Approfondimento 3.2 Valutare la frequenza dei comportamenti: il

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Approfondimento 3.2
Valutare la frequenza dei comportamenti: il recall bias
Soprattutto nelle scale per la valutazione di pattern comportamentali di interesse clinico si tendono
ad utilizzare affermazioni che descrivono comportamenti specifici e che fanno riferimento a periodi
della vita del soggetto più o meno lontani del tempo. In molti casi la risposta da fornire riguarda la
frequenza di quel comportamento, come nel caso dell’item “Da adolescente litigavo con i miei
genitori”, oppure “A scuola mi capitava di azzuffarmi con gli altri bambini”. Naturalmente
possiamo formulare queste affermazioni in modo che circoscrivano un comportamento specifico
con una frequenza specifica (“Da adolescente litigavo spesso con i miei genitori”) e indicare di
valutarle su di una scala di accordo, ma rimane il problema di chiedere al soggetto di tornare
indietro nel tempo con la memoria, valutare la frequenza con cui qualcosa accadeva, e riferircelo.
Le problematiche relative al recall bias, ossia l’errore sistematico dovuto alla diversa accuratezza
del ricordarsi eventi o esperienze passate, possono riguardare eventi o esperienze diverse per lo
stesso soggetto , o gli stessi eventi od esperienze per soggetti diversi. Riferire il proprio
comportamento comporta un compito cognitivo più difficile di quanto non appaia ingenuamente,
dato che le risposte possono essere influenzate dalla formulazione degli item, dal loro formato di
risposta e dal contesto (Schwarz & Oyserman, 2001).
La necessità di ottenere informazioni di tipo autobiografico potrebbe non riguardare
direttamente gli item del test, ma le informazioni di tipo socio-demografico che corredano lo
strumento: in un test per la valutazione degli atteggiamenti alla guida può essere rilevante sapere
quanti incidenti ha provocato e in quanti è stato coinvolto il soggetto, in un test per la valutazione
del comportamento alimentare si potrebbe voler sapere la frequenza delle abbuffate, in un test sul
comportamento di acquisto compulsivo la frequenza d’uso della carta di credito, etc. Al di là
dell’intenzione del soggetto di rispondere sinceramente o della sua personale interpretazione degli
eventuali quantificatori indeterminati di frequenza, dobbiamo comunque fare i conti col fatto che i
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ricordi delle persone tendono a deteriorarsi col trascorrere del tempo per una sorta di “economia
cognitiva” nei confronti dei ricordi meno rilevanti. Tendenzialmente le persone non registrano in
modo indelebile qualunque cosa capiti loro, e in generale gli eventi poco rilevanti sul piano
emotivo, o che avvengono con molta frequenza, o che in ogni caso non vengono rievocati spesso in
memoria tendono ad essere dimenticati più in fretta (Schachter, 1999). In più, la memoria è un
formidabile falsario, per cui, come racconta benissimo la mia amica Manila Vannucci nel suo libro
sulle false memorie (Vannucci, 2008), essa non si limita a eliminare porzioni più o meno vaste dei
nostri ricordi, ma tende anche a produrne di falsi, distorcendo quello che è realmente accaduto, o
addirittura fabbricando il ricordo di qualcosa che non è mai successo.
Come mostrato, tra gli altri, da Linton (1982), la memoria autobiografica è lungi dall’essere
una collezione casuale di oggetti, ma sembra avere una struttura ben precisa, nel senso che i ricordi
sono organizzati in gruppi in relazione fra di loro. Vari autori hanno fornito teorizzazioni e prove
empiriche del fatto che la struttura della memoria sia gerarchica, e Conway (Conway & Bekerian,
1987; Conway, 1997; Conway & Pleydell-Pearce, 2000) ha suggerito che essa sia organizzata in tre
livelli: periodi della vita (detti anche lifetime periods, extended periods, extenditures, extendedevent time lines), eventi generali (general events, generic events, summarized events, episodes and
events) ed eventi specifici (event-specific knowledge o specific events).Questi tre livelli sono
collegati fra loro in modo da riflettere l’ordine temporale dei ricordi e i “temi” fondamentali
dell’individuo, ossia ciò che per lei o per lui ha più importanza. L’organizzazione degli eventi nella
memoria autobiografica avviene mediante una cronologia in cui i periodi della vita sono organizzati
in modo sequenziale (ad esempio, dal periodo della scuola a quello dell’età lavorativa a quello della
pensione). Tali sequenze riflettono il modo in cui il richiamo alla memoria degli eventi sia una
ricerca ordinata temporalmente attraverso i contenuti del sistema della memoria autobiografica.
L’organizzazione tematica, invece, avviene mediante raggruppamenti (clusters) attorno agli eventi
salienti dell’individuo in tutto il corso della sua esistenza, come vacanze, malattie, lavori, etc. La
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possibilità di rievocare i ricordi organizzati in base al tema dipende dalla ricerca all’interno di questi
raggruppamenti.
Sebbene le due forme di organizzazione dei ricordi sembrino essere separate, possono
talvolta essere sovrapposte e il processo di rievocazione può avvenire mediante continui passaggi
dall’una all’altra. Un individuo, quindi, nel tentativo di richiamare alla mente un particolare evento,
può inizialmente cercare all’interno della memoria organizzata cronologicamente in modo da avere
accesso ad un particolare periodo della sua vita, e poi passare alla ricerca “per argomento”. La
struttura interconnessa dei livelli gerarchici dei ricordi in termini di periodi temporali e di temi
personali è riflessa nei contenuti stessi di livelli. I periodi della vita rappresentano periodi estesi
della vita della persona organizzati tematicamente. Consistono in livelli generali dell’autobiografia
dell’individuo organizzati in base a periodi specifici della durata di anni, come l’infanzia, un
periodo vissuto all’estero, un lavoro, il matrimonio, etc. Tale livello comprende anche i ricordi
relativi alle persone frequentate in quel lasso di tempo (come i compagni di scuola, gli amici, i
colleghi, etc.), i ricordi affettivi (ad esempio, se fu un periodo felice o triste) e quelle che erano le
aspirazioni dell’individuo (ad esempio, si sognava di diventare un calciatore famoso). Conway e
Bekerian (1997) sostengono che i periodi della vita possono sovrapporsi con le rappresentazioni
tematiche e i periodi organizzati cronologicamente. In questo modo, la rappresentazione tematica
del tipo “In quel periodo dividevo l’appartamento con il mio amico Andrea” potrebbe sovrapporsi
con la sequenza temporale ordinata cronologicamente “Quando lavoravo all’Università di Firenze”.
Questo suggerisce che, durante il richiamo alla memoria di un particolare, differenti indizi di
accesso possono indicizzare differenti aspetti dei ricordi autobiografici relativi a quel periodo.
Questo può essere legato a differenti costellazioni di ricordi organizzati attorno a temi specifici, o
persone significative della propria vita, emozioni, desideri e sequenze temporali. I periodi di tempo,
dunque, agiscono come potenti indizi per il richiamo in memoria, soprattutto nella produzione di
una base di conoscenza autobiografica generalizzata.
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Il secondo livello della gerarchia dei ricordi è rappresentato da un livello più specifico,
quello degli eventi generali. Gli eventi generali consistono in una sorta di “riassunto” di eventi
ripetuti o estesi che sono localizzati in un lasso temporale relativamente ristretto, come giorni,
settimane o mesi. Un evento ripetuto può essere la settimanale partita di calcio del martedì sera coi
colleghi, mentre un evento esteso può corrispondere ad una settimana di crociera nel mar
Mediterraneo. I ricordi degli eventi generali sono organizzati tematicamente, come le “prime volte”
(prima volta che abbiamo baciato qualcuno, prima volta che siamo stati bocciati ad un esame, prima
volta che abbiamo assistito dal vivo alla finale di Champions League, etc.), per quanto si ritenga che
questa organizzazione tematica sia supportata da azioni contestualizzanti che forniscono una
sequenza cronologica all’esperienza. Reiser e collaboratori (1986) sostengono che le azioni
contestualizzate, come ad esempio andare allo stadio, forniscano accesso anche ad eventi meno
contestualizzati, come la farcitura del panino mangiato prima di entrare allo stadio. Quando si prova
a richiamare ricordi di eventi generali, il richiamo è molto più rapido se gli indizi sono presentati
nell’ordine temporale delle azioni contestuali rispetto a quando si prova a ricordare per prime le
azioni generali. Un altro fattore fondamentale del ricordo è la sua distintività. Anderson e Conway
(1993) sostengono che la distintività consente alle persone di distinguere fra i vari eventi generali ed
è il più efficace e rapido indizio per l’accesso alla conoscenza degli eventi generali e alla memoria.
Gli elementi richiamati in memoria non sono forniti in rigido ordine cronologico, ma in termini di
dettagli distintivi, seguiti da sequenze temporali meno precise. La distintività, in questo senso, è il
marchio di fabbrica delle prime esperienze.
Gli eventi specifici sono organizzati invece attorno a ricordi sensoriali e percettivi, per cui
sono molto dettagliati e specifici, soprattutto in relazione a sentimenti, immagini, azioni e
particolari riguardanti l’esperienza sensoriale. Il lasso temporale degli eventi specifici è molto
breve, nell’ordine di secondi, minuti o al massimo ore. Essi contengono un riassunto delle
esperienze fenomeniche e sono così imbevuti di dettagli sensoriali, soprattutto visivi, uditivi ed
emotivi, che spesso generano la sensazione di rivivere l’evento originale. In virtù della ricchezza
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dell’esperienza sensoriale associata al ricordo, l’individuo ritiene che questo sia un resoconto
accurato dell’esperienza, ma in realtà è difficile stabilire l’accuratezza di questo tipo di ricordi, dato
che anche eventi immaginati, se molto elaborati e rievocati spesso, possono generare esperienze
soggettive simili. Per questo, quando tali eventi vengono rievocati, richiamano istantaneamente
anche le esperienze sensoriali associate, fornendo l’impressione che l’evento sia accaduto
realmente. Se l’individuo invece ha rimosso le esperienze sensoriali associate ad un evento reale, in
genere di tipo traumatico, può arrivare ad ignorare che l’evento è realmente avvenuto proprio
perché quando viene invitato a ricordarlo sperimenta la mancanza delle concomitanti esperienze
sensoriali.
Uno dei compiti fondamentali della memoria è quello di garantire la continuità e la coerenza
del proprio vissuto. Poiché però la memoria è fallibile, i vuoti o le ambiguità tendono ad essere
colmati in ragione di questa esigenza di coerenza e di stabilità. In pratica, è come se la memoria
autobiografica, per mantenersi stabile, contenesse copie esatte di eventi vissuti in precedenza e di
ricostruzioni di eventi. Barclay e Smith (1992) sostengono che le persone ricostruiscano il
contenuto della memoria autobiografica creando costantemente nuove versioni delle esperienze
passate. Questi autori suggeriscono che utilizziamo la conoscenza generale delle esperienze passate
per generare inferenze plausibili e probabili rispetto a quello che potrebbe essere accaduto. Inoltre,
queste inferenze tendono a conformarsi con il carattere generale dell’evento originale, per cui
possono essere molto inaccurate per quanto riguarda i dettagli. Il ricordo autobiografico, poi,
dipende anche dalla fase di sviluppo in cui l’evento è avvenuto. La memoria narrativa di eventi
personali comincia a svilupparsi fra i due e i tre anni, insieme allo sviluppo del linguaggio e del
senso del sé. Terr (1988) ha mostrato che i bambini in età prescolare che non riescono a rievocare
gli eventi tendono a ricostruire i propri ricordi. La capacità cognitiva per la memoria narrativa
autobiografica si sviluppa dopo i tre anni: in questa fase è rudimentale e organizzata
sommariamente, ma diviene più dettagliata con l’età. Quando ripensiamo alla nostra prima infanzia,
a volte abbiamo l’impressione di non ricordare niente, mentre in altre occasioni i ricordi sono vividi
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e dettagliati: se l’oblio non necessariamente nasconde un trauma, allo stesso modo non dobbiamo
fidarci troppo dei ricordi che appaiono precisi, dato che potrebbero essere solo eventi immaginati.
Quando chiediamo al soggetto di fornirci informazioni su un certo comportamento, come la
frequenza generica con cui utilizza la carta di credito o assume alcol, ci aspettiamo che lei o lui (1)
comprenda la domanda, (2) identifichi il comportamento di interesse, e (3) recuperi gli episodi
pertinenti in memoria. Se però chiediamo anche la frequenza effettiva, facciamo ulteriormente
affidamento sul fatto che il soggetto (4) identifichi correttamente il periodo di riferimento (ad
esempio, nell’ultimo mese o nell’ultima settimana), (5) cerchi in questo periodo di riferimento di
rievocare tutti gli episodi pertinenti del comportamento, (6) collochi correttamente nel tempo questi
episodi per determinare se cadono nel periodo di riferimento, (7) conti correttamente tutti gli
episodi per fornire la risposta, (8) inserisca correttamente questa informazione nelle alternative di
risposta fornite e (9) indichi la risposta sinceramente. Posto che il soggetto sia così disponibile da
impegnarsi in tutte queste fasi, non possiamo ignorare che questa procedura richiede tempo, e che
non per tutti i comportamenti il compito è ugualmente facile, dato che il ricordo di alcuni
comportamenti tende ad essere cancellato poiché essi non sono salienti o degni di una qualche
rilevanza per il soggetto. Solo che se il soggetto risponde, la risposta potrebbe essere il risultato di
tutta una serie di strategie di inferenza e stima che possono facilmente essere vittima di distorsioni.
Schwarz e Oyserman (2001) hanno proposto un’esauriente rassegna di tutti i problemi connessi al
formulare item con contenuto comportamentale, e hanno individuato cinque aree critiche:
1. Comprendere la domanda. Le persone, non mi stancherò mai di dirlo, non rispondono agli item
come ci immaginiamo noi, ma in base a quello che comprendono dell’item e alle proprie
valutazioni personali. Domande non abbastanza specifiche possono quindi dare adito ad una
molteplicità di interpretazioni. Pensiamo ad un item come “Ho difficoltà a prendere decisioni
banali”. Se il comportamento non viene adeguatamente contestualizzato, il soggetto tenderà a
riferirlo all’area per lui o per lei più saliente (ad esempio, lavoro o vita quotidiana), senza però
che noi possiamo saperlo. Inoltre, quanto deve essere grande questa difficoltà? Tale ambiguità
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viene risolta dai soggetti mediante il riferimento alla scala di risposta: una scala di risposta a
bassa frequenza (meno di una volta l’anno → meno di una volta al mese) indurrà a considerare
difficoltà molto grandi, mentre una scala ad alta frequenza (qualche volta al mese → tutti i
giorni) indurrà a considerare anche gli episodi in cui la difficoltà esperita è minima. Queste
scale di risposta però veicolano anche un’altra informazione: il periodo di riferimento sembra
infatti essere indefinito. Se delimitiamo questo periodo ad un anno, un mese o una settimana,
induciamo nuovamente un atteggiamento diverso rispetto alla rilevanza degli episodi, in quanto
più è esteso il periodo di riferimento, più il soggetto tenderà a fare riferimento agli episodi più
intensi o importanti. Inoltre, la frequenza con cui può essere riportata questa informazione è
influenzata dal contenuto degli altri item: per quanto ci illudiamo che i soggetti dimentichino la
risposta all’item precedente quando devono rispondere a quello in questione, questo non
avviene praticamente mai. La frequenza dell’avere difficoltà a prendere decisioni avrà quindi un
rilevanza diversa quando confrontata con difficoltà a prendere sonno o difficoltà a rispettare le
scadenze. Addirittura, Schwarz e Oyserman (1999) riferiscono che persino il titolo del test o il
dichiarare per quale istituto o università lavorano gli sviluppatori del test possono arrivare ad
influenzare le risposte. In pratica, le risposte agli stessi item presentati come item di un test di
personalità (generico) o di un test per la valutazione dei disturbi della personalità (specifico)
subiranno l’influenza dell’atteggiamento dei soggetti nei confronti del costrutto. E’ quindi utile
fornire informazioni abbastanza generiche e non specificare nel dettaglio quale tipo di costrutto
il test intende misurare.
2. Rievocare il comportamento rilevante. I soggetti difficilmente tornano indietro nel tempo con la
memoria, cercano nel lasso temporale indicato, individuano gli episodi comportamentali in
questione e li contano, a meno che non siano eventi particolarmente salienti e il loro numero sia
basso. Questo avviene perché: (a) la memoria si deteriora col tempo, anche quella di eventi nella
nostra percezione salienti come un’ospedalizzazione; (b) se il comportamento è molto frequente,
la memoria di ogni singolo episodio è indistinguibile e confusa all’interno dir rappresentazione
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globale priva di precisi riferimenti temporali; (c) l’organizzazione gerarchica della memoria
autobiografica fa sì che perché l’episodio sia rappresentato al livello degli eventi specifici
occorre che sia molto insolito. L’organizzazione gerarchica permette la rievocazione di eventi
passati attraverso differenti processi che lavorano in senso top-down, sequenzialmente
all’interno dei temi fondamentali dell’individuo che unificano i periodi di vita, e in parallelo fra
i temi fondamentali che coinvolgono eventi contemporanei e sequenziali (Belli, 1998).
Per facilitare il ricordo, si può rendere molto specifico e delimitato il periodo in questione, dato
che periodi estesi favoriscono il tirare a indovinare o a fare stime grossolane, però quanto più
sarà ristretto tale lasso di tempo, tanto più sarà probabile che la frequenza riferita dal soggetto
sia zero. Gli indizi che possono facilitare il ricordo sono il chiedere cosa accadde, dove, e chi
era presente (ad esempio, Wagenaar, 1986): tali indizi, tuttavia, devono essere esaustivi e
compatibili con una corretta interpretazione della domanda. Ad ogni modo, la frequenza di
episodi rari tende ad essere sovrastimata, mentre quella di episodi molto frequenti ad essere
sottostimata.
La decomposizione della domanda, così come concedere tempo sufficiente per fornire la
risposta e aumentare la motivazione del soggetto, può aiutare ad aumentare l’attendibilità delle
stime: se chiedete a qualcuno quante volte è andato al cinema nell’ultimo anno, la stima sarà
accurata solo c’è andato poche volte, mentre se c’è andato molte volte potrebbe essere utile
chiedere la frequenza dei tipi di film visti (commedie, drammi, horror, etc.). Se però utilizziamo
la somma di tutte queste frequenze specifiche per ottenere una stima globale del numero di volte
in cui il soggetto è andato al cinema, la potenziale sovrastima delle relativamente rare frequenze
di ogni tipo di film tenderà a produrre a sua volta una sovrastima globale. Di fatto, quindi, la
decomposizione aumenta il valore di frequenza riferito, ma non necessariamente la sua
accuratezza.
E’ stato trovato poi che la rievocazione è migliore quando si chiede ai soggetti di
concentrarsi inizialmente sugli episodi più recenti e andare poi indietro nel tempo, invece del
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contrario (Whitten & Leonard, 1981).Questo sembra essere dovuto al fatto che la memoria per
eventi recenti è migliore, e può fungere da indizio per eventi simili più lontani nel tempo.
Questo vantaggio, però viene perso per eventi che hanno un preciso ordine cronologico
sequenziale, per cui occorre necessariamente partire dall’inizio.
Alcuni autori, come ad esempio Bradburn e collaboratori (1987), sconsigliano di riferirsi,
come spesso invece si fa, all’ultima settimana, mese od anno, e dato che le date precise non
aiutano il ricordo, suggeriscono di fare riferimento a periodi relativi ad eventi salienti personali
o pubblici, detti temporal landmarks (Loftus & Marburger, 1983). Tali marcatori possono essere
le vacanze di Natale o il periodo in cui hanno avuto luogo i Mondiali di Calcio, ma per quanto la
ricerca abbia dimostrato la loro efficacia, non sempre siamo nella condizione di poterli
individuare.
Una strategia che ha mostrato particolare efficacia è l’event history calendar (Belli et al.,
1998). Per esempio, per aiutare le persone a ricordare il consumo di alcol nel corso dell’ultima
settimana, viene fornito loro un calendario con una griglia che presenta una colonna per ogni
giorno della settimana, e una riga per ogni contesto potenzialmente rilevante. Per ogni giorno
viene chiesto che cosa si è fatto, chi era presente, se si è mangiato fuori, e così via. In questo
modo si cerca di ottenere un insieme molto ricco di indizi contestuali, che favoriscono il
ricordare gli episodi di interesse. Tale metodo è stato sviluppato soprattutto per migliorare il
ricordo dei periodi di vita, ma può essere adattato anche per periodi più brevi. Il principale
svantaggio è che può richiedere molto tempo per essere messo in pratica.
3. Inferenza e stima. Data la difficoltà a recuperare i ricordi rilevanti per la domanda a cui devono
rispondere, i soggetti tendono ad utilizzare varie strategie per “riempire i buchi”. Inoltre, le
stime tendono ad essere arrotondate a multipli di 5 o 10 nel caso di comportamenti particolari, o
a valori di 7, 15 e 30 nel caso dei giorni, per cui tali valori sono a volte considerati come prove
di non accuratezza (Huttenlocker et al., 1990).
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Le procedure di decomposizione temporale citate in precedenza spesso possono essere
utilizzate spontaneamente, e in base alle frequenze di ciò che effettivamente viene ricordato
viene generata una stima in riferimento ad un periodo del quale il ricordo è più sbiadito. In
assenza di informazione episodica rilevante, però, i soggetti tendono a fare riferimento alle loro
assunzioni sul mondo, o “teorie soggettive”. Spesso, quindi, si basano sul comportamento
attuale come termine di paragone per quello passato, valutando se c’è stato o meno un
cambiamento: se assumono di no, utilizzano la stima del comportamento attuale, altrimenti la
aggiustano in relazione a questo. Sfortunatamente, non è detto che la percezione dell’avvenuto
cambiamento sia accurata, per cui, se il soggetto è convinto che il cambiamento ci sia stato, in
ogni caso tenderà a distorcere la stima del suo comportamento. Tale effetto è particolarmente
pronunciato quando i soggetti ricevono un trattamento, un intervento o qualunque altro tipo di
situazione che presupponga la produzione di un cambiamento, anche in assenza di questo (Ross,
1989).
Quando la stima della frequenza del comportamento non riguarda se stessi, ma gli altri −
cosa abbastanza comune nel caso in cui i soggetti in questione siano bambini, da cui la necessità
di avere informazioni da terze parti quali genitori, insegnanti o peers − l’accordo della stima
dell’osservatore con quella del soggetto è maggiore quando entrambi sono stati coinvolti
nell’episodio, e diminuisce in funzione di quanto osservatore e soggetto hanno discusso della
cosa. Un accordo maggiore, però, può anche essere il risultato di un periodo di riferimento
molto esteso, in cui sia osservatore che soggetto utilizzano delle stime basate su inferenze, da
cui un accordo dovuto in principal modo alla comune strategia di rievocazione. Watson (1982)
presenta un’articolata rassegna degli studi che hanno mostrato come gli osservatori che devono
riferire della frequenza di comportamenti osservata in un soggetto si basino su una teoria
implicita della personalità del soggetto, ossia sulla loro percezione del “tipo di persona” che è il
soggetto. In questo senso, le risposte dell’osservatore derivano principalmente dalla conoscenza
generale del soggetto, per cui saranno sì coerenti, ma non necessariamente accurate, come
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potrebbe essere il caso delle informazioni fornite dai diversi insegnanti sulla frequenza di
comportamenti aggressivi di un bambino con la fama di essere violento. In questo caso, per
l’euristica della rappresentatività, i comportamenti aggressivi di quel bambino saranno
particolarmente salienti in quanto confermano una teoria, e in quanto salienti tenderanno ad
essere ricordati con più facilità. L’euristica della disponibilità, a questo punto, fa sì che, quanto
più è facile da ricordare un episodio, tanto più frequente, probabile e/o recente apparirà
all’osservatore (Tversky & Kahneman, 1973).
Come abbiamo già visto, poi, anche la scala su cui valutare la frequenza dei propri
comportamenti tende a distorcere le risposte dei soggetti, e questo sembra essere un effetto
ubiquo, nel senso che è riscontrabile nei comportamenti relativi alla salute, alla fruizione di
media come la televisione, ai comportamenti sessuali e al consumo di sostanze. Tale effetto è
tanto più forte quanto più debole è la rappresentazione del comportamento in memoria (Menon
et al., 1995). Inoltre, i soggetti inferiscono dalla scala di risposta quella che potrebbe essere la
frequenza media della popolazione, e tenderanno a basare le stime del proprio comportamento
in relazione a questo livello. Rothman e collaboratori (2001) hanno chiesto ad alcuni soggetti di
valutare il numero di partner sessuali su scale ad alta o bassa frequenza. Poi, hanno chiesto a
tutti di valutare la probabilità di aver contratto l’HIV. I soggetti che avevano risposto alla prima
domanda su una scala a bassa frequenza e si erano valutati come sopra la media quanto a
numero di partner indicarono un rischio maggiore rispetto a coloro che, a parità di numero
effettivo di partner sessuali, si erano valutati come inferiori alla media sulla scala ad alta
frequenza.
La valutazione della frequenza dei propri comportamenti su una scala, quindi, dipende
dall’effettiva frequenza, dalla stima che ne viene fatta in base ai ricordi, dagli ancoraggi della
scala e dalle inferenze circa il comportamento altrui.
4. Fornire la risposta in base alla scala. Delle possibili distorsioni relative alle scale di
valutazione abbiamo già parlato in precedenza. In altri casi, si chiede al soggetto di indicare, fra
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una serie di alternative, quali corrispondono al suo caso in termini di Sì/No, o Vero/Falso. E’
stato osservato che in un test scritto auto-somministrato un’alternativa tende ad essere scelta con
maggiore probabilità quando è presentata all’inizio di una lista, rispetto a quando viene
presentata alla fine. Schwarz e collaboratori (1994) hanno chiesto a due gruppi di soggetti di
riferire cosa avevano fatto il sabato precedente (da 2 a 4 giorni prima) mediante una lista di 28
attività. Il 34% dei soggetti ha riferito di essersi dedicato al proprio lavoro quando l’item era
all’inizio della lista, mentre lo stesso item è stato indicato solo dal 25% del gruppo che lo aveva
alla fine della lista. Tale fenomeno è noto come primacy effect, e può essere dovuto ad un
maggior impegno dedicato a considerare le risposte ai primi item di una lista, all’interferenza
che subiscono gli item successivi a causa dello sforzo impiegato per i primi, all’impressione
che, una volta indicati alcuni tra i primi item, il numero di risposte fornite sia sufficiente, da cui
una minore probabilità di indicarne di ulteriori. E’ interessante notare come quando gli item
vengono invece letti al soggetto, da cui un formato uditivo invece che visivo, si osserva il
fenomeno opposto, ossia un recency effect. Krosnick e Alwin (1987) sostengono che quando gli
item devono essere ascoltati, i primi item vengono ponderati di meno perché occorre prestare
attenzione ai successivi. Alla fine della lista, quindi, gli ultimi sentiti hanno maggiori probabilità
di essere scelti perché più presenti in memoria, e questo effetto è più frequente per le persone
anziane (Schwarz et al., 1999). Cambiare l’ordine di presentazione delle alternative per ogni
soggetto oppure chiedere di rispondere Sì/No ad ogni alternativa aiuta a contenere gli effetti di
primacy e recency.
5. Rielaborare la risposta. Anche se la rievocazione in memoria della frequenza è avvenuta
correttamente, le persone potrebbero comunque a fornire risposte non accurate, per tutta una
serie di motivi non necessariamente legati alla loro sincerità. Tali effetti sono discussi nel testo
cartaceo.
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