DIRITTO EUROPEO LE FONTI DEL DIRITTO EUROPEO NEL PROGETTO DI TRATTATO CHE ISTITUISCE UNA COSTITUZIONE PER L'EUROPA (*) 1. Un panorama complesso da riordinare Gli articoli dal 32 al 38 del “Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa” ridisegnano il quadro delle fonti comunitarie, allo scopo di semplificare e ridurre gli “strumenti giuridici” del diritto europeo derivato (normativi e non) di cui si servono le istituzioni dell'Unione Europea (1). L'opera sarebbe meritoria, poiché attualmente l'Unione offre in questo settore un panorama di un certo disordine, che rende difficile la compilazione di una lista esaustiva delle denominazioni di tutti gli strumenti utilizzati (2). Infatti, accanto agli atti la cui conoscenza e i cui effetti ormai possono dirsi assodati — le direttive, i regolamenti e le decisioni — vi è una serie di altri atti (normativi e non) — quali, ad esempio, i pareri e le raccomandazioni di cui all'art. 249 del trattato CE, le risoluzioni del Consiglio, le comunicazioni della Commissione, gli accordi inter-istituzionali, le dichiarazioni comuni del Parlamento, del Consiglio e della Commissione — sui cui effetti e obbligatorietà, in assenza di disposizioni chiare del diritto europeo “originario”, è soltanto la Corte di giustizia a potersi esprimere (3). In questo quadro complesso, giunge dunque il tentativo di semplificazione contenuto nel Progetto. Può essere opportuno darvi uno sguardo perché, ferma restando la possibilità di modifiche a tutto campo da parte della Conferenza intergovernativa che dovrà poi approvare il Progetto stesso, sembra di poter ragionevolmente * (*) Prof. Nicolò Zanon, Ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Milano. 1 In tal senso la Dichiarazione di Laeken del 15 dicembre 2001, la quale ha convocato la Convenzione che ha poi predisposto il Progetto. 2 J. ZILLER, La nuova Costituzione europea, Mulino, 2003, 159. 3 G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 1996, 99-104. ritenere che la parte dedicata agli atti giuridici non sia destinata in quella sede a subire cambiamenti importanti. Innanzitutto, va segnalato che il Progetto mette fine al sistema dei “pilastri” separati: l'unificazione dei “pilastri” comporta, che, anche dal punto di vista delle fonti, vi sarà un unico sistema che si applicherà a tutti i settori di competenza dell'Unione. In futuro, quindi, non verranno più utilizzati, come è accaduto fino ad oggi, strumenti giuridici con nome ed efficacia diversa a seconda del settore in cui la competenza viene esercitata, in special modo nel terzo pilastro. 2. La legge europea Analizzando da vicino l'articolato, si nota immediatamente una nuova denominazione degli atti, indubbiamente più vicina alle tradizioni tipiche dei sistemi delle fonti degli Stati membri europeocontinentali. L'art. 32 del Progetto parla infatti — oltre che di decisioni, di raccomandazioni e di pareri — anche di “legge europea”, di “legge quadro europea” e di “regolamento europeo”. In particolare, per ciò che attiene la legge europea, si dice che essa “è un atto legislativo di portata generale, obbligatoria in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”. Confrontando tale definizione con quella contenuta nell'art. 249 del trattato CE, sembrerebbe non esserci alcuna differenza rispetto agli atti in quella sede denominati regolamenti. Infatti, l'art. 249 afferma a sua volta che il regolamento ha portata generale, che è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. Appare quindi evidente che gli effetti di quelli che oggi si definiscono regolamenti sono i medesimi di quelli che, domani, saranno le leggi europee. La differenza che emerge dal confronto tra le due formulazioni sta nel fatto che, in riferimento alla legge europea, il Progetto aggiunge la precisazione che si tratta di “atto legislativo”. Apparentemente ciò non parrebbe di particolare importanza. E tuttavia — salvo quanto si dirà nell'ultimo paragrafo — si tratta di una precisazione dotata di significato: infatti, il Progetto, distinguendo gli atti legislativi — nel cui ambito, oltre alla legge europea, rientra la “legge quadro europea” — da quelli non legislativi, ha previsto una differente disciplina per le due categorie di atti per la procedura di adozione degli stessi. In particolare, gli artt. 33 e III-302 del Progetto attribuiscono alla procedura di codecisione il ruolo di procedura ordinaria per l'adozione degli atti legislativi. Tali norme prevedono in sostanza che per l'adozione di qualsiasi atto legislativo, la cui proposta spetta in linea generale alla Commissione, è necessario l'assenso, oltre che del Consiglio dei ministri, del Parlamento europeo, il cui ruolo risulterebbe evidentemente rafforzato (4). Con tutte le cautele del caso (5), sembra questo un passo nella direzione della riduzione di quel ben noto (e spesso lamentato) deficit di democraticità, che in tal caso riguarderebbe le fonti dell'Unione Europea e le procedure per la loro adozione (6). 3. La legge quadro europea Passando poi alla legge quadro europea, anch'essa disciplinata dall'art. 32 del Progetto, possono farsi osservazioni analoghe a quelle relative alla legge europea. Infatti, essa viene definita come “atto legislativo che vincola tutti gli Stati membri destinatari per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla scelta della forma e dei mezzi”. Anche in questo caso la formulazione riecheggia quasi completamente quanto previsto dall'art. 249 del trattato CE in 4 Secondo G. F. FLORIDIA, Non abbastanza tuttavia molto, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2003, e ora in Il cantiere della nuova Europa: tecnica e politica nei lavori della Convenzione europea, Bologna, 2003, 411, la congiunta titolarità della funzione legislativa potrebbe presentarsi come un embrione di bicameralismo federale. 5 Non va taciuto infatti che, assieme a quella ordinaria, sono previste in via generale dal Progetto all'art. 33, secondo comma, alcune procedure speciali, in cui gli atti legislativi sono adottati dal Parlamento o dal Consiglio con soltanto la partecipazione dell'altro organo. In particolare, è lo stesso Progetto a riservare al Consiglio quegli atti legislativi su cui l'attenzione degli Stati membri è maggiore: tra essi, la legge europea in materia di risorse economiche (art. 53) e quella sul piano finanziario pluriennale (art. 54). 6 In tal senso G. AMATO, Verso la Costituzione europea, in Riv. ital. dir. pubbl. comunit., 2003, 296. Sugli aspetti critici presenti nel Progetto, si veda invece R. MASTROIANNI, Fonti, sussidiarietà ed iniziativa legislativa nel testo della Costituzione per l'Europa, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2003, 1745-1748. relazione alle direttive: “La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla scelta della forma e dei mezzi”. Similmente a quanto visto prima, dunque, la sola differenza tra le due formulazioni è la qualificazione esplicita di atto legislativo: possono quindi valere le stesse considerazioni fatte sopra per quanto riguarda la procedura d'adozione. Dunque, se da una parte sarebbe ingenuo pensare che soltanto il cambiamento del nome degli atti possa portare a una sorta di “armonizzazione” del sistema delle fonti europee con la tradizione degli ordinamenti degli Stati membri, dall'altra non si può negare come il mutamento del nomen juris contribuisca all'obiettivo della semplificazione e razionalizzazione del sistema. Interessante sarebbe poi verificare se il cambiamento del nomen juris possa avere altre conseguenze. Tra le prime questioni problematiche poste, va segnalato il dubbio relativo alla possibilità che gli effetti della legge quadro possano o meno essere direttamente vincolanti nei confronti dei terzi, ovvero se essa necessiti di un'applicazione legislativa da parte degli Stati (7). Bisogna poi rilevare che l'art. 32, par. 2, introduce una norma di chiusura: nel tentativo di diminuirne il numero, si sancisce infatti il divieto per il Consiglio dei ministri e per il Parlamento di adottare atti atipici su materie che siano già oggetto di un procedimento legislativo in corso. 4. Gli atti non legislativi: i regolamenti Come si accennava, il Progetto introduce la distinzione tra atti legislativi e non legislativi. Prima di esaminare gli effetti che questa distinzione potrebbe avere sull'intero sistema delle fonti comunitarie, è bene analizzare sinteticamente come vengano disciplinati dall'art. 32 i tre singoli atti non legislativi: regolamenti, decisioni e raccomandazioni. 7 Sul punto, c'è stato chi ha affermato [V. CERULLI IRELLI, F. BARAZZONI, Gli atti dell'Unione, in F. BASSANINI, G. TIBERI (a cura di), Una Costituzione per l'Europa, Bologna, 2004, 148] che l'intervento degli Stati sia sempre necessario, in virtù del fatto che il nuovo testo è fondato su un riparto di competenze tra Unione e Stati membri meglio definito. In senso contrario R. MASTROIANNI, Fonti, sussidiarietà, cit., 1740. L'introduzione del cd. regolamento europeo, in particolare, costituirebbe la più grande novità del Progetto, dal punto di vista delle fonti (8): si tratterebbe, infatti, di un atto non presente nel sistema originario disegnato dai trattati. Esso è “atto non legislativo di portata generale, volto all'attuazione degli atti legislativi e di talune disposizioni specifiche della Costituzione”. Vanno però distinte due diverse specie di regolamento: a seconda del contenuto, infatti, esso “può essere obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”, oppure vincolare “lo Stato membro destinatario per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla scelta della forma e dei mezzi”. Al di là degli effetti, va sottolineato che il Progetto affida in via generale ai regolamenti europei un ruolo esclusivamente attuativo di atti legislativi o di norme espressamente indicate dalla Costituzione stessa. Correttamente è stato rilevato che sembra così prospettarsi una “sorta di tipizzazione della normazione secondaria legata al principio di legalità” (9). La competenza ad emanare i regolamenti spetta, secondo l'art. 34 del Progetto, sia al Consiglio dei Ministri che alla Commissione, a seconda delle specifiche disposizioni della Costituzione europea stessa. 5. Segue: i regolamenti delegati Oltre al regolamento europeo, l'altra novità sarebbe costituita dal regolamento delegato: l'art. 35 del Progetto prevede infatti che leggi e leggi quadro possano delegare alla Commissione — stabilendo i criteri, gli obiettivi, la portata e la durata della delega — la facoltà di emanare regolamenti che completino o modifichino “determinati elementi non essenziali della legge o della legge quadro”. La norma prevede poi che Consiglio, a maggioranza qualificata, e Parlamento, a maggioranza dei membri che lo compongono, possano in ogni momento revocare la delega. Inoltre, il regolamento 8 A. CELOTTO, La “legge” europea”, in A. LUCARELLI, A. PATRONI GRIFFI (a cura di) Studi sulla Costituzione europea. Percorsi e ipotesi, Napoli, 2003, 214. 9 F. SORRENTINO, Considerazioni introduttive sulle nuove fonti del diritto europeo, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2003, 1749. delegato può entrare in vigore soltanto se non vengono mosse obiezioni dai due organi deleganti. A differenza dei regolamenti europei, i regolamenti delegati avrebbero così anche la possibilità di innovare — ma solo negli elementi non essenziali — quanto stabilito nelle leggi. È da chiedersi se ciò possa comportare l'estensione a livello comunitario delle annose questioni, ben note al sistema italiano delle fonti, relative al rango e alla posizione gerarchica dei regolamenti delegati di cui all'art. 17, secondo comma, della legge n. 400 del 1988. 6. Gli altri atti non legislativi: decisioni, raccomandazioni, pareri Per ciò che attiene agli altri atti giuridici dell'Unione elencati dal progetto nel Titolo V, non sembrano esservi variazioni di grande importanza. Quanto alle decisioni, infatti, l'unica precisazione dell'art. 32 del Progetto, rispetto all'art. 249 del trattato CE, è che si tratta di atti non legislativi. Per il resto, si dice che esse sono obbligatorie in tutti i loro elementi, e che possono avere anche efficacia non generale ma diretta soltanto ad alcuni destinatari. Nulla di diverso, dunque, da quanto già previsto. Medesimo discorso anche per le raccomandazioni e i pareri, di cui la norma afferma soltanto la natura di atti non vincolanti, esattamente come previsto nell'art. 249 trattato CE. 7. La separazione tra atti legislativi ed esecutivi e l'introduzione di una gerarchia tra atti normativi Come già accennato, oltre al mutamento del nomen juris degli atti legislativi, e all'introduzione dei regolamenti — delegati e non — la vera novità del Progetto, che in dottrina è stata messa particolarmente in risalto (10), sta nell'avere segnato in maniera netta i confini tra atti legislativi e atti esecutivi. Ma ancora più importante è la conseguenza che da ciò deriva, cioè la tendenza verso la creazione di un vero “sistema” delle fonti con una delineata gerarchia tra le stesse: Costituzione al vertice, legge e legge quadro in posizione primaria, regolamenti e decisioni 10 Oltre agli autori già citati, si veda anche G. TIBERI, La semplificazione degli atti dell'Unione Europea e il metodo di coordinamento aperto, in Studi sulla Costituzione europea, cit., 231 e sgg. in quella secondaria, e infine regolamenti europei d'esecuzione e decisioni europee di esecuzione, che però potranno essere adottati dall'Unione, ex. art. 36, soltanto in via sussidiaria rispetto agli Stati membri. Emerge quindi netta la distinzione non solo tra atti legislativi e atti di attuazione, ma anche tra questi ultimi e quelli strettamente esecutivi. L'introduzione di una gerarchia a livello di fonti dovrebbe tra l'altro comportare la possibilità, da parte della Corte di giustizia, di annullare gli atti che si trovino ad essere in contrasto con una fonte superiore. A livello di normazione secondaria, poi, essa dovrebbe garantire la tassatività degli atti ammessi (11). Restano da chiarire comunque diversi aspetti. Tra questi, come già si accennava, la posizione nella gerarchia dei regolamenti delegati: sono atti regolamentari o legislativi? In questo senso, inoltre, incertezze potrebbero derivare dalla previsione relativa al regolamento europeo: ci si potrebbe infatti chiedere se sarà necessario distinguere la loro posizione gerarchica a seconda della normativa, costituzionale o legislativa, che essi sono chiamati ad attuare. In conclusione, rispetto agli obiettivi di semplificazione e razionalizzazione del sistema normativo che erano stati posti a Laeken, il Progetto di Costituzione sembrerebbe consentire il raggiungimento di qualche apprezzabile risultato, in particolare per quanto riguarda la riduzione e la tipizzazione degli strumenti. Numerose rimangono tuttavia le incertezze, anche perché è difficile ragionare in astratto su un tema del genere: come è stato detto, per essere sufficientemente proficua, “ogni riflessione sulle fonti deve essere calata nell'effettività di un ordinamento” (12). N.B. L'articolo del Prof. Nicolò Zanon, ovviamente ha preceduto la recentissima approvazione della Convenzione europea, per altro (al momento di questa nota) in attesa di ratifica. 11 C. PINELLI, Appunto sulla delimitazione di competenza UE/Stati membri e sugli strumenti (o fonti del diritto europeo), in www.associazionedeicostituzionalisti.it. 12 F. SORRENTINO, Considerazioni, cit. 1749. NUOVE MISURE A TUTELA DELLE AZIENDE NELLA LOTTA ALLA CONTRAFFAZIONE (*) Regolamento CE n. 1383/2003: intervento delle autorità doganali nei confronti di merci sospettate di violare taluni diritti di proprietà intellettuale. Il prossimo 1 luglio 2004 entrerà in vigore, in tutti i 25 paesi membri, il regolamento CE n. 1383/03 del Consiglio “relativo all'intervento delle autorità doganali nei confronti di merci sospettate di violare taluni diritti di proprietà intellettuale e alle misure da adottare nei confronti di merci che violano tali diritti”. La nuova norma, secondo quanto si legge nei considerando iniziali, è volta a migliorare il funzionamento del sistema relativo all'introduzione nella Comunità e alla riesportazione dalla Comunità di merci che violano diritti di proprietà intellettuale (materia disciplinata dal regolamento 3295/94 che viene espressamente abrogata dall'art. 25b del regolamento in esame), attraverso l'attribuzione di poteri alle autorità doganali che dovrebbero intervenire in presenza di merci contraffatte o usurpative che sono in procinto di essere esportate, riesportate o in uscita dal territorio doganale della Comunità. Secondo quanto illustrato dal regolamento, inoltre, il Consiglio ritiene anche che l'intervento dell'autorità doganale dovrebbe consistere o “nella sospensione dell'immissione in libera pratica, dell'esportazione e della riesportazione delle merci sospettate di essere contraffatte o usurpative o di violare taluni diritti di proprietà intellettuale, o nel blocco di tali merci quando siano vincolate ad un regime sospensivo, in zona franca o deposito franco, in procinto di essere riesportate previa notifica, introdotte nel territorio doganale o di lasciare tale territorio, per tutto il tempo necessario ad accertare se si tratti di merci siffatte”. Oggetto e campo di applicazione Passando all'illustrazione delle norme di particolare rilievo del regolamento in esame occorre precisare che le autorità doganali * (*) Andrea Leoni, Avvocato in Milano. potranno intervenire qualora le merci sospettate di violare i diritti di proprietà intellettuale “siano dichiarate per l'immissione in libera pratica, l'esportazione o la riesportazione” — ai sensi del regolamento CEE n. 2913/92 che ha istituito il codice doganale comunitario — e qualora le merci “siano scoperte in occasione di un controllo effettuato su merci introdotte nel territorio doganale della Comunità o in uscita da questo ai sensi del regolamento CEE 2913/92”. Ai fini dell'identificazione specifica delle merci alle quali si può applicare il regolamento 1383, l'art. 2 compie una distinzione tra: — le merci contraffatte: i) le merci, compresi gli imballaggi, sulle quali sia stato apposto senza autorizzazione un marchio di fabbrica o di commercio identico ad uno validamente registrato per gli stessi tipi di merci, o che non possa essere distinto nei suoi aspetti essenziali da quello registrato — ii) qualsiasi segno distintivo anche presentato separatamente che si trovi nella stessa situazione delle merci di cui al punto i) — iii) gli imballaggi recanti marchi delle merci contraffatte presentati separatamente, che si trovino nella stessa situazione delle merci di cui al punto i); — merci usurpative: merci che costituiscono o contengono copie fabbricate senza il consenso del titolare del diritto d'autore o dei diritti connessi o del titolare dei diritti relativi al disegno o modello, registrato o meno a norma del diritto nazionale, o di una persona da questi autorizzata nel paese di produzione, quando la produzione delle copie costituisce violazione dei diritti in materia di disegni e modelli comunitari o ai sensi della legislazione dello Stato membro in cui è presentata la domanda per l'intervento delle autorità doganali; — merci che, nello Stato membro in cui è presentata la domanda per l'intervento delle autorità doganali ledono i diritti relativi a: i) un brevetto a norma della legislazione di tale Stato membro — ii) un certificato protettivo complementare di cui al Reg. CEE 1768/92 del Consiglio e Reg. CE 1610/96 del Parlamento e del Consiglio — iii) una privativa nazionale per ritrovati vegetali a norma della legislazione dello Stato membro o comunitaria — iv) una denominazione d'origine e alle indicazioni geografiche; Il legittimato attivo — il titolare del diritto — è il titolare dei marchi, dei brevetti, delle privative o dei certificati protettivi delle merci contraffate e/o usurpative, nonché qualsiasi altra persona autorizzata ad utilizzare i diritti di proprietà intellettuale ovvero un rappresentante del titolare del diritto o una persona autorizzata. Non rientrano, nell'ambito di applicazione del regolamento, le merci che rechino un marchio di fabbrica con il consenso del titolare del medesimo. Intervento delle autorità doganali Il soggetto che assume di aver sofferto una violazione di un proprio diritto, può presentare agli uffici doganali competenti una richiesta di intervento (domanda d'intervento) contenente specifici elementi che servono tanto per l'individuazione delle merci che si assumono contraffatte, quanto per fornire elementi comprovanti la frode, quanto per dimostrare l'esistenza del diritto di privativa ed, in genere, per fornire alle autorità interpellate tutte le informazioni che servono per identificare la merce (quali, ad esempio, i mezzi di trasporto, il luogo in cui si trovano le merci, il numero di identificazione dei colli, la prevista data di arrivo degli stessi etc.). Nel caso in cui il diritto sia originato da marchio comunitario o disegno comunitario, inoltre, la domanda alle autorità doganali di un singolo Stato membro consente di ottenere l'intervento tanto di tali autorità doganali, quanto delle autorità doganali di altri Stati membri, consentendo al titolare del diritto di ottenere una tutela territorialmente più ampia con una unica domanda di intervento. La richiesta di intervento, inoltre, deve essere accompagnata da una dichiarazione con la quale il richiedente si assume direttamente la responsabilità nei confronti dei soggetti interessati qualora la procedura avviata dal titolare non sia dallo stesso proseguita o qualora si accerti che le merci in questione non violano alcun diritto di proprietà intellettuale, e ciò al fine di evitare che l'intervento delle autorità doganali possa essere utilizzato come strumento di concorrenza, palesemente sleale, nei confronti di un concorrente. Unitamente all'assunzione di responsabilità il richiedente si accolla anche i costi e le spese sostenute per il mantenimento delle merci sotto il controllo doganale. Il servizio doganale, al quale è stata rivolta la domanda di intervento del titolare del diritto, stabilisce anche il periodo durante il quale devono intervenire le autorità doganali — massimo un anno prorogabile — e ne informa il richiedente sul quale incombe l'onere di comunicazione alle autorità doganali chiamate nello specifico ad intervenire sulle merci. Ciascuna autorità doganale chiamata ad intervenire praticamente sulle merci che si assumono violare diritti di proprietà intellettuale sospende lo svincolo delle stesse o le blocca in dogana, dandone notizia tanto al titolare del diritto quanto al titolare delle merci e concede al titolare del diritto la possibilità di ispezionare le merci per le quali è sospeso lo svincolo o è stato disposto il blocco. Una volta che sia impedito lo svincolo delle merci o ne sia stato disposto il blocco, il titolare del diritto può richiedere la distruzione dei beni direttamente in dogana, a propria cura e spese. Tale richiesta deve essere notificata al detentore o proprietario delle merci che ha la facoltà di opporsi alla distruzione entro il termine previsto da ciascuna legislazione nazionale; in caso di mancata opposizione si ritiene che sia stato prestato il consenso alla distruzione. In caso di opposizione alla richiesta di distruzione o qualora le autorità doganali non ricevano notizia dell'avvio di un procedimento “inteso a determinare se vi sia stata violazione di un diritto di proprietà intellettuale ai sensi della legislazione nazionale”, il provvedimento di sospensione dello svincolo delle merci in dogana o il provvedimento di blocco delle stesse viene revocato. Il proprietario, l'importatore, il detentore od il destinatario delle merci che si assume violino un diritto di proprietà intellettuale può richiedere, a sua volta, lo svincolo o lo sblocco delle stesse a fronte del deposito di una garanzia e sempre che sia stato comunicato all'autorità doganale l'avvio di un procedimento “inteso a determinare se vi sia stata violazione di un diritto di proprietà intellettuale ai sensi della legislazione nazionale”, che non sia stata autorizzata alcuna misura conservativa da parte dell'autorità competente e che siano state espletate tutte le formalità doganali. Effetti dell'accertamento L'articolo 16 del regolamento in esame stabilisce espressamente che le merci riconosciute come merci che violano un diritto di proprietà intellettuale non possono essere immesse nel territorio doganale della Comunità, non possono essere immesse in libera pratica, ne è vietata l'esportazione, la riesportazione ed il collocamento in zona franca o in un deposito franco. Gli stati membri, inoltre, sono chiamati ad adottare le misure necessarie per impedire l'ingresso nel circuito commerciale delle merci riconosciute in violazione di diritti di proprietà intellettuale, nonché di adottare qualsiasi altra misura “che abbia l'effetto di privare gli interessati dell'utile economico dell'operazione”. Responsabilità del titolare del diritto Molto sinteticamente il regolamento prevede che “l'eventuale responsabilità civile del titolare del diritto è disciplinata dalla normativa dello Stato membro in cui le merci in questione si trovano” demandando, quindi, alla legislazione di ciascuno stato l'individuazione e l'applicazione di eventuali sanzioni. Conclusioni Dalla lettura del regolamento si può evincere come l'intento sia stato quello di cercare di individuare uno strumento che consentisse, nella lotta alla contraffazione dei diritti di proprietà intellettuale, di impedire l'ingresso delle merci direttamente nel mercato comunitario. Quale sarà l'applicazione pratica di tale regolamento al momento è di difficile previsione anche se, certamente, potrà costituire un ottimo ausilio per combattere il fenomeno dell'importazione di merci contraffatte da paesi extra Unione. Il regolamento, invece, non risolve un diverso problema e, precisamente, quello della diffusione di merci e beni contraffatti che sono prodotti direttamente all'interno dell'Unione e che, pertanto, non sono controllabili dalle Autorità Doganali. BANCHE DEI TESSUTI Direttiva 2004/23/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 L'Unione europea ha appena legiferato su una materia inconsueta per i più, ma di estrema rilevanza per la ricerca e la salute. Da molti anni i ricercatori vanno raccogliendo materiali biologici residui di operazioni chirurgiche (pensiamo alle biopsie od alle rimozioni di masse tumorali), ovvero richiedendoli dalle sale anatomiche in caso di morte del paziente, per poi provvedere alla loro stabilizzazione mediante crioconservazione ad azoto liquido oppure paraffinatura e stoccaggio al fine di studio e ricerca. Oggi, con la terapia genica, questo materiale può essere trattato e reimpiantato nel paziente a scopo terapeutico. Sono intuitivi i problemi di consenso, riservatezza dei dati, sicurezza, circolazione, che la materia comporta. Nel 1977 la Presidenza del Consiglio dei Ministri, tramite il Comitato nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie, ha incaricato un gruppo di esperti di elaborare linee guida per l'ingegneria dei tessuti e la terapia cellulare. Il documento è stato completato e approvato “soltanto” ventun'anni dopo, nell'estate del 1998, quindi le “Linee guida per la sicurezza e la qualità della sperimentazione in terapia cellulare e per l'impiego dei prodotti dell'ingegneria dei tessuti' a scopo terapeutico, ovvero a scopo di trapianto su pazienti” sono state pubblicate sul Notiziario dell'Istituto Superiore di Sanità, numero 5/99. La Direttiva 2004/23/Ce giunge adesso (la pubblicazione è avvenuta sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione europea del 7.4.2004) ad uniformare la regolamentazione della materia; infatti gli Stati membri dovranno provvedere a recepirla entro il 7-4-2006. Per comprendere il significato di questa regolamentazione è bene innanzitutto chiederci che cosa sia la donazione di organi o tessuti. Ovviamente non parliamo certo della donazione definita dall'art. 769 del Codice civile; nel nostro caso mancano infatti: — l'elemento patrimoniale: parliamo di cose non commerciabili (art. 5 del codice civile); — l'elemento contrattuale: le parti spesso neppure si conoscono e l'atto di disposizione viene effettuato il più delle volte in favore di persona (od Ente, nel caso di tessuti) nominata dalla Pubblica Autorità. Sussiste, invece, lo spirito di liberalità, ovvero qualcosa che gli rassomiglia e che viene comunemente ritenuto spirito di solidarietà; quindi, azzardando una definizione, potremmo considerare la donazione di organi (o di tessuti che mantengano la propria funzionalità) come: “L'atto unilaterale con il quale taluno, per spirito di solidarietà e nei casi consentiti dalla legge, rinunzia al diritto all'integrità del proprio corpo, per l'intero o per sue parti funzionali, in favore di persona od Ente consentiti od indicati a loro volta dalla legge”. L'intervento pubblico, espresso dalla legge e dall'Autorità Amministrativa che la regolamenta e la applica, è elemento necessario della fattispecie, perché il diritto all'integrità fisica non è disponibile neppure all'interessato, e può quindi abdicarvisi esclusivamente per finalità di pari rango (l'altrui salvezza, articolata in solidarietà, cura, ricerca a scopo terapeutico), verificata dalla Pubblica Amministrazione. Va poi considerato che di atto abdicativo può parlarsi se ed in quanto la “porzione” corporea oggetto della disposizione abbia una funzionalità propria, ed essa sia — anche — idonea ad essere riprodotta su altro soggetto: rene, fegato, polmone, cornea, tessuto osseo o cutaneo. Allorché il materiale trapiantato, invece, non disponga di funzionalità propria, riproducibile su altri soggetti, ci troveremmo di fronte, dal punto di vista del paziente, a null'altro che ad un “rifiuto speciale” destinato, per le eccedenze rispetto alle normali esigenze diagnostiche (es: biopsia), ad essere trattato e smaltito. Dal punto di vista della comunità scientifica quel materiale, nato dalla sofferenza, è invece indispensabile alla ricerca, nonché “raro”. Per questi reperti, quindi, appare difficoltoso concepire un “atto di disposizione”, dal momento che il corpo non viene privato di nulla che non sarebbe comunque destinato all'ablazione per ragioni terapeutiche; né questo materiale va a sovvenire alcun altro soggetto individuato od individuabile. Permane, invece, lo spirito di solidarietà, sebbene assai attenuato rispetto alla donazione di organi, dal momento che il materiale viene destinato non immediatamente alle persone, bensì “alla ricerca”. Per converso, il materiale biologico in questione contiene “dati sensibili” sullo stato di salute (ed ormai anche sulle caratteristiche genetiche) del paziente; ed è questa la materia che solleva maggiori problemi. Ora, la normativa europea assimila cose diverse come le donazioni di organi e quelle di cellule o tessuti, ma ciò non è dovuto affatto ad una comunanza “ontologica” delle due fattispecie, bensì ad altre ragioni, estremamente pragmatiche: — in generale, le normative nazionali degli Stati membri non sono uniformi, neppure sulle categorie generali appena esposte; — in particolare, per quanto attiene al consenso del donatore, anche i tessuti privi di funzionalità riproducibile su altri soggetti contengono informazioni riconducibili al paziente, informazioni che debbono essere considerate “dati sensibili” giacché “idonei a rivelare lo stato di salute” (art. 4 lett. “d” del decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003); — per quanto attiene alla conservazione, identificazione, tracciabilità dei tessuti e delle cellule, essi, al pari dei farmaci, possono diventare veicoli di terapia, quindi venire a contatto con altri soggetti. A questo punto si comprende come l'atto di disposizione di organi (“donazione”) debba ritenersi irrevocabile (evidentemente: dopo il prelievo) per sua natura, dovendo assimilarsi alle obbligazioni naturali di cui all'art. 2034 c.c. Per quanto attiene alla revocabilità dell'atto di disposizione prima del prelievo, essa è invece pienamente consentita, in tema di donazioni di organi o tessuti dotati di propria funzionalità, sia dai principi generali (non esiste infatti un contratto, quindi una “proposta” ed una conforme “accettazione” del beneficato atta a recepire e rendere irrevocabile la manifestazione di volontà dispositiva del beneficiante), sia, in modo espresso, dall'art. 23 della legge n. 91 del 1o aprile 1999. Diverso è il problema per il tessuto o le cellule. Poiché non appare configurabile un “atto di disposizione”, la revocabilità del consenso va valutata alla stregua non del diritto alla integrità corporea, ma del diritto alla riservatezza; il che costituisce una complicazione, giacché il momento del prelievo non risulta più significativo della scadenza del periodo di “revocabilità”; infatti, non parliamo più di materiale “in quanto tale”, ma delle informazioni in esso contenute. La Direttiva 2004/23/CE ha quindi introdotto la riservatezza bilaterale delle identità di donatori e riceventi, ma ha lasciato agli Stati membri la tutela generale della riservatezza: va ricordata in proposito la speciale autorizzazione prevista dall'art. 90 del Codice in materia di protezione dei dati personali — decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003 — per il trattamento dei dati genetici. Per quanto attiene al consenso previsto dall'art. 81 del Codice della Privacy in campo sanitario, ci si è posti in linea generale il problema della sua revocabilità. Mentre essa è espressamente prevista nel campo delle telecomunicazioni o del commercio elettronico, la legge non dispone in altri campi. Nel nostro caso non pare discutibile la irrevocabilità del consenso a stoccare i reperti, poiché dopo il prelievo essi hanno subìto una trasformazione da rifiuti a materiale preparato da laboratorio; ma potrebbe ipotizzarsi l'interesse del donatore a revocare il consenso all'utilizzo delle informazioni relative alla sua malattia, al suo DNA, desunte dai reperti. Questo interesse, però, viene interamente soddisfatto dall'anonimato garantito dalla Direttiva 2004/23/CE, e tale disciplina speciale esaurisce in sé ogni tutela ritenuta necessaria dall'ordinamento, non giustificando la revocabilità del consenso legittimamente espresso. Non va poi confusa con la tutela della riservatezza dei dati, e neppure con il consenso al prelievo e stoccaggio dei tessuti o cellule, l'esigenza, tipicamente terapeutica, del donatore vivente che abbisogni del tessuto “trattato” per sottoporsi ad una terapia innovativa, magari realizzata proprio con la manipolazione genetica del “proprio” tessuto. Questa esigenza è espressione del generale diritto alla terapia più efficace, e sussiste anche in presenza del consenso “irrevocabile” al prelievo ed allo stoccaggio, nonché al consenso “irrevocabile” al trattamento dei dati sensibili; ancora, essa prevale anche sulle esigenze di ricerca, quindi “l'ultima molecola” spetterà sempre al paziente donatore, se vivente e bisognoso di cure. Le “banche tessuti” dovranno quindi prevedere la permanenza di una idonea quantità di materiale per i pazienti viventi. Solo dopo la morte dei donatori, il materiale accantonato per questa occorrenza tornerebbe nella piena disponibilità della Istituzione. Ciò premesso, c'è da chiedersi quale sia il regime giuridico del materiale raccolto, ossia se esso sia “di proprietà” delle Istituzioni sanitarie o di ricerca che lo hanno raccolto con il legittimo consenso del paziente; infatti, la “rarità” del materiale e la molteplicità delle ricerche rendono assai rilevante questo problema. Evidentemente il reperto non trattato, o “minimamente” trattato è una “cosa” non commerciabile, alla quale non appare adattabile il concetto di proprietà, che sottintende la commerciabilità od almeno la valutabilità economica della cosa. Si può quindi parlare solo di detenzione o possesso legittimi, che possono essere liberamente trasferiti, anche dietro corrispettivo, ma limitato alle spese connesse con la conservazione ed il trasferimento. La “non proprietà” dei tessuti implica che la richiesta di consegna (ovvero il rifiuto di consegna) del materiale non possa essere arbitrario, ma debba conformarsi a principi etici, di buona pratica clinica e di laboratorio; esso andrà dunque valutato con la lente dell'amministrativista a preferenza di quella del civilista. Le cose cambiano sensibilmente, però, con il trattamento dei tessuti, effettuato a scopo di ricerca o terapia. Il trattamento può dar infatti luogo ad invenzioni, anche suscettibili di privative, o comunque a manipolazioni che trasformano il reperto iniziale in qualcosa di diverso, che dunque apparterrebbero intellettualmente, industrialmente e materialmente all'inventore o comunque al ricercatore (o più normalmente all'istituzione di ricerca). Avremmo quindi un bene suscettibile di valutazione anche economica, la cui circolabilità sarebbe possibile, ancorché limitata dalle norme sulle banche tessuti ed — eventualmente — da quelle che limitano l'ingegneria genetica. In questi casi i tessuti trattati divengono “di proprietà” della Istituzione al pari di qualsiasi altro bene economico. Ma va anche considerato che persino il trattamento “minimo” di conservazione, quando protratto nel tempo, costituirà un investimento non trascurabile, senza del quale il tessuto avrebbe cessato di esistere in quanto tale (per averne un'idea: servizi privati di crioconservazione costano circa 15 euro all'anno per ciascun campione; e per una banca tessuti si parla di centinaia di migliaia di campioni). La conservazione stessa, quindi, sembra destinata a trasformare il tessuto o la cellula in qualcosa di diverso dal suo stato “naturale”: da residuo deperibile a materiale stabile per la ricerca; e questa trasformazione e successiva conservazione implicano investimenti e costi rilevanti. Se la trasformazione si verifica, essa é certo sufficiente a rendere l'Istituzione proprietaria a pieno titolo del tessuto esattamente come nel caso nel quale la trasformazione fosse più radicale e costituisse il risultato innovativo di una attività sperimentale o di ricerca. Peraltro l'Istituzione potrebbe benissimo — anzi: dovrebbe — autofinanziare le proprie ricerche con lo sfruttamento dei propri diritti di proprietà intellettuale o di privativa industriale. Questa materia dovrà essere opportunamente regolamentata dalla normativa nazionale di implementazione della Direttiva 2004/23 CEE, stabilendo ad esempio quali trattamenti comportino una trasfomazione sufficiente a far sorgere il diritto proprietario del centro di ricerca (o della banca tessuti), ivi compresa la conservazione protratta oltre un determinato periodo. La Direttiva 2004/23 CEE, ancora, non configura esattamente lo status giuridico delle banche tessuti, nel senso che lascia agli Stati membri la libertà di renderli “patrimonio” di Istituti di ricerca, ovvero di dotarli addirittura di propria personalità giuridica, in modo che costituiscano Enti a sé stanti, con i quali gli Istituti di ricerca intratterrebbero rapporti semplicemente contrattuali. È rimarchevole notare come, fino a ieri, i principi generali della normativa sulla donazione di “organi” da viventi erano costituiti da: — il consenso informato di donante e donatario; — la gratuità; — la revocabilità fino al momento dell'intervento. La disciplina introdotta dalla Direttiva 2004/23/CE vi aggiunge, con estensione anche alla donazione di cellule e tessuti: — l'accreditamento pubblico delle banche tessuti; — la rintracciabilità nel percorso da donatore a ricevente e viceversa; — il registro dei tessuti; — la notifica di eventi e reazioni avverse gravi; — il principio di gratuità della donazione, temperato dalla possibilità di riconoscere “un'indennità strettamente limitata a far fronte alle spese ed agli inconvenienti risultanti dalla donazione”; — il controllo pubblicistico della promozione e pubblicità della donazione; — la “base non lucrativa” dell'approvvigionamento di tessuti e cellule “in quanto tali”; — il consenso informato, secondo modalità stabilite dai singoli Stati; — la protezione dei dati e riservatezza; — selezione e valutazione dei donatori; — il controllo di qualità dei tessuti e cellule; — l'istituzione del Responsabile della banca tessuti; — la qualificazione del personale; — la forma scritta per qualsiasi accordo relativo ad un intervento di terzi che influisca sulla qualità e sicurezza dei tessuti e cellule; — la codificazione unica europea delle informazioni sui tessuti e cellule. In particolare, l'allegato A alla Direttiva prevede un elenco dettagliato di “informazioni da fornire sulla donazione di tessuti e/o di cellule”. Vale la pena di notare come la “base non lucrativa” sia prevista esclusivamente per cellule e tessuti “in quanto tali”, riconoscendo così indirettamente che gli stessi, se “trasformati” (e sarà compito del Legislatore nazionale definire i contorni di codesta “trasformazione”), assumeranno la natura di beni economici, a circolazione senz'altro limitata (fra banche tessuti egualmente accreditate); ma, fra gli addetti ai lavori, questa circolazione sarà libera, e per valori non indifferenti. Senza banche tessuti, infatti, non vi potrebbero essere ricerca, pubblicazioni, congressi, carriere, brevetti farmaceutici, e progresso nella sconfitta delle malattie oggi incurabili o difficilmente curabili. Se esaminassimo ad esempio il modello statunitense ci accorgeremo che le banche tessuti degli istituti di ricerca vendono, ed a caro prezzo, anche con offerte su siti internet, reperti cellulari o tessutari già preparati per l'esame microscopico; brevettano svariati ritrovati, e con le relative entrate finanziano la ricerca senza oneri (o con oneri minori) per lo Stato. Questo modello organizzativo corrisponde a quello adottato anche dall'Unione Europea; e non potrebbe essere diversamente, dato che la circolazione delle informazioni nella comunità scientifica internazionale, e la conseguente nascita di una prassi accreditata, ha preceduto di gran lunga la normazione. Massimo Burghignoli avvocato in Milano CONTRATTI DI DISTRIBUZIONE E NORMATIVA ANTITRUST EUROPEA La principale fonte normativa in materia di contratto di distribuzione (fattispecie tutt'ora non tipizzata nel nostro ordinamento) è, ad oggi, rappresentata dalla disciplina antitrust dell'UE. Il Regolamento n. 2790 del dicembre 1999, (entrato in vigore il 1o gennaio 2000, che ha definitivamente sostituito, a decorrere dal 31 dicembre 2001, il precedente 1983/83) (13), ha sancito una serie di prescrizioni inderogabili in ordine al contenuto del negozio e di alcune specifiche clausole. Le previsioni ivi contemplate cercano di conciliare i principi in materia di concorrenza con le caratteristiche tipiche dei c.d. accordi verticali (tra i quali si colloca, appunto, il contratto di distribuzione), rendendo lecite una serie di condizioni potenzialmente restrittive della concorrenza medesima. Tuttavia, il provvedimento pone una serie di limiti ben precisi alla libertà contrattuale delle parti nell'ambito di accordi conclusi con distributori europei, che si riassumono di seguito brevemente. Innanzitutto, alla luce della menzionata normativa, le parti contraenti dovranno accertarsi che il testo negoziale non contempli restrizioni gravi, vale a dire clausole che producano, di per sé, effetti anticoncorrenziali fissando, ad esempio, un prezzo fisso o minimo di vendita da parte del produttore/fornitore o impedendo al distributore di effettuare vendite c.d. non sollecitate al di fuori del territorio assegnato. La presenza di restrizioni gravi fa venir meno il beneficio dell'esenzione generale previsto nel Reg. 2790/1999 e pone, a carico delle imprese coinvolte, l'obbligo di notificare il testo degli accordi in questione alla Commissione Europea. 13 Come è noto, l'art. 81 (ex art. 85) del Trattato CE vieta gli accordi tra imprese e le c.d. pratiche concordate che incidano sulla libera concorrenza, tra i quali rientrano alcune fattispecie, caratteristiche del contratto di concessione di vendita (ad esempio, la fissazione di prezzi di vendita, o la ripartizione dei mercati). L'entrata in vigore del Regolamento n. 2790/1999 esonera (rendendola lecita) tale figura contrattuale dal divieto sancito dal Trattato. Va segnalato, tuttavia, che il suddetto organo, pur potendo, in via di principio, emettere un provvedimento derogatorio su base individuale, certamente non arriverebbe a concederlo, per coerenza con i principi ispiratori della normativa europea antitrust (14). I limiti sopra descritti si applicano a tutti i contratti di distribuzione conclusi da concessionari europei, indipendentemente dalle dimensioni delle imprese coinvolte. Esclusa la presenza di restrizioni gravi, occorrerà poi stabilire quale sia la c.d. quota di mercato rilevante detenuta dal fornitore (o dall'acquirente/distributore nelle ipotesi di fornitura esclusiva), onde poter valutare quale incidenza su quel particolare mercato di prodotto abbia il singolo accordo considerato (15). Se la quota è inferiore al 15% di quello rilevante (16), non sarà necessaria alcuna ulteriore verifica e le imprese potranno operare nel rispetto della normativa antitrust (purché, naturalmente siano rispettate le prescrizioni anzidette circa le restrizioni gravi). 14 Un'indicazione precisa in tal senso si ricava dalla Comunicazione della Commissione del 13 ottobre 2000 (“Linee direttrici sulle restrizioni verticali”). Al punto n. 46, relativo alle citate restrizioni gravi, si legge “(…) La concessione di un'esenzione individuale ad accordi verticali che contengono restrizioni gravi è improbabile”. 15 Il mercato rilevante è definito sia sotto il profilo merceologico che geografico. Secondo la definizione elaborata dalla Commissione e contenuta nelle stesse “Linee guida” il mercato rilevante del prodotto “(…) comprende tutti i beni e o servizi considerati intercambiabili dall'acquirente in ragione delle loro caratteristiche, del prezzo e dell'uso a cui sono destinati (…)”, laddove quello geografico “(…) comprende l'area in cui le imprese interessate forniscono e acquistano beni o servizi rilevanti, caratterizzata da condizioni di concorrenza sufficientemente omogenee e che può essere distinta dalle aree geografiche vicine poiché in esse sussistono condizioni di concorrenza sensibilmente diverse”. La norma di cui all'art. 9 del citato Regolamento (n. 2790/1999) illustra i parametri per il calcolo della suddetta quota. 16 Accordi di importanza minore e PMI (piccole e medie imprese): le succitate linee direttrici prevedono che gli accordi tra piccole e medie imprese, quali definite nella Comunicazione n. 368/07 del 22 dicembre 2001, siano generalmente esclusi dal capo di applicazione dell'art. 81, par. 1. La stessa Comunicazione, comunque, specifica che ogni eventuale beneficio decade qualora l'accordo contenga le sopraccitate restrizioni gravi (punto 11), la cui presenza rende suscettibile di verifica ad hoc anche un accordo concluso tra PMI. Inoltre, sempre la menzionata Comunicazione specifica che gli accordi conclusi da imprese con le caratteristiche testè citate “sono raramente di tale natura da influenzare sensibilmente il commercio fra gli stati membri”. Benché l'automatismo del beneficio possa essere ritenuto altamente probabile, occorre, comunque, evidenziare come non sia, in alcun modo, sancito un principio generale in forza del quale tali accordi non soggiacciano alle statuizioni del Regolamento 2790/1999. La puntualizzazione è, comunque, di fondamentale importanza ai fini della valutazione della buona fede dell'impresa, in quanto la Commissione specifica che “(…) nell'ipotesi in cui le imprese ritengano in buona fede che un accordo rientri nel campo di applicazione della presente comunicazione, la Commissione non infliggerà ammende (…)” (pungo n. 4). Qualora, invece, la quota di mercato rilevante sia compresa tra il 15 ed il 30%, occorrerà verificare l'esistenza di specifiche clausole, in presenza delle quali sarà necessaria una valutazione personalizzata dell'accordo per ottenere un provvedimento di esclusione ad hoc, anziché beneficiare dell'esenzione generale ex Reg. 2790/1999. Tra le condizioni negoziali che impongono la notifica alla Commissione europea, particolare rilievo assume la previsione di un obbligo di non concorrenza, diretto o indiretto, la cui durata sia indeterminata o superiore a cinque anni (se tacitamente rinnovabile oltre tale lasso temporale si considera concluso per una durata indeterminata) (17). Infine, gli accordi che superano la soglia del 30% del mercato rilevante, indipendentemente dal contenuto, vanno notificati alla Commissione, pur non essendo di per sé ritenuti illegali (18). La soglia, infatti, serve solo a distinguere tra contratti che beneficiano di una presunzione di legalità e che necessitano di un esame specifico (19). Un cenno particolare, nell'economia della trattazione, meritano i c.d. accordi di distribuzione esclusiva, definiti come quelli mediante i quali “il fornitore acconsente a vendere i propri prodotti ad un unico distributore perché li rivenda in un particolare territorio. Al tempo stesso al distributore viene imposto un limite alla vendita attiva in altri territori assegnati su base esclusiva (punto n. 161 delle Linee guida, cfr. nota 3)”. Ora, se questi ultimi sono conclusi con un fornitore la cui quota di mercato non ecceda il 30%, la distribuzione esclusiva rientra nel 17 Per le altre ipotesi cfr. Art. 5 del Reg. 2790/1999. Cfr. Linee direttrici, punto 62. 19 Le Linee direttrici, infatti, chiariscono molto efficacemente tale aspetto. Secondo la disposizione di cui al punto n. 62, le imprese vengono invitate ad “(…) effettuare una propria valutazione senza notificare l'accordo. Nel caso di un esame individuale da parte della Commissione, questa dovrà dimostrare che l'accordo in questione viola l'art. 81, pragrafo 1, del Trattato, e qualora emergano significativi effetti anticoncorrenziali, le imprese potranno addurre prove degli effetti positivi dell'accordo in termini di efficienza economica e spiegare perche un dato sistema di distribuzione può apportare benefici rilevanti ai fini delle condizioni per un'esenzione ai sensi dell'art. 81, paragrafo 3 del trattato”. Le linee direttrici forniscono, inoltre, una serie di elementi per consentire alle imprese di valutare autonomamente in quale categoria rientri il loro accordo. 18 regolamento di esenzione per categoria (20) anche se con altre restrizioni verticali non gravi, quali l'obbligo di non concorrenza limitato a 5 anni, l'imposizione di determinati quantitativi o l'acquisto esclusivo. La combinazione di accordi di distribuzione esclusiva e selettiva beneficia dell'esenzione per categoria solo se la vendita attiva in altri territori non sia sottoposta a limitazioni. Nelle ipotesi di superamento della quota del 30%, le Linee guida su menzionate forniscono dei criteri atti a consentire alle imprese quel meccanismo di autovalutazione sopra descritto (21). Alla luce di quanto sin qui illustrato, è di fondamentale importanza che i contratti che possono superare le soglie indicate vengano notificati alla Commissione Europea, la quale emetterà un provvedimento ad hoc sulla validità dell'accordo ed, eventualmente, indicherà le modifiche e/o le integrazioni ritenute opportune nel caso di specie. Va segnalato, infine, che non esiste alcuna necessità di preventiva notifica, come chiaramente specificato nelle Linee direttrici, al punto n. 63. Se sorge una controversia l'impresa può sempre comunicare il tenore dell'accordo: in tal caso, la Commissione può esentarla con effetto retroattivo a decorrere dalla data della sua entrata in vigore. Chiaramente, la notifica in quanto tale non conferisce validità provvisoria all'esecuzione dell'accordo. Qualora le imprese non abbiano notificato un accordo poiché presumevano in buona fede che la soglia basata sulla quota di mercato stabilita per l'applicazione del regolamento di esenzione per categoria non fosse superata, la Commissione non infliggerà ammende. avv. Massimiliano Nicodemo e avv. Sara Petrilli 20 21 Cfr. punto n. 162. Cfr. punti nn. 163 ss. delle Linee Direttrici.