“Disagio e tregue” Recensione di Giuseppe Possa (da Alla Bottega, n. 6 – Milano 1986) La casa editrice “Il Vertice”, nella Collana “Presenze nella poesia degli anni ‘80”, curata e diretta da Carmelo Pirrera (ricordiamo di averne gustato i versi nell’antologia dell’Antigruppo ’73 di cui faceva parte), ha pubblicato la raccolta “Disagio e tregue” di Francesco Federico. Questo poeta palermitano, che ha partecipato attivamente ai movimenti studenteschi del ’68 e alle successive lotte per i diritti civili, aveva pubblicato gli altri due libri: “Valle del Belice e altre poesie” (’69) e “L’imbroglio (’79), di cui vengono riportate nelle due omonime sezioni della silloge alcune delle liriche più significative. Le restanti sezioni si intitolano: “Disagio”, “Stagione di parole” e “Quasi amore”. Chissà perché, pur non conoscendolo, ho avuto la percezione che Federico – “nel malessere moderno” – viva la poesia come una “febbre”. Forse per quell’inesauribile “ansia” di creare (“questa rabbia istintiva / che rode dentro / peggio di un tarlo”). Ho infatti avuto l’impressione di toccare una sorta di filo elettrico che mi ha investito come una scossa (“il vizio di scrivere versi / l’imbarazzo di vivere”): dentro la vibrazione di ogni parola, potevo intravedere i sentimenti germinativi che la muovevano. Nei suoi versi (essi si dispiegano sicuri e tesi in una pacata dimensione lirica), il poeta con lucida razionalità descrive la società contemporanea, computerizzata “… non riesco a codificare / con freddi computers questa instabile voglia di vivere”), accecata da miti dell’avere (“avvoltoi e sciacalli /ordiscono profitti “), dalla violenza (“uomini dormono assassinati / alla scuola dell’omertà”), dall’imperialismo (“qualcuno ha piantato missili / tra i prati di papaveri”) e dalla tracotanza del potere che predica “promesse di fumo / in uffici di potenti”, che lascia “i giovani delusi / ad ammuffire come rifiuti” e che mercanteggia “strani compromessi / e ideali svenduti”. Nonostante che viva in un contesto sociale, dove in un’alternanza di ruoli, ciascuno può diventare nel contesto vittima e carnefice, come in una catena che riproduce, attraverso infinite prospettive, un unico meccanismo di sopraffazione, “che costringe alla resa”, trova il coraggio di autoaccusarsi, perché ha visto se stesso “diffidente e apatico / non esprimere disappunto”. Federico diviene testimone che analizza l’alienazione dei rapporti umani, ossia la situazione distorta e inautentica nella quale l’individuo è costretto a vivere, nell’impossibilità di sviluppare la sua totalità umana, per la degradazione della miseria materiale e morale, nella contraddittorietà dei legami sociali in cui è inserito. Non va tuttavia dimenticato che Federico innesta anche, come afferma Anna Maria Bonfiglio, “un discorso di -quasi amore-, una pausa appena accennata nella tensione di un’istanza che addita e denuncia”. Per concludere: al di là dei contenuti, ciò che fa di questa silloge un esempio unitario di stile, è la rigorosa scelta formale, il lavoro di cesello, il modo sintetico di espressione, l’assenza di sbavature (tanto più difficile quando gli argomenti che vengono trattati sono di “impegno”) e il linguaggio limpido, d’una sofferta lacerazione che si fa palpito pacato e disteso.