il periodo durante
il quale devono intervenire le autorità doganali — massimo un anno
prorogabile — e ne informa il richiedente sul quale incombe l'onere
di comunicazione alle autorità doganali chiamate nello specifico ad
intervenire sulle merci.
Ciascuna autorità doganale chiamata ad intervenire
praticamente sulle merci che si assumono violare diritti di proprietà
intellettuale sospende lo svincolo delle stesse o le blocca in dogana,
dandone notizia tanto al titolare del diritto quanto al titolare delle
merci e concede al titolare del diritto la possibilità di ispezionare le
merci per le quali è sospeso lo svincolo o è stato disposto il blocco.
Una volta che sia impedito lo svincolo delle merci o ne sia stato
disposto il blocco, il titolare del diritto può richiedere la distruzione
dei beni direttamente in dogana, a propria cura e spese.
Tale richiesta deve essere notificata al detentore o proprietario
delle merci che ha la facoltà di opporsi alla distruzione entro il
termine previsto da ciascuna legislazione nazionale; in caso di
mancata opposizione si ritiene che sia stato prestato il consenso alla
distruzione.
In caso di opposizione alla richiesta di distruzione o qualora le
autorità doganali non ricevano notizia dell'avvio di un procedimento
“inteso a determinare se vi sia stata violazione di un diritto di
proprietà intellettuale ai sensi della legislazione nazionale”, il
provvedimento di sospensione dello svincolo delle merci in dogana
o il provvedimento di blocco delle stesse viene revocato.
Il proprietario, l'importatore, il detentore od il destinatario delle
merci che si assume violino un diritto di proprietà intellettuale può
richiedere, a sua volta, lo svincolo o lo sblocco delle stesse a fronte
del deposito di una garanzia e sempre che sia stato comunicato
all'autorità doganale l'avvio di un procedimento “inteso a
determinare se vi sia stata violazione di un diritto di proprietà
intellettuale ai sensi della legislazione nazionale”, che non sia stata
autorizzata alcuna misura conservativa da parte dell'autorità
competente e che siano state espletate tutte le formalità doganali.
Effetti dell'accertamento
L'articolo 16 del regolamento in esame stabilisce espressamente
che le merci riconosciute come merci che violano un diritto di
proprietà intellettuale non possono essere immesse nel territorio
doganale della Comunità, non possono essere immesse in libera
pratica, ne è vietata l'esportazione, la riesportazione ed il
collocamento in zona franca o in un deposito franco.
Gli stati membri, inoltre, sono chiamati ad adottare le misure
necessarie per impedire l'ingresso nel circuito commerciale delle
merci riconosciute in violazione di diritti di proprietà intellettuale,
nonché di adottare qualsiasi altra misura “che abbia l'effetto di
privare gli interessati dell'utile economico dell'operazione”.
Responsabilità del titolare del diritto
Molto sinteticamente il regolamento prevede che “l'eventuale
responsabilità civile del titolare del diritto è disciplinata dalla
normativa dello Stato membro in cui le merci in questione si
trovano” demandando, quindi, alla legislazione di ciascuno stato
l'individuazione e l'applicazione di eventuali sanzioni.
Conclusioni
Dalla lettura del regolamento si può evincere come l'intento sia
stato quello di cercare di individuare uno strumento che consentisse,
nella lotta alla contraffazione dei diritti di proprietà intellettuale, di
impedire l'ingresso delle merci direttamente nel mercato
comunitario.
Quale sarà l'applicazione pratica di tale regolamento al
momento è di difficile previsione anche se, certamente, potrà
costituire un ottimo ausilio per combattere il fenomeno
dell'importazione di merci contraffatte da paesi extra Unione.
Il regolamento, invece, non risolve un diverso problema e,
precisamente, quello della diffusione di merci e beni contraffatti che
sono prodotti direttamente all'interno dell'Unione e che, pertanto,
non sono controllabili dalle Autorità Doganali.
BANCHE DEI TESSUTI
Direttiva 2004/23/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31
marzo 2004
L'Unione europea ha appena legiferato su una materia
inconsueta per i più, ma di estrema rilevanza per la ricerca e la
salute. Da molti anni i ricercatori vanno raccogliendo materiali
biologici residui di operazioni chirurgiche (pensiamo alle biopsie od
alle rimozioni di masse tumorali), ovvero richiedendoli dalle sale
anatomiche in caso di morte del paziente, per poi provvedere alla
loro stabilizzazione mediante crioconservazione ad azoto liquido
oppure paraffinatura e stoccaggio al fine di studio e ricerca. Oggi,
con la terapia genica, questo materiale può essere trattato e
reimpiantato nel paziente a scopo terapeutico.
Sono intuitivi i problemi di consenso, riservatezza dei dati,
sicurezza, circolazione, che la materia comporta. Nel 1977 la
Presidenza del Consiglio dei Ministri, tramite il Comitato nazionale
per la biosicurezza e le biotecnologie, ha incaricato un gruppo di
esperti di elaborare linee guida per l'ingegneria dei tessuti e la
terapia cellulare. Il documento è stato completato e approvato
“soltanto” ventun'anni dopo, nell'estate del 1998, quindi le “Linee
guida per la sicurezza e la qualità della sperimentazione in terapia
cellulare e per l'impiego dei prodotti dell'ingegneria dei tessuti' a
scopo terapeutico, ovvero a scopo di trapianto su pazienti” sono
state pubblicate sul Notiziario dell'Istituto Superiore di Sanità,
numero 5/99. La Direttiva 2004/23/Ce giunge adesso (la
pubblicazione è avvenuta sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione
europea del 7.4.2004) ad uniformare la regolamentazione della
materia; infatti gli Stati membri dovranno provvedere a recepirla
entro il 7-4-2006.
Per comprendere il significato di questa regolamentazione è
bene innanzitutto chiederci che cosa sia la donazione di organi o
tessuti. Ovviamente non parliamo certo della donazione definita
dall'art. 769 del Codice civile; nel nostro caso mancano infatti:
— l'elemento patrimoniale: parliamo di cose non
commerciabili (art. 5 del codice civile);
— l'elemento contrattuale: le parti spesso neppure si conoscono
e l'atto di disposizione viene effettuato il più delle volte in favore di
persona (od Ente, nel caso di tessuti) nominata dalla Pubblica
Autorità.
Sussiste, invece, lo spirito di liberalità, ovvero qualcosa che gli
rassomiglia e che viene comunemente ritenuto spirito di solidarietà;
quindi, azzardando una definizione, potremmo considerare la
donazione di organi (o di tessuti che mantengano la propria
funzionalità) come:
“L'atto unilaterale con il quale taluno, per spirito di solidarietà
e nei casi consentiti dalla legge, rinunzia al diritto all'integrità del
proprio corpo, per l'intero o per sue parti funzionali, in favore di
persona od Ente consentiti od indicati a loro volta dalla legge”.
L'intervento pubblico, espresso dalla legge e dall'Autorità
Amministrativa che la regolamenta e la applica, è elemento
necessario della fattispecie, perché il diritto all'integrità fisica non è
disponibile neppure all'interessato, e può quindi abdicarvisi
esclusivamente per finalità di pari rango (l'altrui salvezza, articolata
in solidarietà, cura, ricerca a scopo terapeutico), verificata dalla
Pubblica Amministrazione.
Va poi considerato che di atto abdicativo può parlarsi se ed in
quanto la “porzione” corporea oggetto della disposizione abbia una
funzionalità propria, ed essa sia — anche — idonea ad essere
riprodotta su altro soggetto: rene, fegato, polmone, cornea, tessuto
osseo o cutaneo.
Allorché il materiale trapiantato, invece, non disponga di
funzionalità propria, riproducibile su altri soggetti, ci troveremmo di
fronte, dal punto di vista del paziente, a null'altro che ad un “rifiuto
speciale” destinato, per le eccedenze rispetto alle normali esigenze
diagnostiche (es: biopsia), ad essere trattato e smaltito. Dal punto di
vista della comunità scientifica quel materiale, nato dalla sofferenza,
è invece indispensabile alla ricerca, nonché “raro”.
Per questi reperti, quindi, appare difficoltoso concepire un “atto
di disposizione”, dal momento che il corpo non viene privato di
nulla che non sarebbe comunque destinato all'ablazione per ragioni
terapeutiche; né questo materiale va a sovvenire alcun altro soggetto
individuato od individuabile. Permane, invece, lo spirito di
solidarietà, sebbene assai attenuato rispetto alla donazione di organi,
dal momento che il materiale viene destinato non immediatamente
alle persone, bensì “alla ricerca”.
Per converso, il materiale biologico in questione contiene “dati
sensibili” sullo stato di salute (ed ormai anche sulle caratteristiche
genetiche) del paziente; ed è questa la materia che solleva maggiori
problemi.
Ora, la normativa europea assimila cose diverse come le
donazioni di organi e quelle di cellule o tessuti, ma ciò non è dovuto
affatto ad una comunanza “ontologica” delle due fattispecie, bensì
ad altre ragioni, estremamente pragmatiche:
— in generale, le normative nazionali degli Stati membri non
sono uniformi, neppure sulle categorie generali appena esposte;
— in particolare, per quanto attiene al consenso del donatore,
anche i tessuti privi di funzionalità riproducibile su altri soggetti
contengono informazioni riconducibili al paziente, informazioni che
debbono essere considerate “dati sensibili” giacché “idonei a
rivelare lo stato di salute” (art. 4 lett. “d” del decreto legislativo n.
196 del 30 giugno 2003);
— per quanto attiene alla conservazione, identificazione,
tracciabilità dei tessuti e delle cellule, essi, al pari dei farmaci,
possono diventare veicoli di terapia, quindi venire a contatto con
altri soggetti.
A questo punto si comprende come l'atto di disposizione di
organi (“donazione”) debba ritenersi irrevocabile (evidentemente:
dopo il prelievo) per sua natura, dovendo assimilarsi alle
obbligazioni naturali di cui all'art. 2034 c.c.
Per quanto attiene alla revocabilità dell'atto di disposizione
prima del prelievo, essa è invece pienamente consentita, in tema di
donazioni di organi o tessuti dotati di propria funzionalità, sia dai
principi generali (non esiste infatti un contratto, quindi una
“proposta” ed una conforme “accettazione” del beneficato atta a
recepire e rendere irrevocabile la manifestazione di volontà
dispositiva del beneficiante), sia, in modo espresso, dall'art. 23 della
legge n. 91 del 1o aprile 1999.
Diverso è il problema per il tessuto o le cellule. Poiché non
appare configurabile un “atto di disposizione”, la revocabilità del
consenso va valutata alla stregua non del diritto alla integrità
corporea, ma del diritto alla riservatezza; il che costituisce una
complicazione, giacché il momento del prelievo non risulta più
significativo della scadenza del periodo di “revocabilità”; infatti, non
parliamo più di materiale “in quanto tale”, ma delle informazioni in
esso contenute.
La Direttiva 2004/23/CE ha quindi introdotto la riservatezza
bilaterale delle identità di donatori e riceventi, ma ha lasciato agli
Stati membri la tutela generale della riservatezza: va ricordata in
proposito la speciale autorizzazione prevista dall'art. 90 del Codice
in materia di protezione dei dati personali — decreto legislativo n.
196 del 30 giugno 2003 — per il trattamento dei dati genetici.
Per quanto attiene al consenso previsto dall'art. 81 del Codice
della Privacy in campo sanitario, ci si è posti in linea generale il
problema della sua revocabilità. Mentre essa è espressamente
prevista nel campo delle telecomunicazioni o del commercio
elettronico, la legge non dispone in altri campi. Nel nostro caso non
pare discutibile la irrevocabilità del consenso a stoccare i reperti,
poiché dopo il prelievo essi hanno subìto una trasformazione da
rifiuti a materiale preparato da laboratorio; ma potrebbe ipotizzarsi
l'interesse del donatore a revocare il consenso all'utilizzo delle
informazioni relative alla sua malattia, al suo DNA, desunte dai
reperti.
Questo interesse, però, viene interamente soddisfatto
dall'anonimato garantito dalla Direttiva 2004/23/CE, e tale disciplina
speciale esaurisce in sé ogni tutela ritenuta necessaria
dall'ordinamento, non giustificando la revocabilità del consenso
legittimamente espresso.
Non va poi confusa con la tutela della riservatezza dei dati, e
neppure con il consenso al prelievo e stoccaggio dei tessuti o cellule,
l'esigenza, tipicamente terapeutica, del donatore vivente che
abbisogni del tessuto “trattato” per sottoporsi ad una terapia
innovativa, magari realizzata proprio con la manipolazione genetica
del “proprio” tessuto. Questa esigenza è espressione del generale
diritto alla terapia più efficace, e sussiste anche in presenza del
consenso “irrevocabile” al prelievo ed allo stoccaggio, nonché al
consenso “irrevocabile” al trattamento dei dati sensibili; ancora, essa
prevale anche sulle esigenze di ricerca, quindi “l'ultima molecola”
spetterà sempre al paziente donatore, se vivente e bisognoso di cure.
Le “banche tessuti” dovranno quindi prevedere la permanenza di una
idonea quantità di materiale per i pazienti viventi. Solo dopo la
morte dei donatori, il materiale accantonato per questa occorrenza
tornerebbe nella piena disponibilità della Istituzione.
Ciò premesso, c'è da chiedersi quale sia il regime giuridico del
materiale raccolto, ossia se esso sia “di proprietà” delle Istituzioni
sanitarie o di ricerca che lo hanno raccolto con il legittimo consenso
del paziente; infatti, la “rarità” del materiale e la molteplicità delle
ricerche rendono assai rilevante questo problema.
Evidentemente il reperto non trattato, o “minimamente” trattato
è una “cosa” non commerciabile, alla quale non appare adattabile il
concetto di proprietà, che sottintende la commerciabilità od almeno
la valutabilità economica della cosa. Si può quindi parlare solo di
detenzione o possesso legittimi, che possono essere liberamente
trasferiti, anche dietro corrispettivo, ma limitato alle spese connesse
con la conservazione ed il trasferimento. La “non proprietà” dei
tessuti implica che la richiesta di consegna (ovvero il rifiuto di
consegna) del materiale non possa essere arbitrario, ma debba
conformarsi a principi etici, di buona pratica clinica e di laboratorio;
esso andrà dunque valutato con la lente dell'amministrativista a
preferenza di quella del civilista.
Le cose cambiano sensibilmente, però, con il trattamento dei
tessuti, effettuato a scopo di ricerca o terapia. Il trattamento può dar
infatti luogo ad invenzioni, anche suscettibili di privative, o
comunque a manipolazioni che trasformano il reperto iniziale in
qualcosa di diverso, che dunque apparterrebbero intellettualmente,
industrialmente e materialmente all'inventore o comunque al
ricercatore (o più normalmente all'istituzione di ricerca).
Avremmo quindi un bene suscettibile di valutazione anche
economica, la cui circolabilità sarebbe possibile, ancorché limitata
dalle norme sulle banche tessuti ed — eventualmente — da quelle
che limitano l'ingegneria genetica. In questi casi i tessuti trattati
divengono “di proprietà” della Istituzione al pari di qualsiasi altro
bene economico.
Ma va anche considerato che persino il trattamento “minimo”
di conservazione, quando protratto nel tempo, costituirà un
investimento non trascurabile, senza del quale il tessuto avrebbe
cessato di esistere in quanto tale (per averne un'idea: servizi privati
di crioconservazione costano circa 15 euro all'anno per ciascun
campione; e per una banca tessuti si parla di centinaia di migliaia di
campioni). La conservazione stessa, quindi, sembra destinata a
trasformare il tessuto o la cellula in qualcosa di diverso dal suo stato
“naturale”: da residuo deperibile a materiale stabile per la ricerca; e
questa trasformazione e successiva conservazione implicano
investimenti e costi rilevanti. Se la trasformazione si verifica, essa é
certo sufficiente a rendere l'Istituzione proprietaria a pieno titolo del
tessuto esattamente come nel caso nel quale la trasformazione fosse
più radicale e costituisse il risultato innovativo di una attività
sperimentale o di ricerca.
Peraltro l'Istituzione potrebbe benissimo — anzi: dovrebbe —
autofinanziare le proprie ricerche con lo sfruttamento dei propri
diritti di proprietà intellettuale o di privativa industriale.
Questa materia dovrà essere opportunamente regolamentata
dalla normativa nazionale di implementazione della Direttiva
2004/23 CEE, stabilendo ad esempio quali trattamenti comportino
una trasfomazione sufficiente a far sorgere il diritto proprietario del
centro di ricerca (o della banca tessuti), ivi compresa la
conservazione protratta oltre un determinato periodo.
La Direttiva 2004/23 CEE, ancora, non configura esattamente
lo status giuridico delle banche tessuti, nel senso che lascia agli Stati
membri la libertà di renderli “patrimonio” di Istituti di ricerca,
ovvero di dotarli addirittura di propria personalità giuridica, in modo
che costituiscano Enti a sé stanti, con i quali gli Istituti di ricerca
intratterrebbero rapporti semplicemente contrattuali.
È rimarchevole notare come, fino a ieri, i principi generali della
normativa sulla donazione di “organi” da viventi erano costituiti da:
— il consenso informato di donante e donatario;
— la gratuità;
— la revocabilità fino al momento dell'intervento.
La disciplina introdotta dalla Direttiva 2004/23/CE vi aggiunge,
con estensione anche alla donazione di cellule e tessuti:
— l'accreditamento pubblico delle banche tessuti;
— la rintracciabilità nel percorso da donatore a ricevente e
viceversa;
— il registro dei tessuti;
— la notifica di eventi e reazioni avverse gravi;
— il principio di gratuità della donazione, temperato dalla
possibilità di riconoscere “un'indennità strettamente limitata a far
fronte alle spese ed agli inconvenienti risultanti dalla donazione”;
— il controllo pubblicistico della promozione e pubblicità della
donazione;
— la “base non lucrativa” dell'approvvigionamento di tessuti e
cellule “in quanto tali”;
— il consenso informato, secondo modalità stabilite dai singoli
Stati;
— la protezione dei dati e riservatezza;
— selezione e valutazione dei donatori;
— il controllo di qualità dei tessuti e cellule;
— l'istituzione del Responsabile della banca tessuti;
— la qualificazione del personale;
— la forma scritta per qualsiasi accordo relativo ad un
intervento di terzi che influisca sulla qualità e sicurezza dei tessuti e
cellule;
— la codificazione unica europea delle informazioni sui tessuti
e cellule.
In particolare, l'allegato A alla Direttiva prevede un elenco
dettagliato di “informazioni da fornire sulla donazione di tessuti e/o
di cellule”.
Vale la pena di notare come la “base non lucrativa” sia prevista
esclusivamente per cellule e tessuti “in quanto tali”, riconoscendo
così indirettamente che gli stessi, se “trasformati” (e sarà compito
del Legislatore nazionale definire i contorni di codesta
“trasformazione”), assumeranno la natura di beni economici, a
circolazione senz'altro limitata (fra banche tessuti egualmente
accreditate); ma, fra gli addetti ai lavori, questa circolazione sarà
libera, e per valori non indifferenti. Senza banche tessuti, infatti, non
vi potrebbero essere ricerca, pubblicazioni, congressi, carriere,
brevetti farmaceutici, e progresso nella sconfitta delle malattie oggi
incurabili o difficilmente curabili. Se esaminassimo ad esempio il
modello statunitense ci accorgeremo che le banche tessuti degli
istituti di ricerca vendono, ed a caro prezzo, anche con offerte su siti
internet, reperti cellulari o tessutari già preparati per l'esame
microscopico; brevettano svariati ritrovati, e con le relative entrate
finanziano la ricerca senza oneri (o con oneri minori) per lo Stato.
Questo modello organizzativo corrisponde a quello adottato
anche dall'Unione Europea; e non potrebbe essere diversamente,
dato che la circolazione delle informazioni nella comunità scientifica
internazionale, e la conseguente nascita di una prassi accreditata, ha
preceduto di gran lunga la normazione.
Massimo Burghignoli
avvocato in Milano
CONTRATTI DI DISTRIBUZIONE
E NORMATIVA ANTITRUST EUROPEA
La principale fonte normativa in materia di contratto di
distribuzione (fattispecie tutt'ora non tipizzata nel nostro
ordinamento) è, ad oggi, rappresentata dalla disciplina antitrust
dell'UE.
Il Regolamento n. 2790 del dicembre 1999, (entrato in vigore il
1o gennaio 2000, che ha definitivamente sostituito, a decorrere dal
31 dicembre 2001, il precedente 1983/83) (13), ha sancito una serie
di prescrizioni inderogabili in ordine al contenuto del negozio e di
alcune specifiche clausole.
Le previsioni ivi contemplate cercano di conciliare i principi in
materia di concorrenza con le caratteristiche tipiche dei c.d. accordi
verticali (tra i quali si colloca, appunto, il contratto di distribuzione),
rendendo lecite una serie di condizioni potenzialmente restrittive
della concorrenza medesima.
Tuttavia, il provvedimento pone una serie di limiti ben precisi
alla libertà contrattuale delle parti nell'ambito di accordi conclusi
con distributori europei, che si riassumono di seguito brevemente.
Innanzitutto, alla luce della menzionata normativa, le parti
contraenti dovranno accertarsi che il testo negoziale non contempli
restrizioni gravi, vale a dire clausole che producano, di per sé, effetti
anticoncorrenziali fissando, ad esempio, un prezzo fisso o minimo di
vendita da parte del produttore/fornitore o impedendo al distributore
di effettuare vendite c.d. non sollecitate al di fuori del territorio
assegnato.
La presenza di restrizioni gravi fa venir meno il beneficio
dell'esenzione generale previsto nel Reg. 2790/1999 e pone, a carico
delle imprese coinvolte, l'obbligo di notificare il testo degli accordi
in questione alla Commissione Europea.
13
Come è noto, l'art. 81 (ex art. 85) del Trattato CE vieta gli accordi tra imprese e le c.d.
pratiche concordate che incidano sulla libera concorrenza, tra i quali rientrano alcune fattispecie,
caratteristiche del contratto di concessione di vendita (ad esempio, la fissazione di prezzi di
vendita, o la ripartizione dei mercati). L'entrata in vigore del Regolamento n. 2790/1999 esonera
(rendendola lecita) tale figura contrattuale dal divieto sancito dal Trattato.
Va segnalato, tuttavia, che il suddetto organo, pur potendo, in
via di principio, emettere un provvedimento derogatorio su base
individuale, certamente non arriverebbe a concederlo, per coerenza
con i principi ispiratori della normativa europea antitrust (14).
I limiti sopra descritti si applicano a tutti i contratti di
distribuzione conclusi da concessionari europei, indipendentemente
dalle dimensioni delle imprese coinvolte.
Esclusa la presenza di restrizioni gravi, occorrerà poi stabilire
quale sia la c.d. quota di mercato rilevante detenuta dal fornitore (o
dall'acquirente/distributore nelle ipotesi di fornitura esclusiva), onde
poter valutare quale incidenza su quel particolare mercato di
prodotto abbia il singolo accordo considerato (15).
Se la quota è inferiore al 15% di quello rilevante (16), non sarà
necessaria alcuna ulteriore verifica e le imprese potranno operare nel
rispetto della normativa antitrust (purché, naturalmente siano
rispettate le prescrizioni anzidette circa le restrizioni gravi).
14
Un'indicazione precisa in tal senso si ricava dalla Comunicazione della Commissione del
13 ottobre 2000 (“Linee direttrici sulle restrizioni verticali”). Al punto n. 46, relativo alle citate
restrizioni gravi, si legge “(…) La concessione di un'esenzione individuale ad accordi verticali che
contengono restrizioni gravi è improbabile”.
15
Il mercato rilevante è definito sia sotto il profilo merceologico che geografico. Secondo la
definizione elaborata dalla Commissione e contenuta nelle stesse “Linee guida” il mercato rilevante
del prodotto “(…) comprende tutti i beni e o servizi considerati intercambiabili dall'acquirente in
ragione delle loro caratteristiche, del prezzo e dell'uso a cui sono destinati (…)”, laddove quello
geografico “(…) comprende l'area in cui le imprese interessate forniscono e acquistano beni o
servizi rilevanti, caratterizzata da condizioni di concorrenza sufficientemente omogenee e che può
essere distinta dalle aree geografiche vicine poiché in esse sussistono condizioni di concorrenza
sensibilmente diverse”. La norma di cui all'art. 9 del citato Regolamento (n. 2790/1999) illustra i
parametri per il calcolo della suddetta quota.
16
Accordi di importanza minore e PMI (piccole e medie imprese): le succitate linee
direttrici prevedono che gli accordi tra piccole e medie imprese, quali definite nella Comunicazione
n. 368/07 del 22 dicembre 2001, siano generalmente esclusi dal capo di applicazione dell'art. 81,
par. 1.
La stessa Comunicazione, comunque, specifica che ogni eventuale beneficio decade qualora
l'accordo contenga le sopraccitate restrizioni gravi (punto 11), la cui presenza rende suscettibile di
verifica ad hoc anche un accordo concluso tra PMI. Inoltre, sempre la menzionata Comunicazione
specifica che gli accordi conclusi da imprese con le caratteristiche testè citate “sono raramente di
tale natura da influenzare sensibilmente il commercio fra gli stati membri”. Benché l'automatismo
del beneficio possa essere ritenuto altamente probabile, occorre, comunque, evidenziare come non
sia, in alcun modo, sancito un principio generale in forza del quale tali accordi non soggiacciano
alle statuizioni del Regolamento 2790/1999. La puntualizzazione è, comunque, di fondamentale
importanza ai fini della valutazione della buona fede dell'impresa, in quanto la Commissione
specifica che “(…) nell'ipotesi in cui le imprese ritengano in buona fede che un accordo rientri nel
campo di applicazione della presente comunicazione, la Commissione non infliggerà ammende
(…)” (pungo n. 4).
Qualora, invece, la quota di mercato rilevante sia compresa tra
il 15 ed il 30%, occorrerà verificare l'esistenza di specifiche
clausole, in presenza delle quali sarà necessaria una valutazione
personalizzata dell'accordo per ottenere un provvedimento di
esclusione ad hoc, anziché beneficiare dell'esenzione generale ex
Reg. 2790/1999.
Tra le condizioni negoziali che impongono la notifica alla
Commissione europea, particolare rilievo assume la previsione di un
obbligo di non concorrenza, diretto o indiretto, la cui durata sia
indeterminata o superiore a cinque anni (se tacitamente rinnovabile
oltre tale lasso temporale si considera concluso per una durata
indeterminata) (17).
Infine, gli accordi che superano la soglia del 30% del mercato
rilevante, indipendentemente dal contenuto, vanno notificati alla
Commissione, pur non essendo di per sé ritenuti illegali (18).
La soglia, infatti, serve solo a distinguere tra contratti che
beneficiano di una presunzione di legalità e che necessitano di un
esame specifico (19).
Un cenno particolare, nell'economia della trattazione, meritano
i c.d. accordi di distribuzione esclusiva, definiti come quelli
mediante i quali “il fornitore acconsente a vendere i propri prodotti
ad un unico distributore perché li rivenda in un particolare territorio.
Al tempo stesso al distributore viene imposto un limite alla vendita
attiva in altri territori assegnati su base esclusiva (punto n. 161 delle
Linee guida, cfr. nota 3)”.
Ora, se questi ultimi sono conclusi con un fornitore la cui quota
di mercato non ecceda il 30%, la distribuzione esclusiva rientra nel
17
Per le altre ipotesi cfr. Art. 5 del Reg. 2790/1999.
Cfr. Linee direttrici, punto 62.
19
Le Linee direttrici, infatti, chiariscono molto efficacemente tale aspetto. Secondo la
disposizione di cui al punto n. 62, le imprese vengono invitate ad “(…) effettuare una propria
valutazione senza notificare l'accordo. Nel caso di un esame individuale da parte della
Commissione, questa dovrà dimostrare che l'accordo in questione viola l'art. 81, pragrafo 1, del
Trattato, e qualora emergano significativi effetti anticoncorrenziali, le imprese potranno addurre
prove degli effetti positivi dell'accordo in termini di efficienza economica e spiegare perche un dato
sistema di distribuzione può apportare benefici rilevanti ai fini delle condizioni per un'esenzione ai
sensi dell'art. 81, paragrafo 3 del trattato”. Le linee direttrici forniscono, inoltre, una serie di
elementi per consentire alle imprese di valutare autonomamente in quale categoria rientri il loro
accordo.
18
regolamento di esenzione per categoria (20) anche se con altre
restrizioni verticali non gravi, quali l'obbligo di non concorrenza
limitato a 5 anni, l'imposizione di determinati quantitativi o
l'acquisto esclusivo.
La combinazione di accordi di distribuzione esclusiva e
selettiva beneficia dell'esenzione per categoria solo se la vendita
attiva in altri territori non sia sottoposta a limitazioni. Nelle ipotesi
di superamento della quota del 30%, le Linee guida su menzionate
forniscono dei criteri atti a consentire alle imprese quel meccanismo
di autovalutazione sopra descritto (21).
Alla luce di quanto sin qui illustrato, è di fondamentale
importanza che i contratti che possono superare le soglie indicate
vengano notificati alla Commissione Europea, la quale emetterà un
provvedimento ad hoc sulla validità dell'accordo ed, eventualmente,
indicherà le modifiche e/o le integrazioni ritenute opportune nel caso
di specie.
Va segnalato, infine, che non esiste alcuna necessità di
preventiva notifica, come chiaramente specificato nelle Linee
direttrici, al punto n. 63. Se sorge una controversia l'impresa può
sempre comunicare il tenore dell'accordo: in tal caso, la
Commissione può esentarla con effetto retroattivo a decorrere dalla
data della sua entrata in vigore.
Chiaramente, la notifica in quanto tale non conferisce validità
provvisoria all'esecuzione dell'accordo. Qualora le imprese non
abbiano notificato un accordo poiché presumevano in buona fede
che la soglia basata sulla quota di mercato stabilita per l'applicazione
del regolamento di esenzione per categoria non fosse superata, la
Commissione non infliggerà ammende.
avv. Massimiliano Nicodemo e avv. Sara Petrilli
20
21
Cfr. punto n. 162.
Cfr. punti nn. 163 ss. delle Linee Direttrici.
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