cop anatomia 15-01-2013 13:02 Pagina 2 C Colori compositi M Y CM MY CY CMY K Collana Theoria, Architettura, Città Una collana sulla Teoria dell’architettura fondata su basi razionali e non transitorie che riflette sui fondamenti della disciplina, sulle sue regole, sui suoi principî, sulla dialettica tradizione/ innovazione contenuta nell’insegnamento dei maestri in un rapporto ineludibile con le opere. Teoria intesa come “osservazione” e riflessione sui principia e sugli exempla, quali depositi di conoscenze e strumento di verifica e congiunzione tra theoria e praxis nel progetto dell’architettura e della città. Un punto di vista orientato e “realista” che, assumendola come dato di fatto, non registra o constata la realtà ma vuole produrre, criticamente, degli effetti su di essa, nel solco della scuola italiana che ha avuto in Aldo Rossi la sua guida e riferimento. Una ricognizione sui caratteri specifici dell’architettura intesa come “arte civile” volta alla costruzione e modificazione del reale, sedimentata nella più “alta costruzione umana” che è la città da contrapporre alla liquidità informe della infondata architettura dell’immagine e alla post-metropoli globalizzata di questi anni. Riflessioni e studi attorno all’architettura, capaci di rendersi intellegibili, di dichiarare con chiarezza i loro presupposti e di contribuire alla ricostruzione di un corpus non dogmatico ma continuamente alimentato dalla dialettica con l’“inerzia del reale”. Copyright © 2012 CLEAN via Diodato Lioy 19, 80134 Napoli telefax 0815524419-5514309 www.cleanedizioni.it [email protected] Tutti i diritti riservati È vietata ogni riproduzione ISBN 978-88-8497-204-0 Editing Anna Maria Cafiero Cosenza Grafica Costanzo Marciano Direttore Fritz Neumeyer Professore ordinario di Teoria dell’architettura è direttore del Dipartimento di Storia e Teoria dell’Archiettura alla Technische Universität di Berlino. Comitato Scientifico Gino Malacarne Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura “Aldo Rossi” di Cesena dell’Alma Mater Studiorum di Bologna. Daniele Vitale Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano, ed è coordinatore del Dottorato in Composizione architettonica del Politecnico di Milano. Francesco Collotti Professore associato di Composizione Architettonica presso l’Università degli Studi di Firenze. È attualmente redattore di “Firenze Architettura”, membro del Comitato Scientifico di “Archi” e corrispondente dall’Italia di “Werk”. Ha insegnato al Politecnico Federale di Zurigo e presso la Facoltà di Architettura di Dortmund. Antonio Diaz Del Bo (Tony Díaz) Indice 6 Sulle ragioni del progetto di architettura Maria Cristina Loi, Raffaella Neri 10 Anatomia di un edificio Massimo Fortis 12 La costruzione del nuovo centro: Les Gratte-Ciel a Villeurbanne Francesca Bonfante 24 Il Quartiere sperimentale VIII Triennale QT8 Laura Montedoro 42 Anatomia urbana di Metanopoli Stefano Guidarini 56 Proporzione, ritmo, figura. Il complesso di piazza dei Miracoli e l’anatomia del Battistero pisano Maurizio Meriggi 72 Autonomia/anatomia di un edificio: L’Altes Museum di Karl Friedrich Schinkel Michele Caja 84 Il Federal Center di Chicago (1959-1974): una piazza per la città Raffaella Neri 104 La “Rotunda” di Thomas Jefferson nel campus dell’Università della Virginia: un’analisi formale Maria Cristina Loi 120 Cosmologia e simbolismo. L’inabitabilità dello spazio sferico Domenico Chizzoniti 136 La Biblioteca Ambrosiana di Federico Borromeo. Architettura, modelli, significati Isabella Balestreri Architetto, ha insegnato progettazione nella Facoltà di Architettura di Buenos Aires e nella Escuela Técnica Superior de Arquitectura de la Universidad Politécnica de Madrid. È stato inoltre visiting professor ad Harvard e in numerose università, anche italiane. 148 Il Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi Massimo Ferrari Coordinamento scientifico ed editoriale Federica Visconti 158 Quando la struttura disegna lo spazio. Tony Garnier: l’edificio dei Macelli e il Mercato del bestiame di Lione Elsa Garavaglia Professore associato di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Renato Capozzi Professore a contratto di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. 170 Tre interni milanesi di Ignazio Gardella Angelo Lorenzi 186 Luigi Moretti: Casa detta “Il Girasole”, Roma, 1949 Marco Introini 198 Note biografiche 199 Referenze fotografiche 4 5 Sulle ragioni del progetto di architettura Maria Cristina Loi, Raffaella Neri Esistono molti modi di leggere, studiare, raccontare un’architettura. Ognuna ha una propria storia e una propria identità, che possono essere analizzate da diversi punti di vista, sia nel caso di un edificio realizzato che in quello di un progetto rimasto sulla carta. In questo processo analitico si svelano i momenti più importanti della storia di un progetto, i nodi cruciali, le vicende dei suoi protagonisti, le implicazioni economiche, gli aspetti sociali e politici, i problemi del cantiere e dell’esecuzione, la questione tipologica, il giudizio della critica e della società - solo per citare alcuni tra i temi ricorrenti - in una successione di eventi che assumono valori e significati diversi e che possono essere studiati da angolazioni talvolta anche molto differenti. Ma lo scopo rimane sempre lo stesso: analizzare un progetto di architettura significa avviare un processo di indagine che ha come fine principale la conoscenza, la possibilità di ritracciare l’iter progettuale e le ragioni che ne hanno determinato la forma. Analizzare un edificio significa, in sostanza, svolgere nuovamente il percorrere del progetto, porsi le domande che si è posto il suo artefice, valutare le possibili risposte e le altre strade che si sarebbero potute intraprendere, dare ragione delle scelte compiute; con il vantaggio che, conoscendo già l’esito conclusivo, si è garantiti circa la qualità della soluzione e la validità delle risposte. È questa, sostanzialmente, l’origine del libro, Anatomia di un edificio, una raccolta di brevi saggi che analizzano un’architettura costruita o un progetto non realizzato, dissezionandolo come su un tavolo anatomico, mettendone in luce problemi, soluzioni, priorità, scelte compiute o rimaste sulla carta, per spiegare le ragioni che hanno condotto alla sua definizione formale. Guardare, comprendere, interpretare un’architettura: una puntualizzazione “Saper vedere” un’architettura, come suggerisce Le Corbusier, è necessario per conoscere l’architettura, per capire le ragioni che hanno condotto a definire le sue forme e la complessità dei problemi che ogni progetto deve affrontare e risolvere. Comprendere le relazioni fra le diverse componenti e stabilire la loro gerarchia è un esercizio fondamentale che conduce alla definizione di 6 un metodo utile per affrontare il progetto. Al progetto di architettura partecipano diverse discipline, tutte ugualmente necessarie, ognuna con un peso e un ruolo diverso, a seconda, anche, del tema e delle condizioni. Qual è il contributo di queste discipline? Affrontano problemi diversi, ne approfondiscono alcuni aspetti, propongono anche metodi di indagine propri: quali relazioni stabiliscono fra loro e con il progetto complessivamente? La storia, la composizione, la rappresentazione, la scienza delle costruzioni, l’urbanistica sono discipline che partecipano alla costruzione del progetto e alla formazione dell’architetto; ognuna ha una propria specificità, un proprio campo disciplinare ma, rispetto al progetto di architettura, tutte sono rivolte verso un unico fine comune, come comune e sintetico è il risultato del progetto, che risolve in unità problemi molteplici e di diversa natura. Per sottolineare questi aspetti abbiamo invitato persone con diverse competenze disciplinari - architetti storici, architetti compositivi, architetti paesaggisti, architetti urbanisti, architetti esperti in disegno e rappresentazione, architetti che si occupano di strutture - a offrirci la lettura di una architettura, senza limitazioni di tempo, di luogo e di scala, e senza vincoli rispetto alla sua realizzazione; abbiamo cercato di offrire un confronto di punti di vista, che è essenzialmente un confronto sul metodo. Il libro si pone l’obiettivo di offrire un seppur piccolo, parziale contributo al confronto e alla riflessione sulla complessità del progetto di architettura. Muovendo dalla consapevolezza della necessità di adottare sempre e comunque un metodo rigoroso, abbiamo voluto rendere conto della molteplicità di modi attraverso i quali un progetto di architettura può essere studiato e poi raccontato: ad esempio, partendo dal suo, o dai suoi, autori; analizzandone i disegni, verificando gli aspetti strutturali, utilizzando il disegno, il ridisegno, la fotografia, come strumenti di analisi e di verifica, rileggendo i documenti d’archivio, le relazioni di progetto, i giudizi critici testimoniati dalla letteratura. L’idea che ci ha guidato è che esiste un problema unico, centrale, cui la ricerca analitica di storici, architetti e urbanisti deve dare risposta: lo studio di un edificio deve essere rivolto alla comprensione delle ragioni del progetto, le ragioni delle scelte morfologiche, tipologiche, strutturali, formali, decorative. E la risposta sarà tanto più completa e attendibile quanto meno sarà parziale, quanto più le diverse discipline sapranno integrarsi e convergere verso il fine di indagare le relazioni e la complessità dei problemi. Perché la figura dell’architetto 7 si costruisce attraverso lo studio di più discipline che si intersecano e infine si ricompongono nel progetto compiuto. Abbiamo detto dell’eterogeneità dei temi e degli autori. È tuttavia possibile ricondurre ad alcune questioni tematiche i saggi presentati. Alcuni hanno trattato il tema della città e dei quartieri nel Novecento, esemplificato attraverso due esperienze milanesi - la fondazione di Metanopoli a San Donato Milanese promossa da Enrico Mattei a partire dal 1953 e il Quartiere Sperimentale QT8, elaborato tra il 1946 e il 1956 sotto la regia di Piero Bottoni - e un caso francese, il centro dei Gratte-Ciel di Villeurbanne, presso Lione, degli anni Venti. Altri sono dedicati all’analisi dettagliata di un edificio o di un complesso di edifici, di epoche diverse, interpretati attraverso il rapporto che instaurano con lo spazio urbano: sono i casi esemplari del Battistero di Pisa, dell’Altes Museum di Schinkel, del Federal Center di Mies van der Rohe, esempi lontani nel tempo, ma con grandi affinità di principi. Il tema della ripresa di alcune forme tipiche, reinterpretate alla luce di aggiornate esigenze e investite di nuovi significati, è stato affrontato nei saggi dedicati alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, all’Università della Virginia di Thomas Jefferson, al progetto per la Casa delle Guardie Campestri al Villaggio di Maupertuis di Claude Nicolas Ledoux. Il tema della casa è stato proposto attraverso una lettura dall’interno - prendendo ad esempio le case milanesi di Ignazio Gardella - e dall’esterno - la palazzina Girasole di Luigi Moretti a Roma. Due casi-studio hanno come tema centrale il rapporto fra costruzione e forma: un’opera di Pier Luigi Nervi, il Palazzo del Lavoro a Torino, e una di Tony Garnier, il Macello di Lione. Come intorno a un tavolo anatomico, le singole opere sono state analizzate avvicinandosi progressivamente alle viscere del corpo esaminato. E tanto più importante sembra essere la questione dell’analisi degli edifici della storia, quella vicina e quella lontana, perché i problemi affrontati nel comprendere le ragioni delle architetture sono gli stessi che si affrontano in ogni progetto di architettura, dove ai diversi perché che il progetto pone deve essere data una nuova, fondata, compiuta risposta. MCL, RN 8 Anatomia di un edificio Massimo Fortis Agli inizi degli anni Ottanta un redattore della rivista londinese 9H mi consigliò di leggere il breve saggio di analisi che Philippe Panerai aveva dedicato alla Maison Cassandre di Auguste Perret. Un testo del 1975, pubblicato inizialmente su AMC Architecture, Mouvement, Continuité e riproposto nel 1982 sulla rivista appuntita che si era prefissa lo scopo di riportare l’attenzione sugli aspetti propri del progetto di architettura nella prospettiva di costruire le premesse per una rinnovata capacità di giudizio. Il breve saggio, corredato dai disegni essenziali e da schemi grafici interpretativi, proponeva una descrizione per gradi dell’edificio attraverso un ordine semplice di questioni: dati storici essenziali; situazione; distribuzione; organizzazione spaziale (comprensiva delle scelte strutturali); linguaggio formale; retorica. Nulla di particolarmente sofisticato, se vogliamo, ma utile sul piano didattico per mostrare come si può comprendere un edificio attraverso un’operazione di smontaggio e rimontaggio, nel saper vedere come le varie componenti del progetto si ricompongano e si necessitino nell’unità architettonica. Ma il pregio dell’esercizio descrittivo stava nell’essere rimasto, per così dire, sul pezzo, cioè di avere tratto dall’oggetto in esame le informazioni necessarie per comprenderne la genesi, il processo di scrittura, le qualità formali, nonché le contraddizioni nascoste nel lavoro di Perret. Senza appoggiarsi a un apparato documentale sistematico e senza sovra-imporre interpretazioni critiche estranee alla constatazione dei fatti presenti. Come se lo studioso avesse ripercorso dall’interno, nel farsi di un’opera, le fasi e i dubbi del progettista. Normalmente gli studi condotti nell’ambito disciplinare si occupano di ricostruire le condizioni e le scelte decisionali, l’histoire d’un bâtiment. Qui si tratta di ripercorrere la logica interna che ha presieduto alla stesura di un progetto. Oltre alla comprensione delle relazioni mereologiche che 9 regolano gli equilibri tra le parti e il tutto, ha senso capire come i diversi sottoinsiemi tecnico-disciplinari forma/funzione/struttura - trovino una consonanza nel processo di accordatura, diciamo così, dell’organismo edilizio. In questo senso la dissezione anatomica dell’edificio diventa campo di addestramento per l’apprendista architetto al fine di capire la concatenazione delle varie componenti che agiscono sulla messa a punto di un manufatto, ma, soprattutto, per ri-costruire dall’interno la sintesi che si dà nella forma finale raggiunta. Quasi a mimare in vitro il processo di scrittura progettuale che si estende alla sua realizzazione materiale. Un dispositivo didattico che si affianca a quello tradizionale del rilievo e che trova una sua ricaduta manuale, ma tutt’altro che banale, nella realizzazione della maquette. Sin qui prevale una finalità applicativa, non priva di risvolti pedagogici: il metodo - learning from the work è dettato da un consapevole ricorso all’empiria: vale a dire fondato sull’esperienza diretta e sulla conoscenza approfondita della cosa, sospendendo per il momento l’esercizio di ulteriori coloriture critiche. Una sorta di conoscenza intima dell’opera, colta nella sua condizione materiale, che accomuna il lavoro dell’autore al percorso di formazione dell’architetto nella ricerca di strumenti per operare. Ciò non toglie che siano possibili e praticate altre metodiche analitiche che spingono l’indagine esegetica su un piano di interpretazione critica più sofisticata, talvolta programmaticamente tendenziosa, oppure sviluppata filologicamente su approfondimenti specifici e dati documentali. Così come si affacciano, nell’ambito della ricerca teorica, studi su edifici che impiegano ottiche provenienti da altre discipline. Si veda, ad esempio, il lavoro condotto da Iñaki Abalos nel suo libro La buena vida, dove un gruppo di case d’autore viene interpretato alla luce di grimaldelli filosofici. O ancora l’operazione di ekphrasis che sembra appassionare la cultura contemporanea della critica architettonica nel descrivere lo spazio architettonico attraverso sguardi provenienti da altre forme di arti visive o letterarie. Così Giuliana Bruno nel suo Pubbliche intimità. Architettura e arti visive, dove lo sguardo privilegiato è quello del cinema: «Lo spettacolo della lezione di anatomia mostra un impulso analitico, un’ossessione per il corpo, che viene sottoposto a atti di smembramento. Tale desiderio analitico è presente nello stesso linguaggio del cinema, È inscritto nella sua costruzione semiotica, nel suo découpage (come la parola stessa connota, la “dissezione” della narrazione in 10 fotogrammi e sequenze), nelle sue tecniche di inquadratura e nel suo metodo di montaggio, chiamato alla lettera “cutting”, tagliare, un intervento di (de)costruzione dei corpi nello spazio». In direzione analoga possono essere considerati i seminari Ekphrasis, promossi da Valerio Adami presso la Fondazione Europea del Disegno, le cui testimonianze raccolte negli Annali perseguono l’obbiettivo di intersecare i tracciati disciplinari della rappresentazione attraverso la molteplicità dei saperi che segnano la cultura di un tempo. L’operazione proposta nei testi qui raccolti, verso i quali chi scrive ha svolto un modesto ruolo di pronubo (a partire dal suggerimento del titolo), avendo sollecitato un gruppo di più giovani colleghi a misurarsi con un saggio di analisi, descrive uno spettro più concentrato sul terreno delle discipline che convergono sul progetto di architettura. Per un confronto, per capire quali utensili di indagine siano messi in gioco da persone più o meno della stessa età, che lavorano fianco a fianco negli stessi spazi, sia pure con sfumature disciplinari diverse che comprendono la composizione, la storia, l’urbanistica, la rappresentazione e la progettazione strutturale. Conta la scelta degli esempi - dove posare lo sguardo? - ma contano soprattutto il metodo di scomposizione e gli apparati strumentali messi in gioco da ciascuno. In una temperie culturale in cui il quadro dei riferimenti teorici non è univoco ed è ampio lo spazio lasciato all’interpretazione individuale più o meno fondata, ha senso disporre sul tavolo le prove per comprendere, al di là delle eterogeneità delle scale e dei tagli critici, quali siano le regole del montaggio e le istruzioni per l’uso. Alla fine ciò che conta è dare ascolto alle ragioni degli oggetti. 11 La costruzione del nuovo centro: Les Gratte-Ciel a Villeurbanne Francesca Bonfante Con la legge Cornudet del 19191, in Francia, vengono elaborati numerosi plans d’aménagement et d’extension, progettati per la maggior parte da architetti di formazione beaux arts. Tra gli assunti fondamentali vi è l’unità fra architettura e città, espressa attraverso lo strumento della “composizione urbana”. I primi interventi di una certa portata vengono sperimentati nelle colonie (in particolare nel Protettorato del Marocco, a Casablanca e Rabat) e successivamente in Francia: a Reims, Lione, Lille, Tolone, Marsiglia, ecc2. Nonostante prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale vengano approvati ben 273 piani urbanistici, la maggior parte di essi resta sulla carta, mentre il carattere prevalente dei processi di urbanizzazione rimane la lottizzazione unifamiliare a villini. Per altro verso, nelle periferie urbane, in forte crescita, le Municipalità, soprattutto quelle orientate a gauche, svolgono un ruolo determinante, favorendo la ricerca di nuove tipologie architettoniche per la costruzione di residenze ed edifici pubblici (a Villejuif, Drancy, Suresnes, Boulogne-Billancourt, Lione, Grenoble). In questo panorama, si stacca il nuovo centro dei Gratte-Ciel di Villeurbanne, promosso dall’Amministrazione municipale. Si tratta di un progetto unico e inusuale per la capacità di concentrare in un intervento unitario sia le residenze popolari, sia le principali attrezzature collettive municipali proprio attraverso la “composizione urbana”. Un’opera condotta collettivamente dall’uomo politico, il sindaco Lazare Goujon, dall’ingegnere, il direttore dei servizi municipali Jean Fleury, e dagli architetti, Morice Leroux e Robert Giroud, che prefigura i cantieri di produzione di massa del periodo immediatamente successivo la Ricostruzione, segnando però differenze importanti. Infatti, mentre a Villeurbanne la costruzione del nuovo centro avviene attraverso un’elevata sperimentazione tipologica e figurativa, la successiva politica dei grands ensembles avviata in Francia alla metà degli anni Cinquanta è subordinata ai processi della prefabbricazione pesante che condizionano rigidamente la libertà di ricerca architettonica. Nel 1958 la creazione delle ZUP (Zone à Urbaniser en Priorité), integrata da una politica di vasta acquisizione fondiaria alla periferia delle città, inaugura l’era dell’urbanistica “colpo su colpo”3. Tale politica viene 12 13 nella pagina accanto Morice Leroux, Prospettiva aerea dei Gratte-Ciel, Villeurbanne, s.d., pubblicata su “L’Illustration”, 30 aprile 1932 (fondo Jules Sylvestre, Bibliothèque municipale de Lyon). predecessori non avevano previsto un’evoluzione così rapida; il risultato è un’agglomerazione caotica, senza piano d’insieme, una città mal fatta sviluppata a caso per interessi privati, dove ciascuno ha costruito a suo modo e tracciato strade a sua fantasia. È tempo di reagire se vogliamo che la Villeurbanne di domani sia una città razionalmente organizzata. (...) Sia dal punto di vista igienico che da quello estetico7”. Forte dell’indipendenza amministrativa e politica8 Jules Grandclément avvia una politica urbana di ispirazione sociale destinata a contrastare gli effetti negativi delle deficienze del liberismo economico in materia di attrezzature pubbliche e di alloggi popolari. Les Gratte-Ciel, Villeurbanne, veduta aerea, anni Trenta. realizzata senza una visione complessiva e raramente viene inserita in un quadro di pianificazione urbana. Il caso studio di Villeurbanne, dunque, è particolarmente significativo sia per le modalità di attuazione, sia per i contenuti innovativi del programma funzionale e del moderno disegno urbano. Prima fase: da borgo agricolo a periferia industriale Per comprendere il carattere innovativo e dirompente del nuovo centro dei Gratte-Ciel nel paesaggio di Villeurbanne4, conviene soffermarsi brevemente sulla trasformazione del Comune nel periodo dell’industrializzazione. A partire dalla metà dell’Ottocento, come conseguenza dello sviluppo di Lione sulla riva sinistra del Rodano e grazie agli interventi di bonifica volti a risanare i terreni a nord del capoluogo frequentemente esondati dal fiume, Villeurbanne viene interessata da una forte urbanizzazione trasformandosi da borgo agricolo in periferia industriale. L’accelerazione della crescita industriale porta con sé una crescita demografica rilevante e costante5. Il Comune si estende intorno alle fabbriche, nei quartieri residenziali, dotati di scarsi servizi, o nelle baracche, secondo uno sviluppo urbano incontrollato e precario6. Il paesaggio è quello della “città-fabbrica”, escrescenza satellite del centro di Lione. Il medico e sindaco Jules Grandclément così descrive la città: “Villeurbanne è cresciuta prodigiosamente (...) I nostri 14 Seconda fase: da periferia industriale a città È però Lazare Goujon, sindaco dal 1924 al 1934, l’artefice della trasformazione di Villeurbanne da periferia a vera città. Nel suo programma elettorale egli dichiara in termini pedagogici e pragmatici la volontà di migliorare le condizioni di vita dei cittadini attraverso l’utilizzo economico e razionale delle risorse comunali. Oltre alle numerosissime attrezzature sociali9, la nuova stagione municipale è incardinata su due progetti che modificano radicalmente la struttura urbana: il plan d’aménagement, d’embellissement et d’extension e il quartiere centrale Les Gratte-Ciel. Il piano (1926-1931) prolunga e rettifica traiettorie già esistenti nella maglia viaria comunale ed extracomunale, facilitando le relazioni fra le diverse parti della città, allora isolate fra di loro, ma soprattutto prevede il nuovo insediamento dei Gratte-Ciel in una zona di circa 20.000 mq., rilevata a seguito di una lungimirante politica di acquisto fondiario. L’intreccio fra il progetto del nuovo centro e il piano è assai stretto, l’uno condiziona l’altro e viceversa. Il progetto comprende un apparato normativo di grande interesse (nuovo regolamento viario, nuovo regolamento sanitario, un’ordinanza del sindaco sulla loro applicazione) e un dossier intorno alle condizioni geografiche, economiche, sociali e igieniche del Comune. Congiuntamente al piano la municipalità adotta anche un regolamento edilizio di grande novità rispetto a quelli vigenti nelle altre città francesi10. In particolare si prevede la possibilità di una maggiore crescita in altezza degli edifici in rapporto alla larghezza della strada. Proprio grazie al nuovo regolamento sarà possibile progettare arterie monumentali delimitate da grattacieli. Terza fase: la rinascita nell’attualità L’intervento riscosse all’origine una grande attenzione da parte della stampa nazionale e internazionale11, per poi progressivamente cadere nell’oblio ed essere riscoperto dalla critica, soprattutto francese, solo a partire dagli anni 15 Les Gratte-Ciel, Villeurbanne, veduta aerea, 1991. Settanta12. Allo scadere del contratto di enfiteusi13, l’ensemble è tornato di proprietà comunale e grazie all’iniziativa del sindaco Gilbert Chabroux, viene istituita qualche anno più tardi per tutta l’area dei Gratte-Ciel una Zone de protection du patrimonie architectural, urbain et paysager (ZPPAUP)14, di solito riservata ad ambienti naturali o a edifici isolati. Il progetto di riabilitazione, oltre alla salvaguardia del patrimonio architettonico esistente, ha esteso la nozione di centro a un’area più vasta incardinata proprio sui Gratte-Ciel, per confermarne il ruolo dominante nel nuovo paesaggio della periferia lionese, pesantemente trasformato dall’urbanizzazione galoppante degli anni Sessanta e Settanta15. L’intervento esalta l’eccezionalità dell’ensemble urbano dei Robert Giroud, Municipio, Villeurbanne, 1930-1934, la hall principale (fondo Jules Sylvestre, Bibliothèque municipale de Lyon). Gratte-Ciel e ne dimostra ancora l’attualità nella città contemporanea. Il programma funzionale, l’impianto e gli elementi chiave della composizione urbana Il nuovo centro della città comprende 1.500 alloggi, negozi, il Palazzo del Lavoro con annessi ufficio d’igiene, teatro, piscina, università proletaria e locali per le associazioni e il sindacato, il nuovo Municipio con uffici amministrativi, biblioteca, museo e commissariato di polizia. Il piano di insieme e il Palazzo del Lavoro sono realizzati da Morice Morice Leroux, Les GratteCiel, Villeurbanne, gruppo di alloggi 1, pianta, pubblicata su “La Construction Moderne”, 8 luglio 1934. Morice Leroux, Les GratteCiel, Villeurbanne, gruppi di alloggi 1 e 2, sezione, 1931, pubblicata su “La Construction Moderne”, 8 luglio 1934. 16 17 Robert Giroud, Municipio, Villeurbanne, 1930-1934, veduta degli anni 1950-1960 (soc. L’Avenir, Archives municipales Villeurbanne, Le Rize). Morice Leroux, Palazzo del Lavoro, Villeurbanne, progetto definitivo, 1932 (fondo Jules Sylvestre, Bibliothèque municipale de Lyon). Leroux, il Municipio da Robert Giroud. L’insediamento Gratte-Ciel è la realizzazione concreta del manifesto programmatico di Goujon: realizzare un nuovo quartiere per le generazioni future, incarnazione stessa della modernità; creare un luogo di massima concentrazione delle attività amministrative, sociali, commerciali e del tempo libero; rispondere al problema dell’alloggio costruendo nuovi appartamenti a prezzi contenuti; reagire al problema della disoccupazione a seguito della crisi del 1929 con un grande cantiere pubblico; stabilire un nuovo equilibrio fra Lione e la periferia operaia, riaffermando la propria autonomia nella gestione del patrimonio pubblico. L’intervento, infatti, è anche la risposta alla dinamica politica municipale perseguita da Edouard Herriot e realizzata da Tony Garnier a Lione a partire dai primi anni del Novecento16. La questione dell’abitazione sociale, di solito relegata ai margini dell’insediamento, diviene il cuore pulsante del nuovo centro innestato nel dispositivo comunale urbano e costituisce, per il suo carattere monumentale, un punto di riferimento nel paesaggio, da vicino e da lontano. Per far fronte all’operazione economica, lanciata nel 1929 in condizioni assai sfavorevoli per la sospensione da parte dello Stato francese della maggior parte dei finanziamenti HBM, Goujon si avvale di una società indipendente sotto il controllo della municipalità e di un apparato legislativo17 che consente una struttura finanziaria e giuridica al passo con il suo ambizioso programma18. Il nuovo quartiere viene inaugurato nel giugno del 1934 da feste che dureranno 20 giorni, mentre nel Palazzo del Lavoro si alternano la Conferenza nazionale delle municipalità socialiste e un ciclo di operette. L’impianto generale si organizza attorno a un’ampia piazza, delimitata a est e a ovest da quattro gruppi residenziali a redans19: su di essa si fronteggiano il Palais du Travail, a rappresentare il mondo del lavoro, e l’Hôtel de Ville in stile 18 “neoclassico”, a rappresentare la solennità del potere repubblicano e democratico. Al centro della piazza due grandi bacini d’acqua quadrati sono contrassegnati negli angoli esterni solo da quattro piedistalli sormontati da piccole palme per consentire la completa percezione dei due edifici pubblici. A contrappunto della torre municipale, due torri residenziali alte quasi 60 metri segnano l’accesso all’asse monumentale prospettico, la rue Henri Barbusse, lungo il quale si dipanano altri quattro blocchi residenziali a redans. Un impianto fortemente simmetrico, sottolineato dalle linee orizzontali delle strade e dalle linee verticali degli edifici. I blocchi residenziali, a prima vista simili, sono in realtà differenti e adeguati alle caratteristiche del suolo. I blocchi 1 e 2, alti 38 metri circa, posti su un terreno largo e vergine al centro del complesso, sono a doppio redan di profondità diversa; i blocchi 3 e 4, alti 36 metri circa, collocati a ovest della piazza, per la presenza sul retro di edifici bassi, hanno un unico redan assai profondo affacciato su strada; i blocchi 5 e 6, alti 31 metri circa, posti all’inizio di rue Barbusse, affiancati a edifici preesistenti su più piani, presentano un redan poco profondo; infine, i blocchi 7 e 8, a est della piazza, previsti con un solo redan, non verranno realizzati. L’ensemble si scompone in gruppi, ogni gruppo in cellule corrispondenti alle entrate; le cellule di ciascun gruppo comunicano fra di loro tramite strade interne, quasi fossero traboules razionalizzati20. Nonostante il variare dell’altezza degli edifici e del numero dei gradoni, l’apparente unità dell’insieme è sapientemente ottenuta tramite l’arretramento del primo gradone sempre all’altezza dell’ottavo piano e l’omogeneità del basamento 19 Morice Leroux, Palazzo del Lavoro, Vileurbanne, progetto definitivo, sezione sul teatro, il ristorante e la piscina, 1932 (Archives municipales Villeurbanne, Le Rize). Morice Leroux, Palazzo del Lavoro, Villeurbanne, interno della piscina, 1932-34 (fondo Jules Sylvestre, Bibliothèque municipale de Lyon). destinato ad attività commerciali. Fanno eccezione solo le torri, uniformi fino al 14° piano. La sezione sugli immobili di 11 piani - progettati da Leroux - disegna una curva teorica che organizza matematicamente l’andamento piramidale delle terrazze. Visto dall’alto l’insieme chiaro e luminoso assume un aspetto mediterraneo, forse dovuto al soggiorno in Marocco del progettista. Nonostante negli anni Trenta i requisiti di comfort e d’igiene si siano particolarmente sviluppati, gli alloggi dei Gratte-Ciel, il cui taglio dipende anche dalla profondità del redan, risultano all’avanguardia nell’ambito delle abitazioni sociali. Infatti oltre alle dotazioni correnti come acqua, gas, elettricità, bagni, gli appartamenti, da 2 a 7 locali, sono dotati di ascensore, montacarichi, riscaldamento centralizzato, acqua calda, cucina elettrica e scarico dei rifiuti. Nel complesso, innalzato con un’ossatura metallica, Leroux combina edifici in altezza, redans e gradoni, recependo alcune istanze emerse in seno al Movimento Moderno e nel dibattito degli architetti e urbanisti francesi. Egli riprende, con evidenti varianti, il progetto del boulevard à redans per Parigi di Eugène Hénard, elaborato a seguito del previsto smantellamento della cinta delle fortificazioni che rendeva improvvisamente disponibile all’edificazione una fascia lunga 33 chilometri e larga 120 metri21; redans che Le Corbusier proporrà in diversi progetti non realizzati22. Inoltre reinterpreta, nella parte sommitale degli edifici residenziali, il sistema di costruzioni a gradoni sviluppato da Henri Sauvage, insieme a Charles Sarazin, per le maisons du rapport - maisons ouvrières a partire dal 1909 in numerosi progetti e realizzazioni23. Fra la concentrazione in altezza, strenuamente difesa dallo stesso Le Corbusier al Terzo Congresso dei CIAM del 193024, e la dispersione delle molte città-giardino realizzate nelle banlieue, Leroux e Goujon optano per la prima, ottenendo la massima densità in funzione di una ridotta disponibilità fondiaria. Tutti questi elementi concorrono alla configurazione di uno spazio urbano altamente condensato e disegnato secondo i principi propri della composizione monumentale classica francese. Il processo originale che conduce alla realizzazione dei Gratte-Ciel deve la sua forza a un’idea innovativa, ossia il Palazzo del Lavoro25, ispirato nel programma alla Maison du Peuple di Gand, centro di attività intellettuali, artistiche e morali, espressione di un’idea culturale e politica, indispensabile allo sviluppo democratico di una città, dove il lavoro deve far sentire tutta la sua forza e vitalità. Morice Leroux, vincitore del concorso con il motto Sous le ciel de Villeurbanne, nel progetto definitivo sopraeleva le ali laterali di due piani e rimaneggia il corpo centrale al fine di accentuarne la verticalità. All’esterno l’edificio forma con i 20 complessi residenziali un insieme stilisticamente omogeneo. Il corpo centrale e le ali laterali più basse sono trattati come volumi puri forati da grande vetrate. La parte centrale, ritmata dalla sequenza pensilina, finestre, tamponamento pieno, è delimitata dalle aperture continue verticali degli elementi di risalita sormontate da torrette a gradoni, a stabilire un dialogo serrato con la torre municipale. All’interno il programma funzionale prevede nell’ala est il dispensario d’igiene e di assistenza sociale, nell’ala ovest le sale di riunione e gli uffici delle società locali (artistiche, sportive, di mutuo soccorso, ecc.), al centro la piscina, il circolo municipale a livello della piazza con sale per ricevimenti, il teatro per 1.500 posti26, sovrapposti dal basso verso l’alto in una sezione complessa. La nuova sede del Municipio, come previsto dal bando del concorso vinto da Robert Giroud27, doveva rispettare “lo spirito moderno che presiede all’attuale attività dell’amministrazione municipale”. Giroud propone un impianto simmetrico. Al centro un ampio passaggio porticato, non realizzato, sormontato da una torre di 65 metri, doveva mettere in comunicazione l’asse principale e la piazza. Secondo un trattamento omogeneo, il ritmo delle facciate è determinato da imponenti colonne scanalate in cemento armato, intervallate, quasi per contrasto, da sottili serramenti metallici abbinati a vetro smerigliato. Verso la piazza il frontone accentua l’andamento orizzontale della facciata, mentre verso la rue Barbusse la torre, integrata al fronte, ne esalta la verticalità. Alla monumentalità dell’esterno corrisponde all’interno un ambiente dove aria e luce penetrano senza ostacolo; al posto dei consueti “corridoi interminabili sui quali si aprono porte misteriose che assoggettano a spingere con timidezza nel timore di essere rimandati verso una porta ancora più introvabile”28, il rapporto fra spazi serventi e spazi serviti viene declinato nel pieno rispetto del pubblico. Al primo piano intorno a una grande hall centrale sono disposti gli uffici dei servizi amministrativi e dell’esattoria municipale, separati solo da pareti vetrate. Nella torre, chiamata anche donjon - torrione - in riferimento simbolico alla torre medioevale, come se il municipio rappresentasse per la città il carattere di una fortezza protettrice, si trovano l’ufficio del sindaco con balcone d’onore e le sale d’esposizione dell’industria locale, un embrione di museo regionale. Nella sala dei matrimoni, posta al secondo piano e separata dalla sala del consiglio solamente da un paramento in seta, troneggia un organo Cavaillé-Coll: per la prima volta in Francia i matrimoni civili assumono il carattere di vere cerimonie laiche. Infine, nel 1933 l’amministrazione incarica Robert Giroud e Morice Leroux per il progetto di uno stadio per 12.000 spettatori, su un terreno messo in vendita dalla società 21 Robert Giroud, Morice Leroux, Stadio, Villeurbanne, facciata principale, 1933, pubblicata in Lazare Goujon, “Le crime que j’ai commis?”, s.d. Schwarz Haumont a est dei Gratte-Ciel, che doveva completare le dotazioni comunali destinate allo sport e al tempo libero. Il programma prevede uno stadium a vocazione multipla comprensivo di velodromo coperto, pista di schettinaggio, pista di pattinaggio, hockey su ghiaccio, ring per la boxe, ecc., un ristorante e una brasserie. Il fronte principale è ritmato dalla sequenza di grandi vetrate e alte colonne sormontate da giganteschi orifiamma29. Un sistema di scale e vomitori permette l’accesso e l’evacuazione in modo facile e rapido; nell’invaso del campo di gioco una piattaforma mobile consente lo svolgimento di manifestazioni culturali. I lavori verranno interrotti nel 1935 da Camille Joly, successore di Lazare Goujon e l’edificio, per metà realizzato, sarà demolito nel 1962 per far posto al Palazzo dello sport. 13. 14. 15. 16. 17. 18. Note 1. La legge Cornudet del 14 marzo 1919, sotto l’urgenza degli interventi di ricostruzione delle città devastate, impone ai Comuni superiori ai 10.000 abitanti e indistintamente a tutti i Comuni del Dipartimento della Senna piani “d’aménagement, d’embellissement et d’extension”. La legge viene poi modificata da quelle del 5 dicembre 1923, del 15 maggio e del 19 luglio 1924, quest’ultima a precisare la natura dei documenti da produrre. 2. Cfr. Enrico Bordogna, “Ville Radieuse”, “embellissement”, città come opera d’arte collettiva, in “Hinterland”, n. 28, dicembre 1983-marzo 1984, pp. 30-39. 3. I terreni delle ZUP vengono scelti in piena periferia per alloggiare al minor costo la manodopera operaia e il finanziamento viene accordato solo a condizione di adottare un determinato tipo di produzione esclusiva dell’una e dell’altra impresa sostenuta ufficialmente dallo Stato. Al posto delle municipalità, lo Stato assume a scala nazionale il ruolo di costruttore. Cfr. Jean-Claude Delorme, Francia: origine beaux arts della pianificazione urbanistica; classicismo, filologia, razionalismo nella ricostruzione; la crisi attuale della pianificazione urbanistica, in “Hinterland”, n. 1, dicembre 1977-gennaio 1978, pp. 26-31. 4. Il Comune ha una superficie di 1537 ettari, delimitata a nord per 2 km dal fiume Rodano che lo separa dai Comuni di Caluire e Cuire, a est dal Comune di Vaulx-en-Velin, a sud dal Comune di Bron, a ovest dal Comune di Lione. 5. La popolazione passa da 6.000 abitanti nel 1851 a 82.000 nel 1931. 6. Cfr. Marc Bonneville, Naissance et métamorphose d’une banlieu ouvrière Villeurbanne. Processus et formes d’urbanisation, Presses Universitaires de Lyon, Lione 1978. 7. Jules Granclément, Discorso tenuto al consiglio municipale il 24 settembre 1920. 8. Fra il 1842 e il 1913 vi sono cinque tentativi da parte del Comune di Lione di annettere il Comune di Villeurbanne. Villeurbanne difende strenuamente la propria autonomia. Cfr. Bernard Meuret, Le socialisme municipal, Villeurbanne 1880-1982: Histoire d’une différenciation, éditions PUL, Lione 1982. 9. Cfr Lazare Goujon, Villeurbanne 1924-1934 dix ans d’administration, Villeurbanne 1934. 10. Cfr. Anne-Sophie Clémençon, La parenthèse réglementaire, in AA.VV., Les Gratte-Ciel de Villeurbanne, Les Éditions de l’Imprimeur, Besançon 2004, pp. 122-133. 11. Il progetto viene pubblicato, fra gli altri, su: “La Construction moderne”, n. 41, 1934; “L’Architecture d’Aujourd’hui”, n. 7, 1934; “Arkhitektoura za roubejom”, n. 1, 1935. 12. Cfr. Dominique Boudier, Didier François, Michel Raynaud, Villeurbanne 22 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 1924-1934 un centre urbain, in “Architecture, mouvement, continuité”, n. 39, 1976. Il contratto è scaduto nel 1989. Sulle modalità dell’enfiteusi si vedano le note 17 e 18. La ZPPAUP viene istituita nel 1993. Cfr. Joëlle Bourgin, Protection, réhabilitation, perspectives, in Les Gratte-Cile de Villeurbanne, cit., pp. 212-219 e Gabriel Ehret, Les GratteCiel de Villeurbanne à la conquête du grand large, in “L’Architecture d’Aujourd’hui”, n. 358, 2005, pp. 66-71. Cfr. Tony Garnier, Les Grands Travaux de la Ville de Lyon, Ch. Massin, Parigi 1919. I testi di legge a sostegno dell’operazione sono i decreti del 5 novembre e del 31 dicembre 1926, le leggi del 28 dicembre 1926, 28 dicembre 1928, 17 febbraio 1930 riguardanti l’enfiteusi e la partecipazione dei Comuni a imprese private che perseguano il miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie dell’insediamento. Per salvaguardare la proprietà municipale e conservare in equilibrio le finanze comunali, Goujon opta per un affitto in enfiteusi di sessanta anni tra la città e un consorzio, il Comptoir d’études et de travaux urbains (CETU), che crea una società anonima, la Societé villeurbannaise d’urbanisme (SVU). Cfr. Édith Traverso, Une des premières sociétés d’économie mixte, in AA.VV., Les Gratte-Cile de Villeurbanne, cit., pp. 148-151 e idem, Les Gratte-Ciel de Villeurbanne, in “Travaux de l’Institut d’Histoire de l’Art de Lyon”, n.11, giugno 1988, pp. 111-124. Il termine redan indica un impianto “a greca”. A Lione tra il Rodano, la place des Terraux e la chiesa di St.-Polycarpe si estende il quartiere dei traboules, passaggi coperti fino a quattro piani sovrapposti che permettono di passare di via in via sempre al coperto. Nell’Ottocento vi vivevano 30.000 canuts, artigiani della seta. Cfr. René Dejean, Traboules de Lyon. Histoire secrète d’une ville, Éditions des Traboules, Brignais 2000. Cfr. Eugene Henard, Études sur le trasformations de Paris. Les Alignements brisés. La question des fortifications et le boulevard de Grande-Ceinture, fasc. 2, 1903, ora in Eugéne Hénard (a cura di Donatella Calabi e Marino Folin), Alle origini dell’urbanistica. La costruzione della metropoli, Marsilio, Venezia 1972, pp. 61-79. Per esempio il Piano per una città di tre milioni di abitanti, 1922, e il Plan Voisin, 1925. Henri Sauvage dal 1909 al 1932 si occupa del sistema di costruzioni a gradoni di cui depositerà il brevetto il 23 gennaio 1912. Le realizzazioni più significative sono la casa in rue Vavin a Parigi, 1912-13 e l’edificio HBM in rue des Amiraux a Parigi, 1913-30. Cfr. Jean-Baptiste Minnaert, Henri Sauvage, Éditions NORMA, Parigi 2002. Il tema del Terzo Congresso dei CIAM del 1930 a Bruxelles è “Metodi costruttivi razionali”. Il concorso è indetto nell’ottobre del 1927; nel gennaio 1930 si tiene il concorso per l’Hôtel de Ville; nell’agosto 1930 viene presentato il “plan d’extension” che comprende, oltre agli edifici pubblici, alloggi ad affitto moderato e l’apertura di nuove strade, seguito nel 1931 dal “plan d’ensemble”. Per la cronologia completa cfr. Édith Traverso, Chronologie générale, in AA.VV., Les Gratte-Cile de Villeurbanne, cit., pp. 226-227. Nel 1957 Roger Planchon, su invito del sindaco Étienne Gagnaire, prende la direzione del teatro municipale che diviene Théâtre de la Cité, rivolto a un pubblico popolare. Nel 1963 verrà promosso a Centro drammatico nazionale e nel 1972 prende il marchio TNP, Théâtre Nationale Populaire. Robert Giroud si è formato all’École régionale d’architecture di Lione (atelier Tony Garnier) e all’École del Beaux-arts di Parigi (atelier Laloux) ed è sostenitore di una visione monumentale classica. Cfr. Jaen Fleury, Le centre neuf de Villeurbanne, conferenza tenuta a Marsiglia, 1934. L’orifiamma è un gonfalone di seta rossa a due o tre punte, con stelle ricamate e fiamme d’oro dipinte, anticamente insegna dei re di Francia. 23 Il Quartiere sperimentale VIII Triennale QT8 Laura Montedoro “…Gli esempi più importanti…” Il QT8 - Quartiere sperimentale VIII Triennale - rappresenta un’esperienza di indagine diretta sul tema dell’abitare unica in Italia. L’aggettivo “sperimentale” si riferisce soprattutto all’aver reso stabile e permanente l’attività legata alle esposizioni della Triennale, trasformando, a partire dal 1947, una parte a nord-ovest della città in un laboratorio di sperimentazione2 continua sul tema della “casa”, su modello delle precedenti esperienze europee del Weissenhof di Stoccarda, nel 1927, e del Werkbund Siedlung di Vienna, nel 1932. A ciò si aggiungono ulteriori motivi di interesse: la ricerca sul rinnovamento delle tecniche di cantiere, con la verifica sui metodi di industrializzazione e prefabbricazione edilizia, e l’esplorazione sulla varietà tipologica. Anche “l’invenzione” di un paesaggio è motivo di eccezionalità: non solo nella relazione tra insediamento urbano e natura (di fatto un “quartiere giardino”) ma anche, e soprattutto, per la creazione di una collina artificiale - il Monte Stella - che dà carattere e inconfondibile identità a uno dei più importanti ingressi alla città (la via Scarampo collega, infatti, Milano alle autostrade per i Laghi e alla Torino-Venezia), ponendo il quartiere in relazione con l’intero comparto urbano e con la scala territoriale. Assai innovativa, e irripetibile, è anche la formula istituzionale utilizzata per la realizzazione del Quartiere. Nel 1945 viene nominato un Commissario Straordinario della VIII Triennale, carica affidata all’architetto Piero Bottoni che, in questo ruolo, cura la regia dell’operazione per molti anni. Ma andiamo con ordine. Urbanistica, architettura, paesaggio Il quartiere visibile oggi è l’esito di tre diversi progetti succedutisi nell’arco di sette anni e di numerosi “incidenti”, rallentamenti, varianti3. La prima ipotesi - datata 1946-47 e firmata dallo stesso Bottoni con Cerutti, Gandolfi, Morini, Pollini, Pucci, Putelli - era in parte diversa da quanto poi realizzato, sebbene lo schema principale sia rimasto fedele a quanto qui prefigurato: il quartiere si compone di quattro nuclei residenziali, ciascuno dei quali caratterizzato dall’adozione di un tipo edilizio prevalente, ma sempre composito (si vedano, ad esempio, l’edilizia a bassa densità 24 25 L’architettura dei quartieri […] non è andata oltre l’importante proposta di Bottoni con il QT8 e il Monte Stella; così questi due fatti rimangono certamente come gli esempi più importanti, e senza seguito, della situazione milanese. Aldo Rossi1 nella pagina accanto Piero Bottoni, Ezio Cerutti, Vittorio Gandolfi, Mario Morini, Gino Pollini, Mario Pucci e Aldo Putelli, QT8 (Quartiere sperimentale della ottava Triennale) a Milano, primo progetto, 1945-48 (realizzazione parziale), planimetria (Archivio Piero Bottoni, Politecnico di Milano; d’ora in avanti APB). Piero Bottoni, Ezio Cerutti, Vittorio Gandolfi, Mario Morini, Gino Pollini, Mario Pucci e Aldo Putelli, QT8 (Quartiere sperimentale della ottava Triennale) a Milano, primo progetto, 1945-48 (realizzazione parziale), plastico (APB). del “villaggio dei reduci”, con case a due piani, unifamiliari, a schiera o binate); le case in linea di lunghezza minima, alte quattro piani, sulle aree di margine tra i settori; l’area delle “case multipiano”, in gran parte lunghe ottanta metri e alte otto piani; il nucleo prevalentemente di uso pubblico (oggi tutto a parco) caratterizzato da spazi aperti per il tempo libero, un laghetto e un grande Centro Civico presidiato da un’alta “casa collettiva” (mai realizzati), con una fascia residenziale di margine verso la via Sant’Elia (anch’essa non realizzata). I quattro settori residenziali sono serviti da una rete stradale dalla chiara gerarchia (strade di collegamento con il contesto, strade di attraversamento, strade cieche riservate ai residenti, percorsi esclusivamente pedonali). È alla confluenza delle due strade di attraversamento che si progetta il Centro Civico mai costruito, vero cuore pulsante del quartiere attorno a cui vengono previsti anche altri servizi. Di quell’intenzione restano solo la Chiesa parrocchiale di Santa Maria Nascente di Magistretti e Tedeschi (1947-55), il Mercato Coperto e la Scuola Elementare di Arrighetti (1954-55). Questa prima ipotesi guida di fatto la costruzione del nucleo sud-ovest, il primo a essere edificato, con le casette per i reduci, anche perché rispondente alla situazione di grave emergenza abitativa. Il secondo progetto (1949-50), di Bottoni e Cerutti, porta la visibile modificazione delle previsioni precedenti per l’area del parco: la soluzione della collina artificiale appare in sostituzione del laghetto quale perno della zona per il tempo libero, ma si tratta ancora di una collina timida. È nell’ultimo progetto del 1953, redatto dal solo Bottoni, che la collina diventa “la montagnetta”, come è popolarmente chiamato il Monte Stella (1953-70); inoltre vi è contenuto un ampliamento del quartiere nella fascia a nord, con l’apertura della via Cimabue e il rapporto diretto con il prolungamento della via Scarampo, dove vengono previste le “case stellari” (vedi la Prima “Casa stellare”, 1955-57, e la Seconda “Casa stellare”, 1958-59, progettate dallo stesso Bottoni). Tutti e tre i progetti marcano però con decisione un percorso di continuità con le ricerche razionaliste del periodo tra le due guerre sul tema dell’abitare e con quanto aveva maturato l’esperienza dei CIAM (Congressi Internazionali di Architettura Moderna): edilizia aperta, rapporto con il verde, orientamento delle unità abitative secondo principi igienici ottimali (il famoso asse eliotermico), standardizzazione edilizia. La varietà tipologica - con “case alte, medie e basse” - era un altro elemento assunto in modo programmatico per la composizione dell’insediamento. Con tutta evidenza, una stretta parentela lega il QT8 ai quartieri autosufficienti 26 teorizzati, e in parte realizzati, nel corso degli anni Trenta e Quaranta, con la differenza che qui vi è già un’assunzione problematica del tema dell’isolamento dei nuovi insediamenti, a cui si cerca di ovviare tramite la previsione di un collegamento su rotaie (sarà poi, solo nel 1964, la metropolitana). Anche il tema del verde è qui oggetto di una riflessione e di una progettualità sistematiche e preziose: sottratto alla nozione di generico distanziatore e portatore di salubrità, il verde si fa paesaggio e la creazione della collina artificiale sigla questa possibilità con persuasione e disvela pienamente le potenzialità architettoniche del rapporto natura-artificio. Non a caso, ancora Aldo Rossi scrive: «pochi sono i monumenti dell’architettura moderna; pochi soprattutto quelli che hanno un significato che va oltre la loro qualità tecnica […]. Certamente due a Milano: il Monte Piero Bottoni, Ezio Cerutti, QT8 (Quartiere sperimentale della ottava Triennale) a Milano, secondo progetto, 1949-51 (realizzazione parziale), planimetria (APB). Piero Bottoni, Ezio Cerutti, QT8 (Quartiere sperimentale della ottava Triennale) a Milano, secondo progetto, 1949-51 (realizzazione parziale), plastico (APB). 27 Stella di Piero Bottoni e la Torre Velasca dei BBPR. Piero Bottoni […] trasforma un programma in una grande architettura: il Monte Stella»4. Sperimentazione e prefabbricazione Una volta assunta “la casa” quale tema unico per la Triennale e steso il programma per il quartiere, la necessità di adottare nuovi modi del cantiere e nuovi procedimenti costruttivi - soprattutto per dare risposta alla tragica situazione della ricostruzione - viene fatta propria da Bottoni e dal Comitato della Triennale quale tema di sperimentazione permanente. È soprattutto la prima parte del quartiere a registrare questa attenzione in anni in cui il Ministero dei Lavori Pubblici e il CNR bandiscono concorsi finalizzati alla verifica dei metodi di prefabbricazione; dopo il 1953 questa via verrà progressivamente abbandonata, nel QT8 ma anche a livello nazionale, per il mutamento del quadro strategico generale. In particolare, si ricorda il conflitto con la potente azione del Piano Ina-Casa, che aveva per sua natura una finalità eminentemente economica e di risposta alla questione occupazionale, e solo di riflesso alla domanda di abitazioni «Chiare sono le finalità del piano: […] usare l’edilizia in funzione subordinata ai settori trainanti, tenendola ferma a un livello preindustriale e in funzione dello sviluppo delle piccole imprese. […] Non certo le proposte di innovazione produttiva implicite […] nel QT8 possono essere funzionali a tali obiettivi»5. Scelte politiche e necessità economiche strutturali, perciò, candidano di fatto al fallimento la ricerca in questa materia, nonostante «l’ambiente della cultura architettonica milanese esprimesse […] una particolare attenzione alla sperimentazione di nuovi metodi di industrializzazione edilizia, tanto da suggerire a Tafuri anche in riferimento al più diretto rapporto dei lombardi con le avanguardie e con le “utopie” del moderno che della standardizzazione avevano fatto un’esperienza ineludibile di riconoscere nella via milanese una “proposta radicalmente alternativa all’organizzazione della produzione edilizia nell’età della ricostruzione”6 rispetto alla “via romana”. Di tale “linea, perdente,”7 Bottoni è testimone privilegiato»8. Tuttavia, la zona del villaggio dei reduci ci mostra una parte di quella esperienza - tra le pochissime compiute in Italia in modo sistematico - ed è ben osservabile nella serie delle otto case di quattro piani (vedi quella progettata da Mucchi in via Goya, 1947-48), nelle Due case prefabbricate in via Sant’Elia (1950-55) di Bottoni, e nella serie delle Casette a schiera o delle monofamigliari binate (1947). Il progetto di queste ultime, peraltro, si rivela una straordinaria “palestra” per giovanissimi architetti, spesso neolaureati, che saranno protagonisti della cultura architettonica della stagione successiva. 28 Piero Bottoni, QT8 (Quartiere sperimentale della ottava Triennale) a Milano, terzo progetto e successive varianti esecutive, 1953-1957 (realizzazione parziale), plastico (Archivio della Triennale di Milano). Continuità e innovazione: generazioni in dialogo Come già anticipato in apertura, non si può non sottolineare come il QT8 abbia rappresentato un laboratorio cruciale anche per lo scambio, il confronto e (a volte) il conflitto tra i diversi soggetti coinvolti. Per quanto concerne gli architetti, si trovano fianco a fianco protagonisti del Razionalismo e giovanissimi professionisti, in uno scambio assai proficuo. Fulvio Irace sottolinea bene questo aspetto quando mette in fila alcuni luoghi topici per la formazione di quella generazione di nuovi professionisti milanesi: l’importante esperienza dell’MSA (Movimento Studi per l’Architettura), la redazione della rivista Casabella-Continuità e, appunto, il cantiere del QT8, dove dalle idee era anche possibile passare ai fatti. Qui fanno il loro esordio Magistretti, Castelli Ferrieri, Buzzi, Zanuso, Sottsass jr, ecc. «Si configura insomma uno scenario critico sostenuto da una fitta trama di relazioni che propone alle forze più giovani un simbiotico patto di lavoro, fianco a fianco ai loro maestri»9. Storia istituzionale L’iniziativa pubblica e il coinvolgimento attivo di molti soggetti hanno reso possibile la costruzione del quartiere modello. Per quanto attiene l’organizzazione e il coordinamento, gli attori coinvolti sono: in primo luogo il Comune, proprietario di quasi tutte le aree interessate, in secondo luogo l’Ufficio tecnico della Triennale (dopo Centro studi Triennale), poi il Provveditorato alle Opere Pubbliche, il Genio Civile di 29 Milano, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), l’Osservatorio di Brera, e l’Università (di Milano e di altre città). Per quel che riguarda i finanziamenti dell’operazione, gli Enti interessati sono la Triennale stessa, il Ministero dell’Assistenza postbellica e il Ministero dei Lavori Pubblici, il Comune di Milano, gli Istituti per le Case Popolari (Ina-Casa, Incis, ecc.), i privati. In ultimo, in riferimento alla sperimentazione edilizia, sarà nominata una Commissione edilizia del QT8, per l’applicazione di una normativa speciale creata ad hoc, il Ministero dei Lavori Pubblici e il CNR per l’utilizzo di sistemi di prefabbricazione. La costruzione del QT8 è pertanto oggetto dell’attenzione di molti Enti e di molte persone che qui fanno convergere energie importanti, investendo in un’esperienza che si fa (anche) simbolica per la stagione epica della Ricostruzione. Tuttavia, questo promettente spiegamento di forze non ha la durata e la costanza attese, e l’avventura del quartiere registra rallentamenti, accusa colpi imprevisti. «D’altra parte, è questo un destino comune ad alcune delle iniziative più interessanti di quegli anni. Dopo la Liberazione v’era tanto fervore di progresso che tutti incoraggiavano la nostra battaglia, poiché vi sono rari momenti nella Storia in cui gli ideali sembrano così prossimi a realizzarsi da destare l’interesse concreto anche di coloro che altrimenti non sanno apprezzarli se non come strumento e mezzo ai propri scopi pratici»10. “Gli esempi più importanti, e senza seguito…”: il QT8 oggi La situazione delle periferie urbane e metropolitane è tristemente nota. Per quanto riguarda il presente, piuttosto che affannarsi a definire cosa è oggi il QT8, sembra più interessante sottolineare cosa non è, come propone Graziella Tonon, facendo un bilancio convincente circa gli esiti di quell’esperienza11: «il QT8 non è un ghetto» perché alla varietà tipologica è corrisposta una varietà di abitanti che «hanno funzionato da antidoto alla formazione di una enclave monoclasse […] o a stagnazione sociale»; «il QT8 non è un quartiere isolato, né dipende esclusivamente dall’automobile nelle sue relazioni territoriali» perché la Linea 1 della metropolitana assicura il collegamento pubblico, rapido ed efficiente con il centro della città, rendendolo di fatto privilegiato nel sistema dell’accessibilità; «il QT8 non è un quartiere dormitorio» per via delle numerose presenze di eccellenza legate allo sport e al tempo libero (Monte Stella, Bocciodromo, Centro sportivo XXV aprile e prossimità al Lido e all’Ippodromo) e all’offerta di ospitalità (Casa della Madre e del fanciullo, Ostello della Gioventù); infine, il QT8 non è sprovvisto di servizi per l’infanzia e l’istruzione, perché può contare su 30 una buona dotazione di strutture, sebbene non tutto quanto programmato sia poi andato a buon fine, come l’asilo nido previsto al piano terra sia della Casa Incis di 9 piani in via Bertinoro (1953-58) di Bottoni, sia nella Casa per abitazioni economiche di 11 piani in via Pogatschnig (1949-51) di Lingeri e Zuccoli. Inoltre, il rapporto con il verde ne fa un’area ambientale godibilissima e rara a Milano: il fitto sistema di spazi aperti e collegamenti pedonali connota la vita del quartiere con una nuance bucolica, ma con tutti i vantaggi dell’abitare nel capoluogo. Le occasioni mancate certo rendono più fragile il modello: si pensi in particolare al mancato insediamento di attività produttive, al vuoto lasciato dal Centro Civico mai realizzato, al sistema del commercio. La carenza di quest’ultimo, in particolare, penalizza alcune categorie di cittadini e snatura la concezione dell’impianto originario, 31 Piero Bottoni, QT8 (Quartiere sperimentale della ottava Triennale) a Milano, terzo progetto e successive varianti esecutive, 1953-1957 (realizzazione parziale), planimetria. secondo il quale ciascuno dei quattro settori residenziali avrebbe dovuto essere dotato di un’offerta minima di negozi “di prima necessità”. Dove questi servizi sono stati previsti - come nelle Case a schiera con negozi in via Agrigento (1950-53) dello stesso Bottoni - sono falliti per via dell’insostenibile concorrenza della grande distribuzione. Piero Bottoni, Autorimessa collettiva in via Collecchio 10 al QT8, Milano, 1961-62. Veduta dell’interno. La “lezione di anatomia”: una sineddoche La “lezione di anatomia” si propone pertanto di illustrare criticamente e far conoscere le diverse esperienze edilizie compiute da Piero Bottoni all’interno del quartiere, fornendo strumenti minimi di conoscenza e lettura dei singoli episodi al fine di valorizzarne il carattere innovativo e la qualità architettonica. Il QT8, tuttavia, deve essere apprezzato, interpretato e salvaguardato come un unicum, complesso, il cui valore è assai superiore a quello della somma dei singoli frammenti. In questo senso, anche il tema spinoso e delicato della tutela del Moderno deve essere, a nostro avviso, declinato con la massima attenzione all’esperienza nel suo insieme, al sistema delle relazioni interne all’insediamento ed esterne, con il contesto metropolitano; a un tentativo di offrire modi di abitare alternativi a quelli consolidati nella città compatta o a quelli impoveriti delle periferie; all’idea di città che vi è sottesa. Difficilmente, senza una piena conoscenza della sperimentazione urbanistica qui espressa e, anche, del valore documentario depositato nell’intero progetto, si potranno intraprendere consapevoli e oculate azioni di salvaguardia dell’esistente. Monte Stella (1953-1970) La costruzione del Monte Stella è vicenda appassionante. Il suo progettista, Piero Bottoni, ci racconta dell’invenzione di questo paesaggio in un gustoso scritto che ha il carattere di una visione12. Originariamente infatti, come è ben osservabile nei primi progetti per il Quartiere, in questo luogo era previsto sì un elemento di paesaggio molto forte e caratterizzato ma affatto diverso: un laghetto. L’area è, infatti, quella di una vecchia cava di ghiaia che si immaginava riempita d’acqua, anche in relazione alla prossimità con l’Olona. A qualche tempo di distanza dalle prime ipotesi di progetto, Bottoni torna sul luogo e “scopre” che quella che era una concavità era diventata una convessità: la popolazione aveva infatti riversato in quella grande fossa le macerie delle distruzioni belliche. Come una sorta di “discarica” della memoria della distruzione. Ecco che la suggestione di quella visione e la consapevolezza del valore simbolico del luogo - simbolo della rinascita auspicata nella eroica stagione della 32 Ricostruzione - danno corpo al progetto di una collina artificiale. Nasce “la Montagnetta”, battezzata poi nel 1956 Monte Stella, in onore della prima moglie dell’architetto Bottoni, deceduta in quell’anno. Originariamente immaginata più alta di come poi realizzata (60 metri contro i 100 originari), la collina è anche scena di altri episodi progettuali poi non costruiti. In particolare, si ricordano i progetti per ville lungo il pendio e un ristorante panoramico sulla sua sommità. «Con il Monte Stella il QT8 compie un salto di qualità: conquista definitivamente, sia pure in prospettiva, una dimensione cittadina e un rapporto organico con Milano, anche se la nuova immagine lo avvicina ancor di più a una garden city che a un quartiere della tradizione con il suo tessuto compatto e gli edifici a cortina a formare piazze e strade corridoio»13. Due case prefabbricate per senzatetto al QT8 (1950-1955) in via Sant’Elia L’emergenza della Ricostruzione trova nel progetto del Villaggio dei reduci al QT8 una risposta tempestiva al problema dei senzatetto. Con la finalità di accelerare pratiche di cantiere e di economizzare sulla costruzione, in piena coerenza con il programma sperimentale del quartiere, si dà l’occasione per mettere a verifica alcuni metodi della prefabbricazione. 33 Piero Bottoni, Casa Incis in via Bertinoro 9 al QT8, Milano, 1953-58. Veduta del prospetto nordovest durante il cantiere. Queste due case binate ne sono testimonianza. Qui Bottoni mette alla prova il sistema “Arbor-Sarre” che in sostanza «si basa sulla prefabbricazione fuori cantiere del rustico, negli elementi sia strutturali che di completamento, così che il cantiere viene ridotto a un montaggio pressoché a secco di pezzi prodotti in officina»14. Di fatto «un unico specialista e una squadra di manovali bastano per il montaggio»15. Non deve perciò stupire l’aspetto assai umile dei due edifici, ciascuno contenente due unità residenziali, che non denunciano però all’esterno l’inconsueto sistema costruttivo e che non rinunciano all’aspetto di una rassicurante, povera, domesticità. Piero Bottoni, Due «case stellari» al QT8, Milano: in via Cimabue 2, 1955-57, 1956-58. Casa stellare al QT8, pianta arredamento piano tipo, scala 1:100, prot. 1063, 24 novembre 1955. China su eliografia su lucido, cm 40,0x41,5. Padiglione per mostre e campo giochi al QT8 (1951) in via Pogatschnig Coerentemente con il principio guida di dotare il quartiere di un verde fortemente connotato e attrezzato, e non come puro connettivo tra gli edifici, Bottoni progetta nel 1948 il primo “campo giochi” del quartiere, dotato di arredi per i bambini e per le attività all’aperto, su modello di coeve esperienze europee. Si dovrà tuttavia attendere la IX Triennale nel 1951 per vedere il progetto del campo realizzato, assieme all’edificio del Padiglione per le mostre. Nonostante le sue dimensioni contenute, il Padiglione si distingue e si impone figurativamente per la soluzione architettonica adottata: un’aula a pianta centrale (di forma circolare), pienamente denunciata all’esterno e sottolineata da una originale copertura a disco; inoltre «nella soletta di copertura un anello centrale in cemento armato, su cui si incastrano le travi disposte a raggiera, è chiuso un lucernario mobile montato su rotaie»16. L’intento è infatti quello di poter disporre di un ambiente altamente flessibile rispetto alle esigenze espositive, seppure nella ridotta superficie a disposizione. A tal fine, pertanto, il lucernario semisferico e trasparente può essere del tutto spostato sui binari - rendendo così possibile una mostra all’interno ma a cielo aperto e con luce diretta - oppure oscurato all’occorrenza, del tutto o parzialmente, tramite uno schermo mobile ottenendo una modulazione della luce naturale. La soletta della copertura, poggiata sul cilindro come un disco, disavanza a sbalzo di molto la dimensione del corpo di fabbrica; in tal modo Bottoni ottiene anche una pensilina che sottolinea l’ingresso e funziona da invito. L’edificio è dotato di un piano seminterrato - a cui si accede da un vano scale a “mezzo anello” addossato al Padiglione - pensato per ospitare una piccola biblioteca, un locale per il custode e un deposito invernale per porre al riparo i giochi all’aperto. Oggi il Padiglione appare completamente intonacato e tinteggiato di rosso. Originariamente, invece, era rivestito 34 Piero Bottoni, Casa a schiera con negozi in via Agrigento 9 al QT8, Milano, 1950-53 Veduta del prospetto sud. da un mosaico di tesserine ceramiche a tinte chiare su cui si distingueva una decorazione a disegni geometrici (non dissimile da quello a tutt’oggi visibile nella portineria del Palazzo Ina di corso Sempione), su progetto dello stesso Bottoni, rivolta verso il campo giochi. Qui era anche a disposizione «una tavola nera (lavagna) destinata alle esercitazioni di disegno dei bambini con gessi colorati»17. Nel 1957 si affiancherà al padiglione un piccolo Centro sociale, su definizione dell’INA-Casa, a cui si accede dal giardino tramite una rampa. Case a schiera con negozi al QT8 (1950-53) in via Agrigento L’edificio, leggibile tipologicamente come un unico edificio in linea a un piano (dalla quota di calpestio del quartiere), è l’esito dell’accostamento di sette unità abitative identiche e indipendenti, sviluppate ciascuna su tre livelli collegati internamente da un corpo scale: il piano terra ospita un negozio, il piano superiore l’abitazione e un terzo piano interrato - con accesso da uno spazio ribassato privato, ma comune, di pertinenza dell’edificio - per il magazzino. Ogni modulo è perciò una reinterpretazione della “casa-bottega”, qui proposta con una regola di aggregazione comune e seriale. La posizione è nevralgica rispetto all’area del quartiere a bassa densità: si trattava infatti dei primi esercizi commerciali del “villaggetto dei reduci”, per offrire merci di prima necessità (in particolare: «fornaio, salumiere, droghiere, lattaio, erbivendolo, macellaio, farmacista»18). L’impaginato delle facciate è sobrio, regolare e rende 35 Piero Bottoni, Due case prefabbricate per senzatetto in via Sant’Elia 62/1 e 62/2 al QT8, Milano, 1950-55. Veduta del cantiere. riconoscibili le sette unità leggibili in verticale. Sul fronte con l’accesso ai negozi il rivestimento è di intonaco chiaro, sul retro invece compare il tipico mosaico ceramico (piastrelline cm 2x2) a impreziosire e a differenziare, attraverso l’uso dei colori, i parapetti sovradimensionati dei balconi al piano degli appartamenti. Questi sono composti di soggiorno, due camere da letto e bagno; la cucina trova invece posto al piano inferiore del locale per la vendita. Sempre su questo fronte, si nota il particolare dispositivo di “occultamento” della zona per lo stenditoio, ottenuto dall’accostamento di pilastrini di cemento verticali con effetto brise-soleil. Purtroppo oggi nessuno dei negozi è attivo e l’edificio richiederebbe un intervento di manutenzione. Casa Incis di 9 piani al QT8 (1953-58) in via Bertinoro La grande Casa di via Bertinoro, edificio in linea alto 9 piani e disposto lungo l’asse eliotermico come gli altri edifici “a lama” presenti nel quartiere, rappresenta - insieme al condominio di Lingeri e Zuccoli - un “personaggio”. Ciò che lo rende tale è la posizione che sta, insieme, a chiudere la prospettiva del grande invaso spaziale della spina centrale del quartiere e a dialogare con la città compatta al di là della circonvallazione su cui si affaccia: divide per unire, punto di saldatura tra il tessuto preesistente e l’insediamento sperimentale. La soluzione architettonica che Bottoni riserva all’edificio interpreta questa particolare circostanza dando luogo a un’architettura di grande interesse sia per quanto concerne il rapporto del quartiere, sia all’interno della biografia professionale dell’architetto. Qui, infatti, si portano a maturazione le ipotesi di rinnovamento dei modi della 36 37 Piero Bottoni, Monte Stella al QT8, Milano, 1953-70. Sezione e planimetria. nella pagina accanto Piero Bottoni, Monte Stella al QT8, Milano, 1953-70 Veduta dei lavori per la realizzazione del Monte Stella, positivo, bianco e nero, mm 54x55. Piero Bottoni, Monte Stella al QT8, Milano, 1953-70 Veduta dei lavori per la realizzazione del Monte Stella, positivo, bianco e nero, mm 57x57.