CASSA E TEMPO LIBERO Scrl Associazione Dipendenti Caripit Sezione Cultura Pistoia, 28 luglio 2009 TEATRO MANZONI PISTOIA Stagione di Prosa 2009/2010 Programma e offerta promozionale per CRAL Dopo l’ottimo successo dell’anno passato, che conferma il Teatro Manzoni ai vertici del panorama teatrale toscano, la stagione 2009/2010 presenta undici titoli in abbonamento: un cartellone che ospita il meglio del panorama attoriale della scena italiana. Da un pool di attrici di grande fascino e talento (Pamela Villoresi, Elisabetta Pozzi, Lina Sastri, Mariangela D’Abbraccio) a interpreti maschili di grande carisma (Gabriele Lavia, Franco Branciaroli, Luca De Filippo, Massimo Popolizio, Alessandro Gassman, Gianfelice Imparato, la coppia Enzo Vetrano/Stefano Randisi). Al centro della stagione testi della grande tradizione teatrale (da Shakespeare a De Filippo, da Rostand a Cervantes a Pirandello) ai quali si affianca, quest’anno, un’attenzione particolare per alcuni autori di assoluto riferimento del teatro del Novecento (Neil Simon, Eduardo De Filippo, Giuseppe Marotta) e contemporanei (Mario Vargas Llosa, Reinaldo Povod, Giuseppe Patroni Griffi). In apertura di stagione preme segnalare la nuova produzione del Teatro Manzoni “Appuntamento a Londra” firmata dal grande scrittore Mario Vargas Llosa con Pamela Villoresi, che è stata presentata l’8 e 9 luglio 2009 sul palcoscenico del Festival dei 2 Mondi di Spoleto, così come la riproposta in abbonamento del “Vantone” di Pasolini. Sottoponiamo, in allegato, ai nostri soci il programma completo della Stagione di Prosa 2009/2010 del Teatro Manzoni di Pistoia e la relativa promozione riservata ai soci del ns. CRAL per la sottoscrizione degli abbonamenti e per l’acquisto dei biglietti. Come potrete notare, la convenzione in atto tra l'Associazione Teatrale Pistoiese ed il ns. Circolo prevede condizioni di favore sia per la sottoscrizione di abbonamenti che per l'acquisto dei biglietti, con particolari ed ulteriori vantaggi per sottoscrizioni effettuate da gruppi di persone (10 o 15 persone). Nel caso in cui i soci intendano approfittare delle speciali condizioni previste per i gruppi, essi dovranno rivolgersi alla ns. Segreteria che farà da tramite con l'Associazione Teatrale Pistoiese. Nel caso invece di acquisti individuali, i soci dovranno rivolgersi direttamente alla Biglietteria del Teatro Manzoni secondo gli orari previsti e più avanti dettagliati. La Segreteria Pag. 1 Stagione di Prosa 2009/2010 TEATRO MANZONI PISTOIA Promozione per Soci CASSA E TEMPO LIBERO BIGLIETTI Per singoli SOCI sconto sul prezzo del biglietto degli spettacoli in abbonamento e sui fuori abbonamento (vedi tabella sotto riportata) dietro presentazione della tessera d'associazione alla Biglietteria del Teatro. Per gruppi di minimo 15 persone (con prenotazione da parte della Segreteria del Circolo) sconto gruppi sul prezzo del biglietto (vedi tabella sotto riportata). Servizio di prenotazione agevolato La segreteria CRAL ha la possibilità di prenotare, per gruppi di minimo 15 persone, già da adesso i posti per gli spettacoli della stagione. I biglietti poi potranno essere comodamente pagati e ritirati, una settimana prima della data dello spettacolo scelto, presso la biglietteria del teatro. PREZZI BIGLIETTI SPETTACOLI SPETTACOLI IN ABBONAMENTO E FUORI ABBONAMENTO PLATEA PALCO 1° / 2° PALCO 3° GALLERIA Intero Studenti e Under 25 26,00 23,00 20,00 12,00 19,50 17,50 15,50 10,00 Soci CRAL Gruppi Cral Min. 15 persone 24,00 21,00 18,00 11,00 22,00 19,00 16,00 10,00 PREZZI ABBONAMENTI 2009/2010 11 SPETTACOLI AL TEATRO MANZONI CON TURNO E POSTO FISSO. TURNI V/S/D PLATEA PALCO 1° / 2° PALCO 3° GALLERIA Pag. 2 Intero Studenti e Under 25 236,50 203,50 176,00 110,00 176,00 159,50 132,00 88,00 Soci CRAL 214,50 181,50 154,00 99,00 Gruppi Cral Min. 15 persone 198,00 170,50 137,50 88,00 CAMPAGNA ABBONAMENTI 2009/2010 Da Martedì 1 a sabato 12 Settembre CONFERMA ABBONAMENTI Da Sabato 19 settembre a sabato 17 Ottobre VENDITA NUOVI ABBONAMENTI PREVENDITA SPETTACOLI 2009/2010 Da Martedì 20 ottobre Inizio prevendita biglietti per la stagione BIGLIETTERIA TEATRO MANZONI: 0573 991609 - 27112 Orario Biglietteria Dal 1 Settembre: lunedì chiuso - martedì 16,30/19 – mercoledì 11/16 dal giovedì al sabato 11/13 e 16,30/19 Associazione Teatrale Pistoiese – Corso Gramsci, 127 - Pistoia Inizio spettacoli feriali ore 21 – festivo ore 16 www.pistoiateatri.it [email protected] [email protected] vendita biglietti on line: www.pistoiateatri.it In allegato gli orari e le schede degli spettacoli. Pag. 3 TEATRO MANZONI PISTOIA Stagione di Prosa 2009/2010 SPETTACOLI IN ABBONAMENTO da Venerdì 6 a Domenica 8 Novembre Pamela Villoresi David Sebasti APPUNTAMENTO A LONDRA di Mario Vargas Llosa regia Maurizio Panici NOVITÀ ASSOLUTA PRIMA REGIONALE da Venerdì 20 a Domenica 22 Novembre Gabriele Lavia da Venerdì 12 a Domenica 14 Febbraio Gianfelice Imparato Luisa Ranieri L’ORO DI NAPOLI dai racconti di Giuseppe Marotta regia Armando Pugliese da Venerdì 26 a Domenica 28 Febbraio Franco Branciaroli MACBETH DON CHISCIOTTE di William Shakespeare regia Gabriele Lavia Progetto di Franco Branciaroli da Miguel de Cervantes regia Franco Branciaroli da Venerdì 27 a Domenica 29 Novembre Mariangela D’Abbraccio Elisabetta Pozzi LA STRANA COPPIA di Neil Simon regia Francesco Tavassi da Venerdì 11 a Domenica 13 Dicembre Lina Sastri Luca De Filippo FILUMENA MARTURANO di Eduardo De Filippo regia Francesco Rosi da Venerdì 8 a Domenica 10 Gennaio Massimo Grigò, Roberta Mattei, Michele Nani, Nicola Rignanese, Roberto Valerio IL VANTONE di Pier Paolo Pasolini da Plauto regia Roberto Valerio da Venerdì 29 a Domenica 31 Gennaio Enzo Vetrano Stefano Randisi PENSACI GIACOMINO di Luigi Pirandello regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi da Sabato 6 a Lunedì 8 Marzo Massimo Popolizio CYRANO DE BERGERAC di Edmond Rostand regia Daniele Abbado PRIMA REGIONALE da Venerdì 12 a Domenica 14 Marzo Alessandro Gassman ROMAN E IL SUO CUCCIOLO (Cuba & his Teddy Bear) di Reinaldo Povod regia Alessandro Gassman da Venerdì 9 a Domenica 11 Aprile Vladimir Luxuria Daniele Russo PERSONE NATURALI E STRAFOTTENTI di Giuseppe Patroni Griffi regia Andrée Ruth Shammah PRIMA REGIONALE Inizio spettacoli feriali ore 21, festivo ore 16 Associazione Teatrale Pistoiese/Argot Produzioni In collaborazione con Spoleto 52 - Festival dei 2Mondi PAMELA VILLORESI DAVID SEBASTI APPUNTAMENTO A LONDRA di MARIO VARGAS LLOSA Traduzione Ernesto Franco Regia MAURIZIO PANICI Scene Francesco Ghisu Costumi Lucia Mariani Musiche Germano Mazzocchetti Luci Emiliano Pona Video Andrea Giansanti Appuntamento a Londra è una novità assoluta per il teatro, scritta da Mario Vargas Llosa – uno dei più apprezzati scrittori di fama mondiale – che anche in questo testo propone alcune delle suggestioni a lui più care. Lo spettacolo ha debuttato con grande successo a Spoleto 52 estival dei 2Mondi l’8 e 9 luglio 2009 alla presenza di un entusiasta Vargas Llosa. La storia che racconta è un’acuta e profonda riflessione sul tema dell’identità e sulla vita segreta delle persone. Lo spettacolo è anche un’indagine sui valori dell’amicizia e dei sentimenti, su quel sottile filo che ci lega come esseri umani, come attrazione profonda dell’uomo per l’altro da sé. Due amici d’infanzia e gioventù, entrambi peruviani, si ritrovano a Londra dopo molti anni durante i quali non avevano avuto più contatti. Nel loro incontro rivivono il passato, mescolando bei ricordi con brutte storie che credevano oramai sotterrate o delle quali, forse, ignoravano l’esistenza. Un teatro fortemente ispirato dalla letteratura in uno scambio fertile tra i diversi linguaggi espressivi. Il cast attoriale dello spettacolo vede ancora una volta la presenza di un’attrice protagonista indiscussa del teatro italiano, Pamela Villoresi insieme a David Sebasti. Note di regia Un uomo, realizzato, pienamente occupato, apparentemente felice, in una pausa tra un viaggio e una riunione di lavoro, viene sopraffatto da una inquietudine che mette in moto un viaggio soggettivo e interiore, fortemente onirico che lo pone di fronte a se stesso, alle sue fantasie più segrete, a un gioco di specchi e rifrazioni nel quale stenta a ri/trovarsi. Le proiezioni fantastiche che affiorano dal profondo del suo essere, prepotenti e inarrestabili, attivano e generano un “altro” da sé, attrattivo e repulsivo, fortemente seduttivo. L’incontro pone l’uomo di fronte alla sua possibile altra identità: come un giano bifronte egli si specchia, “la sua vita segreta” esplode in una serie di variazioni possibili, tutte vengono esplorate, ri/vissute o ri/create. Lungo tutto il tempo dello spettacolo le “identità” si rincorrono, si fronteggiano fino a una soluzione possibile, sempre e comunque aperta. L’identità: è questo il tema centrale del testo. E quel complesso di pulsioni/emozioni sogni e comportamenti che formano nel corso della nostra vita quella che chiamiamo “personalità”, nel protagonista dello spettacolo trovano la più aperta delle rappresentazioni; le possibili vie, le diverse possibilità sono percorse con ansia e desiderio fino a una conclusione non banale, affascinante, temuta, desiderata. T. S. Eliot nei “Quattro quartetti” scrive: “… ciò che poteva essere e ciò che è stato tendono a un solo fine che è sempre presente. Passi echeggiano nella memoria lungo il corridoio che non prendemmo verso la porta che non aprimmo mai sul giardino delle rose …”. È in questo crinale, in questa zona di confine, che i protagonisti si muovono continuamente, in bilico tra un mondo reale e uno immaginario altrettanto concreto e vissuto con la stessa intensità della vita vera. Il testo di Vargas Llosa è un enigma, uno scandagliare la parte più profonda e nascosta di ogni essere umano: come egli stesso afferma “un argomento che mi ha sempre appassionato …la finzione e la vita, il ruolo che quella gioca in questa, la maniera con cui l’una e l’altra si alimentano e si confondono, si respingono e si completano in ogni destino individuale … e il palcoscenico è lo spazio privilegiato per rappresentare quella magia di cui è fatta anche la vita della gente: quell’altra vita che inventiamo perché non possiamo viverla davvero, ma solo sognarla grazie alle splendide bugie della finzione”. Il nostro spettacolo è un gioco teatrale che si avvale anche di linguaggi complessi, immagini proiettate e percepite come fantasmi, che aiutano a rivelare scomode verità sepolte nel profondo del protagonista. La scena è uno spazio concreto che continuamente apre a una serie di altre possibili visioni, creando così nello spettatore una vertigine, aiutandolo a rompere una visuale del quotidiano verso un altrove possibile, verso un mondo diverso da quello reale.Le musiche originali sostengono questo progetto evocando altri mondi possibili, nostalgie e luoghi perduti, un giardino della memoria che mai risulta essere consolatorio. La macchina teatrale asseconda e sostiene gli attori impegnati in questo difficile percorso al fine di aiutarli a creare e ri/creare continuamente quella complessità che risponde al nome di identità. Maurizio Panici Compagnia Lavia Anagni GABRIELE LAVIA GIOVANNA DI RAUSO MACBETH di WILLIAM SHAKESPEARE Traduzione Alessandro Serpieri con Maurizio Lombardi, Biagio Forestieri, Patrizio Cigliano, Mario Pietramala, Alessandro Parise, Michele Demaria, Daniel Dwerryhouse, Fabrizio Vona, Andrea Macaluso, Mauro Celaia, Giorgia Sinicorni, Chiara Degani, Giulia Galiani Scene Alessandro Camera Costumi Andrea Viotti Musiche Giordano Còrapi Luci Pietro Sperduti Regia GABRIELE LAVIA Note di regia Davanti dietro la scena del “Palcoscenico del Mondo”. Mi pare che queste parole raccontino bene l'idea dello spettacolo. Una “parte del tutto” di un camerino, col suo specchio, il suo lavandino, l'attaccapanni, le sedie, sulla sinistra del proscenio. Sulla destra, una scala, casse, bauli di trovarobato e sartoria. Dietro il sipario, uno spazio vuoto che, di scena in scena, viene occupato dagli oggetti che servono al modo del nostro racconto, un letto, uno specchio, un tavolo, le tombe di un cimitero, un muro bombardato in una delle guerre del nostro mondo. E poi il Palcoscenico del teatro, diverso in ogni città: Roma, Torino, Pisa, Firenze, Venezia, Catania, Ravenna, Piacenza, Savona.... sempre palcoscenici diversi! Dannazione del Teatrante! (Ci vorrebbe una legge che imponesse la costruzione di palcoscenici tutti uguali, per poter montare lo spettacolo sempre allo stesso modo!) “La vita è un'ombra che cammina, un povero attore...”. Così ho pensato a un attore che vive la sua “Storia raccontata da un idiota” sulla scena e dietro le quinte, divorato dall'angoscia di non essere mai nel “posto che gli spetta”, di sentirsi fuori ruolo in ogni spettacolo. Nella piccola e maldestra recita del Potere, quest'attore si trucca, si mette le scarpe coi rialzi, indossa doppiopetti esasperati, sfoggia vuoti sorrisi da marionetta, si affanna come un filodrammatico senza mestiere, con “la paura del debuttante, senza nessuna esperienza” e, nella sua crudeltà, fa crudelmente pena. E forse ci ricorda figure del Palcoscenico della Nostra Vita. Come quei sorridenti mascalzoni di cui parla Amleto quando allude allo zio diventato re. L'opera di Shakespeare ha come tema di fondo il grande mistero della filosofia: l'Essere. Il Non Essere di Amleto, l'illusione dell'Essere di Otello, la rinuncia dell'Essere di Lear, l'incertezza dell'Essere di Macbeth. Essere così è niente se non si è qualcosa con certezza”. Cosa ci può essere di più lontano da noi, uomini di oggi, conficcati nel pensiero scientifico e tecnologico? Perciò è sempre una sfida occuparsi di “tali faccende”. Il Niente, il NON dell'ente, cioè il NON dell'essente, cioè l'Essere. L'unico modo, dunque, dell'Essere con certezza è Non Essere? Ma a chi le raccontiamo queste storie? Non sembrerà “il racconto di un idiota”? “Domani, domani, domani striscia con passo meschino...”. Chi può sapere ormai che Shakespeare parla del tempo eterno circolare che l'uomo ha tagliato e lo ha fatto diventare tempo lineare, misurabile, fatto di “Domani e domani e domani...” che conducono alla morte? Chi può interessarsi alla fine di un cosmo simbolico? Alla fine della Metafisica? Eppure oggi siamo, senza pensarci, co-involti e tra-volti dalla fine della Metafisica che è la nostra Post-modernità. E dunque la grande metafora del mondo come Teatro che già appare nel Medioevo con Erasmo: “Tutta quanta la vita non è che una commedia dove ognuno recita con maschere diverse e continua nella parte, finchè il Grande Direttore di Scena (Dio) gli fa lasciare il palcoscenico. E piace a costui condurre, a volte, sulla stessa scena, lo stesso attore con diverse maschere e trasformare in accattone colui che prima indossava la porpora regale...”; con Shakespeare la storia raccontata dal grande Drammaturgo-direttore di scena-Dio, di Erasmo, diventa il racconto “raccontato da un idiota...”. Forse il punto più alto del pessimismo umano, la sua più alta bestemmia. Forse ci siamo tutti dentro.fanna come un filodrammatico senza mestiere, con “la paura del Gabriele Lavia Teatro e Società srl MARIANGELA D'ABBRACCIO ELISABETTA POZZI LA STRANA COPPIA di NEIL SIMON Traduzione Masolino D'Amico Regia FRANCESCO TAVASSI Scene Alessandro Chiti Costumi Maria Rosaria Donadio Musiche Daniele D'Angelo Un capolavoro comico, due attrici straordinarie: Mariangela D'Abbraccio e Elisabetta Pozzi, alle quali da tempo sono legato da una formidabile intesa, la voglia di teatro vero, recitato bene, l'attenta e creativa collaborazione di un' impresa, la Teatro e Società di Pietro Mezzasoma, che da sempre si occupa di produzioni teatrali di qualità: sono le premesse ideali per lavorare alla messa in scena dell’ edizione al femminile de “La Strana Coppia”. La commedia di Neil Simon (una mitragliata di battute e situazioni comiche) richiede, a mio parere, il lavoro di interpreti abituate a scandagliare e ad occupare ogni angolo interpretativo del personaggio così da non risultare semplicemente e superficialmente piacevole ma di scatenare la risata attraverso la costruzione perfetta dei personaggi e del loro rapporto. Questa è per me una meravigliosa occasione, la presenza di attrici di grande calibro come Mariangela D'Abbraccio e Elisabetta Pozzi e di una compagnia di attori di provato talento. Ambienteremo la vicenda nel presente, col supporto delle Scene di Alessandro Chiti, i costumi di Maria Rosaria Donadio,le musiche di Daniele D'Angelo e le luci di Luigi Ascione, per meglio comunicare l'attualità delle situazioni e per favorire quel processo di simpatica immedesimazione che spesso si innesca nel pubblico. “La Strana Coppia”è un capolavoro di divertimento intelligente, ci darà quindi la possibilità di sfruttare ogni opportunità comica senza remore intellettuali e sono certo che il risultato sarà magnifico. Francesco Tavassi Teatro Di Roma Elledieffe La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo LINA SASTRI LUCA DE FILIPPO FILUMENA MARTURANO di EDUARDO DE FILIPPO con Nicola di Pinto Antonella Morea e con Silvia Maino, Gioia Miale, Carmine Borrino, Antonio D’Avino, Giuseppe Rispoli, Chiara De Crescenzo regia FRANCESCO ROSI Luci Stefano Stacchini Costumi Cristiana Lafayette Scene Enrico Job Note di regia Dare l'impressione allo spettatore che in scena o davanti ad una macchina da presa i personaggi stiano inventando le battute nella maniera più spontanea e vera possibile, è l'obiettivo di registi e attori che desiderano riprodurre la realtà al di là di ogni mestiere e finzione. Per riuscire in questo risultato occorre la complessità e la verità umana dei personaggi rappresentati. Tra le commedie di Eduardo De Filippo, Filumena Maturano è quella più rappresentata nel mondo in tante lingue diverse. In ognuna lo spettatore ha riconosciuto la verità delle ragioni umane dei personaggi Filumena Maturano, ex-prostituta, tolta dal postribolo da un napoletano borghese e benestante, Domenico Soriano, tenuta per venticinque anni nella casa di lui come amante, pur se in condizioni d'inferiorità, autrice di uno stratagemma per farsi sposare "in extremis" da Soriano, il quale vuole porre invece fine al legame perché si è innamorato di una giovane che vuole sposare. "Filumena Maturano è una commedia sociale - ha dichiarato Eduardo - vuole essere la riabilitazione di una categoria di donne, vuole essere un grido di ribellione in questo mondo sconvolto e turbinoso che ci ha lasciato la guerra." Filumena, figlia del popolo, conduce il filo del dramma con l'aggressività di un personaggio tragico, segnato dalla sofferenza della vita di miseria dei vicoli di Napoli. Nel basso dove viveva tutta in un solo letto la famiglia "una folla ... sempre in urto l'uno con l'altro ci coricavamo senza dirci buonanotte, ci svegliavamo senza dirci buongiorno una parola buona me la disse mio padre: "Ti stai facendo grande e qua non c'è da mangiare, lo sai? ... la famiglia mia non so che fine ha fatto. Non lo voglio sapere. Non me lo ricordo!" Lo stratagemma pensato per farsi sposare e riconoscere i figli è una rivendicazione del suo sentimento di maternità. Filumena ha tre figli, avuti da tre uomini diversi, di cui due rimasti ignoti. Li ha voluti, li ha cresciuti, li ha assistiti, rimanendo nell'ombra senza mai rivelarsi come madre. Solo di uno è sicura la paternità, il figlio di Domenico Soriano, ma Domenico non lo sa e Filumena non glielo dirà mai, in nome della triplice maternità che difende con violenza perché "i figli sono i figli e devono essere tutti uguali." Filumena si batte perché Soriano dia il nome al suo figlio naturale, ma anche agli altri due. "Dimmelo chi è mio figlio, la carne mia, il sangue mio. Me lo devi dire per te stessa per non dare l'impressione che fai un ricatto, io ti sposo lo stesso, te lo giuro." Alle ripetute, sincere, imploranti richieste di Domenico Filumena risponde con una provocazione. "Lo vuoi sapere?! È Michele, l'idraulico." Domenico ci crede, fa progetti per aiutarlo, è un operaio, ha più bisogno d'aiuto degli altri. Ma Filumena ha mentito: "È Umberto, lo studente." E ancora mente: “É Riccardo, il camiciaio." Filumena sembra voler prendere in giro Domenico, ma non è cosi, sono invece le sue ragioni che difende con determinazione. "…ti ho voluto bene con tutta la forza della vita mia e come hai voluto tu ... e ancora ti voglio bene, forse meglio di prima: non me lo chiedere più. Tu devi essere forte ... sopratutto per te io non te lo dico. Cominceresti a pensarci: e perché non glielo posso dire che sono il padre? E gli altri due che sono, che diritto hanno? L'interesse li metterebbe uno contro l'altro. Sono tre uomini, non sono tre ragazzi. Sarebbero capaci di uccidersi tra di loro ... non pensare a te, non pensare a me ... pensa a loro." Ma Domenico si sente giocato. È furibondo. Il matrimonio non si farà. Ognuno per la sua strada, Filumena con i suoi figli, Soriano per suo conto. Ma interviene a risolvere la situazione un inatteso colpo di scena che fa precipitare repentinamente il terzo atto verso la conclusione: i tre ragazzi si rivolgono a Domenico chiamandolo "papà", Domenico è preso da una profonda commozione, si arrende, scopre il sentimento paterno assieme alla generosità di un disinteressato altruismo che gli fa accettare i due figli non suoi e rinunciare, non senza sofferenza, a sapere chi è il suo figlio naturale. Filumena ha vinto. Quando, dopo il matrimonio, marito e moglie restano soli, al pianto liberatorio di Filumena, corrisponde la tenerezza e l'amore di Domenico. "Ti sei messa paura ... hai corso ... sei caduta ... ti sei alzata ... ti sei arrampicata ... hai pensato, e il pensare stanca ... Adesso non devi correre più, non devi pensare più ... Riposati. I figli sono figli e sono tutti uguali. Filumè, hai ragione tu." La commedia di Eduardo porta al pubblico il problema dei diritti dei figli illegittimi, mentre nello stesso tempo l'Assemblea costituente svolgeva un dibattito sulla famiglia e sui figli nati fuori dal matrimonio. La tematica affrontata da Eduardo trova riscontro nell'impegno dell'Assemblea Costituente e offre materia di riflessione per affrontare il drammatico problema. Il 23 Aprile 1947 1'Assemblea Costituente approva l'articolo che stabilisce il diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire e educare anche i figli nati fuori dal matrimonio. Nel febbraio del 1955 verrà approvata la legge che abolirà l’uso dell’espressione “figlio di N.N.” Francesco Rosi Associazione Teatrale Pistoiese LUCA GIORDANA, MASSIMO GRIGÒ, ROBERTA MATTEI, MICHELE NANI, NICOLA RIGNANESE, ROBERTO VALERIO IL VANTONE di PIER PAOLO PASOLINI da PLAUTO regia ROBERTO VALERIO scena Giorgio Gori costumi Lucia Mariani luci Emiliano Pona Un’altra strada che mi si è aperta è quella del teatro: cioè ad un certo momento ho pensato che di tutti i mezzi di massa, l’unico che non avrebbe mai potuto essere tale era il teatro, perché il teatro non si può riprodurre in serie.... ogni sera questo rito si riproduce nella sua fisicità cioè nella sua verginità. E per quanto grande sia il numero degli spettatori, questo numero non va mai a coincidere con quel numero x che è la massa...questo teatro sarebbe stato... un atto di protesta attiva, dinamica, contro la cultura di massa. (Pier Paolo Pasolini) Pasolini tradusse il Miles nel 1963, in sole tre settimane, su richiesta di Vittorio Gassman che aveva in progetto di portare sulle scene il testo di Plauto, ma l’allestimento non fu mai realizzato. Con la regia di Franco Enriquez il testo debuttò comunque nel novembre del ’63 al Teatro della Pergola di Firenze: nel cast, tra gli altri, Valeria Moriconi e Glauco Mauri. In seguito è stato allestito da Squarzina con Mario Scaccia e da Pino Quartullo con Arnoldo Foà. La versione di Pasolini del celebre Miles Gloriosus è qualcosa di più di una semplice traduzione: è un rifacimento che attualizza l’universo plautino, traslando il contesto più che la parola del grande commediografo; o se si vuole una traduzione “artistica” che reinventa, inserisce personaggi popolari e di quartiere, concretizza un mondo fatto di macchiette creando un gioco teatrale parallelo a quello di Plauto. La pulsante vitalità del parlato rivive attraverso diversi livelli linguistici e stilistici: in primo luogo il dialetto, non quello ‘letterarizzato’ che troviamo in Ragazzi di vita e Una vita violenta, ma una sua forma mutuata dal Belli e poi mediata dal palcoscenico, dal variegato mondo dell’avanspettacolo. Appunti per la regia Il Vantone è la Roma dei raggiri, delle truffe, degli espedienti per sopravvivere, della lotta per riuscire a mangiare, dell’eterna lotta tra padrone e servo, o meglio tra signori e morti di fame… È la Roma di borgata, Pietralata o il Prenestino, dove, per citare Pasolini, “la gente viveva nelle baracche-tuguri costruite sulla polvere brecciolosa e sparsa di sporcizie e di rifiuti (…) con intorno zella e sole, sole e zella (…), come una specie di città indigena con un odore così forte di merda di fogna che accorava…”. È la Roma allegra del mascherino (garzone del fornaio) che “una volta era sempre, eternamente allegro: un’allegria vera che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito molto poveramente: i calzoni rattoppati e addirittura spesse volte la camicetta uno straccio. Però tutto ciò faceva parte di un modello che nella sua borgata aveva un valore, un senso. Ed egli ne era fiero. Al mondo della ricchezza egli aveva da opporre un altro mondo altrettanto valido… È la Roma degli sbruffoni, dei raccontaballe, dei vantoni da bar che raccontano mirabolanti avventure prendendo spunto da piccoli episodi a volte pure inventati, di “quelli che se credeno capoccia, e a casa la moje je spacca la capoccia…”. È la Roma musicale del dialetto. “Non avevo automobile quando scrivevo in dialetto (prima in friulano, poi in romano). Non avevo un soldo in tasca e giravo in bicicletta. Non si trattava solo di povertà giovanile. E in tutto il mondo povero intorno a me, il dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così lontane da parere astratte. L’italianizzazione dell’Italia pareva doversi fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e popolare (e non sulla sostituzione della lingua pilota letteraria con la lingua pilota aziendale, com’è poi avvenuto). Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, c’è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà…”. È la Roma dell'avanspettacolo negli anni del dopoguerra: “qualcosa di vagamente analogo al teatro di Plauto, di così sanguignamente plebeo, capace di dar luogo ad uno scambio altrettanto intenso, ammiccante e dialogante, fra testo e pubblico, mi pareva di poterlo individuare soltanto nell'avanspettacolo: Il mobilissimo volgare insomma, contagiato dalla volgarità, direi fisiologica, del capocomico...della soubrette...”. Questi gli spunti a cui lo spettacolo si ispira, avendo come costante riferimento la filmografia pasoliniana (soprattutto Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Che cosa sono le nuvole?) e gli interpreti dell’avanspettacolo italiano (da Petrolini ad Alberto Lionello, da Wanda Osiris a Delia Scala). Roberto Valerio Teatro Stabile della Sardegna ENZO VETRANO STEFANO RANDISI PENSACI GIACOMINO di LUIGI PIRANDELLO con Giuliano Brunazzi, Ester Cucinotti, Eleonora Giua, Giovanni Moschella Antonio Lo Presti, Margherita Smedile l Regia ENZO VETRANO e STEFANO RANDISI Luci Maurizio Viani “Un lavoro audacissimo”. Così Pirandello descrive al figlio Pensaci, Giacomino!, la commedia scritta per Angelo Musco, che ci fa divertire nel guardare da vicino legami familiari paradossali e tumultuose relazioni con un perbenismo di facciata. Audacissimo è infatti l’intreccio che fin dalla stesura dell’omonima novella da cui il testo teatrale prende spunto crea scalpore tra i lettori del Corriere della Sera, su cui era stata pubblicata nel 1910: Agostino Toti, vecchio professore di liceo anticonformista ante litteram dichiara la sua intenzione di “vendicarsi” contro il governo che lo ha costretto a una vita solitaria a causa di uno stipendio da fame, sposando una ragazzina giovanissima che beneficerà a vita della pensione che lo Stato sarà costretto a versarle in quanto sua vedova. Il caso di Lillina, figlia del bidello della sua scuola, messa incinta da Giacomino Delisi, un suo ex alunno, e adesso cacciata di casa dai genitori gli offre la possibilità di realizzare il suo piano. Per qualche anno il professore permette alla giovane moglie e al suo amante di incontrarsi nella sua casa, fa da nonno al bimbo nato dalla loro relazione, e trova anche un posto in banca a Giacomino, beandosi della felicità conquistata con questa inattesa famiglia e ostentando indifferenza per le reazioni scandalizzate della gente di fronte a un inequivocabile, inaccettabile menage à trois. Ad un certo punto però, Giacomino comincia a disertare la casa del professore e la giovane madre è annientata dal dolore. Agostino Toti ne cerca il motivo, e scopre che la sorella di lui, con la complicità di un prete viscido e indegno, lo ha fatto fidanzare a una “giovine orfana e perbene” al fine di liberarlo da questa condizione immorale. Con la determinazione di un paladino della giustizia e della vera moralità si precipita da Giacomino e riesce a riportarlo a casa sua dopo averlo minacciato, implorato e infine commosso con il richiamo alla paternità e all’amore di Lillina. Commedia morale dunque, umoristica ma anche grottesca, con un personaggio che sembra voler affrontare l’ipocrisia del mondo senza la maschera di un ruolo sociale, quello di marito, perché di questo ruolo si libera subito, dichiarando di non volerlo essere. Ma a guardar bene… “Tu sarai la mia figliola, la mia figliola bella” Con queste parole si chiude il primo atto, e per tutto il secondo e il terzo da padre si comporta con lei, e anche con l’amante di lei, Giacomino. Ma questa famiglia aperta, trasgressiva, sui generis, vissuta come un’offesa da tutta la comunità civile, acquista nella mente del Professore una valenza etica che va protetta e difesa con tutte le forze e così, fatalmente, come in un gioco di scatole cinesi, la “non famiglia” viene intrappolata nella stessa idea claustrofobica di famiglia, e i suoi componenti soggiogati a meccanismi di compressione e prepotenza. Attraverso questo testo apparentemente comico e irriverente la nostra attenzione si può focalizzare allora sulla famiglia e sugli squilibri che possono esplodere al suo interno, scaraventandoci in un’attualità drammatica e agghiacciante, che ci coinvolge tutti e ci fa riflettere sugli aspetti diametralmente opposti della violenza e del rispetto. Stefano Randisi, Enzo Vetrano Ass. Cult. “La Pirandelliana” in coproduzione con Diana Or.i.s GIANFELICE IMPARATO LUISA RANIERI L‘ORO DI NAPOLI dai racconti di GIUSEPPE MAROTTA adattamento teatrale di Armando Pugliese e Gianfelice Imparato con Valerio Santoro regia ARMANDO PUGLIESE musiche di scena Nicola Piovani scene Andrea Taddei costumi Silvia Polidori “Una dichiarazione d’amore per Napoli, città splendida e miserabile, amorosa e spietata, e per i suoi abitanti, disperati, poveri, ricchi di fantasia, magnifici, capaci di inventarsi la vita giorno per giorno. In questi racconti la Napoli di un tempo rivive senza pietismo o retorica, ma con commossa, asciutta, a volte divertita partecipazione.” Così nel risvolto di copertina del libro. “Film in sei episodi, tratti dall’omonimo libro di Giuseppe Marotta, “Trent’anni, diconsi trenta”, “Gente nel vicolo” e “La gente di Napoli”, “I giocatori”, “Personaggi in busta chiusa”, “Don Ersilio Miccio vendeva saggezza”. Difficile fare una graduatoria in un film di insolita omogeneità, tematica e stilistica, se non basandosi sui gusti personali. Di Marotta si accentua la vena umoristica più che quella malinconica, l’allegria più che la tristezza. L’Oro di Napoli è la pazienza, “la possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta; una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza.” E’ il suo tema conduttore. Non è un film neorealista. Di maniera nel suo bozzettismo? Troppo teatrale e calligrafico? Forse, ma riscattato dalla sagace direzione desichiana degli attori e dallo stesso teatralismo del popolo dei bassi napoletani.” Così sul film di De Sica del 1954. È da quel “teatralismo” che si intende partire per un’edizione teatrale de “L’Oro di Napoli”, e da quella miriade di personaggi e di situazioni che, come nella “Mappata” di Salvatore Di Giacomo dove i poveri vengono raccolti tutti in un lenzuolo, in questo caso se ne raccolgono le storie, dolenti o comiche, tragiche o paradossali, in un unico di quei palazzoni di cui pullula il centro storico di Napoli. E, come a strati, progressivamente ne scopriamo gli interni, e negli interni gli episodi, e negli episodi i personaggi che, a prescindere dagli stessi singoli episodi, interloquiscono tra loro nell’androne, tra le scale, nella strada, sui pianerottoli del palazzo-microcosmo, dando vita a quella coralità dolente e magica di una Napoli anche furbesca ed ingannatrice, ma non imbastardita da un degrado che sembra inarrestabile. Per cui questa edizione teatrale de “L’Oro di Napoli” di Giuseppe Marotta non sarà, come ormai troppo spesso accade in teatro, una pedissequa riproposta del film di De Sica ma una ricomposizione totalmente nuova dei suoi racconti, di cui alcuni sfruttati anche dal film ma altri completamente inediti da un punto di vista spettacolare e tratti direttamentedagli scritti di Giuseppe Marotta. Così dagli intenti teatrali del 2009. Armando Pugliese Teatro de Gli Incamminati FRANCO BRANCIAROLI DON CHISCIOTTE Progetto e regia FRANCO BRANCIAROLI Scena MARGHERITA PALLI Luci GIGI SACCOMANDI Costumi CATERINA LUCCHIARI Musiche DANIELE D'ANGELO "Don Chisciotte è un enorme trattato sull'imitazione: così come lui imita i cavalieri, io imito i cavalieri della scena". Con questa premessa Franco Branciaroli, dopo l'originale edizione di Finale di partita in cui il protagonista parlava con la voce dell'ispettore Clouseau, si prepara al nuovo spettacolo tratto dal testo di Miguel de Cervantes. Branciaroli sarà infatti impegnato nel doppio ruolo di Don Chisciotte e Sancho Pancia, cui darà, imitandole, le voci di Vittorio Gassman e Carmelo Bene. Il vagabondare verbale, divertente e commovente insieme, dei due mattatori ripercorrerà alcune delle scene più celebri del grande romanzo picaresco del siglo de oro spagnolo. "Li immagino nell'aldilà - spiega ancora Branciaroli - mentre confessano che avrebbero sempre voluto mettere in scena il libro più d'avanguardia che ci sia, il Don Chisciotte. Li faccio parlare e così, accanto accanto ai personaggi dell'Hidalgo e di Sancho, riprenderanno vita anche i loro dialoghi, i loro battibecchi, il loro immaginario". Ecco dunque che le "maschere verbali" dei due grandi protagonisti della scena teatrale italiana, daranno anche occasione di ritrovare atmosfere di un Gran teatro che non c'è più e che lo stesso Branciaroli, che con Bene ha recitato ai suoi esordi, ha preso per la coda: "Erano due avversari irriducibili - continua l'attore-regista - ma anche, al fondo, due artisti che si stimavano. E questa è una cosa che mi commuove". E divertimento con un pizzico di nostalgia sarà infatti la temperatura emotiva dello spettacolo. Il finale? Non è una vera fine, cosa che sarebbe pertinente solo con il mondo dell'aldiqua, mentre nel tempo eterno i nostri due mattatori, e idealmente Branciaroli con loro, possono ripetere all'infinito, variandola e reinventandola, la rappresentazione. E così è. «... Il procedimento corrisponde a un nascondermi. L'ho già fatto con Finale di partita di Beckett dove ho adottato i toni del doppiatore italiano dell'ispettore Clouseau alias Peter Sellers. Come se escludessi i miei mezzi vocali. Ancora di più col Don Chisciotte evocante Gassman e Bene (o con Gassman e Bene che evocano il Cavaliere della Mancha e Sancio) in definitiva plasmo le voci degli altri, voci diventate mitiche, nobilmente manieristiche. Non è un caso che loro due siano riproducibili, reinventabili (è molto difficile riprodurre me, che non ho nulla di particolare a livello di gola), e va aggiunto che il nostro è un momento in cui non si può più granché affermare una voce, per il semplice motivo che in realtà non ti stanno più ad ascoltare. Un gruppo di persone decide cosa è giusto e cosa non lo è (e questo andrebbe bene se le opzioni e i culti fossero davvero giusti: purtroppo sono spesso sbagliati), e queste persone sono tutto l'apparato decisionale coalizzato (dal critico ai direttori di teatro). La conseguenza è che la povera arte del teatro continua a pedalare a vuoto, il ricambio è costituito da fallimenti, e non c'è spazio per un contropotere. Allora ho sentito la tentazione di portare in scena i potenti: vedetevela con loro, con Gassman e Bene. Non è proprio esclusivamente un omaggio: è anche, quindi, una specie di resa dei conti. Ossia, l'omaggio è ovvio, perché reputi alti coloro cui ti riferisci per mettere a segno la resa dei conti. Però è come se dicessi anche: bene, questi sono i miti che avete codificato, e io mi ci confronto, e questo produce anche l'idea teoretica di un Chisciotte che si trova nella condizione in cui mi trovo io, che deve parlare con/per voce altrui, che non vive una condizione romantica con slanci ideali ma subisce il destino d'un disgraziato alle prese con un mondo che non lo vuole, che non ha niente a che fare con lui. Il Cavaliere dalla triste figura impersona la deriva, l'ultima spiaggia cui viene costretto oggi il teatro. Rischiamo non più di vedere un'osteria come fosse un castello, ma di vedere un'osteria come fosse il teatro... ». Franco Branciaroli (da una conversazione con Rodolfo di Giammarco per i volumi del TST, Teatro Stabile di Torino) Teatro di Roma MASSIMO POPOLIZIO CYRANO DE BERGERAC di EDMOND ROSTAND con Stefano Alessandroni, Roberto Baldassari, Luca Bastianello, Giovanni Battaglia, Luca Campanella, Dario Cantarelli, Simone Ciampi, Andrea Gherpelli, Marco Maccieri, Elisabetta Piccolomini, Mauro Santopietro, Gabriella Riva, Carlotta Viscovo regia DANIELE ABBADO scene GRAZIANO GREGORI costumi GRAZIANO GREGORI, CARLA TETI Cyrano lo sconfitto, suggeritore della vita e dell'opera di altri, ci indica passaggi dell'esistenza che non conosciamo, mescola estetica e vita - vita avventurosa e vita letteraria - apparentandosi in questo a personaggi lontanamente affini come Falstaff e Don Chisciotte. Quando se ne va, porta nel mondo delle ombre il suo gran naso, simbolo di libertà, indipendenza, diversità, marchio di un eroe che si batte fino in fondo anche contro l'impossibile, persino contro le tenebre. La storia di questo testo è rocambolesca e stupefacente quanto il suo protagonista. L'autore, Edmond Ronstand, giovane drammaturgo marsigliese, fino ad allora aveva scritto lavori di poco conto; anche Cyrano sembrava della stessa razza. Ronstand addirittura supplicò il protagonista di quel primo allestimento, l’attore Coquelin Aîné, di scusarlo per averlo trascinato in un'operazione fallimentare. Al contrario, quando Cyrano de Bergerac andò in scena il 27 dicembre 1897, al Teatro Porte Saint Martin di Parigi, il successo fu tale che, la sera stessa della prima, in camerino, venne assegnata all autore la Legion d'Onore. Quale la ragione di tanto successo? Di Cyrano, testo “popolare” ma assai poco frequentato, tutti conoscono i tratti del protagonista, quasi si trattasse di una figura archetipica. La pièce rielabora le gesta di Savinien Cyrano de Bergerac, realmente vissuto nella Francia del XVII secolo, poeta e libero pensatore; il testo, scritto in endecasillabi, elabora poetiche esistenziali e filosofiche, sullo sfondo di atmosfere tardoromantiche. Ronstand, unisce sapientemente forza intellettuale e stravaganze di comportamento del Cyrano originale – “rimatore, spadaccino, scienziato, musicista” - alla prestanza fisica della sua creatura, creando così un personaggio esagerato, ironico, travolgente, idealista e poco accorto uomo di mondo, nemico di qualsiasi ipocrisia e bassezza umana. Al tempo stesso, un essere coraggioso che soffre a causa del suo naso deforme, sorta di ode a tutti coloro che la società estromette perché non rispondenti ai canoni in voga. Cyrano è un acrobata della parola. Possiede amici fedeli e nemici implacabili. È un funambolo del verso, è poeta e asceta, si batte per testimoniare la vera, profonda libertà della poesia. La follia poetica, testimonia Cyrano, rimane inavvicinabile e contiene in sé la propria predestinazione e diversità. Nel testo, la ricorrente metafora della luna simboleggia questa diversità di carattere utopico, fino alla famosa scena in cui Cyrano inventa “sei mezzi buoni di violare l’azzurro” e salire sulla luna. È un incantatore di donne ma innamorato infelice, anzi, innamorato senza speranza alcuna. La pièce è percorsa dall'amore impossibile di Cyrano per la cugina Roxanne, corrisposto solo nell'ombra dell'equivoco; la giovane è innamorata dell afasico Christian al quale Cyrano presta le proprie arti poetiche in un patto quasi mefistofelico. Christian parlerà e scriverà imbeccato da Cyrano, per conquistare Roxanne, dando vita ad un triangolo amoroso che si protrarrà fino alle ultime righe del lavoro. Soltanto in punto di morte Cyrano trova il coraggio di uscire da un'ombra durata quindici anni, per svelarsi a Roxanne e a sé stesso, concludendo in tal modo il suo rocambolesco percorso terreno. Un amore, sembra dirci, non ha bisogno di essere condiviso per essere esemplare. Cyrano lo sconfitto, suggeritore della vita e dell’opera di altri, ci indica passaggi dell’esistenza che non conosciamo, mescola estetica e vita - vita avventurosa e vita letteraria - apparentandosi in questo a personaggi lontanamente affini come Falstaff e Don Chisciotte. Quando se ne va, portanel mondo delle ombre il suo gran naso, simbolo di libertà, indipendenza, diversità, marchio di uneroe che si batte fino in fondo anche contro l’impossibile, persino contro le tenebre. Resta la risonanza dell’agire di un personaggio in fuga verso l’eroismo di ogni gesto quotidiano,che assume su di sé la impossibilità di qualsiasi eroismo individuale. Un combattente già sconfitto in partenza, che lotta fino alla fine contro un destino tragicomico. Alla fine di tutto, ci avrà indicato l’utopia di una purezza esemplare. Teatro Stabile d’Abruzzo/Società per Attori ALESSANDRO GASSMAN ROMAN E IL SUO CUCCIOLO (Cuba & His Teddy Bear) di REINALDO POVOD traduzione e adattamento Edoardo Erba con Manrico Gammarota, Sergio Meogrossi, Giovanni Anzaldo, Matteo Taranto, Natalia Lungu regia ALESSANDRO GASSMAN scene Gianluca Amodio musiche originali Pivio&Aldo De Scalzi light designer Matteo Palmieri Sono già passati quattro anni dal mio debutto nella regia con “La forza dell’abitudine” di Thomas Bernard, cui hanno seguito due stagioni ricche di successi e riconoscimenti con “La parola ai giurati” di Reginald Rose. Mi accingo ora a mettere in scena un altro testo contemporaneo che negli anni ‘80 ottenne un grande successo a New York e che ebbe come protagonista Robert De Niro. Si tratta di “Cuba & His Teddy Bear” di Reinaldo Povod, un testo che mi ha coinvolto fin dalla prima lettura per l’umanità dei suoi personaggi, per uno stile di scrittura tagliente, crudo, profondo, che mai indulge al sentimentalismo. Con Edoardo Erba, traduttore e adattatore del testo, abbiamo deciso di ambientare la vicenda in una periferia urbana del nostro paese, all’interno di una comunità rumena, dove confluiscono personaggi di altra radice etnica. Operazione che non tradisce il testo originale americano che fa appunto coesistere personaggi di diverse razze, culture, religioni. È un dramma familiare e al tempo stesso sociale, un attualissimo sguardo sul presente che è anche un preciso richiamo a uno dei fenomeni che negli ultimi tempi più ci coinvolgono: la presenza degli immigrati nella nostra vita, presenza che ha cambiato la fisionomia delle nostre città e il tessuto delle nostre relazioni. Uno sguardo neutrale, non ideologico, fuori dagli schemi del razzismo o della solidarietà di maniera. La prorompente forza drammatica dell’opera si basa sul rapporto irrisolto fra un padre semianalfabeta, spacciatore di droga, nevrotico, che alterna momenti di dolcezza a esplosioni di rabbia e un adolescente apparentemente schiacciato dall’autorità paterna, che vuole emanciparsi attraverso lo studio ma che nasconde al padre le sue illusorie prospettive di vitae la sua progressiva dipendenza dall’eroina. Un maldestro socio in affari del padre, un intellettuale tossicodipendente, un’altro spacciatore e la sua giovane prostituta sono gli altri personaggi che ruotano intorno alla drammatica vicenda umana di un uomo disposto a tutto pur di guadagnare denaro e garantire al figlio un futuro diverso dal suo e di un ragazzo consapevole del fatto che il padre potrà, a suo modo, amarlo ma non riuscirà mai a capirlo. Un rapporto toccante, crudo, a tratti sconvolgente, che troverà compimento solo attraverso un fatale, catartico epilogo. Ma è anche una storia di disperazione e di degrado che, attraverso il drammatico destino di un’umanità condannata all’emarginazione, rimanda a problematiche sociali di grande attualità. Una delle sfide più difficili del terzo millennio sarà quella di imparare a vivere in una società unita nella pluralità, ponendo come base quanto ci è comune: la nostra umanità. Alessandro Gassman Fondazione Teatro di Napoli Teatro Stabile del Mediterraneo/Teatro Franco Parenti VLADIMIR LUXURIA DANIELE RUSSO PERSONE NATURALI E STRAFOTTENTI di GIUSEPPE PATRONI GRIFFI regia ANDREE RUTH SHAMMAH Persone naturali e strafottenti è uno strano oggetto. Una commedia tragicomica del 1972 di Giuseppe Patroni Griffi che, al suo debutto nel 1974, quando in Italia l'omosessualità era ancora un tabù, provocò chiaramente un enorme scandalo. Testo ardito ma sempre attuale che torna tra noi come da un altro luogo e da un'altra epoca con l’autorità di un classico contemporaneo nel quale l’autore ritorna al mito di una Napoli perduta. Quattro personaggi in una squallida camera ad ore nei bassi di Napoli passano la notte di Capodanno a scavare nelle loro miserie e nelle loro contraddizioni: Violante, una vecchia affittacamere con un passato da cameriera in un bordello, Mariacallàs, un travestito intellettuale che con notevole sforzo cerca di apparire stupido, e due ragazzi ai quali il travestito ha subaffittato la sua stanza: Fred, giovane studente omosessuale e ideologo borghese, e Byron un ragazzo di colore, forse poeta e “rivoluzionario”. Quattro disperati alla deriva, che racimolano la loro umanità di diveri, di esclusi, emarginati, nell' umiliazione, nell' azzardo del piccolo crimine, nella piccola disonestà per rubare la sopravvivenza quotidiana.