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BREVI OSSERVAZIONI A MARGINE DELLA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI
SALERNO N. 2513 DEL 27/6/2016.
Gennaro Nelson Esposito
Con la sentenza n. 2513 del 27 Giugno 2016 il Tribunale Penale di Salerno, Sez. I (Presidente
D’Ezio, Estensore D’Agostino) si è pronunciato sull’esatta qualificazione giuridica della condotta di
un soggetto che, nel dichiararsi appartenente alle forze dell’ordine e nell’intimare alle vittime di
privarsi di tutti gli oggetti di cui erano in possesso per consentirgli una perquisizione personale, si
impossessava degli stessi, in concorso con un’altra persona, per poi darsi alla fuga.
Il caso in esame si iscrive nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, rispetto ai quali è necessaria
una breve disamina, in generale e con riferimento ad alcune ipotesi specifiche, al fine di analizzare
correttamente la decisione in parola.
I DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO. CENNI INTRODUTTIVI
I delitti contro il patrimonio trovano collocazione nel titolo XIII del libro secondo del codice penale
(artt. 624-648ter), così rispecchiando la progressione discendente che caratterizza il codice del
1930.
La sistematica del titolo XIII fa leva su una bipartizione, di stampo romanistico, fondata sulle
modalità di realizzazione della fattispecie: reati contro il patrimonio commessi mediante violenza
alle cose o alle persone “aut vi” (Capo I), e reati mediante frode “aut fraude” (Capo II).
Tale impostazione è stata sottoposta a critiche atteso che, in alcune fattispecie, difetta il requisito
della violenza, come il furto, in altre, come l’appropriazione indebita, la frode.
Ulteriore suddivisione è quella tra delitti di aggressione o di usurpazione unilaterale, caratterizzati
da un ruolo meramente passivo della persona offesa, e delitti a cooperazione artificiosa della
vittima, nei quali il soggetto passivo, pur restando vittima, non si limita a subire l’offesa, bensì
contribuisce a produrre il risultato patrimoniale voluto dal reo.
Questi ultimi si differenziano altresì dai reati a concorso necessario, in particolare da quello
improprio, in cui l’obbligo giuridico incombe solo su uno dei soggetti, che il legislatore, pertanto,
decide di punire.
Requisito necessario nei reati a cooperazione artificiosa della vittima è il compimento di un atto di
disposizione patrimoniale, posto in essere attraverso inganno o frode ovvero estorto con violenza,
minaccia o altra modalità.
Tali ipotesi rappresentano di regola reati c.d. in contratto (es truffa, estorsione), fattispecie in cui
il legislatore attribuisce rilevanza penale alla condotta tenuta dal soggetto nel procedimento di
formazione del contratto, tesa a condizionare la vittima, o nella fase di esecuzione del programma
negoziale, a differenza dei reati-contratto in cui rileva il momento della stipula, ovvero l’atto
negoziale in sé (es. ricettazione).
I delitti contro il patrimonio richiamano la questione del rilievo degli elementi civilistici nel diritto
penale, che vanno interpretati, come statuito dalle SSUU n. 37954 del 29/10/2011, secondo i
crismi del diritto civile al fine di garantire i principi di tassatività e determinatezza in un’ottica di
certezza e riconoscibilità, anche di stampo comunitario (v. art. 7 CEDU con riguardo all’accessibilità
ed alla prevedibilità).
Ciò tuttavia non preclude un’interpretazione alla luce del diritto penale laddove emerga una
giustificazione conveniente per segni certi del diverso significato da attribuire alla norma avuto
riguardo al dato letterale della norma, alla ratio della stessa e ad un’interpretazione sistematica.
Con riguardo alla nozione del bene giuridico tutelato, ovvero il patrimonio, la tesi prevalente è
quella economico-giuridica, in base alla quale non meritano tutela soltanto le posizioni di carattere
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strettamente patrimoniale, ma tutte quelle che, pur non esaurendosi nel mero diritto soggettivo,
integrino finanche un’aspettativa giuridicamente rilevante, purché sia meritevole di tutela.
Altra variante è quella giuridico-funzionale-personalistica, che interpreta il concetto di patrimonio
alla luce della Carta Costituzionale, secondo la quale il patrimonio è l’insieme dei rapporti e beni
funzionali all’autorealizzazione del soggetto. (FIANDACA-MUSCO, Diritto Penale, Parte Speciale,
vol. II, Zanichelli, Bologna, 2002, p.25 ss.).
LE SINGOLE FATTISPECIE: RAPINA, ESTORSIONE, FURTO E TRUFFA.
RAPINA (art. 628 c.p.)
Nel diritto romano classico furto e rapina non erano divisi; nel 76 il praetor peregrinus Lucullo
configurò la c.d. fraudolosa contrectatio rei, fattispecie corrispondente all’attuale rapina.
Il delitto di rapina, disciplinato dall’art. 628 c.p., costituisce un tipico esempio di reato
plurioffensivo, a tutela non solo dell’interesse patrimoniale, bensì anche della sicurezza e della
libertà individuale della persona che ne è vittima.
E’ un reato comune, potendo il soggetto attivo essere chiunque, purché sia diverso da chi possiede
attualmente la cosa, anche se alcuni vi includono il proprietario che agisca nei confronti del
possessore.
Il soggetto passivo può, invece, non coincidere con chi subisce la condotta nel caso in cui non sia
egli stesso il titolare della res.
La condotta penalmente rilevante è costituita dall’azione di sottrazione e di impossessamento,
tipica del furto, cui si aggiunge l’elemento della violenza o della minaccia strumentali
all’aggressione del possesso.
La violenza consiste nell’estrinsecazione di un’energia che si risolve in un pregiudizio fisico per chi
la subisce, limitandone in maniera assoluta la capacità di decisione autonoma, coartandone
pertanto la libertà fisica e psichica.
La minaccia consiste invece nella prospettazione di un male ingiusto, diretto ed ineludibile, il cui
verificarsi dipende dall’autore e che consiste nella lesione o messa in pericolo di beni giuridici di
pertinenza del soggetto passivo o di terzi a lui legati. La violenza si differenzia dalla minaccia
poiché la prima contiene già di per sé un male, mentre la seconda rinviene il suo disvalore nella
prospettazione di un male ingiusto e futuro, che l’autore della stessa ha il potere di portare a
conclusione.
Entrambe sono però accomunate dall’effetto di coartare in maniera pressoché assoluta la volontà
della vittima, a differenza dell’estorsione in cui residua alla vittima un margine, seppur ridotto, di
autonomia decisionale.
Trattasi pertanto di un reato complesso derivante dalla commissione dei reati di furto (624 c.p.) e
violenza privata (610 c.p.).
L’art. 628 individua due fattispecie: al comma 1 quella di rapina propria, in cui la violenza, fisica o
psichica nei confronti della persona, viene usata per vincere l’opposizione del detentore ed
impossessarsi della cosa mobile.
Il comma 2 prevede la rapina c.d. impropria, in cui la violenza e la minaccia sono temporalmente
collocate in un momento successivo alla sottrazione e servono per consolidare l’impossessamento
o per procurare a sé o ad altri l’impunità.
Il discrimen tra rapina impropria e concorso di furto e violenza, come sottolineato dalla puntuale
sentenza della Cassazione a SSUU n. 34952 del 12/9/2012, con riguardo al tentativo, sta nel
collegamento logico-temporale tra l’aggressione al patrimonio e quella alla persona, attraverso
una successione di immediatezza. Ciò che conta, in definitiva, è il rapporto di contestualità della
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complessiva azione illecita. La Corte, dunque, ha ritenuto configurabile il tentativo di rapina
impropria, anche se l’azione furtiva non si è concretizzata nella sottrazione della res.
ESTORSIONE (art.629 c.p.)
L’estorsione, art. 629 c.p., si pone in linea di continuità col codice del 1889 che prevedeva due
fattispecie estorsive, impropria, con riguardo ai casi di violenza o minaccia di gravi danni a persone
o cose, e propria, consistente nella mera minaccia.
Il codice del ’30 unifica le due fattispecie nella formulazione attuale, connotata da necessaria
plurioffensività in quanto lesiva sia del patrimonio che della libertà di autodeterminazione.
E’ un reato comune ed in contratto e si differenzia dal peculato (314 c.p.) che può ricorrere
laddove la condotta venga posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico
servizio, purché ricorra l’abuso della pubblica qualità o delle funzioni.
Il peculato, inoltre, come affermato dalle SSUU 19054 del 2/5/2013 e dalle sentenza della Corte di
Cassazione, sez. VI, n. 46797 del 25/11/2015, è un reato eventualmente plurioffensivo, in cui
l'eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente all'appropriazione non esclude la
configurabilità del reato, atteso che rimane pur sempre leso dalla condotta dell'agente l'altro
interesse protetto dalla norma incriminatrice, cioè quello del buon andamento della P.A.
Il soggetto passivo è il titolare del potere giuridico di disporre dei beni o dei diritti, ma può essere
anche un soggetto diverso rispetto a quello al quale è diretta la violenza.
Il legislatore incrimina la condotta di chi, mediante violenza o minaccia, coarti la volontà della
vittima, costringendola a tenere determinati comportamenti attivi od omissivi con un duplice
effetto: un ingiusto vantaggio per l’autore; un danno per la vittima.
Trattasi di reato complesso, a cooperazione artificiosa della vittima ed a forma vincolata, in cui
sono indifferenti la forma o il modo della minaccia, purché questa sia comunque idonea, in
relazione alle circostanze concrete, ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto
passivo, seppur in maniera non del tutto assoluta, come nella rapina.
La minaccia consiste nella prospettazione di un male futuro, la cui verificazione dipende dalla
volontà dell’autore ed è tendenzialmente ineluttabile; il male minacciato può riguardare qualsiasi
bene del soggetto passivo, patrimoniale e non.
La minaccia può essere palese, esplicita, determinata, manifestata in forme e modi differenti,
anche implicitamente, purché diretta ad incutere timore ed a coartare la volontà della vittima, in
relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive
dell’offeso ed alle condizioni ambientali.
Si realizza dunque un duplice evento: uno strumentale, che segue alla violenza o minaccia della
vittima coartata; un altro finale, diretto ad ottenere un ingiusto profitto, anche non patrimoniale
con altrui danno.
Ulteriori ipotesi sono quella dell’estorsione ambientale, ingenerata da un clima di tensione e
pressione proveniente dal contesto e dell’estorsione contrattuale, relativa al recesso nei rapporti
negoziali.
Il dibattito sorto in relazione alle “più persone riunite” di cui al 629 co.2 è stato risolto dalla Corte
di Cassazione a SSUU che, con sentenza n. 21837 del 29/3/2012, ha aderito all’orientamento che
ritiene necessaria la contestuale presenza delle più persone nello stesso luogo al momento della
richiesta estorsiva, a prescindere dalla percezione della vittima circa la provenienza della minaccia
o violenza; si applicherà invece l’art. 110 c.p. in combinato disposto con l’art. 629 c.p. laddove le
più persone non siano presenti al momento della richiesta estensiva sul luogo del delitto.
L’estorsione si differenzia altresì dall’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, c.d. reato di ragion
fattasi di cui agli artt. 392 e 393 c.p. in quanto quest’ultimo si configura laddove un soggetto,
mediante violenza su cose o minaccia su persone, al fine di esercitare un preteso diritto e potendo
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ricorrere al giudice, si fa giustizia da sé in maniera arbitraria. Ricorre pertanto anche a fronte
dell’esercizio di un diritto soltanto potenziale, fondato sulla ragionevole convinzione di poterlo far
valere, anche se questa poi si riveli infondata. Gli elementi discretivi risultano quindi essere da un
lato la ragionevole convinzione di esercitare una propria pretesa, presente nel reato di ragion
fattasi ed assente nell’estorsione; dall’altro tale pretesa non deve trascendere in una forza
intimidatoria incompatibile col diritto vantato, non potendosi configurare l’esercizio arbitrario a
fronte di una violenza gratuita, sproporzionata o assoluta.
TRUFFA (art. 640 c.p.)
Tale reato struttura parimenti un reato in contratto, a cooperazione artificiosa della vittima,
realizzabile mediante il ricorso alla frode sia nella fase di conclusione del contratto che in quella di
esecuzione dello stesso.
Trattasi di reato plurioffensivo che tutela la libera formazione del consenso e l’integrità
patrimoniale. In particolare la ratio sottesa alla fattispecie in parola risiede non solo nell’interesse
patrimoniale del singolo, tutelato peraltro dalla disciplina civilistica dei contratti, quanto piuttosto
nell’interesse pubblicistico a che non sia intaccata, infrangendo il dovere di lealtà e correttezza, la
libertà di scelta dei contraenti e non venga pregiudicata l’attività economica costituzionalmente
riconosciuta. Tuttavia l’esigenza di tutelare la libertà del consenso non può prescindere del tutto
da una lesione del patrimonio della vittima, aspetto confermato dalla scelta legislativa, operata
dalla l. n. 689/1981 di affidare all’offeso la valutazione dell’interesse individuale ad evitare il
processo attraverso la rimettibilità della querela.
E’ un reato comune, integrandosi il reato di concussione se l’agente è un pubblico ufficiale o un
incaricato di pubblico servizio che abusa della qualità o delle funzioni inerenti al proprio servizio.
Consiste in una fattispecie a forma vincolata in cui è incriminata la condotta di chi, mediante
artifizi o raggiri, induce taluno in errore, determinandolo al compimento di un atto di disposizione
patrimoniale da cui deriva un profitto ingiusto per il truffatore ed un danno patrimoniale per la
vittima.
Per artifizio si intende la simulazione o dissimulazione della realtà esterna, atta ad indurre in
errore una persona per effetto della percezione di una falsa apparenza, ovvero ogni
comportamento idoneo a far apparire ciò che non esiste o a nascondere ciò che esiste.
Il raggiro connota ogni attività simulatrice sostenuta da parole o argomentazioni atte a far
scambiare il falso con il vero, operando direttamente sulla psiche del soggetto.
Ciò che rileva è l’idoneità in concreto ad indurre in errore il soggetto passivo, nell’ottica di una
disamina causalmente orientata della truffa. Occorrerà dunque valutare la particolare situazione in
cui è avvenuto il fatto e le modalità esecutive dello stesso. Il baricentro si sposta dunque dal fatto
all’effetto con una svalutazione del comportamento in sé, ammesso dunque anche in via omissiva
(come sottolineato dalla sentenza della Cassazione, sez. II, n. 28703 del 19/3/2013 in relazione al
silenzio serbato su alcune circostanze da parte di chi aveva il dovere giuridico di farle conoscere).
Per errore è da intendersi la falsa rappresentazione della realtà, capace di incidere nel processo di
formazione della volontà e può ricadere sui motivi (1429 c.c.) o su qualsiasi altro aspetto della
realtà che abbia determinato la volontà del soggetto.
Il profitto ingiusto può comprendere in sé qualsiasi utilità, incremento o vantaggio patrimoniale,
anche di carattere non strettamente economico, mentre il danno deve necessariamente avere
contenuto patrimoniale ed economico, consistendo in una lesione concreta e non solo potenziale
che abbia l’effetto di produrre, con la cooperazione artificiosa della vittima indotta in errore, la
perdita definitiva del bene.
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A differenza della rapina e dell’estorsione, manca in tale fattispecie la violenza o la minaccia,
dovendo sussistere soltanto una forma di “macchinazione” atta ad indurre la vittima in errore od
inganno.
Circa il criterio discretivo tra truffa ed estorsione due sono le tesi che si contendono in campo:
secondo un primo orientamento nel caso di estorsione ci si trova di fronte ad un pericolo diretto
ed ineluttabile, proveniente cioè dall’agente; nella truffa, invece, il pericolo è eventuale e non
dipendente dal reo (Cassazione, sez. V, n. 7662 del 19/2/2015 e Cassazione, sez. V, n. 28181 del
13/2/2015).
Una seconda tesi, ponendo in rilievo solo l’aspetto oggettivo, ritiene che l’estorsione si fondi su
una minaccia di pericolo reale, la truffa su un pericolo immaginario sulla base di artifizi o raggiri
(Cassazione, sez. II, n. 8170 del 19/2/2015).
Si parla invero nel primo caso di ritorsione, nel secondo di inganno o errore.
Nel primo caso la persona offesa è posta nell’ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il
preteso profitto o di subire il male minacciato; nel secondo la persona offesa non è coartata, ma si
determina alla prestazione perché tratta in errore dall’esposizione di un pericolo inesistente.
Il co. 2 dell’art 640 prevede diverse aggravanti tra cui, al numero 2, il fatto commesso ingenerando
nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dover
seguire un ordine dell’autorità. La ratio sottostante risiede nel maggior disvalore della condotta di
chi, per attuare la frode, speculi sulle paure anche irrazionali della vittima, suscitando il timore di
un pericolo inesistente. Ciò che caratterizza l’aggravante in parola, e che al contempo serve,
secondo alcuni, a distinguere la truffa aggravata dall’estorsione e dalla concussione è
l’indipendenza del male prospettato rispetto alla volontà o al fatto del soggetto agente.
In particolare al n. 2 sono previste due distinte ipotesi aggravanti. La prima ricorre nei casi in cui «il
fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario».
L'aggravante in questione ruota intorno al concetto di pericolo immaginario, usualmente inteso
come sinonimo di inesistente magari riferito a forze sovrannaturali e occulte, o a credenze
superstiziose.
Infatti la ratio si ritiene risieda nella natura particolarmente insidiosa di chi fa percepire all'offeso
un timore di un pericolo che non sussiste, specie perché il più delle volte costui versa in una
situazione psicologica più debole rispetto all’agente.
La seconda ricorre nei casi in cui «il fatto sia commesso ingenerando nella persona offesa l'erroneo
convincimento di dovere eseguire un ordine dell'Autorità». L'ordine dell'Autorità non è
prospettato come dipendente dalla volontà o dal fatto dell'agente e, perciò, rimane in capo al
soggetto passivo l'illusione di agire liberamente, pur se la sua conoscenza è in realtà viziata
dall'errore nel quale è stato indotto.
Con riguardo alla particolare ipotesi di truffa contrattuale a prestazioni equivalenti, la Corte di
Cassazione, sez. II, con sent. n. 5501 del 4/2/2014, ha ritenuto necessario, per il suo
perfezionamento, non solo la stipula del contratto ma anche il danno economico patrimoniale in
capo al soggetto passivo. La Corte ha superato il tradizionale orientamento che riteneva sufficiente
il verificarsi della stipula del contratto, non accoglibile in quanto tramuta la truffa in un “reato di
attentato alla libertà di consenso della vittima nei negozi patrimoniali e di mero pericolo per
l’integrità del patrimonio di questa”, operando una inammissibile dilatazione dell’ambito di
applicazione della norma incriminatrice; quest’ultima, invece, espressamente richiede uno
specifico ed effettivo danno di indole patrimoniale, ovvero un reale depauperamento economico
del soggetto passivo del reato, nella forma del danno emergente o del lucro cessante.
La truffa si differenzia dall’insolvenza fraudolenta perché nell’art. 641 c.p. il fine illecito viene
conseguito esclusivamente con la dissimulazione di una circostanza reale (lo stato d’insolvenza)
mentre nell’art. 640 c.p. la frode viene perpetrata con artificiosa simulazione di fatti e circostanze
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non vere, prospettate per indurre la vittima in errore. Altri però individuano il discrimen tra le due
fattispecie nell’atteggiamento psicologico: nella truffa si sostanzia nello stato di errore che
costituisce il motivo dell’atto di disposizione, nell’insolvenza la vittima si trova nella situazione di
ignoranza, la quale non costituisce il motivo ma solo l’occasione della disposizione patrimoniale.
FURTO (art. 624 c.p.)
Il bene giuridico tutelato è individuato, secondo la tesi prevalente, in una relazione di fatto con la
cosa, specificamente individuata finanche nel possesso o nella detenzione, mentre alcuni lo
identificano esclusivamente in una situazione di diritto, proprietà o altri diritti reali, anche di
godimento.
Tale relazione di fatto con il bene non ne richiede necessariamente la diretta, fisica disponibilità e
si può configurare anche in assenza di un titolo giuridico, nonché quando si costituisce in modo
clandestino o illecito (SSUU n. 40354 del 30/09/2013).
La fattispecie di cui al 624 c.p. è prevista, inoltre, a tutela del patrimonio e della pacifica
convivenza sociale.
E’ un reato comune, a dolo specifico e, a differenza della truffa e dell’estorsione, ad aggressione
unilaterale, che punisce chi si impossessa della cosa altrui sottraendola a chi la detiene.
Per aversi sottrazione è necessario non solo lo spossessamento, ovvero la perdita della
disponibilità della res da parte del detentore, ma anche l’impossessamento, ovvero l’instaurazione
da parte dell’agente di un nuovo potere di fatto sulla res. I due momenti possono verificarsi anche
in tempi diversi.
Si differenzia dall’appropriazione indebita (detta anche furtum improprium) per la contestualità
tra sottrazione ed impossessamento, assente nell’appropriazione indebita in cui l’agente aveva
previamente la disponibilità della res di cui poi si impossessa.
Il criterio prevalente riguardo al momento consumativo è quello dell’ablatio, ovvero dello
spostamento della res fuori dalla sfera di vigilanza e custodia da parte del detentore, in tal modo
consentendo la configurabilità del tentativo (SSUU n. 52117 del 17/7/2014) laddove manchi
l’impossessamento, potendo il detentore ancora intervenire per recuperarla.
Ciò in linea con SS.UU. n. 34952 del 12/9/2012 sul tentativo di rapina impropria, secondo cui solo
quando la cosa sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore e questi non sia più in grado di
recuperarla, può escludersi la sussistenza del tentativo.
L’aggravante dell’uso di mezzo fraudolento di cui all'art. 625, co. 1 n. 2 c.p. delinea una condotta,
posta in essere nel corso dell'iter criminoso, dotata di “marcata efficienza offensiva e
caratterizzata da insidiosità, astuzia, scaltrezza; volta a sorprendere la contraria volontà del
detentore ed a vanificare le difese che questi ha apprestato a difesa della cosa”. (SSUU n. 40354
del 30/09/2013).
Tale ipotesi aggravata si differenzia dalla truffa in quanto in quest’ultima ipotesi il trasferimento
del possesso avviene con il consenso del soggetto passivo, pur viziato da errore per effetto degli
artifici e raggiri posti in essere dall’agente.
LA DECISIONE
La fattispecie riguarda due persone che, qualificatesi come appartenenti alle forze dell’ordine e
manifestando l’intenzione di effettuare una perquisizione personale, intimavano alle vittime di
esibire tutto quanto in loro possesso; appena riponevano a terra i loro beni, uno dei due si
allontanava mentre l’altro prelevava del danaro e si dava alla fuga.
Quanto all’esatta qualificazione giuridica del fatto, il Tribunale, attraverso un’efficace e sintetica
ricostruzione dei rapporti tra i reati di rapina, estorsione, furto e truffa, giunge a riqualificare la
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fattispecie originariamente sussunta nell’art. 628 co. 3 n.1 (rapina aggravata dall’uso delle armi, da
persona travisata o da più persone riunite), in truffa aggravata di cui al 640 co. 2 n. 2.
Il Collegio esclude inizialmente la sussumibilità della condotta descritta all’interno della fattispecie
di rapina di cui al 628 c.p. in quanto la mera spendita della qualifica di appartenente alle forze
dell’ordine e la necessità di effettuare una perquisizione non si sostanziano nella progettazione di
un male ingiusto, diretto ed ineludibile, tipico della rapina e tale da porre le vittime
nell’impossibilità di determinarsi diversamente. Invero il criterio distintivo tra rapina ed estorsione
prima esposto sta nell’ineludibilità della minaccia, presente solo nella prima ipotesi di reato, non
determinando l’estorsione il totale annullamento della capacità del soggetto passivo di
determinarsi diversamente sebbene la stessa venga incisivamente coartata (Cass., sez. II, n. 44954
del 17/10/2013).
L’impossibilità di ricondurre la condotta nell’ipotesi di cui al 628 c.p. ha indotto la Corte a vagliare i
rapporti tra estorsione e truffa aggravata, all’interno delle quali sono state sussunte condotte
analoghe a quella richiamata.
Ed in particolare il Tribunale ha riportato i due orientamenti prima riportati circa il discrimen tra le
due fattispecie. Secondo una prima tesi la differenza consisterebbe nella percezione del soggetto
passivo, ovvero nella provenienza ed evitabilità del male.
Verrà quindi in rilievo l’estorsione di cui al 629 c.p. nel solo caso in cui il male venga prospettato
come ineluttabile e provenga direttamente dipendente dall’agente, potendosi invece configurare
il delitto di truffa aggravata di cui al 640 co. 2 n.2 c.p. nel solo caso in cui il male sia prospettato
come eventuale e non dipenda dal reo.
Secondo altra impostazione prevalente, ed a cui il tribunale ritiene di aderire, occorre avere
sguardo esclusivamente alla natura del mezzo utilizzato, ed in particolare alle caratteristiche del
pericolo prospettato per conseguire l’ingiusto profitto. Si configura dunque il delitto di truffa
aggravata di cui al 640 co. 2 n.2 c.p. ogniqualvolta il male è solo immaginario, risolvendosi in un
raggiro idoneo ad ottenere il conseguimento del bene mediante induzione in errore del soggetto
passivo. Si avrà invece estorsione di cui al 629 c.p. laddove l’agente prospetti un pericolo reale,
usando violenza o minaccia.
A sostegno di tale ricostruzione viene richiamata la sentenza della Corte di Cassazione, sez. II, n.
52121 del 16/12/2014, secondo cui “il criterio differenziale tra il delitto di truffa aggravato
dall’ingenerato timore di un pericolo immaginario e quello di estorsione risiede solo ed
esclusivamente nell’elemento oggettivo: si ha truffa aggravata quando il danno immaginario viene
indotto nella persona offesa tramite raggiri o artifici; si ha estorsione quando il danno è certo e
sicuro ad opera del reo o dia altri ove la vittima non ceda alla richiesta minatoria”.
La Corte precisa altresì come la valutazione circa la sussistenza del danno vada effettuata in
entrambi i casi ex post, non rilevando valutazioni in ordine alla provenienza del danno prospettato
ovvero allo stato soggettivo della persona offesa.
Con riferimento al caso di specie, manca la prospettazione di un pregiudizio ulteriore
all’incombente perquisizione ed alle sue possibili conseguenze, ovvero alla richiesta di una somma
di danaro per eludere il controllo, il che rende peregrina la configurabilità del delitto di estorsione.
Il Collegio ritiene altresì di non poter accogliere la richiesta difensiva di riqualificare il fatto in furto,
in quanto l'apprensione del danaro non era il frutto di un autonoma attività di impossessamento
posta in essere dal soggetto attivo, ma il risultato di un atto dispositivo volontario delle vittime,
tratte in inganno dalla qualifica falsamente rappresentata.
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Del resto, non è configurabile l’ipotesi di furto aggravato di cui al 625 co 1 n.2 in quanto, in linea
con SSUU n. 40354 del 30/09/2013, il mezzo fraudolento rappresenta un “elemento accessorio di
una condotta in cui l’apporto consensuale della vittima assume una valenza collaterale e
minoritaria rispetto all’attività sottrattiva del reo”, ed è connotato da una marcata efficienza
offensiva, insidiosità e scaltrezza assenti nel caso di specie.
Laddove invece, come nel caso in esame, l’apporto della vittima assuma una valenza tale da
assorbire l’intero disvalore della condotta penalmente rilevante, determinandosi in virtù degli
artifici e raggiri posti in essere a consegnare il bene nella disponibilità del reo, si avrà il reato di
truffa aggravata di cui al 640 co. 2 n. 2 c.p..
Ed è proprio all’interno di tale ultima ipotesi che possono essere inquadrate le condotte del
soggetto agente e della vittima, poiché la falsa qualifica esibita rappresenta l’unico ed assorbente
espediente ingannatorio che ha determinato il conseguimento del danaro da parte del reo a
scapito del soggetto truffato.
Anche dal punto di vista soggettivo, dunque, la volontarietà della condotta truffaldina è resa
palese dalla spedita di una qualifica in realtà inesistente e dalla natura dei beni oggetto di
interesse.
L’aggravante di cui al 640 co. 2 n. 2 sussiste sulla base dell’erroneo convincimento di dover
eseguire un ordine dell’autorità in realtà illegittimo, attesa l’insussistenza della qualifica necessaria
per effettuare la suddetta perquisizione.
In conclusione, la pronuncia appare pienamente condivisibile in quanto la fattispecie concreta
presentava tutti i caratteri del delitto di truffa aggravata di cui al 640 co.2 n. 2, ed in particolare i
raggiri (falsa attestazione della qualità di appartenente alla forze dell’ordine) e l’induzione in
errore (finta perquisizione) con conseguente realizzazione di un ingiusto profitto (danaro) con
altrui danno; non sussiste invece una condotta connotata da una minaccia stricto sensu intesa,
tipica della rapina, né dal pericolo di un male certo ed ingiusto, come nell’estorsione.
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