L’Eclissi dell’Io A CURA DI GIUSEPPE SABUCCO In occasione del cinquantesimo dell’indipendenza dell’India, lo scrittore Salman Rushdie ricordava, accomunandoli, il tramonto del potere coloniale britannico e quello della concezione, di epoca vittoriana, che in ogni essere umano dovesse governare un sé integrato, e festeggiava il compleanno della sua poliedrica patria indicandola come un esempio dell’identità moderna, che è giunta a riconoscere in ogni individuo una «folla sgomitante di “Io”» 1. La lettura di quel discorso mi colpì, perché nello stesso periodo avevo cominciato ad osservare che, nella produzione scientifica psicoanalitica, «l’Io» era andato invece scomparendo. Naturalmente continuiamo ad usare esplicitamente o implicitamente questa parola quasi in continuazione, come pronome riferito a noi, o riferito dai pazienti a se stessi. Ma come specifico tema d’indagine, il concetto di «Io» è pressoché svanito dall’attenzione degli psicoanalisti. Tale scomparsa risale ormai a molto tempo fa, e riguarda in modo equanime tutta la gamma di declinazioni che il pensiero psicoanalitico ha assunto in giro per il mondo. Non intendiamo addentrarci nel perché di un fenomeno così vasto e persistente. La «folla sgomitante» evocata da Rushdie pone alla riflessione psicologica, evidentemente, un problema ancora troppo caotico per essere decantato in un discorso che dia un ordine attendibile alla sua complessità. Semplicemente, dopo un riassunto della parabola che il concetto di Io ha percorso in Freud (che dobbiamo alla cortesia del dottor Conrotto), verranno presentati tre momenti, tre immagini dell’eclissi dell’Io quale tema di riflessione. La prima è presa dalla storia della psicoanalisi, e riguarda uno dei suoi movimenti più intensi, per coerenza e determinazione, e cioè la parabola della Ego Psychology nordamericana. La seconda immagine viene dai confini geografici, culturali e concettuali dell’espansione della psicoanalisi, nel suo incontro con la cultura e con la società cinesi. Durante la prima conferenza asiatica dell’International Psychoanalytical Association, che si è svolta a Pechino dal 21 al 24 ottobre 2011 – il cui tema è stato «Freud e l’Asia. Evoluzione e cambiamento: La psicoanalisi nel contesto asiatico» –, Almatea Usuelli ha raccontato la vicenda umana di Matteo Ricci, il matematico, cartografo e sinologo gesuita vissuto a cavallo tra il XVI ed il XVII secolo. 1 «Nell’età odierna, siamo giunti a comprendere come i nostri sé siano compositi, spesso contradditori, persino internamente incompatibili. Abbiamo capito che ciascuno di noi è molte differenti persone. I nostri sé più giovanili differiscono dai nostri sé più anziani; possiamo essere spavaldi in compagnia di chi ci ama e timorosi di fronte ai nostri impiegati, di sani principi quando educhiamo i nostri bambini e corrotti quando ce ne venga offerta qualche segreta tentazione; siamo seri e frivoli, chiassosi e silenziosi, aggressivi e facilmente turbati. La concezione del diciannovesimo secolo di un sé integrato è stata rimpiazzata da questa folla sgomitante di “Io”. E tuttavia, a meno che noi non siamo danneggiati, o squilibrati, abbiamo di solito un senso relativamente chiaro di chi siamo. Concordo coi miei molti sé per chiamarli tutti “me”» (Salman Rushdie, India at five-O. TIME magazine, 11 agosto 1997). 1 Quell’antica vicenda, che fa da monito all’odierno incontro tra psicoanalisi e cultura cinese, fornirà il secondo esempio di eclissi dell’Io. La terza immagine viene da un ambito esterno, e per certi versi estraneo, alla psicoanalisi, e cioè dalla riflessione filosofica nel campo dell’estetica. Alla psicoanalisi ed alla sua enfasi sulle pulsioni (che ora sono sempre più intese come rivolte verso la relazione, piuttosto che verso la semplice soddisfazione), la filosofia estetica propone una alternativa ancora più radicale: che l’oggetto – almeno, l’oggetto con qualità estetiche – eserciti un richiamo ed un’influenza che precedono la motivazione e l’intenzione del soggetto, che ne è dunque, almeno in parte, «messo in forma» e «determinato». Per riassumere in un aforisma questa ipotesi, si può forse ricorrere alla riflessione di Benjamin che l’oggetto – almeno, l’oggetto estetico – è l’oggetto a cui noi restituiamo lo sguardo. Un momento fondativo della nostra soggettività ci sarebbe esterno, e questo è il motivo per cui essa «non è [tutta] nella nostra mente». L’articolata lezione del professor Desideri, professore ordinario di Estetica all’Università di Firenze, intende sostanziare le ragioni di questa ipotesi. 2