FEDERICO II il Grande, re di PRUSSIA

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“FEDERICO II il Grande, re di PRUSSIA”, voce tratta dalla Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, vol. XIV.
FEDERICO II il Grande, re di PRUSSIA
L’infanzia e l’educazione impartitagli dal padre
Federico II il Grande nacque a Berlino il 24 gennaio 1712, da Federico
Guglielmo I e da Sofia Dorotea di Hannover. A dettare le norme per la sua
educazione provvide lo stesso re, profondamente compreso del suo dovere,
sempre preoccupato di fondare sul solido la fortuna del suo stato, ma a un tempo
duro, gretto anche, incapace d' interessarsi a tutto che non fosse soldati o
finanze. Poca storia "vecchia" si doveva insegnare al giovane principe: ma molta
storia dei tempi recenti, che servisse più che altro a orientare il futuro reggitore
dello stato prussiano nell'intrico delle questioni diplomatiche del presente. E
niente letteratura, niente latino; ma molta matematica, molta economia politica;
frequenti letture della Sacra Scrittura. A siffatto programma d'educazione mentale
corrispondeva un programma d'educazione fisica, regolato anch'esso fin nei più
minuti particolari, e parecchio aspro da sopportare, anche per giovani più robusti
che non fosse Fritz. Così il re Federico Guglielmo intendeva formarsi un
successore a sua immagine e somiglianza, duro alla fatica, buon militare,
economo amministratore, fedele servo del Signore.
Ma l'erede al trono già dava a vedere di non essere dello stesso stampo del
padre. C'era in quel ragazzo, fisicamente gracile, un bisogno di espansività
umana e, insieme, di una vita spirituale non limitata ai calcoli matematici o
all'economia, che contrastava con le semplici e rudi direttive paterne. E c'era poi
accanto a lui la sorella, l'intelligente e vivace Guglielmina, legata da profondo
affetto al fratello minore di lei di tre anni, la sua compagna di giochi, pronta a
sostenerlo contro il padre, da cui ella era lontanissima per animo. Lo stesso
precettore, il calvinista francese Duhan de Jandun, uno degli emigrati francesi
nel Brandeburgo, varcava i limiti segnati da re Federico Guglielmo, e faceva
apprendere al suo allievo cose non contemplate nei programmi, gli destava
curiosità letterarie e filosofiche non previste dal re, gli metteva su finanche una
biblioteca segreta di più di 3000 volumi, in cui Federico poteva ritrovare poeti e
filosofi e leggerli avidamente di nascosto dal padre. E così nel principe cresceva
quel fermento di vita che il padre non avrebbe mai potuto capire; e fin nelle
piccole cose cominciava a palesarsi il suo stato d'animo: insofferenza dei rozzi
costumi della corte militaresca del re, ricerca di piccole raffinatezze esteriori,
posate d'argento, vestiti, nastri francesi. Il padre, sospettoso e attento a seguire lo
sviluppo del figlio, era malcontento; giunse anzi, più volte, a picchiarlo
brutalmente, sempre poi rimproverandogli il suo amor delle vanità, delle cose
esteriori. Halte dich an das Reelle ["Attieniti al reale"].
Visita a Dresda e matrimonio
Peggio ancora si misero le cose dopo la visita a Dresda, alla raffinata corte di
Federico Augusto elettore di Sassonia (1728). Qui Federico aprì gli occhi su un
mondo che gli era sconosciuto, in cruda antitesi con la povera corte di Berlino; e
ritornò nella reggia paterna più malcontento che mai del suo stato. A credere a
quella buona lingua di Guglielmina, a Dresda Federico sarebbe anche stato
iniziato ai misteri di amore: certo, dopo d'allora, i rimproveri del padre divennero
più aspri, più continui. Federico era un libertino, un dissipatore: avrebbe
mandato in rovina il regno. E già l'urto fra padre e figlio era entrato nella fase
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acuta, senza che la regina facesse pur un passo per attenuarlo, quando
sopravvenne la questione del matrimonio. La regina Sofia Dorotea avrebbe voluto
che Federico sposasse la principessa inglese Amelia, assicurandosi così il governo
del Hannover e l'indipendenza dal padre. Ma le condizioni che il governo inglese
avrebbe pretese per consentire al progetto (in sostanza mutamento della politica
estera della Prussia, fino allora legata a quella austriaca) provocarono una vivace
reazione in Federico Guglielmo: il progetto di matrimonio fu seppellito, e Federico
vide svanire la speranza di poter vivere finalmente da sé.
Il tentativo di fuga
Progettò allora la fuga, mettendosi d'accordo con due ufficiali del suo
seguito, i tenenti Katte e Keith, e cercando di approfittare di un viaggio nella
Germania meridionale che compieva insieme col padre. Ma il tentativo fallì; e
Federico Guglielmo fu avvertito d'ogni cosa. Il severo re, che sospettò addirittura
di un complotto contro la propria vita, dovette per il momento contenere la
collera: ma appena tornato sul suolo prussiano, la tempesta scoppiò. Federico fu
imprigionato nella fortezza di Küstrin e, qui, condotto davanti ai giudici. Furono
settimane terribili, non solo per Federico, ma per tutta la famiglia reale. Federico
Guglielmo era in un periodo di furore che nulla poteva contenere: scopre che
Federico ha avuto un intrigo amoroso con una Elisabetta Ritter di Potsdam e fa
prima frustare in pubblico, poi imprigionare la ragazza a Spandau; scopre la
biblioteca segreta di Federico, e fa vendere tutti i libri ad Amburgo, ed esilia a
Memel l'ex precettore di Federico, Duhan de Jandun. Che cosa egli mediti di fare
contro il figlio, colpevole ai suoi occhi della più mostruosa delle colpe, è ancora un
mistero: c'è chi teme addirittura la condanna a morte. E da tutta Europa, dalla
Svezia come dall'Olanda come da Londra, giungono preghiere, esortazioni alla
mitezza.
Finalmente, a Köpenick, il 25 e il 26 ottobre, si raduna il consiglio di guerra.
Katte, uno dei due complici (l'altro, Keith, era riuscito a fuggire) è condannato alla
prigione a vita; ma i giudici, vassalli e sudditi del re di Prussia, rifiutano di
statuire sul principe ereditario. Federico Guglielmo, invece, mandò a morte Katte,
facendolo giustiziare sotto la camera stessa di Federico, che, condotto alla
finestra da due ufficiali, dovette assistere al supplizio, cadendo in ultimo svenuto
(Küstrin, 6 novembre). Per il principe diede incarico al pastore Müller di farlo
"rientrare in sé stesso", d' indurlo a chiedere perdono a Dio, approfittando del
terrore che lo spettacolo atroce del supplizio di Katte doveva avergli causato. E fu,
ben presto, la grazia. Federico era ormai piegato, e accettava la volontà paterna; e
uscendo dalla prigione di Küstrin, il 19 dicembre 1730, era rassegnato a una
nuova vita, nello stile voluto dal genitore.
Il lavoro a Küstrin
Si mette al lavoro, come uditore della Camera dei demanî di Küstrin: vita
monotona, senza passatempi, sempre con i soliti compagni; vita parsimoniosa,
ché Federico deve inviare i conti di cassa al re, e sa che questi non permette lo
sperpero. Ma intanto, la sua funzione lo mette in grado di studiare nel vivo
l'amministrazione interna del regno; e, a poco a poco, cresce il suo interesse per
questioni che prima gli sembravano odiose, ed egli giunge sino a preoccuparsi
della produzione agricola dei possessi regi, a prospettar piani di migliorie.
Federico Guglielmo, che ha rivisto il figlio per la prima volta il 15 agosto 1731 e
gli ha ancora inflitto un solenne predicozzo, cambia umore e parere, comincia ad
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aver fiducia in lui, infine, per l'intercessione di Guglielmina, che va sposa al
margravio di Bayreuth, gli fa grazia totale, lo richiama a Berlino, lo ammette alle
cerimonie nuziali, gli promette il comando di un reggimento concessogli nel '32.
Ma una nuova prova deve ancora essere superata: il 4 febbraio 1732 il re scrive al
suo "caro figlio Fritz" di avergli trovato moglie, la principessa Elisabetta Cristina
di Brunswick-Bevern. Federico deve cedere ancora, a malincuore, furioso in cuor
suo di un simile affare: il 27 giugno 1733 entra solennemente a Berlino, con a
fianco la sposa: poche settimane dopo, si reca con lei a Neu-Ruppin; nel 1734,
avendogli il padre fatto dono della terra di Rheinsberg, fa iniziare i lavori per
rimettere in ordine il castello semirovinato. Neu-Ruppin e Rheinsberg dovevano
essere, da allora fino all'avvento al trono, la sua nuova residenza.
I contatti con i pensatori del secolo
Furono anni di vita quieta e tranquilla, solo interrotta dalla partecipazione
alla campagna contro la Francia nell'esercito imperiale guidato da Eugenio di
Savoia (1734-35). Da una parte, i doveri militari; dall'altra ancora l'esame delle
questioni amministrative e finanziarie del regno, a cui attendeva pur sempre, e
l'amministrazione dei beni, di cui bisognava render conto al padre. Ma accanto
alla parte ufficiale, Federico era ormai libero di pensare a sé stesso secondo che
egli voleva; e si circondò di letterati e pensatori, tutti sotto l'influsso delle nuove
idee che venivano di Francia e lesse filosofi, specialmente Wolf, e poeti, e scrisse
egli stesso versi, e progettò di scrivere di metafisica, e redasse le Considérations
sur l'état présent du corps politique de l'Europe e l'Antimachiavel. Infine si pose in
relazione epistolare con Voltaire, il suo idolo di allora, dando libero sfogo, nelle
lettere, alle sue meditazioni sull'arte e la scienza, la morale e la religione, alla sua
ammirazione per il pensiero e le lettere francesi, al suo desiderio di far prosperare
le scienze anche nel suo paese, ancora semichiuso alla luce del vero.
Chi lo avesse conosciuto solo in tale sua attività, avrebbe potuto credere di
trovarsi di fronte a un uomo che a tutto pensava, fuorché al prossimo regno: un
letterato-filosofo, al quale – secondo egli stesso diceva – "la vie d'un homme qui
n'existe que pour réfléchir, et pour lui même... paraît infiniment préférable à la
vie d'un homme, dont l'unique occupation doit être de faire le bonheur des
autres". Ma se della conversazione con i letterati e i filosofi tracce cospicue
dovevano rimanere nell'animo di Federico diventato, per un verso, uomo
tipicamente settecentesco, assai più importanti e più profonde erano le tracce che
lasciavano nell'animo di lui le occupazioni militari e amministrative che lo
rendevano veramente padrone del suo stato, e lo preparavano al suo alto compito
di sovrano. Anzi, qualche cosa del padre veniva ora in luce in lui: soprattutto il
senso fortissimo e quasi religioso del proprio dovere. Poté così, visitando la
Lituania prussiana, rimanere per la prima volta ammirato dell'opera ivi svolta dal
padre, da quel "je ne sais quoi d’héroïque", per cui Federico Guglielmo aveva
trasformato una provincia prima desolata e sterile in un paese ricco, fertile, felice.
E non fu una semplice posa letteraria, e meno che meno un'ipocrisia, s'egli
scrisse proprio allora l'Antimachiavel, per opporre ai "principini" dell'Italia del
Rinascimento il suo ideale di re: poiché in realtà egli avvertiva ora, nel compito di
sovrano, non lo sfogo di un'ambizione personale, non il compiacimento del potere
per sé stesso, ma l'adempimento di un'alta missione. Nello stesso svanire delle
idee religiose, sempre più allontanate da quelle "lumières de l'esprit" di cui anche
Federico era ormai devoto propagandista (e infatti, come sovrano, adottò una
politica di tolleranza religiosa che ripeteva le sue origini dallo scetticismo del re di
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fronte alle religioni positive), rimaneva, di religioso, il senso del proprio dovere.
Era, si può dire, l'unica luce ideale che segnasse la via all'erede al trono: ché, per
quanto concerne gli uomini e i mezzi di dominare gli uomini, egli era ormai ben
fissato. Una lunga e talora amarissima esperienza gli aveva insegnato a sapersi
valere di qualsiasi mezzo, pur di raggiungere lo scopo: aveva dovuto fingere di
fronte al padre, quando questi gli aveva imposto la moglie; fingere di fronte ai
potenti favoriti del padre, fra tutti il Grumbkow – ed era maturo per far da
commediante in più vasto circolo. Le illusioni – se mai ne avesse avute – sulla
rettitudine degli uomini, erano da un pezzo cadute; e, specialmente per quanto
concerne i rapporti fra gli stati, sapeva troppo bene come essi non si regolassero
coi paternostri. Così, il giorno in cui la morte del padre lo pose sul trono di
Prussia (31 maggio 1740), egli era ormai pronto per governare: conscio del suo
dovere di sovrano e degl'interessi della Prussia; disposto, per tutelarli, a
maneggiare ogni arma.
L’ascesa al trono
Le circostanze politiche erano d'altronde tali da imporgli subito grandi
decisioni. Stava per aprirsi il problema della successione all'impero: e Federico,
che giudicava l'imperatore "le vieux fantôme d'une idole qui avait du pouvoir
autrefois... mais qui n'est plus rien à présent", in previsione della morte di Carlo
VI, prendeva le sue misure sin dal primo momento della sua assunzione al trono,
deciso a pagare alle altre potenze "paroles veloutées de paroles velòutées, et les
réalités d'autres réalités"; disposto a proclamare che nessuno più di lui amava "le
bien d'Europe" ma disposto altresì a esigere "de bonnes conditions et des choses
solides". Aveva, per fortuna, un mirabile strumento per farsi ascoltare dalle
potenze, per le quali la Prussia era ancora una potenza di second'ordine, e per
sostenere le sue aspirazioni territoriali: un esercito di 80.000 uomini che Federico
Guglielmo gli aveva lasciato, magnificamente addestrato; e un tesoro di nove
milioni di talleri, messi da parte dal parsimonioso predecessore. La prima
questione che gli si presentò fu quella per la successione di Jülich-Clèves, una
vecchia e spinosa questione; ma gli approcci da lui tentati presso Francia, Austria
e Inghilterra rimasero senza alcun esito.
La Slesia
Sennonché il 20 ottobre moriva Carlo VI imperatore e s'apriva la questione
della successione all'impero per cui Maria Teresa si vedeva minacciata dai
Borboni di Francia e di Spagna, dalla Baviera e dalla Sassonia. E allora Federico
pensò alla Slesia, la ricca e fertile Slesia, agognata dai Hohenzollern già dal tempo
del Grande Elettore. L'occasione che ora si presentava era magnifica; mai più,
forse, gli Asburgo si sarebbero trovati a così mal partito. Rimaneva da giustificare
giuridicamente un'occupazione che agli occhi di tutti sarebbe apparsa un'evidente
violazione del diritto delle genti e dell'impero. Ma Federico non ebbe soverchie
esitazioni: era troppo convinto dei diritti della sua casa sulla Slesia, conculcati
dagli Asburgo, siccome già da tempo aveva sentito ripetere attorno a sé; troppo
era convinto che "quand les souverains veulent en venir à une rupture, ce n'est
pas la matière du manifeste qui les arrête; ils prennent leur parti, ils font la
guerre, et ils laissent à quelque jurisconsulte le soin de les justifier". Era convinto
soprattutto che non bisognasse perder tempo: perciò entrò nella Slesia,
dichiarando tuttavia di non voler far guerra all'Austria, anzi di voler solamente
assicurarsi garanzie e pegni, pronto invece a sostenere la Prammatica Sanzione. Il
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3 gennaio 1741 entrava a Breslavia; l'8 marzo il principe Leopoldo di AnhaltDessau faceva capitolare la fortezza di Glogau. E se l'arrivo del maresciallo
austriaco Neipperg, alla testa di un nuovo esercito, mise per un istante in brutta
posizione i Prussiani, la vittoria di Mollwitz (10 aprile 1741), la grande prova del
fuoco della fanteria prussiana, assicurò il successo dell'ardita manovra del re di
Prussia.
Alleanze e nuovo rapporto con l’Austria
Fino a questo momento Federico aveva agito per proprio conto: tra invece,
forte della vittoria ottenuta, poté trattare vantaggiosamente con la Francia e la
Baviera, in rotta pure con l'Austria, ottenendone il riconoscimento al possesso
della Bassa Slesia e di Breslavia (trattato di Breslavia, 5 giugno 1741). E intanto
la stessa Maria Teresa veniva a più miti consigli, e gli faceva offrire la Bassa
Slesia con Neisse. Federico accettò anche questi nuovi rapporti, e firmò con
l'Austria il trattato di Klein-Schnellendorf (9 ottobre 1741). Il disprezzo delle
convenzioni e la preoccupazione per il proprio interesse, senza riguardo a patti e
impegni, si rivelarono ancora più clamorosamente poco dopo, di fronte al
risorgere dell'Austria. Temendo che Maria Teresa, vittoriosa, gli avrebbe ripreso la
Slesia, rientrò nella lotta insieme con gli alleati invadendo la Moravia: salvo, dopo
la sua vittoria a Chotusitz in Boemia (17 maggio 1742), a lasciar nuovamente in
asso gli alleati e accettar da Maria Teresa l'offerta non più solo della Bassa, ma
anche dell'Alta Slesia e della contea di Glatz (trattato di Breslavia, 11 giugno
1742).
Dal trattato di Breslavia al trattato di Dresda
Passò un anno. L'Austria riprese forze. E allora, sentendosi nuovamente in
pericolo, Federico tornò a combattere: si alleò nuovamente con la Francia (5
giugno 1744), lanciò un manifesto in cui si atteggiava a campione della libertà
germanica e della pace europea, e riapparve in Boemia, a capo di 80.000 uomini.
Dapprima respinto dal maresciallo austriaco Traun nella Slesia, riuscì il 4 giugno
1745, quando la situazione generale era diventata grave per l'improvvisa adesione
del nuovo duca di Baviera, Massimiliano, all'Austria, a infliggere una decisiva
sconfitta agli Austriaci a Hohenfriedberg; poi, tornato in Boemia, a batterli ancora
a Soor (30 settembre); poi ancora a Gross-Hennersdorf (23 novembre) a battere i
Sassoni alleati dell'Austria, mentre il suo luogotenente Leopoldo di Anhalt Dessau
vinceva a Kesselsdorf (15 dicembre). Questa volta, la guerra era per Federico
finita: Maria Teresa, firmando il trattato di Dresda (25 dicembre 1745), non solo
confermava la cessione dell'Alta e della Bassa Slesia, ma riconosceva al re di
Prussia la Frisia orientale, di cui Federico si era impossessato all'estinguersi della
dinastia ivi regnante (1744). Per compenso, Federico riconosceva come imperatore
Francesco I marito di Maria Teresa.
Così, in cinque anni soli di regno, egli aveva ingrandito il suo stato di più di
un terzo; fatto della Prussia una potenza temuta; provato la saldezza del suo
esercito; acquistato quell'esperienza militare che all'inizio della campagna ancora
gli mancava (donde i grossi sbagli di manovra, prima della battaglia di Mollwitz);
soddisfatto quel desiderio di faire parler de moi, che aveva avuto il suo peso nel
deciderlo all'azione. E aveva rivelato la sua politica assolutamente indifferente a
criterî giuridici o a preoccupazioni moralistiche, solo ispirata al dogma
dell'interesse dello stato, sorretta da un senso magnifico della realtà, da un fiuto
politico quale nessun altro dei reggitori d'Europa mostrava di avere. Che importa
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se per la fortuna dello stato era necessario passar sopra alle leggi che
normalmente regolano i rapporti fra gli uomini? "Notre emploi est de veiller au
bonheur de nos peuples: dès que nous trouvons donc du hasard pour eux dans
une alliance, c'est à nous de la rompre plutôt que de les exposer; en cela le
souverain se sacrifie pour le bien de ses sujets" (Histoire de mon temps, Avantpropos, p. XVI).
La sua concezione del regno
Che egli realmente pensasse al bien de ses sujets, comprova l'attivissima
politica interna, a cui diede inizio non appena posate le armi. Era convinto che il
potere dovesse risiedere nelle mani del re e solo del re; e non gli sarebbe quindi
mai venuto in mente di approntare riforme politiche che assicurassero ai sudditi
una qualche partecipazione al governo. Era anzi, per indole come per riflessione,
un accentratore di tutti gli affari nelle proprie mani, di tutto occupandosi –
politica estera, amministrazione, finanze – , forte in ciò dell'esperienza acquisita,
per volere del padre, fra il 1730 e il 1740. Ma era altrettanto convinto che il re
non era se non il primo servitore dello stato, sottomesso a una legge più dura
assai di quella che grava sui sudditi; convinto che il re c'era per attendere al
benessere del popolo, sacrificandovi anche i suoi agi e i suoi piaceri. Non lo
preoccupavano questioni dinastiche; e la stessa ambizione personale veniva
subordinata all'interesse dello stato, siccome provavano le istruzioni lasciate,
all'inizio della guerra dei Sette anni, al ministro Finckenstein, nelle quali egli.
prevedendo il caso di esser fatto prigioniero, proibiva di aver il minimo riguardo
alla sua persona e ingiungeva ai suoi ministri, come al fratello – pena la vita – di
non cedere una provincia, di non pagare un soldo di riscatto, ma di continuare la
guerra, come s'egli non fosse mai esistito. Era davvero, la sua, una monarchia
razionalizzata, come fu detto, senza che l'elemento personale o dinastico vi avesse
più una benché minima parte. Questo è il carattere saliente della grande attività
di Federico nell'interno del regno e delle sue riforme. Le quali non furono riforme
radicali, sovvertitrici: nonostante tutta la sua filosofia illuministica, Federico non
era uomo da cadere nel dottrinarismo astratto di un Giuseppe II; e se pochi altri
sovrani del suo tempo agirono con altrettanta continuità, nessun altro ebbe la
moderazione di lui, che non distruggeva ma modificava. Cominciò con la riforma
giudiziaria, che fu d'altronde sempre la sua massima cura, rivelando il suo animo
appunto in tal sua preoccupazione di assicurare il trionfo della legge, severa ma
imparziale. Affidò al gran cancelliere Samuele von Cocceij la redazione di un
codice di procedura (1747) e di un codice civile (Corpus iuris Fridericianum, 174.551); e, soprattutto, riuscì a costituire una forte, onesta magistratura, che
assicurasse la libera applicazione della legge. Accanto a ciò, un vivo
interessamento per l'economia nazionale, incoraggiata, sovvenuta, per quanto
concerne l'agricoltura, con vasti lavori di bonifica e di colonizzazione (fu bonificata
tutta un'estesa regione lungo l'Oder, da Schweinemünde a Küstrin), per quanto
concerne il commercio e l'industria con provvedimenti varî. (Federico fece venire
dall'estero filatori per le fabbriche di lana, promosse il sorgere di nuove
manifatture, stabilì premî e sovvenzioni, sempre, naturalmente, rimanendo fedele
ai precetti del mercantilismo).
Era dunque il re tutto intento a migliorare le condizioni interne del suo stato,
allorquando la situazione internazionale tornò a rabbuiarsi. Maria Teresa non era
disposta a rassegnarsi alla perdita della Slesia; e andava pertanto intessendo
trame per assicurarsi tali alleanze che le permettessero di prendersi la rivincita
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“FEDERICO II il Grande, re di PRUSSIA”, voce tratta dalla Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, vol. XIV.
sull'odiato Fritz. Trovava, per sua fortuna, in Elisabetta di Russia e nei suoi
ministri nemici acerrimi del re di Prussia; e così tra le due corti di Vienna e di
Pietroburgo si andò preparando l'attacco. Persino la Francia, alleata di Federico
dal 1740 fino al'56, andava mutando le sue direttive politiche, preparandosi così
il famoso renversement des alliances.
La guerra dei Sette anni
Ma Federico vegliava. Per parare a tempo la mossa avversaria, aveva
concluso con l'Inghilterra, nuovamente in guerra con la Francia, il trattato di
Westminster (16 gennaio 1756), che gli assicurava l'appoggio del re Giorgio II,
ch'era anche elettore di Hannover. Quando poi, il 1° maggio di quello stesso anno,
Austria e Francia stipularono il trattato d'alleanza di Versailles (puramente
difensivo, è vero, ma non per ciò meno sintomatico), e Federico venne avvertito
che nel 1757 l'Austria e la Russia lo avrebbero attaccato contemporaneamente,
allora decise di iniziare lui l'offensiva, passando sopra ancora una volta alle
formalità giuridiche, per assicurarsi il vantaggio del tempo. Con improvvisa
mossa, invase la Sassonia, ingiungendo all'elettore Augusto III di allearsi con lui
(agosto 1756). L'elettore rifiutò; ma la vittoria di Federico a Lobositz, sull'Elba (I
ottobre), sull'esercito austriaco del Brown accorso in aiuto della Sassonia, e la
capitolazione dell'esercito sassone (Pirna), costrinsero Augusto III a rifugiarsi in
Polonia, di cui era re, abbandonando il suo paese ai soldati prussiani.
Così la guerra dei Sette anni era cominciata, con una mossa che nessuno dei
nemici di Federico avrebbe potuto prevedere. Fortunato il primo episodio; ma si
addensava la bufera. La Francia (a cui si accodò anche la Svezia), ma
specialmente la Russia e l'Austria, si impegnavano a combattere il re filosofo fino
all'estremo, proponendosi senz'altro lo smembramento della Prussia e lo
schiacciamento dei Hohenzollern. Unica ma debole alleata di Federico
l'Inghilterra, che si sarebbe praticamente disinteressata della guerra nel
continente, per attendere a strappare alla Francia le sue colonie. Le tre maggiori
potenze d'Europa contro uno stato assai più piccolo e più povero di ognuna di
esse, separatamente. Eppure Federico nell'aprile del 1757 iniziò l'offensiva, nella
Boemia. Primo successo, davanti a Praga (6 maggio). Poi, la dura e cruenta
sconfitta di Kolin (18 giugno). E intanto, da est cominciavano a sopraggiungere i
Russi, e il maresciallo Lehwald era sconfitto a Gross-Jägersdorf (30 agosto); e ad
ovest s'avanzavano i Francesi, che occupavano il Hannover, e costringevano il
duca di Cumberland alla convenzione di Kloster Zeven (8 settembre). Federico
rimaneva così isolato. Ma lo salvarono la scarsa intesa fra gli alleati e il proprio
genio di condottiero. Con una mossa abilissima, affrontò e batté a Rossbach
l'esercito francese che avanzava su Lipsia (5 novembre), provocandone lo
sbandamento; poi, spostandosi fulmineamente in Slesia, attaccò a Leuthen
l'esercito austriaco di Carlo di Lorena (5 dicembre), sconfiggendolo pienamente in
una battaglia che fu capolavoro tattico di Federico Dall'orlo dell'abisso, il re di
Prussia ritornava a dominare: l'Inghilterra si riavvicinava a lui riorganizzando e
accrescendo l'esercito del Hannover; nella stessa Francia si esaltava l'eroe di
Rossbach, ridicoleggiando in canzonette ed epigrammi l'inetto comandante
francese, principe dí Soubise, favorito della Pompadour.
Alterne vicende della guerra
Ma la guerra riprese, asperrima, l'anno seguente. Poiché i Francesi erano
tenuti a bada dall'esercito del Hannover, comandato da Ferdinando di Brunswick,
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Federico ebbe a lottare solo con Austriaci e Russi: tuttavia, fu una lotta
sanguinosissima e incerta. A stento vincitore contro i Russi a Zorndorf (25
agosto), Federico fu sorpreso e battuto a Hochkirch (14 ottobre) dal maresciallo
austriaco Daun. Gravi le perdite, nelle due battaglie; prossime all'esaurimento le
risorse dello stato prussiano. Si aggiungano, in Federico, i dolori familiari: la
morte della madre nel '57, quella della sorella Guglielmina nel '58. Ancor peggio si
misero le cose nella terza campagna, del '59: egli battuto a Kunersdorf dai Russi
(12 agosto); il suo luogotenente Finck costretto alla resa dagli Austriaci del Daun
a Maxen (20-21 novembre). Una proposta di pace, avanzata da Federico e per
l'Inghilterra da Pitt (dichiarazione di Ryswick, 25 novembre 1759), fallì: bisognò
riprendere le armi. Ebbe successo contro gli Austriaci a Liegnitz (15 agosto 1760);
tuttavia gli Austriaci penetrarono in Sassonia e i Russi nel Brandeburgo,
occupando per tre giorni la stessa capitale, Berlino. L'anno si chiudeva con una
sanguinosa vittoria di Federico a Torgau (3 novembre). La situazione era tuttavia
quasi insostenibile. Ma il re, che pure aveva un momento pensato al suicidio, non
cedeva ancora: anzi, riuscito a trarsi fuori senza troppo danno dalla campagna
del 1761, rifiutava la proposta dell'Inghilterra per una pace che avrebbe costato
sacrifizî territoriali. Finalmente la Russia, morta Elisabetta e asceso al trono
Pietro III, grande ammiratore di Federico, non solo abbandonò l'Austria, ma si unì
in alleanza con la Prussia. Era la salvezza: in Slesia, Federico batté due volte gli
Austriaci; vinse pure in Sassonia per merito dei suoi luogotenenti; mentre, ad
ovest, i Francesi erano respinti, battuti, inseguiti da Ferdinando di Brunswick. E
fu la pace. Già la Francia e l'Inghilterra avevano firmato gli accordi preliminari di
Fontainebleau (3 novembre). Ora, il 15 febbraio 1763, i plenipotenziarî austriaci e
quelli prussiani firmavano la pace di Hubertusburg, che sanzionava lo statu quo
ante.
Bilancio di un’epopea militare
Così finiva l'epopea di Federico il Grande, che aveva acquistato per il suo
paese, non paesi e città, ma una gloria militare destinata a essere blasone di
nobiltà della Prussia prima, della più grande Germania poi; e aveva, attraverso
terribili prove, se non proprio creato, per lo meno rafforzato e durevolmente
impresso nell'animo dei Prussiani quelle che poi furono le qualità loro
caratteristiche: il senso del dovere e della devozione allo stato, lo spirito di
sacrificio e di disciplina interiore. Materialmente lo stato prussiano subì danni
gravi, di uomini e di ricchezza. Ma il re sistemò le finanze, aggravando fortemente
il carico tributario, sì da portare le entrate statali da 12 milioni di talleri (1752)
fino a quasi 22 milioni (1786); ma se molto denaro impiegò a rafforzare l'esercito e
farne una macchina sempre più potente, quasi sproporzionata alla grandezza
dello stato – si giunse a un effettivo di 195.000 uomini! –, profuse somme ingenti
anche per far rifiorire l'economia pubblica. Circa 45 milioni di talleri andarono, in
vent'anni, a favore dell'agricoltura e dell'industria; intere regioni della Prussia
occidentale furono colonizzate. Fece osservare rigidamente la legge e, nello stesso
tempo, promosse le scienze e le arti, ricostituendo l'Accademia delle scienze di
Berlino, accogliendo e invitando a corte filosofi, letterati, scienziati, specialmente
francesi.
Gli ultimi vent'anni di regno
Gli ultimi vent'anni di regno trascorsero così pacificamente. Lo stato
s'accrebbe ancora, per effetto di quella prima spartizione della Polonia, che
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“FEDERICO II il Grande, re di PRUSSIA”, voce tratta dalla Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, vol. XIV.
Federico promosse d'accordo con Giuseppe II d'Austria e con Caterina di Russia
(1772): Federico ottenne la Prussia occidentale, senza Danzica e Thorn, e il
distretto della Netze e con ciò conseguì l'unificazione dei suoi dominî, prima divisi
nel nucleo brandeburghese-slesiano e nella Prussia orientale. Ma non vi fu per
questo bisogno di combattere. La guerra si riaccese bensì nel 1778, per la
questione della successione di Baviera: e il re, alleato della Sassonia contro
l'Austria, invase nuovamente la Boemia. Ma fu una piccola schermaglia, rispetto
ai conflitti precedenti: già il 13 maggio 1779 si aveva la pace a Teschen, e
Federico aggiungeva ai suoi stati anche i principati di Ansbach e di Bayreuth.
L'ultimo suo grande atto in politica estera fu la creazione nel 1785 del
Fürstenbund, lega di principi tedeschi sotto la direzione della Prussia, che doveva
rappresentare il contrappeso alla politica imperiale di Giuseppe II. Vi aderirono,
fra gli altri, i principi di Sassonia,di Hannover, di Baden, di Brunswick, che
offrivano così al re di Prussia il mezzo di proclamarsi campioni delle libertà
germaniche, di accrescere il prestigio del suo stato, facendone come l'esponente
del sentimento nazionale germanico.
Ma proprio allora, mentre questo sentimento nazionale si rafforzava, e nuovo
spirito fremeva nella gioventù tedesca, talune parti dell'opera di Federico
cominciavano a non risponder più all'esigenza dei tempi. Le ideologie
specificamente settecentesche e non prussiane ch'erano in Federico – e ch'erano
anche la parte meno profonda di lui – lo collocavano in un altro mondo da quello
che, ora, veniva sorgendo. In ogni Tedesco, da allora, sarebbe rimasto vivo il
ricordo del grande re, delle sue battaglie e delle sue vittorie, del suo senso del
dovere, della sua devozione allo stato; ma il filosofo invece, l'uomo di Sans-souci –
divenuto d'altronde con gli anni più irritabile, più duro, talora anche un po' gretto
– si stava ormai straniando dal nuovo spirito germanico. Così fu che quand'egli
morì, il 17 agosto 1786, nel castello di Sans-souci, la sua missione era veramente
finita. Lo stato prussiano era ormai una grande forza operante nel cuore
d'Europa.
Federico II ordinatore di eserciti e condottiero
Salendo al trono, Federico trovò un esercito assai saldamente costituito, se
lo si consideri in rapporto con le condizioni della piccola Prussia di quel tempo. A
differenza di quel che avveniva generalmente altrove, dove le levate di milizie
obbligate al servizio avevano luogo saltuariamente e miravano a costituire
organismi a sé specialmente per il caso di guerra, l'esercito prussiano restava
normalmente in servizio anche in tempo di pace, e faceva convivere in un
medesimo reparto di truppa, i mercenarî mestieranti e i coscritti di leva. Anzi,
all'atto della mobilitazione in dipendenza dei richiami dal congedo degli uomini di
leva, i mercenarî venivano a trovarsi in minoranza. Se Federico II, in conseguenza
della lunga durata delle guerre del suo regno, variò codesta proporzione a favore
del mercenariato rispetto a quanto si praticava nell'esercito di Federico Guglielmo
I, ciò si deve alla difficoltà di trovare fra gli uomini di leva in congedo il numero di
elementi militarmente istruiti che bastasse a bilanciare il progressivo grave
logoramento degli effettivi. In fatto di addestramento della fanteria, Federico trovò
nociva la tendenza a esagerare l'effetto del fuoco, e volle che il corpo a corpo e la
baionetta fossero tenuti, come un tempo, nel massimo onore. Le formazioni e le
evoluzioni che già avevano progredito in fatto di leggerezza e di speditezza durante
il regno del padre furono da Federico perfezionate. Più radicalmente dovette
Federico trasformare l'organismo e la tattica della cavalleria, conservatasi
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“FEDERICO II il Grande, re di PRUSSIA”, voce tratta dalla Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, vol. XIV.
pesantissima e perciò lenta nei movimenti sul campo di battaglia, dove soleva
manovrare al passo o al piccolo trotto ed esplicare la propria azione più col fuoco
che con l'urto. Alleggerite le ordinanze, Federico prescrisse la carica al galoppo; e,
quanto all'uso del fuoco nella carica, in un primo tempo lo limitò, poi lo vietò,
preferendo che l'ausilio del fuoco, anche vicino, venisse alla cavalleria da apposita
artiglieria a cavallo. A dar anima a queste riforme concorsero due generali rimasti
famosi nella storia delle gesta della cavalleria prussiana: Seydlitz e Ziethen. Fra le
più importanti innovazioni di Federico nel campo organico va notata la sempre
maggiore proporzione dei cannoni leggieri rispetto al numero dei fanti. In fatto di
manovra sul campo di battaglia, Federico rimise in onore (più che inventare) la
linea di attacco obliqua, variandone altresì la densità nei diversi tratti, e facendo
normalmente più densa la parte più avanzata, cioè quella destinata ad attaccare
per prima, in modo che il centro e l'ala ritratta funzionassero da prima e seconda
riserva. L'ordine di battaglia di Federico comprendeva inoltre normalmente una
riserva generale costituita dalla massa degli squadroni non impiegati alle ali della
formazione antistante. Se con tali procedimenti, necessariamente attuati a non
grande distanza dal nemico, Federico riuscì a determinare la sorpresa, che è
elemento primo per la riuscita di qualsiasi manovra, ciò deve in gran parte
attribuirsi alle deficienze degli avversarî, alla pesantezza dei loro ordini tattici, al
torpore mentale e spirituale dei loro capi, più che alle virtù proprie dell'ordine
obliquo.
L’offensiva come scelta strategica
Come tutti i grandi capitani, Federico praticò in strategia l'offensiva anche
quando la guerra ebbe scopi politici difensivi, ossia di conservazione di territorî
già posseduti e da altri ambiti. Federico vide nell'offensiva strategica il mezzo per
riuscire a pronta battaglia, con la conseguenza di abbreviare le guerre; le quali, se
lunghe, danneggiano la disciplina, impoveriscono numericamente l'esercito e
riducono le risorse del paese. Affermava inoltre Federico che l'offensiva,
costringendo il nemico ad agire diversamente da quel che aveva divisato, ne
paralizzava le mosse. E in quest'ordine di idee giudicava il re essere poco
sperimentati quei generali che si proponevano di tutto conservare limitandosi a
parare i colpi e affermava essere anche necessario saper perdere a proposito.
Altre massime strategiche di Federico erano che non si dovessero fare
distaccamenti se non dopo una battaglia vittoriosa; che dopo il successo
convenisse mettersi alle calcagna del vinto e dopo una battaglia perduta fosse
necessario arrestarsi sulla prima posizione opportuna per apparire al nemico forti
nell'avversità. La strategia di Federico fu – come quella precedente – legata
normalmente ai magazzini; ma il servizio fu migliorato, le requisizioni di
vettovaglie sul posto talvolta organizzate, l'autonomia del soldato mediante i viveri
di riserva da lui stesso trasportati alquanto accresciuta (nove razioni, equivalenti
alla possibilità di staccarsi di cinque marce dai magazzini).
Nel campo della psicologia del capo, affermava Federico essere grande pregio
del generale quello di meditare in precedenza su tutte le possibili eventualità per
poter prontamente e saggiamente decidere il da farsi qual si fosse la piega presa
dagli eventi, ed essere pregio non minore quello di non lasciarsi trasportare
dall'entusiasmo del successo, altrettanto pericoloso dell'abbattimento morale
dopo una battaglia sfortunata. Definiva generale perfetto colui che sapesse non
separare mai l'attività dalla prudenza e mantenersi uguale a sé stesso così nelle
ore fauste come in quelle dell'avversa fortuna.
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“FEDERICO II il Grande, re di PRUSSIA”, voce tratta dalla Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, vol. XIV.
L'alta tempra morale di Federico si manifesta nelle situazioni più difficili,
come quella determinatasi dopo la battaglia di Kolin e dopo il forzato abbandono
del blocco di Praga nella campagna del 1756. Le fortissime perdite, la depressa
fiducia dei soldati nell'abilità strategica del re, la costernazione dei generali, che lo
stesso fratello del re, principe Enrico, andava suggestionando in senso disfattista
prospettando loro la rovina dello stato, non smossero l'animo di Federico, il quale
continuò ad aver fede in una rivincita, che l'inferiorità manovriera degli Austriaci
doveva assicurargli. Questo convincimento della propria superiorità valse a
mantenerlo aggressivo e a far sì che egli con abili manovre riuscisse a compiere il
capolavoro di Rossbach.
Federico il Grande e la letteratura tedesca
Anche in letteratura, l'epoca che corrisponde ai suoi quarant'anni di regno
porta il suo nome. Non perché si sia informata ai suoi gusti. Se l'infatuazione per
Gottsched gli passò presto e presto gli accadde di anteporgli Gellert e Gessner; se,
dopo aver chiamato Canitz "il Pope tedesco", giunse solo nel 1785 ad accorgersi
che esistevano anche Klopstock e Wieland, così che ne parlava col Gleim,
domandando chi dei due fosse il più grande, in realtà non ci fu, fra i poeti
tedeschi del suo tempo, nessuno per il quale egli non avesse il più perfetto
disprezzo. Di Lessing non volle sentir parlare; a Winckelmann voleva dimezzar lo
stipendio per nominarlo direttore della Biblioteca; alle lusinghe di Klopstock, di
Wieland fece ostinatamente il sordo; e "le célèbre Monsieur Quandt de
Königsberg" di cui si parla nella Littérature allemande non è Emanuele Kant ma
Johann Jakob Quandt predicatore di corte. Le tragedie di Shakespeare gli
parevano "buone tutt'al più per i selvaggi del Canada" e il Goetz di Goethe una
"imitazione shakespeariana d'una volgarità ripugnante"; quando il Myller gli
mandò la prima stampa del Nibelungenlied, gli rispose che quelle erano cose che
non valevano "la polvere di una fucilata" e che egli si vergognava di tenerle nella
sua biblioteca.
Il suo concetto di letteratura
I suoi proprî componimenti poetici sono fra l'epigrammatico e il sentenzioso,
l'anacreontico e il motteggiatore, secondo la moda francese. E di là dalle regole dei
precettisti francesi non si spinge mai la sua estetica. Con tutto ciò la sua figura
domina la poesia del tempo. Prima di tutto la sua stessa prosa, sobria, recisa,
netta di taglio, lucida, era un'implicita proclamazione che l'arte dello scrivere
consisteva nell'aver qualcosa d'importante da dire e nel dirlo con forza e
chiarezza. Anche l'aver chiamato alla sua corte un uomo della statura di Voltaire
era un additare ai connazionali che cosa per "letterato e poeta" egli intendeva.
Anche nella poesia era posto in alto il segno a cui gli scrittori dovevano mirare. E
la sua opera di condottiero, di uomo di stato, di sovrano fece di meglio che dar
soltanto occasione a retoriche gare di aspiranti alle sue grazie: dando un valore
ideale allo stato, una disciplina al popolo, uno stile alla vita, diede anche alla
letteratura ciò che sempre ne costituisce la prima condizione: un contenuto
spirituale (v. Goethe, Dichtung und Warhheit, III). In realtà già tutto un nuovo
spirito si respira nella poesia della guerra dei Sette anni, dai Kriegslieder eines
preussischen Grenadiers alla Minna von Barnheim. Come, "primo servitore dello
stato", egli aveva il suo popolo nel centro dei suoi pensieri, così visse nella
coscienza del suo popolo operandovi come una generale forza di rinnovamento,
anche molto di là dalle mete che egli stesso era in grado di vedere. Quand'egli
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“FEDERICO II il Grande, re di PRUSSIA”, voce tratta dalla Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, vol. XIV.
morì, Kant aveva già pubblicato la Critica della ragion pura, Herder le Ideen zu
einer Philosophie der Geschichte der Menschheit, Schiller stava maturando il Don
Carlos, Goethe era alla vigilia della sua partenza per l'Italia. Ancora dietro l'idea
dello stato di Hegel, dietro le Reden an die deutsche Nation di Fichte, dietro la
volontà di sacrificio dell'individuo di fronte allo stato nel Prinz von Homburg di
Kleist è facile scorgere la sua figura che continua a grandeggiare e ad agire, come
potenza formatrice nelle coscienze. Nel chiudere il suo saggio sulla Littérature
allemande (1780), egli si paragona a Mosé che vede da lungi la terra promessa ma
non vi può mettere piede. Invece la "terra promessa" era già stata raggiunta e la
nuova poesia già gli fioriva intorno, ricca e molteplice, quale la Germania non
aveva mai conosciuta. Ma raramente le generazioni dei padri riconoscono quella
che costituisce la "terra promessa" per le generazioni dei figli.
Giuseppe Gabetti
BIBLIOGRAFIA
Le opere di Federico sono raccolte nella grande edizione promossa dall'Accademia
delle scienze di Berlino: Œuvres de Frédéric le Grand (voll. 30, Berlino 1846-57). Le più
importanti di esse, dal punto di vista storico-politico, sono le Considération sur l'état
présent du corps politique de l'Europe (scritte nel 1738-39); L'Antimachiavel ou Examen du
Prince de Machiavel (scritto nel 1739; pubblicato dal Voltaire, ma con rimaneggiamenti,
nel 1740); il Miroir des princes (1744); l'Histoire de mon temps, scritta nel 1746; ma poi
rimaneggiata dallo stesso Federico; i Mémoires pour servir à l'histoire de la maison de
Brandebourg (1751); l'Histoire de la guerre des sept ans (1763); i Mémoires depuis la paix
de Hubertsbourg jusqu'à la fin du partage de Pologne, rielaborati e pubblicati sotto il titolo
Mémoires depuis 1763 jusqu'à 1774 (1779); l'Essai sur les formes de gouvernement et sur
les devoirs des souverains (1777). Importantissimi poi i due testamenti politici, del 1752
e del 1768.
Degli scritti filosofici e letterarî, da ricordare l'Épitre au maréchal Keith.
Importantissima è poi la corrispondenza, sia politica (Politische Korrespondenz Friedrichs
des Großen, voll. 41, Berlino 1879 segg.), sia privata. Di quest'ultima particolarmente
interessante il Briefwechsel mit Voltaire (voll. 3, Berlino 1908-17), il Briefwechsel mit
seiner Schwester Wilhelmine von Bayreuth, voll. 2, Berlino 1923-25; il Briefwechsel mit
Prinz August Wilhelm, Berlino 1927; il Briefwechsel mit Grumbkow und Maupertuis,
Berlino 1898.
Le principali opere militari di Federico sono: Les principes généraux de la guerre
(appliqués à la tactique et à la discipline des troupes prussiennes); Pensées et règles
générales pour la guerre; Réflexions sur la tactique et sur quelques parties de la guerre, ou
réflexions sur quelques changements dans la façon de faire la guerre; Éléments de
castramétrie et de tactique; Règles de ce qu'on exige d'un bon commandeur de bataillons
en temps de guerre; Réflexions sur les projets de campagne; Des marches d'armée et de ce
qu'il faut observer a cet égard; Aphorismes über die Befestigungs -, Lager - und
Gefechtskunst.
Le principali opere d'insieme su Federico sono quelle di Federico D. Preuss,
Friedrich der Große, voll. 4, Berlino 1831-34; Federico Kugler, Geschichte Friedrich der
Große, 1840, nuova edizione, Lipsia 1922; T. Carlyle, History of Frederick II of Prussia
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“FEDERICO II il Grande, re di PRUSSIA”, voce tratta dalla Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, vol. XIV.
called Frederick the Great, nuova ed., voll. 8, Londra 1897-98; G. Oncken, Das Zeitalter
Friedrich des Großen, voll. 2, 1882-88; E. Bourdeau, Le grand Frédéric, voll. 2, Parigi
1899-02; G. Winter, Friedrich der Große, voll. 2, 1907; V. Valentin, Friedrich der Große,
Berlino 1927. Inoltre: L. von Ranke, Friedrich der Große, König von Preussen, in
Sämmtliche Werke, LI e LII; J. G. Droysen, Geschichte der preussischen Politik, V, Lipsia
1874-76. L'opera fondamentale è quella di R. Koser, Geschichte Friedrich des Großen, n.
ed., voll. 4, Stoccarda 1921-25.
Per il primo periodo della vita di Federico fondamentali gli studî di E. Lavisse, La
jeunesse du grand Frédéric, Parigi 1891 e Le grand Frédéric avant l'avénement, Parigi
1893; di R. Brode, Friedrich der Große und der Konflict mit seinem Vater, Lipsia 1904. Per
la politica interna: A. Trendelenburg, Friedrich der Große und seine Grosskanzler S. von
Cocceji, Berlino 1863; H. Berger, Friedrich der Große als Kolonisator, Giessen 1896; L.
Witte, Friedrich der Große und die Jesuiten, 2ª ed., Halle, 1901; O. Hegemann, Friedrich
der Große und die katholische Kirche in den reichsrechtlichen. Territorien Preussens,
Monaco 1904; Neufeld, Die fridericianische Justizreform bis 1780, Gottinga 1910; E.
Swenke, Friedrich der Große und der Adel, Berlino 1910; C. Matschoss, Friedrich der
Große als Beförderer des Gewerbefleisses, Berlino 1912; E. P. Reimann, Das
Tabaksmonopol Friedrich des Großen, Monaco 1913. Cfr. inoltre F. Arnheim, Der Hof
Friedrich des Großen, Berlino 1912.
Sulle concezioni politiche di Federico cfr. L. Paul-Dunois, Frédéric le Grand d'après
sa correspondance politique, Parigi 1903; H. Pigge, Die Staatstheorie Friedrich des Großen,
Münster, 1904 e soprattutto F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in d. neueren
Geschichte, Monaco-Berlin0 1924, p. 340-424.
Sul condottiero, Die Kriege Friedrich des Großen, 15 voll., Berlino 1890-1913; T. von
Bernhardi, Friedrich der Große als Feldherr, voll. 2, Berlino 1881; H. von Delbrück, Über
den Unterschied der Strategie Friedrich des Großen und Napoleons, in Historische und
politische Aufsätze, Berlino 1886; Id., Die Strategie des Perikles, erläutert durch die
Strategie Friedrich des Großen, Berlino 1890; W. von Bremen, Friedrich der Große, Berlino
1905; E. Barone, I grandi capitani fino alla rivoluzione francese, Torino 1928.
Per il letterato e il filosofo, cfr. H. Pröhle, Friedrich der Große und die deutsche
Literatur, Berlino 1872; G. Krause, Friedrich der Große und die deutsche Poesie, Halle
1884; E. Zeller, Friedrich der Große als Philosoph, Berlino 1886; G. Thouret, Friedrich der
Große als Musikfreund und Musiker, Lipsia 1898.
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