Inchiesta - isis "francesco de sanctis"

36 | Animazione Sociale aprile | 2010 inchiesta
Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
Può sembrare un
paradosso che la rivista
proponga una seconda
inchiesta (la prima è uscita a gennaio) su
come la scuola può accompagnare
l’integrazione degli adolescenti stranieri
in un periodo in cui la scuola è soggetta a
tagli, ridimensionamenti, svalutazioni.
Le recenti «riforme» della scuola – tra
virgolette, poiché il termine dovrebbe
indicare decisioni politiche volte a
realizzare le promesse della democrazia
contenute nella Carta costituzionale
(come osservato da Nadia Urbinati
nell’articolo La retorica delle riforme, su
«Repubblica» del 29 dicembre 2009) –
sembrano infatti preoccupate unicamente
di garantire un risparmio di spesa
pubblica (riducendo insegnanti, orari di
lezione, tempo pieno, personale Ata...).
Un disinvestimento che sottrae risorse
alla funzione cruciale che la scuola svolge
in democrazia: promuovere l’eguaglianza
delle opportunità, o, meno enfaticamente,
ridurre le disuguaglianze di partenza dei
giovani. Una funzione oggi resa più che
mai necessaria dall’ampliarsi della
diseguaglianza e dell’immobilità sociale
nel nostro Paese e dall’ingresso nelle
nostre classi di bambini e ragazzi stranieri,
per i quali la scuola rappresenta la grande
chance di inserirsi nella società italiana.
È uno sguardo preoccupato sulle scelte
che come società stiamo facendo a
portare dunque la rivista a fare un
approfondimento sulla scuola. Rispetto
alla precedente inchiesta (L’integrazione
dei ragazzi stranieri alle superiori, curata
con Graziella Favaro), che enucleava i
problemi, queste pagine vogliono dare
indicazioni di metodo per una scuola
capace di «fare società». Capace cioè di
lavorare con le diversità che oggi entrano
in classe: senza annullarle o respingerle,
ma favorendo linguaggi della convivenza,
della pluralità e dell’inclusione.
Sono indicazioni tratte da una rilettura
attenta dei materiali emersi nella prima
inchiesta. Ci è sembrato infatti,
riattraversandoli, di individuare tre ipotesi
di lavoro che possono aiutare la scuola ad
accompagnare i percorsi formativi dei
ragazzi che oggi la frequentano. La prima
(sviluppata da Marco Rossi Doria)
riguarda l’importanza di dotarsi di una
prospettiva di senso, come insegnanti e
come scuola. La seconda (nel testo di
Flavia Virgilio) rilancia l’attualità di
approcci animativi nella didattica in classi
abitate da forti differenze. La terza
(espressa da Mirca Ognisanti) riguarda
l’importanza per la scuola di coinvolgere
le famiglie straniere, perché questo
contribuisce all’integrazione dei figli (e
delle stesse famiglie) e al loro successo
scolastico.
Come ha scritto Rossi Doria nella mail
che accompagnava l’invio del suo
articolo, «bisogna allargare gli orizzonti
del possibile perché il possibile diventi
realtà». Anche, e forse soprattutto, in un
tempo in cui sembra esservi un eccesso di
realtà. (R. Camarlinghi, F. d’Angella)
38 | R. Camarlinghi, F. d’Angella
Per una scuola che lavora sulle
differenze
46 | M. Rossi Doria
A scuola spesso è sbagliato dire
uguali
56 | F. Virgilio
Se gli studenti non stanno alle
regole
66 | M. Ognisanti
Ripensarsi con le famiglie della
migrazione
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Per una scuola
capace
ogni giorno
di «fare società»
A cura di
Roberto Camarlinghi, Francesco d’Angella,
Mirca Ognisanti, Marco Rossi Doria, Flavia Virgilio
Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
Inchiesta del mese
I ragazzi stranieri alle superiori/2
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Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
Roberto Camarlinghi, Francesco d’Angella
Per una scuola
che lavora
sulle differenze
Tre ipotesi
per proseguire
l’«inchiesta»
Nelle classi abita oggi
una grande
differenziazione, data
non solo dalle etnie,
ma dagli ambienti di
provenienza degli
adolescenti, sempre
più disparati nelle
premesse culturali,
nelle condizioni
socioeconomiche,
nelle attese e
motivazioni verso la
scuola. Di fronte a
questo pluralismo
sociale, la scuola può
reagire respingendolo,
oppure può decidere di
lavorare su tutte
queste differenze. Su
quelle di status,
cercando di
contrastare la
trasmissione delle
diseguaglianze
intergenerazionali. Su
quelle culturali,
sostenendo l’incontro
e lo scambio
quotidiano di
significati tra i ragazzi.
Prima di inoltrarci in questa seconda puntata dell’inchiesta su «come la scuola può accompagnare l’integrazione degli adolescenti stranieri», può essere opportuno esplicitare il senso dei percorsi di ricerca proposti
dalla rivista a partire dal numero di gennaio 2010.
Il perché delle «Inchieste»
Con le «Inchieste» la rivista intende investire sulla
conoscenza dei principali problemi con cui il lavoro
sociale ed educativo oggi è chiamato a confrontarsi.
Problemi che spesso non fanno notizia o sono raccontati superficialmente dai mass media, ma che sono
densi di implicazioni per il nostro vivere sociale.
Nella nostra «società dell’informazione» tutto scorre
sotto gli occhi velocemente. Non si riesce a mettere una
punteggiatura al flusso di notizie, a costruirsi un’idea
sulle «cose» che accadono, a valutarne la priorità. Le
Inchieste, per contro, intendono essere soste conoscitive, un fermare per un attimo il vortice dell’informazione per portare alla luce ciò che sarebbe rischioso
far cadere velocemente nello sfondo.
Produrre conoscenze, nel lavoro sociale, significa formulare una lettura dei problemi e delle ipotesi su come
possono essere affrontati. Proprio in questa direzione
le Inchieste mirano a valorizzare i «cantieri», spesso
invisibili, di uomini e donne che quotidianamente investono energie, attivano immaginazioni, si mettono
a lavorare insieme per rendere i contesti di vita più abitabili da tutti.
In questi cantieri si producono saperi che è vitale oggi non disperdere, ma rimettere in circolo. Per questo motivo le Inchieste prevedono ogni volta un viaggio
attraverso le sperimentazioni in atto nel nostro Paese. Nell’incontrare gli autori di
queste sperimentazioni (personalmente o attraverso i loro scritti) si cerca di documentare piste di lavoro che sono già state percorse e che possono essere assunte
come chiavi di lettura per ripensare e riprogettare altre esperienze di lavoro in altri
luoghi d’Italia.
Il filo rosso della disuguaglianza
Ma con quale criterio avviene la selezione delle aree di problemi su cui fare inchiesta?
Un viaggio attraverso le nuove disuguaglianze
Esplorare le nuove forme di disuguaglianza che profilano per la società il rischio
di lasciare ai bordi intere fasce di popolazione: questo è il filo rosso delle Inchieste.
Sempre più persone oggi sono immerse in situazioni di disuguaglianza sociale: ossia,
di diseguale possibilità di accesso alle risorse sociali (istruzione, salute, formazione
professionale, ecc.) e diseguale capacità di utilizzo (1).
Ipotizziamo che l’esplorare le nuove forme di disuguaglianza consenta di ri-declinare una delle parole che è stata trascurata, molto trascurata, negli ultimi tempi,
quasi fosse un disvalore, ma che sarebbe pericoloso perdere per strada: la categoria
dell’uguaglianza.
Oggi assistiamo a una profonda crisi dell’uguaglianza, che mette in pericolo la
qualità stessa della nostra democrazia. Gustavo Zagrebelsky, su «la Repubblica»
del 26 novembre 2008 (Senza uguaglianza la democrazia è un regime), ha affermato
che «senza uguaglianza la democrazia è un regime di caste». E ha aggiunto:
Non possiamo non vedere che la società ormai è divisa in strati, e che questi strati
non sono comunicanti. Più in basso di tutti stanno gli invisibili, i senza diritti, quelli
che noi con la nostra legge definiamo i «clandestini»... Al vertice i privilegiati, uniti in
famiglie di sangue e d’interesse... In mezzo, una società stratificata e sclerotizzata,
tipo Ancien Régime, dove la mobilità è sempre più scarsa e la condizione sociale
di nascita sempre più determina il destino.
Due bussole per un viaggio oggi necessario
Come contrastare le disuguaglianze e ri-declinare il principio dell’uguaglianza?
Sono queste le due bussole che ci orientano nella scelta delle aree di inchiesta.
L’uguaglianza è stata la chiave di volta delle Costituzioni successive alla ii guerra
mondiale, fino a fondare un nuovo concetto di cittadinanza, consistente in uno
1 | Leggere i problemi attraverso il filtro della
disuguaglianza consente di rendere «sociali» problemi che altrimenti rischiano di essere trattati
come problemi «individuali». A questo propo-
sito si rimanda all’intervista a Eleonora Artesio,
Quale contrasto alle disuguaglianze di salute? Una
mappa per la ricerca di nuove sperimentazioni, 12,
2009, pp. 20-30.
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Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
status di cui fanno parte un reddito decoroso e il diritto a condurre una vita civile,
anche quando si è ammalati, o vecchi, o disoccupati, o comunque in difficoltà.
Nel nostro ordinamento costituzionale il principio di uguaglianza è oggetto di una
specifica e impegnativa enunciazione (art. 3):
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzioni... È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico
e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione dei lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
L’uguaglianza, come ha messo bene in luce Livio Pepino, ha prodotto la trasformazione dello Stato liberale in Stato sociale e dato vita alla categoria dei diritti sociali,
conquiste di non piccolo peso nel percorso di affermazione della dignità delle
persone (2). L’uguaglianza, ha detto Nadia Urbinati, ha trasformato le democrazie
in senso inclusivo (3). È grazie a quest’idea, insomma, che abbiamo le scuole, gli
asili, gli ospedali, le pensioni, la cassa integrazione, i diritti sociali.
Proprio a partire dall’urgenza di rideclinare oggi questa categoria, la rivista attraverso le Inchieste intende mettere a fuoco i luoghi dove essa è maggiormente
violata, con gravi conseguenze sull’autonomia e dignità degli individui e sul futuro
della nostra convivenza.
Adolescenti stranieri a rischio diseguaglianza
La scelta di avviare un’inchiesta sull’integrazione sociale delle ragazze e dei ragazzi
stranieri nasce dal constatare come in questa fascia di popolazione, oggi, sia molto
elevato il rischio della riproduzione delle disuguaglianze.
I «figli degli immigrati» stanno entrando in modo massiccio nelle scuole superiori.
L’ingresso di questa nuova generazione di adolescenti è un fenomeno poco raccontato, ma cruciale per capire come sarà domani la loro vita e la nostra società.
Soprattutto chi si è ricongiunto ai propri genitori in età preadolescenziale o adolescenziale (una quota crescente, dicono le statistiche, segno che il fenomeno migratorio si sta stabilizzando) vive oggi le fatiche dell’integrazione, ben descritte da
Graziella Favaro nella precedente inchiesta (4).
Per questi adolescenti la scuola costituisce la grande chance per sperare in un’integrazione sociale non subalterna, non confinata nelle zone marginali della società,
come invece è capitato ai loro genitori.
Tuttavia il loro percorso scolastico si rivela spesso una «corsa a ostacoli», come documentano i dati relativi a ritardi e bocciature. Fa impressione apprendere che nella
scuola secondaria superiore più di sette studenti stranieri su 10 sono in ritardo con
gli anni di studio e che tre su 10 fanno l’esperienza della bocciatura. E colpisce sapere
2 | Pepino L., Il tempo della diseguaglianza, in
«Narcomafie», 9, 2009, pp. 58-63.
3 | Urbinati N., Lo scettro senza il re, Donzelli,
Roma 2009.
4 | Favaro G., Giorni di fatica nelle classi del
biennio, in «Animazione Sociale», 239, gennaio
2010, pp. 41-49.
che il ritardo non è solo dovuto alle bocciature, ma in molti casi agli inserimenti dei
ragazzi provenienti da altri sistemi scolastici in classi inferiori alla loro età.
In questi casi è la scuola che, con le sue rigidità, con la sua fatica di ripensarsi in
relazione alla presenza di ragazzi stranieri, contribuisce a creare il ritardo scolastico,
anticamera per molti dell’abbandono. Gli inserimenti molto dilazionati rispetto
all’età sono infatti la spia della scarsa propensione delle scuole (specie superiori)
a comprendere le competenze che comunque questi adolescenti hanno maturato
nel loro percorso scolastico di provenienza, con valutazioni che spesso tengono in
considerazione quasi esclusivamente la (in)competenza linguistica.
Il rischio è che l’inserimento ritardato, le bocciature e (altro dato emerso con forza
nell’inchiesta) la concentrazione dei ragazzi stranieri nei percorsi più brevi e meno
esigenti (gli istituti professionali) si trasformino in una forma di discriminazione,
che nel lungo periodo finisce per amplificare le disuguaglianze tra immigrati e
popolazione locale, anche nel succedersi delle generazioni (5).
Se la scuola promuove la resa
La scuola italiana oggi è in difficoltà ad accompagnare i percorsi dei ragazzi, italiani e stranieri.
I dati dell’anno 2008/2009 sono eloquenti: non
ammesso alla maturità il 5,5% degli studenti,
quasi 400mila respinti nelle classi dalla prima
alla quarta superiore e ben 70mila adolescenti
bocciati tra la prima e la seconda media di cui
10mila con il famigerato 5 in condotta.
Spinti da direttive ministeriali, secondo cui
«serve una scuola del merito, non una scuola
buonista», alcuni presidi e insegnanti si sentono
legittimati a inasprire il metro delle valutazioni.
Ma molti altri si interrogano. Con che coraggio
si smantella la scuola (9 miliardi il risparmio per
lo Stato dopo i tagli della legge 133/2008) e poi
si respingono i ragazzi? E davvero le bocciature
spingono a migliorarsi o per chi è in difficoltà non
bisogna applicare una «educazione dilatatrice»
(Montessori), dare di più, portare dentro, non
spingere fuori, con il rischio che i respinti escano
per sempre dal sistema scolastico?
Il nostro Paese ha un tasso di dispersione scolastica drammatico. E molti «dispersi» hanno
alle spalle uno, due, tre insuccessi. C’è poco da
rallegrarsi allora se la scuola respinge. Come
scrive Marco Lodoli (in un articolo online su tiscali.it del 25 febbraio 2010), insegnante di italiano in un istituto professionale della periferia
di Roma, «la dispersione scolastica è forse la
questione più grave che oggi investe la nostra
scuola, la piaga da sanare assolutamente, prima che la cancrena dell’emarginazione si mangi
un pezzo della nostra società, e proprio la parte
più debole, quella che andrebbe seguita con
più attenzione». E ancora: «È una parte d’Italia
che si arrende prima ancora di cominciare, che
si sottrae a ogni speranza, che china la testa e
svanisce nella disillusione. È un fenomeno che
c’è sempre stato, ma che cresce malinconicamente anno dopo anno».
Se l’alternativa alla scuola non c’è
Nell’inchiesta di gennaio abbiamo potuto constatare come molte scuole abbiano
assunto il compito di accompagnare i processi di integrazione sociale degli adolescenti stranieri. Abbiamo potuto vedere come molti insegnanti e dirigenti scolastici
5 | Nell’inchiesta precedente Massimiliano Vrenna sottolineava come un buon esito del percorso
scolastico abbia un effetto benefico non solo per
l’integrazione dell’adolescente, ma per tutta la
sua famiglia. Attraverso l’istruzione acquisita,
infatti, l’adolescente garantisce ai genitori (che
in genere hanno un uso più incerto della lingua
italiana) la possibilità di una mediazione con le
istituzioni della società di accoglienza.
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si rendano conto della posta in gioco: ossia che il modo in cui avverrà l’integrazione
sociale di quelli che oggi sono adolescenti ma tra qualche anno saranno adulti è
cruciale per capire come sarà domani la loro vita e la nostra società. La posta in gioco
è la qualità della convivenza futura, il destino di una società che non può pensare di
svilupparsi assimilando verso il basso una larga fascia di popolazione giovanile.
Nell’inchiesta abbiamo potuto verificare come la scuola abbia una funzione importante nel preparare il futuro individuale e collettivo. Le esperienze incontrate (pensiamo a
quella milanese di «Non uno di meno») testimoniano come la scuola sia un predittore
della carriera futura dell’adolescente (non solo straniero), perché più un ragazzo va
avanti nel percorso scolastico, più ha probabilità di progredire socialmente.
Un buon percorso scolastico è una chance di emancipazione perché dà ai ragazzi
la possibilità di acquisire quelle competenze di base indispensabili per muoversi
nella società italiana. Viceversa, l’insuccesso scolastico rischia di trascinare con sé
il fallimento di un intero progetto di vita. Come ricordava Domenico Chiesa:
Perdere la scuola a 14/15 anni, magari dopo bocciature e frustrazioni, è la più
grande disgrazia che possa capitare a un ragazzo. Sentivo ieri un rappresentante
della Provincia che diceva: «Sapete quanti ragazzi sono stati inseriti nella provincia
di Torino nell’apprendistato? 15…». Il che vuol dire che non esiste l’alternativa alla
scuola, se non il lavoro nero e sottopagato. (6)
Se l’alternativa alla scuola non c’è, tutti siamo tutti chiamati a capire come la scuola
può oggi essere una risorsa per questi ragazzi e per queste ragazze e non un ostacolo
al loro processo di integrazione. Siamo tutti chiamati a capire a quali condizioni la
scuola può costituire il «possibile trampolino della promozione sociale anziché la
premessa per il confinamento dei figli degli immigrati ai margini della società» (7).
Tre ipotesi per una scuola capace di integrare
In questa seconda puntata intendiamo precisare alcune ipotesi metodologiche
affinché la scuola possa svolgere questa funzione di argine alla diseguaglianza, di
«trampolino della promozione sociale». A partire da un ascolto profondo e ragionato delle esperienze incontrate nella prima puntata, abbiamo enucleato tre ipotesi
per una scuola che accetti la sfida di accompagnare l’integrazione degli adolescenti
stranieri. Le introduciamo con i passi, tratti dalla prima inchiesta apparsa nel numero di gennaio, che ci hanno suggerito queste tre piste di lavoro.
Primo: elaborare un progetto di scuola
Dobbiamo interrogarci su chi siamo, dove vogliamo andare, se il nostro è mero lavoro
burocratico o altro. Se è mero lavoro burocratico si può fare in tanti modi, se invece
dev’essere formativo è un’altra cosa. Dobbiamo chiederci se la scuola è utile o se
6 | Intervistato in Camarlinghi R., d’Angella F.,
Alla ricerca di prospettive per l’azione, in «Animazione Sociale», 239, gennaio 2010, p. 70.
7 | Ambrosini M., Molina S. (a cura di), Seconde
generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, Fondazione Giovanni
Agnelli, Torino 2004, p. 34.
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O l’inserimento degli studenti stranieri diventa un progetto d’istituto oppure un
progetto gestito da pochi motivati rischia di non avere senso né futuro. L’idea è
prescindere dalle singolarità per farne un investimento della scuola. Solo se il laboratorio di L2 si incorpora in un progetto più complessivo della scuola, contribuisce
al processo di integrazione.
(Nella Papa e Monica Napoli, coordinatrici del progetto Non uno di meno di Milano,
p. 62)
Queste affermazioni aiutano a mettere a fuoco la prima ipotesi esplorata in questa
seconda inchiesta (nell’articolo di Marco Rossi Doria). La scuola deve dotarsi di
un progetto per poter reggere la fatica di accompagnare i percorsi dei ragazzi, in
particolare i percorsi più difficili. Solo dotandosi di una progettualità, si riesce a
dare senso allo sforzo di riorganizzarsi come scuola (uscire dalla standardizzazione
dei percorsi di insegnamento, destrutturare i programmi disciplinari in relazione
alle esigenze formative dei ragazzi, ecc.) di fronte all’ingresso dei «nuovi adolescenti». Abbiamo chiesto a Marco Rossi Doria (fondatore del progetto Chance,
per molti anni maestro di strada nei Quartieri Spagnoli di Napoli), sulla base della
sua straordinaria competenza in fatto di metodologie di contrasto della dispersione
scolastica, di tracciare alcune coordinate in grado di aiutare la scuola a elaborare
oggi una nuova progettualità.
Secondo: lavorare nel gruppo-classe
Occorre porre l’approccio interculturale al centro di un’educazione per tutti. Ciò
vuol dire attivare nelle classi occasioni di scambio, ma anche ripensare contenuti,
metodi e stili di insegnamento… Il laboratorio di L2 diventa lo stimolo a reinventare
la didattica, a ripensare il modo di stare in classe con gli adolescenti. E ciò diventa
un beneficio non solo per gli studenti stranieri ma per tutti quelli che sono in classe.
(Nella Papa e Monica Napoli, p. 62)
Ho grandissima stima di questi ragazzi, li riconosco come persone davvero degne
di avere il meglio della vita. E mi spiacerebbe se non riuscissero ad averlo. È questa
stima che tutti i lunedì mi porta a sedermi intorno a un tavolo con una decina di loro
per riscrivere Lettera a una professoressa. È una lettera propositiva, che punta a
creare un patto tra studenti e insegnanti, una complicità perché si impari… Questi
ragazzi, messi attorno a un tavolo, hanno un rispetto e una capacità di ascolto che
sono impressionanti
(Domenico Chiesa, presidente del Forum Piemonte per la scuola e l’educazione, pp.
69-70)
Queste affermazioni suggeriscono l’importanza del gruppo-classe come dispositivo
centrale per qualsiasi processo di integrazione socioculturale. È sulla classe come
microsistema che bisogna lavorare per favorire l’inserimento degli allievi stranieri.
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è veramente un’appendice di questa società, se può servire o no ai ragazzi, a chi
entra a 14 anni e ne esce a 19. O, come gli stranieri, entra a 17 ed esce a 21. Sono
cose che bisogna ripensare senza paura e vedo che poi gli insegnanti si agganciano.
(Maria Assunta Guadagni, preside del liceo Carlo Livi di Prato, p. 66)
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Considerare la classe come dispositivo centrale per accompagnare i processi di integrazione sociale non è però immediato, ma richiede agli insegnanti di reinventare
la propria didattica: da un lavoro didattico centrato sul programma e sui risultati
dei singoli allievi a un lavoro didattico centrato sui processi di apprendimento
e sull’evoluzione cognitiva e affettiva del gruppo-classe. Di un lavoro attento al
gruppo-classe, è bene ricordarlo, beneficiano tutti coloro che abitano in classe,
non solo gli allievi stranieri.
Ma quanto l’insegnante si rappresenta il processo educativo come centrato su di sé
e quanto invece vede i processi educativi come processi gruppali? Quanto riesce
a usare risorse interne alla classe per gestire dinamiche relazionali, quanto riesce a
valorizzare le competenze, le conoscenze, i saperi che si generano nello scambioconfronto tra adolescenti e tra adolescenti e insegnanti?
Quest’ipotesi secondo cui è una classe che integra e non l’azione di un singolo è
sviluppata da Flavia Virgilio, insegnante di scuola media. Il suo contributo mette
bene in luce come sia importante non concentrarsi sul singolo ragazzo (o gruppetto
di ragazzi) che è in difficoltà nello stare in classe, ma vedere la classe come un gruppo
che può trovare al proprio interno le risorse per gestire le microconflittualità.
Terzo: coinvolgere le famiglie
In questo liceo si è dato spazio al desiderio delle ragazze pakistane di giocare a
cricket, loro sport nazionale, nell’ambiente della palestra. Un desiderio che nasceva dalla loro resistenza culturale a fare educazione fisica insieme ai compagni
maschi. Questa resistenza è stata accolta, ma è stata anche lo spunto per aprire
una riflessione su che cosa vuol dire educazione alla salute. La prospettiva è
quella di avvicinare le madri di queste ragazze alla scuola. Perché coinvolgere le
famiglie, soprattutto pakistane, è importante ai fini della prosecuzione del percorso
scolastico delle figlie.
(Maria Assunta Guadagni, p. 65)
La scuola italiana, ancora oggi, forse più di ieri, è modellata sulle esigenze di chi
– italiano o straniero – ha una famiglia alle spalle, in grado di integrare e di approfondire le conoscenze scolastiche grazie agli aiuti per i compiti a casa e a stimoli
culturali in linea con i contenuti curricolari proposti alla classe…
Per gli alunni stranieri le difficoltà scolastiche non hanno dunque a che fare solo
con le questioni linguistiche, ma anche con la scarsità di beni e oggetti culturali,
con l’impossibilità dei genitori di aiutarli a rispondere alle esigenze che provengono
dalla scuola e garantire loro una situazione materiale e di contesto propizio alla
scuola.
In altre parole, ancora oggi come ieri, un buon alunno ha in genere alle spalle un
buon genitore che è nelle condizioni di rispondere in maniera adeguata alle richieste
delle scuola. E chi ha genitori che per ragioni linguistiche, sociali, culturali, hanno
difficoltà ad assumere con efficacia un ruolo di mediatore e accompagnatore del
viaggio dentro la scuola e l’apprendimento, si trova a percorrere questo cammino
in solitudine, contando solo sulle proprie risorse.
(Graziella Favaro, pp. 47-48)
La terza ipotesi è relativa all’importanza di coinvolgere le famiglie. Spesso si sottovaluta la funzione che le famiglie hanno nell’esperienza scolastica dei figli. Nella
scuola superiore, benché sia ampiamente dimostrato il nesso tra il successo scolastico degli studenti e la partecipazione dei genitori al percorso dei figli, il lavoro
educativo dell’istituzione scolastica investe poco nella relazione fra scuola e genitori.
Accade così che tra scuola e famiglie si cristallizzi una distanza, che va a discapito
dell’esperienza scolastica dell’adolescente.
Spesso gli insegnanti si lamentano del fatto che i genitori stranieri non partecipano
alle iniziative della scuola e che molti non si presentino ai colloqui o alle riunioni,
anche se chiamati. D’altro lato, le famiglie non ritengono necessario occuparsi
della vita scolastica del figlio perché nel loro modello educativo di riferimento vi è
una delega alla scuola e agli insegnanti di questi aspetti; altre volte invece i genitori
non partecipano per un senso di inadeguatezza rispetto ai contenuti didattici che
non conoscono e a volte anche perché non capiscono come funziona la scuola
italiana.
Abbiamo chiesto a Mirca Ognisanti, consulente del progetto SeiPiù (progetto volto
a combattere l’insuccesso scolastico degli adolescenti stranieri iscritti al biennio
degli istituti tecnici e professionali di Bologna e provincia), di restituirci l’importanza di coinvolgere le famiglie, a partire da una rilettura dell’esperienza svolta in
questi anni.
In classe «si fa la società»
Nella nostra società frammentata e pluriculturale, segnata da crescenti diseguaglianze, la scuola costituisce un microcosmo sociale in cui sono fortemente visibili,
in alcuni casi anche violentemente visibili, le differenze e le diversità. Oggi c’è una
multiculturalità che entra pesantemente nella scuola, ma che non è data solo dalle
diverse etnie ma dai diversi ambienti di provenienza, che sono sempre più disparati
nelle premesse culturali, nei modelli di comportamento, nelle attese, nelle motivazioni che i ragazzi e le loro famiglie hanno nei confronti della scuola.
Nelle classi e nella scuola abita oggi una grande differenziazione che condiziona le
interazioni tra allievi e allievi, tra allievi e docenti, tra docenti e famiglie. In questo
scenario la sfida è quanto la scuola riesce a produrre culture capaci di sostenere il
dialogo e la coabitazione tra modi differenti di pensare e di vivere. Quanto riesce a
tenere dentro chi è in difficoltà, non a spingerlo fuori, con il rischio che gli espulsi
abbandonino per sempre il percorso scolastico e vengano risucchiati dal nulla,
reclutati nei mestieri sottopagati o nella criminalità.
In molte scuole d’Italia questa sfida viene accolta, consapevoli che ogni mattina in
classe «si fa la società». Una società che oggi, per la sua pluriculturalità ed eterogeneità (di punti di vista, valori, credenze, apparati simbolici, linguaggi...), rende
cruciale apprendere la competenza di misurarsi con l’altro. Ma anche una società
che, per la diseguaglianza sociale ed economica che sempre più la caratterizza,
dovrebbe investire (anziché disinvestire) in istituzioni democratiche come la scuola,
capaci di promuovere le chance di tutti di inserirsi nella vita collettiva.
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Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
Marco Rossi Doria
A scuola spesso
è sbagliato
dire uguali
Come far spazio
all’«uguale diritto»
tra ragazzi diversi
Il rapporto tra
eguaglianza e
differenza nella
formazione delle
persone è complicato.
Non basta dire
«uguali». Anzi è spesso
sbagliato. Va detto
semmai «diversi». È
dalla diversità che è
possibile negoziare i
termini di un’effettiva
eguaglianza. Perché
se i bisogni formativi
non sono uniformi,
l’offerta non può
essere uguale per
tutti. Accade così che
in molte scuole, già
oggi, si stia declinando
un’offerta di equità
che riconosce che si
danno cose diverse a
persone diverse. La
presenza di tanti
bambini e ragazzi non
italiani esalta questa
prospettiva, spingendo
verso un’offerta
plurale, differenziata,
ricca.
Promuovere l’eguaglianza e riuscire a riconoscere le
differenze tra ragazzi. Questa è la grande sfida che la
scuola sta oggi affrontando. Del resto non può fare
altrimenti: la vita quotidiana pone, in ogni scuola, la
questione del reciproco riconoscimento tra persone
che hanno identità culturali diverse e che sono immerse in lingue diverse.
La nuova scena italiana
Centinaia di migliaia di bambini e ragazzi stranieri si
misurano ogni giorno con un’appartenenza originaria
e con una nuova appartenenza e fanno i conti con
una o più lingue da cui vengono e con altre, alle quali
arrivano. È insieme una sfida, una paura di perdita ed
è un ritrovarsi nella traduzione e nella scoperta. Allo
stesso tempo, milioni di ragazzini italiani dividono lo
spazio e la prospettiva esistenziale con coetanei che
vengono da un altro luogo nel mondo e che hanno
almeno un’altra lingua.
Poi, però, i ragazzi italiani e stranieri condividono una
larga scena comune. Si impara in classe insieme e si
intrecciano le relazioni sociali a scuola. Ma si condividono anche i ritmi e gli accadimenti della città, i
consumi, i modelli dominanti, le mode.
E, naturalmente, si sta insieme davanti agli eventi del
mondo che arrivano in ogni casa, italiana o straniera,
in tempo reale. Che mostrano i rischi, le possibilità,
le contraddizioni profonde della vita su questo pianeta e interrogano il futuro
di tutti.
Inoltre condividono l’esperienza della diversità che oggi ciascuna singola famiglia
esprime nel come si educa. Perché da tempo si è eclissato un modello univoco di
educazione. E questo vale sia per i bambini e ragazzi italiani sia per gli stranieri.
Dunque, c’è una scena comune, spesso omologante; ve ne è un’altra differenziata sulla
base dei messaggi e dei valori differenti che ogni famiglia, italiana o straniera, veicola
nel corso dei processi educativi; ve ne è una terza che afferisce al «da dove vieni».
Tutto questo spinge bambini e ragazzi verso l’omologazione indifferenziata e, al
contempo, verso un profondo rimescolamento dell’esperienza e della nozione di
appartenenza, piegandola verso una dimensione molteplice, plurale; allo stesso
tempo produce un’accentuazione della ricerca e della salvaguardia identitaria,
comunitaria e individuale. «Se siamo diversi lo siamo tutti e dobbiamo trovare i
modi per riconoscerlo»; «Se siamo diversi io devo provare la mia diversità da...».
I processi di identificazione e di differenziazione che connotano la pre-adolescenza
e l’adolescenza si misurano ogni giorno con questo contesto che è vario, mutante,
misto. E la scuola è chiamata a considerare tutte queste cose e a rispondere a un
mandato unitario, che si fonda sul «diritto uguale».
Dal punto di vista della politica – della conduzione partecipata della polis – il
tema è quello di una cittadinanza davvero più larga, basata sui luoghi e non più
sul sangue. Ma – in attesa di questo passaggio, che l’Italia politica non riesce ad
affrontare – ci sono da rafforzare le azioni pubbliche capaci di promuovere il reciproco
riconoscimento, le regolazioni fondate sul vantaggio di ognuno, le negoziazioni
indispensabili. Così è già. Nelle scuole come nelle città. Dal punto di vista delle
politiche scolastiche, «la via italiana» a queste «azioni pubbliche» viene codificata
sulla base di norme internazionali, europee e nazionali. Si chiama «educazione
interculturale». La prima circolare del Ministero è del settembre 1989. Da allora
il sistema pubblico italiano chiama le scuole a praticare, nell’insegnare, una quotidiana negoziazione fra punti di vista, assunti, valori, credenze, apparati simbolici
e linguaggi culturalmente diversificati. E a considerare l’intercultura non come
una materia da imparare a scuola ma come un orientamento trasversale generale
che dovrebbe fare da sfondo all’organizzazione stessa delle scuole e presiedere a
tutto quel che vi accade.
Finalmente uguali perché diversi
L’intercultura annunciata è «tanto, tanto bella». Ma spesso gli annunciatori delle
politiche scolastiche rischiano di arenarsi nelle sacche della «volontà dichiarata».
Per fortuna, però, c’è la quotidianità della scuola. Che pone le cose nella loro concretezza. E mostra promesse e fatiche, rischi e soluzioni inaspettate.
La scuola, primo luogo del confronto con la diversità
Questo avviene perché la scuola è il primo contesto spazio-temporale – nella vita
concreta delle persone e nel tempo della loro formazione – nel quale vi è il continuo
Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
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Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
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confronto con la diversità tra persone. E dove si riscopre ogni volta, semplicemente,
che il relazionarsi con l’altro da sé nasce dall’incontro con «colui o colei che non
sono io». Così, l’intercultura, nella vita quotidiana a scuola, perde le retoriche che
inevitabilmente l’accompagnano. E ridiventa la condizione umana che si fonda
sull’incontro con l’altro, semplicemente.
Da questo punto di vista, la presenza di tanti bimbi e ragazzi stranieri è un’occasione
straordinaria di amplificazione del tema centrale della crescita umana, che è quello
di imparare a misurarsi con l’altro, in generale. Tale misurarsi con l’altro – in un
contesto di costante, necessaria reciprocità e di operatività – mostra che il rapporto tra eguaglianza e differenza nella formazione delle persone è complicato e che
non basta dire «uguali». Anzi: è spesso sbagliato. Va detto piuttosto: «diversi». È
dalla diversità che è possibile negoziare i termini di un’effettiva eguaglianza e non
il contrario. Del resto da tempo tutto il welfare – scuola compresa - è chiamato a
misurarsi con la fine dell’offerta uguale per tutti, con il tramonto del paradigma
basato sull’idea di bisogni uniformi secondo standard dati a monte dell’incontro
con la vita...
Verso la fine dell’offerta standardizzata
Così Gianni esprime bisogni diversi da Ismael e da Serghyei e viceversa. Ma accade
anche che il fatto stesso che Ismael e Serghyei siano stranieri e che condividano
la scuola con Gianni, evidenzi che Gianni ha bisogni diversi anche da Franco o
da Pasqualina, che sono italiani; e poi che, a guardare bene, Gianni condivide
bisogni sia con Ismael sia con Pasqualina mentre Serghyei e Ismael hanno solo
alcuni comuni bisogni, ecc. Così, nella scuola quotidiana, le categorie «italiano» e
«straniero» appaiono come categorie ideologiche, proprie di una politica povera,
se non peggio. Invece, i nomi e le vicende riprendono senso. E lasciano spazio
all’artigianato della costruzione educativa.
Perciò, il tema del riconoscimento reciproco viene esaltato dalla presenza di tanti
bambini e ragazzi non italiani, spinge verso un’offerta plurale, differenziata, ricca,
porta verso la fine dell’uniformità di istruzione e formazione. Finalmente, insomma,
può mostrarsi meglio che in passato che tutti i ragazzini hanno uguali diritti e molti
bisogni comuni ma che ciascun ragazzino ha esigenze, bisogni specifici, individuali
– di cui la scuola già tiene conto.
Il nuovo cantiere è già aperto
Così, la scuola standardizzata, fondata sull’offerta uguale per tutti, è già morta.
Il nuovo cantiere non deve essere allestito o inventato; è già aperto. Infatti, ormai tutte le scuole si muovono per trovare tempi e spazi flessibili per accogliere
le differenti esigenze, le domande che si esprimono, nonostante i tagli al budget e
i lacci burocratici. E sul fronte interculturale migliaia di scuole stanno da anni
al lavoro.
Il cantiere va oltre le mura scolastiche, investe le città e va oltre i bambini. I bambini
di Modena e Treviso scrivono libri di testo interculturali, cinquant’anni dopo i
Quaderni di San Gersolé. Al contempo, il film l’Orchestra di Piazza Vittorio racconta
della musica in un quartiere della nostra capitale, appresa e prodotta, riconoscendo molte musiche. Lo guardano in giro per l’Italia migliaia di ragazzini italiani e
stranieri. Da molti lustri le fiabe da tutto il mondo vengono portate nelle classi
da cantori e narratori di molti Paesi. E così le danze. Migliaia di centri volontari
e doposcuola insegnano l’italiano a bambini e ragazzi, integrandosi con il lavoro
dei docenti a scuola. In decine di scuole i genitori italiani e stranieri si incontrano,
imparano insieme l’italiano tra adulti a Milano e a Roma, parlano dei temi comuni
dell’educare a Torino e a Napoli e si dicono speranze, timori, volontà. In altre parti
si ritrovano intorno al cibo, che è occasione di convivialità che porta a raccontare le
cose antiche e quelle di oggi, le lontananze, le scoperte. A Padova da anni le maestre
governano le aule dell’accoglienza con la fantasia.
Tante altre scuole fanno cose simili e hanno accumulato un sapere immenso. Raccolgono, con avvertita mediazione culturale, le storie dei viaggi e degli arrivi. Sanno
come tessere le maniere dell’incontro: l’iscrizione e il primo ingresso in classe oggi
non sono più un trauma; spesso, invece, sono la vera porta d’ingresso all’Italia
non solo per i bambini ma per i genitori. L’italiano come seconda lingua conosce
tecniche e pratiche diffusissime. Molte scuole adottano libri bilingui e plurilingui,
giocano con i diversi alfabeti, creano decine di biblioteche multiculturali di classe
e di scuola, si confrontano sulle buone esperienze, scoprono analogie nei successi
e nelle difficoltà, riprendono insieme la marcia. E ben oltre i cori razzisti negli stadi tanti ragazzi italiani e stranieri giocano insieme a calcio e a basket, imparano il
rugby e il cricket, corrono sulle piste, fanno corsi di danza, creano teatro insieme.
E si innamorano e vanno nelle case degli «altri».
Un’idea di equità più ricca
Così sta normalmente avvenendo che il diritto uguale trova spazio innanzitutto nella varietà della vita. E questo spazio mostra la necessità di interventi della
scuola a sostegno delle diverse sofferenze e difficoltà ma anche di aspettative alte,
inclinazioni forti, eccellenze. Dunque si va già declinando un’offerta di equità che
riconosce che si danno cose diverse a persone diverse.
È un’offerta che inventa vie riparative e compensative a chi parte con meno o a chi
rimane indietro. Che scopre opportunità per ciascuno di coltivare le proprie parti
forti o talentuose. Che trova occasione per tutti e ciascuno di scoprire le proprie
parti inesplorate. Si tratta già di un paesaggio pedagogico ricco; che è complicato
eppure promettente. Nel quale siamo già completamente immersi. E che esige una
rivoluzione copernicana nell’idea di scuola, un mutamento radicale di paradigma
e di prospettiva: didattica, organizzativa, metodologica.
Di questa rivoluzione sì che si ha bisogno. Perché la scuola reale sta già rispondendo
al grande appello planetario e locale del far conciliare uguaglianza e differenza.
Nonostante le gabbie del passato che ancora attanagliano la scuola: l’orario cattedra
rigido per i docenti, l’assoluta corrispondenza tra aula e classe, il contratto di lavoro,
la pretesa che sia esclusivamente l’apprendimento offerto dalla scuola l’oggetto
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del riconoscere e valutare le competenze di bambini e ragazzi, lo stato del loro
imparare, i limiti posti all’uscire dalle mura scolastiche, ecc.
C’è insomma una scena nuova e ricca, con tanta esperienza viva messa in campo
ma che è mortificata perché è ancora costretta dai paradigmi della scuola ottocentesca che stanno lì solo a difesa di brutti corporativismi e false certezze. Ma tant’è.
E poiché, per fortuna, quel che conta è la vita, possiamo tutti provare ad andare
avanti.
La lingua italiana ritorna grande protagonista
In questo nostro andare avanti c’è una prima domanda, basilare. Qual è la lingua
con la quale si fa scuola? Questa domanda va riproposta come base per capire
che tipo di scuola ci vuole per la nuova scena variopinta nella quale proponiamo
educazione, istruzione, formazione. La risposta propone a tutti una grande protagonista: la lingua italiana. Che viene da lontano e sta di nuovo qui a servire la causa
dell’apprendimento per ciascuno.
Una lingua che non ha mai escluso le identità locali
Infatti va riconosciuto che il tema della non omogeneità culturale e linguistica non
è un tema nuovo per il nostro Paese. Fa parte della nostra storia. L’Italia – nazione
unica da soli 150 anni – è sempre stata, più che altrove in Europa, una patria al
suo interno «disomogenea» perché segnata da un forte senso di appartenenza
locale, cullato sotto «i mille campanili» e nutrito dai cento dialetti. Tuttavia, e al
contempo, questa nostra patria fatta di diverse appartenenze e diversi idiomi ha
avuto nella lingua comune la condizione imprescindibile della convivenza e del
riconoscimento reciproco.
L’italiano ha giustificato il processo che ha portato all’unità nazionale ed è stato ed
è alla base della stessa possibilità del pensare e dell’agire comuni. «In italiano» si è
svolta tutta la recente storia e sono state scritte le sue narrazioni. «In italiano» sono
scritte le leggi e si svolge la vicenda del diritto. «In italiano» ha luogo la vicenda
politica, la scena letteraria e quella scientifica ed artistica, le relazioni di lavoro e
quelle tra le classi sociali, la liturgia religiosa dopo la dismissione del latino, l’accesso progressivo di tutti i bambini e i ragazzi alla scuola. «In italiano» avviene
l’integrazione oggi.
La nostra lingua nazionale ha avuto un peso diversificato secondo la classe sociale,
la tenuta dei dialetti nei diversi luoghi, la diversa forza della loro letteratura e codificazione, la presenza della scuola e della carta scritta, della radio e della televisione,
ecc. Tuttavia, pur impoverite e modificate, le parlate locali hanno saputo e potuto
coesistere con l’italiano, come altrettanti ulteriori fattori identitari. Tanto è vero
che oggi l’idioma locale resiste e rivendica i suoi spazi.
Dunque, abbiamo già la grande esperienza di una lingua nazionale che non nega
e non annulla le diverse identità ma le affianca, consentendo una comunicazione
più larga e uno spazio comune.
Perciò l’italiano consente di affrontare la sfida di tenere assieme uguaglianza e
differenze nell’educare – e non solo nell’istruire – i bambini e i ragazzi che vivono
nel nostro Paese e vanno a scuola.
Perché ciò avvenga, la scuola deve saper riconoscere che la scena è occupata da
molti diversi modi di «dare parole al mondo» – al mondo nel quale si vive e a quello interno di ognuno. Infatti oggi siamo davanti a un intreccio culturale e anche
linguistico complicatissimo. Sia i ragazzini italiani sia quelli stranieri usano, tutti,
la lingua degli sms e quelli del web insieme con l’italiano della scuola e con quello
delle tv. Si tratta di un intreccio che monta e smonta continuamente gradi diversi di
commistione locale e gruppale con un italiano a sua volta mutante perché nutrito da
cento inflessioni continuamente modificate secondo territori e comunità e gruppi
di adulti, di giovani adulti, di ragazzi.
Così, le parlate reali dei bambini e dei ragazzi si incontrano con una molteplicità di
varianti che si formano e si piegano secondo «identità di riconoscimento», legate a
vestiario, a età, a cose che si fanno o verso le quali si hanno affezioni (sport, giochi
reali e virtuali, musiche, squadre del cuore, vestiari, segni sul corpo, abitudini in
città, prodotti offerti sul mercato, eventi della scena mondiale, ecc.) e ai modelli
«dei più grandi», presi dai media e dalla vita.
E – ancora – tutto ciò si mescola in un linguaggio planetario che vede quasi tutti
i ragazzini che si avvicinano o parlottano l’inglese globalizzato o i suoi frammenti
che arrivano dai media, dalla rete. E al contempo, tutti – italiani e stranieri – non
smettono di frequentare i dialetti variegati di questo Paese che non sono, però,
quelli dei nonni ma sono spesso traslati nel gergo e nello slang dei singoli posti e
delle sotto-comunità giovanili e non.
I ragazzini italiani spesso conoscono meglio il dialetto o le parlate che vengono dalle
generazioni precedenti e spesso sanno meglio l’italiano della Tv. Ma questo non
vale in generale: è molto più vero se il confronto è con i coetanei stranieri di prima
generazione ma lo è assai meno se è con quelli di seconda. I ragazzini stranieri, a
loro volta, spesso conoscono meglio l’inglese e parlano spezzoni di molte lingue
che hanno «attraversato» prima di arrivare qui; e conoscono la loro madre lingua
originaria e spesso anche la lingua veicolare di Paesi con molte lingue. Ma dopo una
generazione questo è già meno evidente. E pesa per ognuno l’età in cui si è arrivati
o si è appresa la lingua nella quale si è arrivati. I più piccoli si perdono meno nella
traduzione di quanto non facciano i più grandi.
L’italiano imparato presto e bene
Mentre accade tutto questo, assistiamo a un preoccupante declino dell’italiano a
scuola. Che investe ragazzi italiani e stranieri. Le parole non si usano bene e se ne
utilizzano sempre di meno. Si legge e si ascolta spesso senza capire: i test Invalsi ce
lo mostrano con chiarezza e ce lo conferma una montagna di evidenza empirica di
migliaia di docenti. Si scrive per frasi fatte, spesso tratte da stereotipi della tv. Non
si conoscono le basi della sintassi. Tanto che le frasi scritte vengono tenute su – si
fa per dire! – da parole tuttofare. Così la parola «che» è ormai polivalente: la si
trova, indifferentemente, al posto di «a cui», «di cui», «in cui» ma anche al posto
di «dove» e di «quando».
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È una questione decisiva. Perché si perde la lingua e si perde la logica, il saper
ragionare. Il congiuntivo si è eclissato e muore con esso la capacità di costruire
ipotesi. È sparito l’uso dei connettivi fondamentali della nostra lingua: «infatti»,
«mentre», «tuttavia», «sebbene», ecc. E muore l’argomentazione. Non c’è, poi,
idea di punteggiatura. E sparisce l’ortografia: le doppie, gli accenti, l’uso della h.
O addirittura non si imparano i nostri pochi fonemi.
Dunque: il primo compito dell’intercultura è un ritorno forte, precoce, rigoroso all’insegnamento dell’italiano per tutti. Come condizione indispensabile per riparare i
danni che la dismissione del suo apprendimento sta recando a tutti i ragazzi, italiani
e stranieri, per creare e tenere su un autentico spazio di reciproco riconoscimento e
come strumento ineliminabile della costruzione delle possibilità nella vita. Perché
l’italiano è forte abbastanza da andare oltre le terre dei campanili e le lingue di chi
è venuto da fuori e anche oltre le contaminazioni locali e provvisorie e i tanti idiomi
misti o creoli, comunitari, giovanili, emergenti. Perché l’italiano è ancora oggi lo
strumento per l’emancipazione sociale, il fondamento per fare meglio rispetto ai
propri genitori, per potere accedere a un numero maggiore di occasioni nel corso
della vita intera.
L’italiano imparato presto e bene. Questo è il primo compito. Ed è oggi un compito
per italiani e stranieri. È la condizione per fare la nuova Italia. E bisognerà curare
tutti i passaggi perché ciò sia: attenzione a ciascuno che rimane indietro, che sia
Tonino nei Quartieri Spagnoli di Napoli o Samir a Quarto Oggiaro. Un test vero
in seconda, in quarta, in prima media. Non per giudicare ed escludere; ma per
monitorare e sostenere il veicolo primo di ogni futura conoscenza e cittadinanza,
per includere. Perché per farcela nella vita si deve sapere leggere, parlare, scrivere
bene e presto; ed è possibile per tutti. Un governo che sia tale, di qualsiasi colore
politico esso sia, deve sostenere questo sforzo, deve metterci i soldi.
Due spaesamenti per nutrire lo spirito
Ma è tempo di ambire a orizzonti più larghi: tutti i bambini che sono in Italia devono fare l’esperienza di grandi e precoci spaesamenti. Che nutrano la curiosità e lo
spirito. Sì, lo spirito. Che riguarda la capacità umana di fare bene le cose iniziate,
di farle da soli e, insieme, con gli altri, di ricercare altro ancora... La soddisfazione
viene da questo e da questo viene anche la socialità fattiva e il divertimento.
L’inglese per giocare le differenze su un piano nuovo
La dimensione dello spaesamento può iniziare, in primo luogo, dall’imparare presto
l’inglese. Parlandolo a scuola. Anche in modo imperfetto – così come lo si parla
nel mondo intero. Perché l’accento british non può più essere l’alibi per offrire un
inglese scritto e mai parlato a generazioni di italiani. E poi si migliorerà: la generazione dei ragazzi che hanno fatto l’«Erasmus» saranno i nuovi docenti. Dunque,
inglese parlato e mentre si studia. Usato almeno in due materie. Lingua veicolare
normale in certe ore a scuola. Come già è, da decenni, per la rete sperimentale delle
scuole europee e in alcuni nostri licei. In primo luogo nella materia che descrive il
mondo: la geografia. Che è la disciplina «di cerniera» per eccellenza, crocevia tra
scienza, studio del territorio, politica, storia, economia, diritto. Ed è quella che oggi
risponde a due domande decisive dal punto di vista dell’integrazione: «da dove
vieni?» e «dove andiamo tutti?».
In secondo luogo l’inglese o altra lingua straniera può essere veicolare per tutti
nella materia della creatività e del segno: l’arte. Un mondo così si apre; e chi ha
fatto arte con bambini e ragazzi lo sa. Così: almeno fino alla terza media. Ecco una
bella sfida. Su cui ripensare i patti fondativi della scuola.
L’inglese come lingua parlata e di studio, per tutti, sposterebbe l’asse culturale
dell’apprendimento verso il mondo, fornirebbe a tutti un bilinguismo funzionale.
E renderebbe comune l’esperienza della scoperta e della fatica di «dire il mondo
e di ascoltarlo in altro modo», togliendo il monopolio di questa fatica e di questa
opportunità ai bambini che vengono da fuori e donandola a tutti. Azzerare le
differenze è insensato e sbagliato; giocarle su un piano nuovo è, invece, saggio e
possibile.
La musica e la danza per riavvicinare il corpo con la mente
E poi ci vuole un altro linguaggio che sia universale e riproponga il tema dello
spaesamento. Un linguaggio che ri-avvicini finalmente le mani e tutto il corpo con
la mente, coniugando la grammatica del fare con quella dell’essere e del sapere,
in modo diretto, immediato e tale da verificare in tempo reale se si è fatto bene,
cosa si deve cambiare per far meglio, cosa c’è da lasciare indietro. La musica e la
danza sono questo. Entrambe devono essere parte del curriculum obbligatorio.
Psicomotricità e canto e ritmo da piccoli, poi musica strumentale e danza. Per
tutti. In ogni scuola.
È tempo di fare proposte ambiziose
Dunque, per uscire dallo stallo difensivistico e riduttivistico in cui si sta sterilizzando il dibattito sulla scuola e per porre il tema dello «straniero» in modo
olistico e propositivo, è tempo di aprire la scena, di scegliere un orizzonte largo,
di fare proposte ambiziose. E di farle e farle vivere per quanto il governo non
lo voglia.
L’«arrivo degli stranieri» come utile traversia
Così l’arrivo dei bambini e dei ragazzi stranieri in Italia va preso come occasione di
liberazione generale. Non è, infatti, possibile che il cambio dello scenario antropologico e del potenziale di apprendimento dell’Italia venga percepito e raccontato
dai protagonisti del mondo culturale, dalla politica, da chi pretende di dare indirizzo alla scuola pubblica come un «problema» – inteso come minaccia, sfortuna,
disdetta. Quando non lo è. Semplicemente. Perché, semmai, un’utile traversìa, una
grande sfida e, dunque, una grande opportunità. L’«arrivo degli stranieri» è già
leva di mutazione vera, di possibilità, finalmente, di uscire da una scuola vecchia,
logora, noiosa. E di riscoprire i paradigmi sapienti dell’apprendere umano, che
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sono da sempre quelli che uniscono lingue molteplici, suoni, gesto per segnare,
moto del corpo, viaggio, rigore nell’imparare fianco a fianco.
In tale senso l’appello a riconoscersi l’un l’altro non può essere inteso solo o tanto
come una doverosa petizione di principio o un invito da parte di ogni docente
di buoni sentimenti che «vuole fare intercultura»: «Riconosci il tuo compagno
Nadim!».
Il tema del riconoscimento va usato, invece, per ogni persona in crescita, innanzitutto per conoscere se stesso e le proprie grandi potenzialità nel mentre si guarda,
si scopre, si studia il mondo con gli altri.
Far ridiventare la scuola luogo di conoscenza
È per questo che la scuola o ridiventa un luogo di scoperta, di sfida, che ti richiede,
insieme, fatica e creatività o non potrà favorire riconoscimento con l’altro da te.
È tempo di ricominciare a chiedere ai nostri bambini e ragazzi. Di pretendere da
loro il piacere faticoso di conoscere. Perché se e quando impari a danzare, se suoni
con gli altri in modi via via migliori e vedi che sta accadendo davvero, se impari
insieme un’idioma difficile da maneggiare sia per te che per Nadim, allora Nadim
riconoscerà te e tu riconoscerai Nadim.
So che vi sono i vincoli che impediscono un sensato sorgere di questa prospettiva
e che i tagli del governo colpiscono innanzitutto la possibilità, per le scuole, di
esercitare effettivamente l’autonomia e di fare le cose... Ma bisogna provare a farle
lo stesso. Perché noi tutti già siamo su questa scena. La resistenza a chi vuole male
alla scuola pubblica non può essere solo protestataria. L’indignazione ci vuole. Ma
non basta. Bisogna mostrare, con atti concreti, che un’altra scuola è possibile.
La scuola come laboratorio della complessità
Questa prospettiva pone al centro il laboratorio, come palestra della complessità.
Da dove partire per «aprire le vie» del laboratorio? Penso si debba partire dallo
spazio. Lo spazio-aula e chi lo occupa e come; e lo spazio-mondo.
Rompere la coincidenza tra classe e aula
Lo spazio-aula può diventare laboratorium solo a condizione che si rompa la coincidenza tra classe e aula. Tranne che per le primissime classi di scuola primaria, la
classe va superata. Le materie – l’oggetto di studio – devono coincidere con l’aula
e non più la classe. Si deve andare verso l’aula tematica, luogo dell’apprendimento
situato, dove vi è manifesta congruenza, reale e simbolica, tra l’oggetto dello studio e
gli strumenti e gli ausili visibili in quel posto: libri, video, oggetti costruiti, immagini
poste sui muri, lavori dei ragazzi. Sono i ragazzi che devono girare per la scuola in
cerca del loro corso, che corrisponda a saperi e competenze ben enucleati per livelli.
Il che permette anche di recuperare, tornare indietro, consolidare. O anticipare.
La standardizzazione della scuola – il tutto a tutti allo stesso tempo – è smontabile
se si rinuncia all’idea di classe-aula che oggi serve solo a un’obsoleta organizzazione
degli adulti. Ci vuole uno spostamento della relazione di apprendimento non solo
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fuori dalle nostre singolari aule-classi e verso la biblioteca, il laboratorio scientifico,
la sala musica, l’aula di antropologia o di italiano o di inglese-geografia o il teatro.
Bisogna andare fuori dalle mura scolastiche, negli stage, nei campi scuola, in giro
per i luoghi della città, nel mezzo della natura. E, progressivamente con l’avanzare
dell’età, la scuola deve farsi agenzia di «andata per il mondo». Le scuole possono
solo così ri-diventare luoghi di elaborazione ulteriore, sistemazione, ripresa e approfondimento di temi, saperi, competenze che si iniziano a toccare e a scoprire
e a capire fuori.
Questo significa un mutamento drastico anche nel nostro modo di capire «chi» è
agente di apprendimento. Dobbiamo imparare a includere molte persone entro
questo «chi», persone con cui chi insegna per mestiere deve sapersi unire, alleare – entro una relazione di reciproco apprendimento: artisti, allenatori sportivi,
artigiani, anziani raccontatori di vite, cuochi, allevatori, coltivatori, lavoratori di
cento e cento ambiti del fare, pensatori, scienziati, ricercatori, viaggiatori. Italiani e
stranieri. Oggi questo «chi» può e deve includere persone di altre nazioni, culture,
lingue, esperienze.
Molte scuole già vanno fuori e lo spostarsi si mostra rito iniziatico per il gruppo
dei pari, prova di fuoriuscita dalla famiglia e occasione di scoperta vera. E tante
scuole scoprono che questo è tanto più vero quanto più i ragazzi hanno un bagaglio
solido con cui andare fuori. Per italiani e stranieri una scuola primaria strutturante,
rigorosa nella cura degli alfabeti, capace di fornire buone procedure, attenzione
al contenuto ma anche alla cura della forma, promette maggiore possibilità di
esplorare il mondo poi.
Avvicinarsi ai compiti dell’umanità
Nello spazio così allargato, c’è un corpus di sapere che oggi serve più di altri perché
i ragazzi si collochino nelle vicende del nostro tempo, che serve anche per imparare
fuori e che, al contempo, può riuscire a mettere insieme le diverse discipline, integrandole, esplorando le aree di confine tra di esse. Che oggi sono le più promettenti
per indagare la complessità. Si tratta dei documenti della comunità internazionale:
sui diritti umani e su quelli dei bambini, sull’ambiente o sul commercio o sulla
ricerca.
Questi documenti sono testi molto ricchi di dati e di metodo e aprono a nuovi filoni
di indagine perché sono la codificazione – internazionalmente condivisa attraverso
un faticoso lavoro di autentica mediazione tra culture, lingue, politiche, ideologie,
ecc. – dello stato delle cose che, come essere umani, abbiamo davanti e dei compiti
dell’umanità. E perché sono, insieme, lezioni di storia e di geografia, di filosofia e di
diritto, di matematica e statistica, di economia e antropologia, di fisica e di scienze
naturali e applicate, di tecnologie, ecc. Perché si riferiscono al senso odierno delle
cose e perché invitano, in modo fattuale e mai ideologico, alla ricerca realistica di
soluzioni e dunque alla passione politica – nel senso proprio, di legame partecipato
con la polis. Che oggi è planetaria.
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Flavia Virgilio
Se gli studenti
non stanno
alle regole
La gestione
di una classe
pluriculturale
In molte aule vi sono
ragazzi che «non
stanno alle regole».
Sono adolescenti che
portano in classe
disagi familiari e
sociali (legati, nel caso
degli stranieri, anche
alla difficile
integrazione) e che
allarmano insegnanti,
presidi, famiglie.
Come gestire classi
che si trovano oggi ad
accogliere storie e
bisogni molto diversi?
Se il ricorso alle
sanzioni finisce per
allontanare dalla
scuola proprio i ragazzi
più in difficoltà,
l’animazione del
gruppo-classe
permette di
promuovere il
confronto tra «diversi»,
in una prospettiva di
riconoscimento
reciproco e ricerca di
comunanze.
L’insegnante e l’alunno si confrontano con un singolare
conflitto di desideri che, per quanto possa essere ridotto o
celato, di fatto persiste finché esiste la relazione educativa...
L’insegnante rappresenta l’ordine sociale stabilito nella
scuola e il suo interesse è di conservare tale ordine, mentre
gli allievi hanno solo un interesse negativo per quella
sovrastruttura. Insegnanti e allievi si confrontano rispetto alle
attitudini, conservando sempre una ostilità di fondo.
(W. W. Walzer, Sociology of Teaching, John and Wiley and Sons,
New York 1932)
Il primo giorno di scuola in prima media è sempre
carico di aspettativa e di preoccupazione per i ragazzi,
ma soprattutto per gli insegnanti. Si tratta di conoscere
nuovi ragazzi, fare in modo che si conoscano tra loro,
introdurli alle regole e alle consuetudini della nuova
scuola dove sono arrivati, organizzare l’orario e il lavoro. Insomma, organizzare l’accoglienza.
Primo giorno di scuola
Arrivo per prima in classe, è la prima ora del primo
giorno di scuola. Guardo l’elenco e mi vengono alla
mente tutte le «buone regole» per la fase di conoscenza e per la costruzione del gruppo-classe.
Il gruppo è composto di 20 allievi, otto femmine e 12
maschi, molti cognomi sono (o sembrano) stranieri,
alcuni mi paiono sinceramente impronunciabili. Tre
allievi provengono da altri istituti, dove hanno frequentato senza successo la prima classe.
Bisognerà mettere subito le cose in chiaro, in modo
che tutti capiscano che stiamo giocando il gioco serio della scuola e che qui non si
sgarra. Non c’è tempo da perdere e siamo una scuola come si deve, in cui il rispetto
delle regole ha un valore centrale. Bisognerà cioè introdurre i nuovi allievi al nostro
«ordine sociale».
Anche a scuola, infatti, come in altre occasioni, l’impegno delle persone – siano esse
insegnanti, allievi, genitori, dirigente o personale amministrativo – nella relazione
sociale è determinato da una serie di rapporti reciproci regolati che costituiscono le
routine sociali di un determinato luogo. Tali routine fissano non solo i modi di agire
e i relativi modelli di adattamento, ma anche le violazioni e le trasgressioni (1).
Faccio l’appello lentamente, cerco di costruire una mappa mentale della classe
collegando la topografia dei banchi con i nomi, ancora sconosciuti. Mi sorprende
il fatto che a nomi apparentemente italiani corrispondano volti inaspettatamente
stranieri, mentre a nomi inequivocabilmente stranieri corrispondano accenti decisamente italiani, e del nord-est.
Il programma di accoglienza prevede come prima attività la consegna del libretto
personale, spiegazioni e regole d’uso dello stesso, lettura commentata del Regolamento scolastico e del Patto di corresponsabilità. Si tratta di chiarire bene i confini
dei comportamenti consentiti, le relative sanzioni, le modalità di riparazione.
Concludiamo con i compiti per casa. A ogni allievo assegno il compito di preparare
la propria carta d’identità da presentare ai compagni nella lezione successiva.
Assimilare alle regole dell’istituzione?
Se l’uomo vuole essere soggetto, attore cosciente della sua storia, deve analizzare le
istituzioni dalle quali dipende, per analizzare le istituzioni che lo attraversano e trovare
nell’azione di gruppo una via d’uscita all’atomizzazione burocratica della quale è vittima.
(G. Lapassade, Baccano. Microsociologia della scuola, Pensa Multimedia, Lecce 1996)
Ritrovo il gruppo dopo due giorni durante i quali alle normali lezioni si sono alternate attività di accoglienza. Riprendiamo il nostro percorso dalla presentazione
delle carte d’identità.
La conoscenza reciproca è uno dei punti cardine di ogni progetto di accoglienza.
Entrare in un’organizzazione significa, infatti, iniziare un processo di socializzazione che come tale ha sue fasi e suoi tempi. E spesso i tempi delle organizzazioni
non coincidono con quelli dei soggetti in fase di accoglienza. «Le organizzazioni
hanno fretta, e i soggetti sono prudenti: entrambi vogliono tutelare la propria
soggettività» (2).
Le carte di identità degli allievi, allora, sono l’esatto corrispettivo dell’identità
istituzionale, così come definita attraverso la lettura del Regolamento scolastico e
del Patto di corresponsabilità.
Dal punto di vista del soggetto si tratta di comprendere il contesto di un’organizzazione e farsi conoscere dalla stessa per quel tanto che basta a guadagnarsi la
1 | Cfr. Goffman E., Relazioni in pubblico, Raffaello Cortina, Milano 2008.
2 | Marcato P., Giolito A., Musumeci L., Benvenuto, la meridiana, Molfetta 1997, p. 24.
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sopravvivenza nell’organizzazione stessa; dal punto di vista dell’istituzione si tratta
di socializzare al più presto i nuovi arrivati in un sistema di norme e valori in modo
da assicurare all’istituzione di continuare a funzionare e a esistere comunque.
In un certo senso, per l’istituzione è indifferente chi siano gli allievi: gli allievi
cambiano, ma i ruoli istituzionali sono sempre i medesimi: l’insegnante insegna,
gli alunni imparano.
Le attività di accoglienza contengono, insite nella loro genesi progettuale, proprio
queste aspettative non dette che producono il rischio di trasformare l’accoglienza
in un’assimilazione del soggetto alle regole dell’organizzazione.
È ovvio che questo sbilancio porta con sé il rischio di una cattiva sintonia tra il
soggetto e l’organizzazione; mentre l’obiettivo dell’accoglienza è quello di arrivare
a stabilire una sorta di vero e proprio patto, un contratto tra soggetto e organizzazione, che passi attraverso le fasi di esplicitazione e di equilibratura dei piani delle
aspettative di entrambe le parti. (3)
Il rischio, ma anche l’opportunità, insiti nelle attività di accoglienza è allora proprio
quello di sovvertire, per qualche momento, questa tendenza del lavoro scolastico
alla normalizzazione delle relazioni in funzione del raggiungimento di una forma
normale del fare scuola che sembra essere quella «insegnante-studente», «contenuti
curricolari-studente» e non tanto, ad esempio, quella «studente-studenti». La socializzazione tra studenti non è infatti prevista dal copione e quindi non è considerata.
Il copione prevede unicamente la socializzazione alle regole dell’istituzione.
Il dato plurale del lavoro di gruppo e più in generale dell’incremento della socialità
tra studenti è raramente utilizzato dagli operatori pedagogici: su di esso sembra
pesare un senso comune svalutativo che lo vuole confinato a elemento di disturbo
e di disagio per il buon andamento del lavoro in classe. (4)
Se alcuni studenti non stanno alle regole
Il rapporto tra apparenze normali e apparenze corrette deve essere precisato.
In molte situazioni ci sono agenti di controllo sociale, come direttori di negozi, maestri
di scuola e simili, il cui compito è in parte proteggere l’ambiente e chi lo utilizza, in parte
salvaguardare le proprietà, almeno alcune proprietà.
Per costoro gli indizi che si sta attuando qualcosa di scorretto diventano segni che è
necessaria un’attenzione particolare. La polizia, per esempio, deve stare all’erta per
identificare guidatori incapaci, senza patente o ubriachi, e ha un’attenzione particolare per chi,
stando alle apparenze, «non è a posto»: la polizia, infatti, ritiene che le persone di questo tipo
debbano essere controllate, se si vogliono prevenire furti e altri guai.
(E. Goffman, Relazioni in pubblico, Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 203)
L’insegnante sicuramente vede molto più lontano degli studenti, ma a volte non
riesce a vedere le cose più vicine e immediate, perde l’hic et nunc della situazione.
Per l’insegnante la scena è sempre la stessa. Cambiano i personaggi, ma i ruoli sono
gli stessi: l’insegnante insegna, gli alunni imparano. In questa prospettiva i luoghi
3 | Ivi, p. 25.
4 | Ivi.
sono assolutamente neutri rispetto al processo di apprendimento; è indifferente
l’ambiente, non contano le posizioni, specialmente quelle topografiche, si tratta
semplicemente di seguire un copione. Solo quando i fatti mettono in discussione
il copione istituzionale le posizioni cominciano a contare.
Nella mia classe i fatti non tardano ad arrivare. Bastano poche settimane di scuola,
meno di un mese, per capire che alcuni studenti proprio non riescono a stare al
proprio posto, violando continuamente i confini, non solo spazio-temporali, della
lezione intesa come situazione sociale. C’è chi si alza, chi chiacchiera, chi dorme
sul banco, chi deride l’insegnante e chi provoca continuamente i compagni.
Nella mia classe i ragazzi stranieri sono quelli che fanno più fatica a lasciarsi «normalizzare». In un certo senso questo non mi sorprende, perché la classe è un classico
esempio di un ordine di interazione specifico e autonomo in cui è possibile verificare
a livello di microprocessi la dinamica di macrovariabili sociali. In altre parole i
processi di stigmatizzazione verso lo straniero, il vederlo come causa del disordine,
ecc. – stereotipi fortemente presenti a livello sociale – agiscono nel sistema classe,
dando vita a identità costruite per rispecchiamento a questi stereotipi.
Il funzionamento dell’ordine dell’interazione può essere facilmente visto come
la conseguenza di un sistema di convenzioni abilitanti nel senso in cui lo sono le
regole base di un gioco, gli articoli di un codice della strada o le regole di sintassi
di una lingua.(5)
Come gestire il disordine in classe?
Mi trovo a dover decidere come gestire l’interazione in classe. Se stigmatizzando
i comportamenti degli studenti che violano le regole oppure cercando un’altra
strada.
Stigmatizzare?
Nel caso decidessi di stigmatizzare il comportamento di un alunno dal punto di
vista disciplinare, so benissimo che farei un’operazione di normalizzazione sociale. I
ripetuti provvedimenti lo trasformerebbero in un «caso», giustificando in tal modo
il ricorso all’unica soluzione possibile per il problema: l’esclusione dal gruppoclasse. Mi atterrei insomma alla convinzione, citata da Goffman, secondo cui «le
regole di un ordine sono necessariamente tali da impedire le attività che potrebbero
distruggere i rapporti reciproci e rendere impossibile una loro prosecuzione» (6).
Tuttavia è lo stesso Goffman a mettere in dubbio questa supposta inevitabilità.
«Molte delle regole che di fatto funzionano – dice – procurano in realtà più inconvenienti che vantaggi». E probabilmente – aggiunge – «i rapporti reciproci,
associati a un certo insieme di regole fondamentali, potrebbero funzionare con un
numero minore di regole o addirittura con regole del tutto diverse». Per esempio, è
tutto da dimostrare che si impari di più stando seduti in silenzio ad ascoltare l’inse5 | Goffman E., L’ordine dell’interazione, Armando, Roma 1998, pp. 52-53.
6 | Ivi, p. 3.
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gnante piuttosto che parlando con il vicino di banco. Ed è tutto da dimostrare che
un’aula sia il posto ideale per imparare o, ancora, che mantenere stabile un gruppo
di apprendimento assicuri migliori risultati nell’apprendimento stesso.
Inoltre è ancora Goffman a ricordare come «accade spesso che un certo ordine
favorisca alcuni a scapito di altri». La normalizzazione va necessariamente, e ovviamente, a vantaggio di chi è normale, ma nel contempo mette in luce tutti i limiti
che derivano dall’ordine da cui siamo dipendenti. E allora?
O cercare un’altra strada?
Quando sono proprio gli studenti a far saltare le certezze, e gli equilibri consolidati
dell’interazione in classe, la pedagogia istituzionale entra in crisi. Entrano cioè in
crisi le relazioni tra le finalità del rapporto educativo e il contesto educativo in
cui tale rapporto si realizza, con tutte le implicazioni di carattere organizzativo e
istituzionale.
Certo, far saltare queste certezze significa mettere in discussione l’insegnante come
figura guida, che determina le forme della partecipazione all’interazione verbale
in classe – che cioè stabilisce l’allocazione dei turni a parlare, la loro durata, la
definizione dell’argomento oggetto di discussione, ma anche che giudica e valuta
il contributo offerto dall’alunno, sostiene o si astiene, loda o biasima, approva o
censura, riformula e definisce cosa è stato detto (7).
Infrangere le regole a scuola significa mettere in crisi l’«ordine sociale» che la
regola in quanto istituzione. E accogliendo la sollecitazione di Goffman, anziché
immediatamente intervenire per ripristinare l’ordine, possiamo leggere l’infrazione come un invito a rimettere potentemente in gioco una relazione educativa
troppo spesso percepita, e agita, come un gioco a ruoli fissi in cui ognuno conosce
e mantiene il proprio posto.
In questo senso anche le geometrie delle posizioni in classe diventano esemplificative delle diverse posizioni assunte dai soggetti nella dinamica relazionale della
classe. C’è chi sta sempre vicino alla cattedra: sott’occhio, o sotto tiro. C’è chi sta
sempre vicino allo stesso compagno, al sicuro da possibili contatti con soggetti non
del tutto raccomandabili. C’è chi sta sempre solo, in primo o ultimo banco, isolato
per contenere l’esuberanza altrimenti difficilmente gestibile. E c’è chi può essere
contenuto solo attraverso l’essere portato fuori, fisicamente escluso dall’attività
della classe non solo in senso didattico, ma soprattutto in senso sociale. Essere
fuori è il modo di mettere al sicuro: la classe, dal disturbo; l’insegnante, dal rischio
di non riuscire a gestire la situazione.
La scelta di rimandare alla classe il problema
Quando l’interazione in classe diventa ingestibile, la tentazione di trovare soluzioni
facili a problemi complessi è forte. C’è chi invoca l’allontanamento dalle lezioni,
chi la custodia cautelare in altre classi con altri insegnanti, chi le dinamiche di
7 | Fele G., Paoletti I., L’interazione in classe, il
Mulino, Bologna 2003.
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In generale, quando una regola di comportamento è infranta, due individui corrono
il rischio di divenire screditati: uno per un obbligo, perché avrebbe dovuto comportarsi secondo la regola; l’altro per un’aspettativa, perché avrebbe dovuto essere
trattato in un dato modo, a seguito della regola. Viene così minacciata una parte
della definizione di entrambi, attore e destinatario, e anche, a un grado minore, la
comunità che li contiene entrambi. (8)
Dobbiamo essere, quindi, molto disperate e temerarie quando con una collega
decidiamo di rimandare alla comunità-classe la riflessione su quanto sta avvenendo
e su quali possano essere gli interventi da mettere in campo.
Dalla presa di parola al fare insieme
Dimostraci – chiede Glaucone a Socrate – che è meglio essere giusti che ingiusti.
(Platone, Repubblica, II libro, 357B)
Un piccolo episodio ci incoraggia a tentare di mettere in gioco le risorse del gruppo, ma soprattutto ad approfondire i punti di vista degli studenti sulla situazione.
L’episodio è un’esercitazione in classe sulla cittadinanza dal titolo «Likert dal
vivo» (9).
Un’esercitazione rivela aspetti inediti dei ragazzi
La domanda chiave era «Chi tra di voi si sente italiano? Chi straniero? Perché?».
Una volta individuata la risposta gli studenti dovevano posizionarsi in file divise per italiani e stranieri, motivando la loro posizione. Il 90% degli studenti di
origine straniera si è collocato nella colonna degli italiani adducendo le seguenti
motivazioni:
• sono nato in Italia;
• sono andato a scuola sempre in Italia e parlo perfettamente l’italiano;
• abito in Italia;
• i miei genitori, anche se di origine straniera, sono cittadini italiani.
Alcuni degli studenti con genitori non italiani, posizionati nella colonna stranieri,
hanno detto di sentirsi italiani anche se sanno di essere considerati stranieri in
relazione al Paese di provenienza dei genitori.
8 | Goffman E., Relazioni in pubblico, cit., pp.
281-282.
9 | Esercitazione tratta da Marcato P., del Guasta
C., Pernacchia M., Gioco e dopogioco, la meridiana, Molfetta 1995, p. 171.
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gruppo, chi l’educatore professionale (un quasi-stregone dell’educazione) e chi
lo psicologo.
Fissare le posizioni consente, apparentemente, di mantenere più facilmente l’ordine, e con esso le regole che lo definiscono, in modo da assicurare che le cose si
svolgano normalmente. Lasciare che il disordine, per esempio nei banchi e nelle
posizioni reciproche, abbia il sopravvento significherebbe mettere a rischio di essere
screditati tutti gli individui coinvolti. Lo spiega bene Goffman:
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Ho lasciato annotati sulla lavagna i ragionamenti e i distinguo emersi dalla discussione. Nel frattempo la nostra discussione è continuata e dopo aver esaminato i casi
proposti dagli studenti sulla base delle loro esperienze – il cugino nato in Grecia da
padre rumeno e madre spagnola; l’amico nato in Italia con padre italiano e madre
ucraina; l’amica nata in Italia la cui madre rumena vive in Italia mentre il padre
rumeno è emigrato in America; l’amico nato in Romania la cui madre rumena vive
in Italia mentre il padre italiano vive in Romania – e aver discusso su cosa significa
essere italiani, rumeni o albanesi, abbiamo unanimemente deciso che la parola
fuorviante era straniero.
Tutti concordavano sul fatto che bisognasse togliere dal binomio ragazzo-straniero
l’aggettivo, specificando piuttosto «nato/a a...», oppure «di origine...», oppure
«con genitori...».
Se sono capaci di idee proprie, perché non dare loro la parola?
Sorprendentemente tutti i ragazzi, anche quelli ritenuti da noi meno propensi a
una «convivenza civile», si sono dimostrati informati e consapevoli delle condizioni di accesso alla cittadinanza formale in Italia. Ci siamo allora chieste: ma se
gli studenti, anche quelli ritenuti da noi peggiori, hanno idee così chiare su una
questione complicata come la cittadinanza, perché non dovrebbero averne sulla
situazione della classe? Perché non dare a loro la parola, e sentire dalla loro viva
voce come vanno le cose a scuola?
Le raccomandazioni ministeriali sull’insegnamento di «Cittadinanza e Costituzione» e l’introduzione nel curricolo di questo insegnamento (con la legge 169 del
30-10-2008) nonché la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio
d’Europa (del 18-12-2006,) relativa alle competenze chiave per l’apprendimento
permanente ci hanno offerto il necessario supporto per fondare il percorso dal
punto di vista istituzionale e curricolare. In particolare, circa le competenze sociali,
la Raccomandazione europea afferma che esse implicano anzitutto «competenze
personali, interpersonali e interculturali, che riguardano tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di partecipare in modo efficace e costruttivo
alla vita sociale e lavorativa, in particolare alla vita in società sempre più diversificate,
come anche di risolvere i conflitti, ove ciò sia necessario».
Su queste basi, ma soprattutto spinti dall’urgenza di una classe al limite dell’ingestibilità, abbiamo tentato di ipotizzare un percorso che tenesse conto della situazione
di partenza della classe, delle aspettative degli insegnanti, delle preferenze degli
studenti e del possibile valore aggiunto da produrre con uno sguardo, per così dire,
dalla parte delle radici, sulla situazione della classe.
Un percorso che offrisse agli studenti, attraverso una serie di attività in classe (10),
10 | Nelle attività sono state utilizzate le seguenti
tecniche di lavoro: «Io nel gruppo» (tratta da
Sunderland M., Disegnare le emozioni, Erickson,
Trento 1997, p. 122); «Un tesoro personale»,
«Lettera a un amico-futuro», «A proposito di
te», «Un invito speciale» (in Marcato P., Giolito
A., Musumeci L., op. cit., pp. 64, 86, 97), «Le
pagine gialle» e «Debriefing» (in Marcato P., del
Guasta C., Bernacchia M., op. cit., p. 21).
la possibilità di: autovalutare il clima relazionale della classe, far emergere i ruoli
che i ragazzi tendono ad adottare in essa, favorire la comunicazione positiva nel
gruppo, riflettere sulle qualità individuali migliorando l’autostima, sperimentare
la cooperazione e il fare insieme.
Quest’ultimo obiettivo (sperimentare la cooperazione e il fare insieme) lo si è
perseguito attraverso il laboratorio di rap-freestyle condotto dal DjTubet (www.
myspace.com/djtubet), a partire da uno dei desideri condivisi emersi nel percorso:
produrre insieme una canzone rap e un video-clip come elemento di identificazione
positiva del gruppo.
il laboratorio di rap-freestyle
condotto dal DjTubet
Al termine del laboratorio di rap-freestyle, ultima
tappa del percorso svolto in classe, abbiamo
intervistato il DjTubet sul senso di utilizzare il
rap in una classe eterogenea, pluriculturale, di
difficile gestione.
Come hai pensato di portare la tua esperienza di
Dj e di rapper nella scuola?
L’idea di usare il rap per svolgere un’attività laboratoriale a scuola è ancora poco sperimentata.
Ma è un’idea promettente perché la musica rappresenta il canale di comunicazione più fruibile
e immediato per i ragazzi.
Facendo leva sulla mia esperienza nel campo
dell’improvvisazione di rime (freestyle) ho pensato a un’attività laboratoriale rap che, tramite
l’utilizzo di questo linguaggio giovanile, potesse
sfociare in una produzione collettiva. L’obiettivo
è infatti produrre in gruppo un testo musicale
(una canzone rap composta da due strofe di 16
versi e un ritornello di quattro) che rielabori i
temi emersi nel corso del laboratorio. Per quanto riguarda l’improvvisazione di rime l’obiettivo
è che la classe aderisca al gioco di inventare
le rime, riuscendo a produrne alcune. Questi
due macro obiettivi rappresentano l’ossatura
del progetto.
La musica rap come leva creativa...
Sì, il laboratorio sfrutta la musica rap al fine di
stimolare e potenziare le capacità creative del
singolo ma soprattutto del gruppo. Far scoprire
la possibilità di giocare con i suoni, il corpo, la
voce. Scoprire e valorizzare le proprie attitudini.
Saper collaborare in modo costruttivo. Far comprendere le possibili potenzialità delle risorse
tecnologiche a scopo creativo e produttivo.
Cosa ti aspetti da un laboratorio rap-freestyle?
In genere mi aspetto che queste attività di laboratorio migliorino il clima della classe e ne favoriscano i processi di integrazione. Rendendo protagonisti i ragazzi si produce un coinvolgimento
attivo che accresce la loro motivazione e che è
in grado di influire sui comportamenti e sulla
volontà di migliorare le performance personali,
anche scolastiche. Dal punto di vista musicale
mi aspetto che i ragazzi intuiscano un metodo
che permetta loro di produrre e rappare in autonomia anche ulteriori produzioni proprie.
Le scuole generalmente si aspettano una lezione «diversa» che sappia coinvolgere l’intera
classe al fine di ottenere una canzone spendibile
in un esibizione scolastica; in altri casi invece la
produzione musicale è una sorta di «scusa» per
lavorare su altri ambiti come il bullismo, l’integrazione o l’educazione alla multicultura.
Quali sono i punti di forza di un intervento di questo tipo?
Quando entro in classe con la consolle vengo visto come un «rapper» e non come un vero e proprio insegnante. Gli studenti sentono che posso
essere più vicino al loro mondo. Questo tipo di
laboratorio crea una forte partecipazione già
dal primo incontro, dove i ragazzi intervengono
fornendo le parole/argomento per permettere al
rapper di condividere un discorso in rima.
Durante l’attività di scrittura del testo ogni ragazzo è un apporto artistico significativo e si ritrova
nella sua parte di canzone che è stata discussa, migliorata ed elaborata dall’intera classe.
Questo procedimento favorisce la tendenza al
dialogo e cerca di contrastare l’abitudine di risolvere le controversie che si verificano in tutti
i contesti di vita con una dicotomizzazione tra
un vincitore, che impone il proprio punto di vista, e un perdente, che accetta il punto di vista
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dell’altro. In tale modello si ha un sentimento di
soddisfazione del vincitore e la frustrazione del
vinto, che si traduce in desiderio di rivalsa.
Produrre insieme un testo è una pratica di democrazia?
Per me può esserlo. Per ottenere una canzone
partendo dagli elaborati e dalle idee grezze dei
ragazzi occorre la ricerca comune di una soluzione che soddisfi entrambe le parti, favorendo
un insegnamento alla democrazia.
Nel processo di creazione della canzone, utilizzando anche parti di testo nelle lingue di provenienza degli alunni, si riesce a creare un sentimento di integrazione basato sul gioco e sulla
curiosità che il confronto fra lingue e sonorità
diverse sa suscitare.
Dicevi che migliora il clima in classe. Come?
Questo tipo di attività favorisce un miglioramento
del clima della classe tramite strategie di insegnamento che sviluppano nei ragazzi il senso
di essere completamente coinvolti nel proprio
apprendimento. Inoltre dà la possibilità di sperimentare «spazi di libertà» nella classe sia dal
punto di vista fisico (con la scusa delle prove i
ragazzi possono essere autorizzati a salire sui
banchi, a formare piccoli gruppi di lavoro delocalizzati rispetto alla loro posizione durante l’anno)
sia dal punto di vista lessicale -espressivo (certe
espressioni gergali possono essere utilizzate oppure sublimate per mezzo di metafore).
L’intero processo del laboratorio favorisce
inoltre un buon sviluppo di capacità di ascolto
attivo per i frequenti e continui interventi tra
insegnante-allievo e viceversa, necessari per
portare a compimento la canzone.
Altri punti di forza?
Un altro punto di forza è che l’intero laboratorio
può girare attorno a una tematica o percorso
educativo, che intendiamo affrontare nell’argomento della canzone, permettendo momenti di
riflessione intrinseci nella procedura stessa del
processo creativo. Questo fa sì che il lavoro di
conduzione artistica può mescolarsi con il colloquio clinico, che ottenendo informazioni sul
gruppo classe può gettare le basi per un lavoro
di riflessione atto a ridurre l’eventuale problema
rilevato in classe.
In che modo portare le culture giovanili a scuola
può contribuire a migliorare le dinamiche in classi
multietniche e multiculturali?
Parlare di culture giovanili significa entrare subito in contatto con il mondo più vivo degli studenti con il loro processo di ricerca di identità
e di accettazione. È impossibile spiegare ad
esempio il significato della cultura «hip-hop»
senza parlare di migrazioni, di melting pot, di
afroamericanismo.
Analizzare una cultura giovanile ci offre spesso
notevoli spunti per parlare di emigrazione, di
rispetto e di multicultura. Tutte le mode musicali
e le controculture nascono da una espressività
di giovani che all’epoca erano ai margini della
società; in base al periodo storico e al luogo
di nascita della cultura giovanile in esame si
possono trovare dei gruppi etnici e di migranti
provenienti da diverse parti del globo che hanno
contribuito a crearla.
Una cultura giovanile nasce dunque dalla mescolanza creativa di più culture, di più convivialità ed è dunque un’ottima metafora dell’accettazione.
Generare un nuovo modo di stare in classe
La scuola, pur svolgendo un lavoro prezioso di socializzazione e di integrazione, anche oggi –
come ai tempi di Don Milani – perpetua da una generazione all’altra le differenze sociali.
(G. Dalla Zuanna, P. Farina, S. Strozza, I nuovi italiani, il Mulino, Bologna 2009, p. 7).
15 maggio, la scuola è quasi finita. Ormai i giochi sono fatti, abbiamo concluso gli
ultimi consigli di classe prima degli scrutini e discusso sulle possibili promozioni,
e bocciature.
Il percorso con i ragazzi, specialmente l’ultima parte di laboratorio, ha riscosso
entusiasmo. Anzitutto tra gli studenti coinvolti, guardati con invidia dagli altri
studenti della scuola che hanno chiesto di poter venire almeno a dare un’occhiata
alle lezioni. Tra i genitori che hanno visto, forse per la prima volta, i ragazzi raccontare con entusiasmo un’esperienza fatta a scuola. E infine tra gli insegnanti che
hanno partecipato.
Il clima in classe è cambiato. Abbiamo imparato insieme che possiamo imparare insieme. Abbiamo imparato insieme che possiamo rappare insieme free-style.
Abbiamo imparato insieme che possiamo cantare insieme. Abbiamo imparato
insieme che raccontare la nostra storia insieme può essere divertente. Abbiamo
imparato insieme che
il conflitto non sarà mai estinto
finché ci sarà un vincitore e un vinto.
Stando insieme la rabbia calmiamo,
è così che nasce un rapporto umano.
Per noi insegnanti questa esperienza ha costituito un altro modo di affrontare le
problematiche legate a gruppi di apprendimento eterogenei e alla gestione dei
conflitti che possono svilupparsi nelle classi scolastiche. Classi dove sono presenti
alte percentuali di allievi figli di genitori migranti, che portano nell’interazione
spesso le fatiche di un’integrazione difficile.
In queste classi eterogenee, anziché ribadire con fermezza e rigore le norme e i valori
dell’istituzione, finendo per espellere i ragazzi che non sottostanno alle norme e ai
valori, può essere più generativo intraprendere un’altra strada: quella di valorizzare
le risorse contenute nel gruppo-classe, utilizzando pratiche culturali vicine ai vissuti
quotidiani degli allievi (nel nostro caso il rap-freestyle) per costruire uno spazio di
espressione condiviso da tutti i componenti della classe. Per questa strada è forse
possibile trovare un altro modo di stare insieme in classe.
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Mirca Ognisanti
Ripensarsi
con le famiglie
della migrazione
Pratiche
di partecipazione
nella scuola superiore
Il lavoro di
coinvolgimento delle
famiglie straniere
resta un aspetto poco
approfondito dai
sistemi educativi.
Tranne qualche
eccezione, la relazione
con i genitori non è
una priorità
nell’agenda della
scuola, in particolare
superiore. Eppure
coinvolgere le famiglie
straniere contribuisce
positivamente
all’integrazione dei
figli e al loro successo
scolastico. Le
riflessioni proposte in
questo articolo
nascono da
un’esperienza
condotta in istituti
professionali di
Bologna, segnati prima
dell’intervento da
tassi di abbandono e di
insuccesso scolastico
drammatici.
Nonostante la letteratura abbia ampiamente dimostrato il nesso fra il successo scolastico degli studenti
e la partecipazione dei genitori al percorso del figlio, il
lavoro educativo delle istituzioni scolastiche superiori
risente spesso di una mancanza di investimento nella
relazione fra scuola e genitori (Green, 2000; Wenfan
e Qiuyun, 2005).
Nella scuola superiore, anche negli indirizzi tecnici e
professionali che raccolgono la maggioranza di allievi
di origine straniera, i metodi per facilitare l’apprendimento e tutelare le chance di riuscita sono principalmente focalizzati sull’allievo.
Raramente il sistema familiare e di relazioni parentali
viene considerato dai percorsi di facilitazione, accoglienza, sostegno all’inserimento.
Scuola e famiglia rimangono così distanti; due mondi
che, pur sulla base di una condivisione non scritta di
obiettivi, finiscono per correre troppo spesso su binari
paralleli.
In questo articolo mostrerò come l’introduzione di
pratiche innovative per agevolare la partecipazione
della famiglia straniera nella vita scolastica dei figli
possa generare un valore diffuso di cui beneficiano la
scuola, il figlio e l’intera comunità.
Si tratta di pratiche che sono il frutto della sperimentazione condotta in tre istituti professionali di Bologna dal Cd/Lei (1), all’interno del più ampio progetto
SeiPiù (2).
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Perché coinvolgere le famiglie straniere?
Prima di inoltrarci nell’esperienza, vorrei esplicitare perché è importante per la
scuola coinvolgere le famiglie degli allievi figli di immigrati.
Se la distanza fra scuola e famiglia è meno evidente nella scuola dell’infanzia e nella
primaria, nelle scuole secondarie il vuoto comunicativo diventa un vero e proprio
deficit, che aumenta il rischio di insuccesso e di abbandono del giovane studente
di origini straniere. Lo confermano – indirettamente – le rilevazioni statistiche
che fotografano, nelle scuole medie e superiori, un tasso più alto di abbandoni e
bocciature.
La minore presenza delle famiglie nella scuola superiore è un dato che certamente rappresenta e asseconda la fase di ricerca di autonomia e di presa di distanza
dell’adolescente dalle figure genitoriali. Tuttavia non va dimenticato che, proprio
nel nucleo familiare, i docenti possono trovare preziose chiavi di lettura sui comportamenti, sui risultati, sulla motivazione e sulla percezione di sé dello studente.
Sia che esso abbia affrontato da poco il viaggio migratorio, sia che viva qui da molto
tempo e di non italiano abbia solo la cittadinanza.
Quelle privazioni spesso taciute I ragazzi neoarrivati – quelli cioè che si ricongiun-
gono in età predolescenziale o adolescenziale con i genitori – tacciono in genere
delle privazioni che spesso hanno subito in patria, a partire dal momento della
separazione, e pure all’arrivo in un Paese e in una casa in cui le relazioni e i simboli
affettivi sono tutti da ricostruire. Soprattutto se a partire per prima è stata la madre
e lungo è stato il periodo di separazione dai figli.
Benché la famiglia che rimane nel Paese d’origine, dopo l’emigrazione della figura
materna, agisca spesso come soggetto elastico, dando vita a nuove strategie di cura
al suo interno – richiamando tutte le componenti femminili ad attivarsi in questo
senso: nonne, zie e soprattutto le stesse madri lontane (Piperno, 2007) – non sempre però è in grado di produrre il nuovo equilibrio necessario per il benessere del
minore.
1 | Il Cd/Lei, primo Centro pubblico di documentazione e laboratorio per un’educazione interculturale in Italia, è stato istituito dal Comune
di Bologna nel 1991. Supporta gli insegnanti attraverso corsi di formazione, consulenza e documentazione sui progetti da avviare e su quelli
realizzati dalle scuole. Inoltre offre un servizio
di biblioteca multiculturale con la consultazione
e il prestito.
2 | SeiPiù è un progetto voluto e finanziato dalla
Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna,
che, dopo un lungo processo di consultazione
degli Istituti scolastici superiori di Bologna e Provincia, ha istituito un bando per la selezione di
progetti volti a portare nelle scuole pratiche innovative interculturali per migliorare il rendimento
degli allievi di origine straniera attraverso azioni
rivolte all’allievo (sostegno all’apprendimento
della lingua italiana e laboratori espressivi), alla
formazione dei docenti e al coinvolgimento dei
genitori. Il progetto SeiPiù coinvolge dal 2007 16
Istituti professionali e tecnici e 11 organizzazioni
del pubblico e del privato che collaborano con le
scuole alla realizzazione del progetto. Fra queste,
il Cd/Lei ha ottenuto la gestione di tre progetti in
tre Istituti superiori della città di Bologna (www.
progettoseipiu.it).
Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
La famiglia, fonte di conoscenze sul ragazzo/a
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Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
E le privazioni rischiano di non finire nemmeno quando il ragazzo o la ragazza si
ricongiunge. Anche una volta ricreate, infatti, le famiglie portano con sé le ferite di
un flusso emorragico di cure che risponde a una domanda di welfare da parte delle
famiglie italiane, a danno della relazione con il proprio figlio o figlia.
Ragazzi alle prese con una difficile sintesi identitaria Ma anche quando il ragazzo
vive in Italia con la sua famiglia da molto tempo, si ritrova a doversi confrontare
con codici valoriali e aspettative che possono essere diverse fra scuola e famiglia.
Molto spesso l’adolescente di origine straniera si colloca in quelle «terre di mezzo»
evocate efficacemente da Graziella Favaro, senza identificarsi pienamente in un
sistema piuttosto che nell’altro.
In bilico tra i valori che gli provengono dall’ambiente culturale ed educativo
esterno alla casa (spinta all’io e alla realizzazione di sé, assimilazione agli stili di vita
e di consumo dei compagni...) e le aspettative della famiglia (che spesso chiede al
ragazzo di dedicare il tempo extrascuola all’accudimento dei fratelli, di aiutare nella
gestione domestica, di non abdicare alla cultura d’appartenenza...), gli adolescenti
figli di immigrati sono alle prese con la ricerca di una faticosa sintesi identitaria.
La scuola può non sapere le storie dei ragazzi?
Ora quanto la scuola conosce questi processi? Certamente la missione tradizionale
non prevede che se ne faccia carico, tuttavia è lecito chiedersi come essa possa
assicurare benessere e percorsi di inserimento sereni agli allievi con una storia di
migrazione o di ricongiungimento, se non è in possesso della storia di separazioni
e ricongiungimenti che rende così faticoso l’inserimento nella classe o l’essere
studente del ragazzo o della ragazza che stanno dietro a un banco.
L’esigenza di sapere di più di queste famiglie è ancor più cogente oggi, in quanto la
pluralità delle forme della migrazione ha reso la scuola un caleidoscopio non solo
di provenienze ma anche di storie familiari.
Istituti professionali, nuove scuole di frontiera
Il progetto SeiPiù (che in questo articolo sarà descritto per il lavoro con le famiglie condotto dal Cd/Lei nell’ambito di tre istituti) ha reso possibile dare vita
a un processo di stimolo alla partecipazione delle famiglie straniere che non ha
precedenti nelle scuole di Bologna.
L’importanza di un lavoro che coinvolgesse le famiglie è nata dal constatare come
negli istituti professionali (in misura minore in quelli tecnici) fossero in forte crescita gli studenti stranieri di prima o seconda generazione. Per ragioni ascrivibili
a condizioni socio-economiche e culturali della famiglia, oltre che a un generale
orientamento che spinge i ragazzi di origine straniera a iscriversi all’istruzione
professionale, questi istituti si ritrovano infatti ad accogliere storie e bisogni molto
diversi (Mantovani, 2008).
Una concentrazione che genera molte preoccupazioni nei docenti, nella dirigenza
e, ovviamente, nelle famiglie dei compagni italiani.
Animazione Sociale aprile | 2010 inchiesta | 69
È con il 2005 che, a seguito di episodi di bullismo e conflitti orizzontali (allievoallievo) e verticali (allievo-docente) che avevano tutto il sapore di un grido di allarme
della scuola, il Cd/Lei avvia una serie di progettazioni volte a favorire il benessere
in alcuni istituti superiori di Bologna. Uno per tutti: il «Fioravanti».
Il Fioravanti è un istituto enorme che si trova dentro le mura del centro storico
di Bologna, noto come scuola di frontiera per le percentuali altissime di presenze
straniere (che raggiungono il 50% nelle classi prime). Corsi di meccanica, elettrotecnica, termo-idraulica capaci di sfornare manodopera qualificata per le aziende
del bolognese e soprattutto della provincia, dove peraltro hanno già trovato un
lavoro, per lo più dequalificato, i padri degli allievi.
Corridoi lunghi e grigi, cortili interni e bidelli-guardiani. Ma soprattutto tassi di
abbandono e di insuccesso scolastico che rendono davvero difficile per un allievo
passare dall’imbuto della classe prima. Quasi la metà degli allievi iscritti al biennio
abbandona o viene respinta. Dei ripetenti la maggior parte è di origine straniera.
In linea con i dati emersi dall’analisi svolta negli istituti professionali della provincia
di Bologna, gli allievi che frequentano l’istituto appartengono a famiglie con livelli
culturali medio-bassi (Mantovani, 2008), e che versano in situazioni economiche
che la crisi economica degli ultimi due anni ha aggravato in modo serio.
Un vezzo coinvolgere le famiglie straniere?
Il turn-over degli insegnanti inoltre spinge a ricominciare ogni anno da capo, senza
che possa avvenire una sedimentazione di competenze interculturali e tantomeno un
passaggio di saperi e pratiche fra colleghi. Sarebbe poco scientifico omettere la resistenza che registriamo fra alcuni docenti verso iniziative rivolte agli stranieri. Non
senza ragione, questi docenti rivendicano interventi generalizzati, volti a rispondere
a un disagio diffuso e trasversale alle appartenenze linguistiche e nazionali.
L’interesse a stabilire un collegamento con le famiglie straniere, in questa come
in altre scuole superiori, alle prese con una crescita vertiginosa delle percentuali
di allievi stranieri e con il progressivo diminuire delle risorse e del personale, si
assesta su livelli piuttosto bassi. In questo contesto l’idea di coinvolgere le famiglie
dei ragazzi stranieri rischia di apparire come un vezzo.
2006: si investe sulla relazione con le famiglie
Fortunatamente, nel 2006, la Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna decide
di caratterizzare il suo intervento sul territorio di Bologna attraverso una progettazione triennale che prevede l’erogazione di finanziamenti a partenariati fra scuole
bolognesi e organizzazioni capaci di articolare interventi per accompagnare l’integrazione degli allievi stranieri. Una boccata d’ossigeno per 16 istituti superiori di
Bologna e Provincia, che possono contare su nuove risorse per finanziare le attività
con gli allievi non italofoni (3).
3 | Il progetto SeiPiù è ampiamente descritto sul
sito www.progettoseipiu.it
Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
Il caso del «Fioravanti» a Bologna
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Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
L’anno prima il picco delle bocciature
Il primo bando viene annunciato proprio mentre le pagine dei quotidiani locali
denunciano l’elevato tasso di bocciature al termine dell’anno scolastico 2005/2006.
Le scuole e le organizzazioni partner ricevono risorse per realizzare attività con
gli allievi stranieri, per formare i docenti e per coinvolgere le famiglie (i tre grandi
pilastri del progetto Seipiù). Per la prima volta le scuole sono chiamate a utilizzare
fondi – e a rendicontarne l’uso – per i genitori dei ragazzi stranieri.
Il Cd/Lei avvia i partenariati in tre istituti: si tratta dei tre più grandi istituti professionali del territorio urbano, che contano il numero di allievi stranieri più alto e dove
progettare interventi rivolti a docenti, allievi e famiglie risulta assai complesso.
Fin da subito le resistenze incontrate sono infatti molte. Durante le prime riunioni,
dirigenti e docenti accolgono con entusiasmo le risorse destinate al potenziamento
della lingua per gli studenti stranieri o al sostegno allo studio. Anche la realizzazione
di laboratori espressivi, previsti dal bando, non incontra particolari difficoltà. Ma
il progetto SeiPiù non si limitava a promuovere la facilitazione del percorso per gli
allievi. Con l’introduzione di un’azione definita «patto formativo», la Fondazione
chiedeva alle scuole la costruzione di relazioni con la famiglia straniera, finanziandola con l’istituzione di un fondo speciale che le scuole potevano utilizzare per erogare
contributi, in forma non monetaria e dal valore massimo di 450 euro a famiglia.
La scelta di lavorare con le madri degli allievi
Tale contributo aveva la finalità di premiare la partecipazione dei genitori alle
attività proposte dal progetto (incontri individuali, attività di sensibilizzazione,
laboratori). Tentava inoltre di rispondere al grande problema posto da operatori e
docenti circa la difficoltà di raggiungere questi genitori, che non si presentano agli
incontri e non sembrano interessarsi della vita scolastica del figlio.
Pur attenti a non assecondare letture stigmatizzanti della condizione della famiglia
migrante, abbiamo voluto interpretare il coinvolgimento dei genitori attribuendo
importanza alla variabile di genere. Sono stati così organizzati laboratori di italiano,
di informatica, di cucina e sartoria per le mamme degli studenti stranieri, consapevoli che ribadire il ruolo educativo della madre significa riportare equilibrio
e offrire possibilità di integrazione a donne che spesso vivono in condizioni di
isolamento domestico; oppure a madri che, impegnate costantemente nella cura
di altre famiglie, possono trovare in questi laboratori occasioni per accorciare le
distanze con i figli. Riappropriandosi così di quel ruolo nella loro educazione che le
esigenze di sostentamento familiare hanno negato o per lo meno sospeso, a danno
della relazione madre-figlio e, infine, del risultato scolastico di quest’ultimo.
Il rischio consapevole di una discriminazione positiva
La selezione era la grande paura dei dirigenti degli istituti. Il timore di favorire le
famiglie straniere e di operare una distribuzione delle risorse a loro favore all’interno di istituti dove le condizioni socio-economiche delle famiglie si attestano su
livelli medio-bassi (Mantovani, 2008) rende necessaria una prima fase di «contrattazione» che porta le scuole ad accettare questa sconosciuta formula operativa
(coinvolgimento delle famiglie  partecipazione  contributo) e ad applicarla,
pur con grande attenzione.
Il timore di creare forme di assistenzialismo porta unanimemente alla scelta di
offrire contributi che, pur non monetari, possano in qualche modo rappresentare
un sostegno allo sforzo che le famiglie compiono per permettere al figlio il proseguimento degli studi: buoni per l’acquisto di libri di testo e di materiale didattico,
contributi per le gite, acquisto di computer e materiale informatico, abbonamenti
ai mezzi pubblici. Si sarebbe trattato di un riconoscimento (in formato non monetario) da attribuire alle sole famiglie che avessero rispettato gli impegni, dedicato
tempo ed energie al progetto.
Per questo convinciamo la scuola che vale assolutamente la pena di imboccare
questa strada, anche correndo il rischio di critiche e rivendicazioni da parte dei
genitori. Reazioni che peraltro non si sono mai verificate mentre qualche protesta
ci è invece giunta da alcuni docenti, che segnalavano come il disagio economico
fosse avvertito anche da famiglie italiane. Si è trattato dunque di assumersi i rischi di
una discriminazione positiva, che ha voluto offrire alle famiglie straniere strumenti
di partecipazione capaci di favorire pari opportunità.
L’outreach per entrare in contatto con le madri
Ma non si è trattato di convincere solamente i dirigenti e i docenti. Abbiamo
convinto anche i mariti e, in diverse occasioni, i datori di lavoro delle madri che
abbiamo coinvolto nei laboratori.
Primo scoglio: i mariti di fede musulmana
Molte famiglie vivono in comuni distanti e non sempre ben collegati e non è scontato
per una mamma, generalmente sprovvista di mezzi propri e che vive in provincia,
poter raggiungere la scuola in città (e far rientro in tardo pomeriggio, anche nei
mesi invernali). Pensiamo ai molti casi di madri di fede musulmana che vivono una
socialità perlopiù relegata alla gestione familiare: prendere un treno o un pullman e
partecipare a laboratori di informatica nella scuola di città significa investire molte
energie e molto spesso avere il coraggio di affrontare ambienti e spostamenti che
raramente hanno effettuato da sole in molti anni.
Per rendere efficace il contatto, le mediatrici e le operatrici che hanno gestito i laboratori hanno contattato le famiglie e, nei casi in cui era necessario, hanno parlato
con il capofamiglia, invitandolo ad ascoltare, anche con colloqui presso la scuola,
le ragioni della partecipazione della famiglia ai laboratori organizzati dalla scuola.
Si è trattato dunque di dedicare la prima fase del progetto a un lavoro sotterraneo
di legittimazione e di costruzione di fiducia: da parte della scuola nel progetto, ma
anche da parte delle stesse famiglie.
La legittimazione dell’intervento, come descritto nel volume che dà conto della
prima fase di realizzazione del progetto (Tieghi, Ognisanti, 2009), è stata una fase
importante del progetto, che puntava a intraprendere ambiti ancora inesplorati dalle
scuole. Senza un grosso investimento di tempo ed energie mirato a far metabolizzare
Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
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Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
alla scuola la decisione di lavorare con le famiglie, e in qualche modo destinato a far
sì che la scuola potesse sentire proprie determinate azioni, interventi come questi
sarebbero falliti e i rischi intravisti avrebbero avuto un ruolo determinante nella
gestione delle azioni rivolte alle famiglie. Lavorare in tal senso ha significato per
tutti gli attori mettersi in gioco, rischiare e attraversare terreni impervi e sconosciuti.
Ma ha significato anche creare i presupposti affinché il progetto potesse creare un
vero cambiamento nella scuola.
Secondo scoglio: i datori di lavoro
Come permettere poi alle madri lavoratrici di prendere parte a laboratori che
prevedevano la frequenza intensiva (il primo laboratorio di introduzione all’informatica, ad esempio, avviato all’Istituto professionale Fioravanti, prevedeva 55
ore di aula)?
Le operatrici del Ciofs, ente di formazione professionale con sede a Bologna, che
in qualità di partner del progetto ha gestito i laboratori, hanno saputo interpretare
il significato del lavoro di coinvolgimento delle famiglie, chiamando le ditte presso
le quali sono occupate le madri e prendendo accordi con i datori di lavoro, proponendo cambi di turno che gli imprenditori hanno accettato, cogliendo il vantaggio
che poteva venire dall’apprendimento o dal miglioramento dei livelli di lingua delle
operaie. In sostanza: un grande lavoro di outreach (di bassa soglia).
L’adozione di questo stile operativo dà la misura del lavoro compiuto dagli operatori
del progetto. Abbiamo voluto superare la tradizionale modalità di comunicazione
(impostata su comunicazioni formali) alle famiglie, che i dati sulla partecipazione
confermavano essere priva di qualsiasi effetto: troppe volte abbiamo visto lettere
inviate alle famiglie con il sapore di una circolare, tutt’altro che invitanti, con un
linguaggio che non favorisce la comprensione e non crea curiosità, o, al più, capaci
di portare a scuola uno o due genitori allarmati che, non comprendendo il motivo
della convocazione, lo interpretano come un segnale di allarme circa l’andamento
del figlio (4).
L’empowerment si fa cucinando il ragù
È dal 2007 dunque che i corridoi degli istituti Aldrovandi Rubbiani, Fioravanti
e Aldini Valeriani Sirani vengono attraversati ogni settimana da donne che fanno
ingresso con i loro sari e i loro veli, che parlano in altre lingue e che si dirigono, con
agio, verso l’Aula delle culture. Così è stato chiamato il luogo in cui si ritrovano le
madri, e dove avvengono gli eventi interculturali della scuola.
Importare e riadattare l’esperienza anglosassone delle stanze per genitori (4) è stato
tutt’altro che facile in istituti superiori dove spesso i collaboratori scolastici sono
chiamati a vigilare più che ad accogliere. O dove addirittura manca un’aula magna
4 | Per molti genitori cresciuti in Paesi con modelli educativi diversi, in cui la famiglia affida in
toto alla scuola il compito formativo, la convo-
cazione della famiglia avviene infatti solo c’è un
problema.
Il mediatore? Importante
ma non indispensabile
Nei tre progetti avviati e realizzati nelle tre scuole,
le attività con le famiglie sono state realizzate
prevalentemente con mediatrici e operatrici
interculturali. Solo in una scuola, a parte il momento dedicato al contatto iniziale, avvenuto nella
lingua di origine, non sono intervenuti mediatori
nella gestione dei laboratori. Le operatrici hanno condotto alcune attività con le madri degli
allievi senza l’aiuto di una lingua extra-europea
e senza una storia di migrazione o origini comu-
ni. Contrariamente a quanto si possa pensare
abbiamo potuto constatare come l’efficacia degli
interventi, la grande partecipazione ai laboratori
e il clima positivo che si è instaurato in quella
scuola non abbiano risentito della mancanza
di un mediatore. Questo ci induce a riflettere
su quanto tradizionalmente gli interventi interculturali nella scuola carichino di significati la
mediazione linguistico-culturale nel lavoro con
le famiglie. E su quanto invece possa fare un
docente o un operatore anche senza conoscere
l’arabo per attivare una relazione con genitori
marocchini.
e gli incontri si fanno nei laboratori di meccanica, fra frese e torni. Ci ha fatto sorridere l’insistenza con la quale un’aula di un istituto ha potuto finalmente essere
adibita alle attività interculturali, ma il nome della stanza non poteva perdere quello
originario. Per cui è diventata l’Aula 293 - Sala delle culture.
Questo episodio serve a descrivere la fatica con cui la scuola-fortino accoglie cambiamenti che vanno nella direzione inversa a quella della chiusura e che le impongono di abbassare le difese.
Finalmente abitanti di una scuola, di un territorio
Le attività realizzate all’interno di queste aule hanno contribuito a offrire occasioni
di socializzazione e apprendimento alle madri, attraverso corsi di italiano, corsi di
informatica, corsi di cucina, corsi di sartoria, corsi di video (5). Ma lo stare insieme
non è l’unico obiettivo.
Cosa significa infatti fare la sfoglia o il fried rice in un’aula di una scuola superiore? Anzitutto significa portare le madri fuori di casa, farle sentire abitanti di una
scuola dove raramente si sono sentite a loro agio. Ma lo sforzo va oltre e punta a
farle sentire abitanti della città.
Se durante il primo anno di realizzazione il progetto ha puntato a far entrare nella
scuola le madri degli allievi, successivamente le azioni realizzate hanno mirato invece
a portarle fuori, a renderle cioè partecipi del territorio in un’ottica di empowerment
che cerca di creare occasioni perché, oltre che mogli e madri, queste donne possano
considerarsi soggetti attivi nella città.
5 | Molte scuole inglesi, proprio nell’ottica del
coinvolgimento delle famiglie native e non, hanno
realizzato all’interno degli istituti le cosiddette rooms for parents, spazi completamente autogestiti
in cui i genitori possono organizzare corsi, attività
di socializzazione o semplicemente trascorrere
tempo insieme (Green, 2000).
Nella pagina www.progettoseipiu.it/prodotti/
Video-Progetti.aspx sono ospitati numerosi video che documentano le attività svolte nei tre
istituti con i genitori di studenti stranieri.
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Allo stesso tempo il laboratorio di cucina non è stato solamente un’occasione per
etnicizzare la socializzazione: saper cucinare il ragù o la sfoglia rende più facile per
queste donne inserirsi nel mondo del lavoro e, magari, lasciare un’occupazione
totalizzante come quella di «badante» per riciclarsi sul mercato del lavoro locale,
nelle mense, nelle case di cura, nelle cooperative di servizi. Il tentativo è stato quello
di creare un cambiamento, offrire maggiore consapevolezza delle abilità e delle
possibilità, in un periodo in cui sempre più spesso i mariti sperimentano la crisi e
restano a casa in cassa-integrazione.
A questo primo obiettivo si unisce il tentativo di fornire alle donne partecipanti
delle conoscenze che rendano il loro curriculum più appetibile, in un’ottica di inserimento nel mondo del lavoro o di riqualificazione. Mentre si prepara la sfoglia o il
ragù, le donne imparano il lessico specifico del settore della ristorazione con l’aiuto
di una esperta linguistica che lavora nella scuola con i ragazzi. L’intervento di una
responsabile del centro professionale con il quale abbiamo realizzato il laboratorio
spiega come preparare un curriculum, illustra l’offerta dei corsi di formazione nel
settore alimentare e della ristorazione.
Pensare ad Amina o Malia come donatrici di sangue
Le visite ai servizi del territorio sono state l’ultima tappa dei laboratori per le madri, che hanno visitato, ad esempio, il Centro per l’impiego, dove un’operatrice ha
illustrato loro come fare quando si cerca un lavoro e come compilare la domanda
di iscrizione.
Ma il progetto ha inteso la cittadinanza non solo come accesso al lavoro, ma come
conoscenza delle opportunità che il territorio offre per un reale esercizio dei propri
diritti: la visita alla biblioteca pubblica con una sezione multilingue, o alla sezione
bolognese dell’Avis per promuovere la donazione del sangue.
Pensare ad Amina o a Malia come donatrici di sangue ci è sembrato importante
per rafforzare un senso di cittadinanza attiva che passa anche dal sentirsi agenti e
non solo destinatari di solidarietà.
Dai laboratori di sartoria realizzati presso l’Istituto Aldrovandi Rubbiani è emersa la volontà di creare un gruppo informale di sarte che si propone alle famiglie
degli allievi che frequentano la scuola. Il contributo previsto dal Patto formativo
ci è sembrato una buona occasione per premiare la partecipazione di ciascuna di
queste donne con una macchina da cucire professionale, che potranno utilizzare
anche per re-inventare il loro ruolo nella scuola, ad esempio organizzando corsi
nell’istituto.
Attorno alle attività per le famiglie si è creata una rete che è ben visibile durante gli
eventi conclusivi dei laboratori: nell’aula delle culture anche la video-operatrice
che ha documentato le tappe del progetto conosce le mamme e aiuta ad allestire
la sala.
I corsi e le attività sono stati pensati per le madri, ma ad alcune attività hanno
partecipato anche padri, zii e nonni. Al termine di ogni corso si raccolgono idee e
bisogni. E c’è anche chi si propone come docente, come George, che vuole mettere
a disposizione delle madri la sua esperienza come cuoco a Bologna.
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Quanto resterà come capitale della scuola?
Nel volume che descrive la prima fase di realizzazione del progetto SeiPiù (Tieghi,
Ognisanti, 2009) mi sono chiesta quanto la scuola sia in grado di metabolizzare
queste esperienze e di continuare a lavorare nell’ottica di un cambiamento. Insomma, quanto di questo lavoro resterà come capitale della scuola?
Il continuo turn over del personale docente e della dirigenza rendono davvero alto il
rischio che, una volta terminati questi finanziamenti, i laboratori con le madri restino
nell’album dei ricordi della scuola. La difficoltà vista nel progetto triennale – che
si accinge ad avviare una quarta annualità – sta proprio nel dover ricominciare da
capo nel mese di settembre quando cambia il dirigente.
Tuttavia abbiamo notato come, quando il corpo docente è coinvolto e si sente protagonista di attività che richiamano anche l’attenzione dei media e degli operatori
del territorio, si crei una sorta di orgoglio di appartenenza.
Una scuola capace di riconoscere
Per molto tempo ci siamo chieste quale fosse l’impatto di attività come quelle descritte in questo contributo sul rendimento scolastico degli allievi di cittadinanza
non italiana in istituti che contano uno scarto notevole fra i livelli di promozione
degli studenti italiani e quelli degli studenti stranieri.
Incrociando i dati del risultato scolastico con quelli della partecipazione delle famiglie ci è capitato di individuare casi di allievi respinti nonostante la partecipazione
al progetto di tutta la famiglia. Questo è avvenuto quando la scuola non ha saputo
dare valore allo sforzo compiuto da allievi e genitori all’interno del progetto, ovvero
quando il progetto è stato vissuto come un appendice della scuola. Come un’attività
che, pur qualificante, non entra nella didattica e nella valutazione.
Rilevare questo gap ci ha spinto, al termine della prima annualità, ad avviare percorsi
molto impegnativi tesi a creare una comunicazione fra scuola e progetto: lo sforzo
era volto a convincere il dirigente ma soprattutto i docenti a prendere atto della
partecipazione anche dell’allievo ai laboratori pomeridiani, offrendo crediti da un
lato e permettendo al docente che si è occupato del progetto o a un operatore del
progetto di relazionare, in sede di valutazione, sui progressi registrati dal ragazzo,
sulla continuità nella partecipazione alle attività, pur in orario extra-scolastico.
La forza dei risultati
La strada da percorrere è ancora lunga ma l’attenzione della scuola su questi temi
è stata catturata.
Una grande sorpresa tuttavia ci è stata regalata dall’esame dei dati relativi al rendimento scolastico degli studenti al giugno 2009. L’Istituto professionale Fioravanti,
che vantava il triste binomio della percentuale più alta di allievi di origine straniera
ma anche la percentuale più alta di respinti e di abbandoni in città, vede ribaltarsi
questo equilibrio. A oggi, i ragazzi stranieri sono promossi con percentuali più alte
Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
L’orgoglio di essere insegnante
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degli italiani (i dati relativi al risultato scolastico del giugno 2009, elaborati dall’Osservatorio sulla scolarità della Provincia di Bologna, attestano una riduzione prossoché totale del gap fra italiani e stranieri: fra gli stranieri il 17,9% è stato respinto,
contro il 19,5% degli allievi italiani). Il tempo sembra averci dato ragione.
Inchiesta del mese I Per una scuola capace ogni giorno di «fare società»
Riferimenti bibliografici
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GLI AUTORI
Roberto Camarlinghi è redattore di Animazione
Sociale ([email protected]).
Francesco d’Angella è consulente e formatore dello
Studio Aps di Milano ([email protected]).
Mirca Ognisanti, consulente del progetto SeiPiù,
collabora con il Cd/Lei del Settore istruzione del
Comune di Bologna (mirca.ognisanti@comune.
bologna.it).
Marco Rossi Doria, dal 1994 al 2006 maestro di
strada nei Quartieri Spagnoli di Napoli, durante il
governo di centro-sinistra ha lavorato alle linee guida
del nuovo obbligo di istruzione per tutti, fino a 16
anni ([email protected]).
Flavia Virgilio è professore aggregato di didattica
dell’integrazione nel corso di laurea di educazione
professionale dell’Università di Udine. Insegna
materie letterarie nella scuola secondaria di primo
grado ([email protected]).
IL PROGETTO
Quest’inchiesta è la seconda tappa di un percorso
di ricerca volto a capire come la scuola può accompagnare l’integrazione degli adolescenti stranieri.
Raccogliendo il segnale di allarme proveniente da
molte scuole (specie superiori), che si scoprono in
difficoltà ad affrontare le problematiche relative
ai percorsi formativi degli adolescenti stranieri,
la rivista ha fatto una prima inchiesta a gennaio
(L’integrazione dei ragazzi stranieri alle superiori,
curata con la consulenza pedagogica di Graziella
Favaro) che forniva dati e letture del problema. In
questa seconda inchiesta si vogliono suggerire piste
di lavoro, ascoltando l’esperienza di chi le ha già
utilmente testate in diversi luoghi d’Italia.
Con la rubrica delle Inchieste la rivista intende esplorare le nuove forme di disuguaglianza che profilano
per la società il rischio di lasciare ai bordi intere fasce
di popolazione. La prossima inchiesta sarà dedicata
alla carcerizzazione dei problemi sociali.