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Vol. XX, N. 4, 2012
TRA PRASSI E TEORIA
APPUNTI DI VIAGGIO
Edizioni
QUATTRO PASSI PER STRADA
OLTRE...
* Omaggio a Hermann Zapf *
Progetto informatico di Tiziano Stefanelli
IL VASO DI PANDORA
Edizioni
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XXI, N.2, 2013
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane
<<Il Vaso di Pandora>>
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IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXI, N. 2, 2013
Sommario
Editoriale
Cristina Rambelli
pag. 7
TRA PRASSI E TEORIA
Depressione Cronica/Ricorrente
Antonio Maria Ferro
pag. 11
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APPUNTI DI VIAGGIO
Epidemiologia della schizofrenia: nuove acquisizioni e nuove
suggestioni
Giacinto Buscaglia, Panfilo Ciancaglini
pag. 45
QUATTRO PASSI PER STRADA
L’autore di reato con problemi psichiatrici
Pasquale Pisseri
pag. 63
OLTRE…
Il cuoco e l’informatica: ma che razza di menù!!
Roberta Antonello, Paola Bartolini
pag. 73
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XXI, N. 2, 2013
Table of contents
Editorial
Cristina Rambelli
pag. 7
TRA PRASSI E TEORIA
Chronic/Recurrent Depression
Antonio Maria Ferro
pag. 11
APPUNTI DI VIAGGIO
Epidemiology of schizophrenia: new acquisitions and new
suggestions
Giacinto Buscaglia, Panfilo Ciancaglini
pag. 45
QUATTRO PASSI PER STRADA
The offender with psychiatric disorders
Pasquale Pisseri
pag. 63
OLTRE…
Information technology and the cook: what kind of menu!!
Roberta Antonello, Paola Bartolini
pag. 73
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Editoriale
In questo numero de “Il Vaso di Pandora” gli autori hanno portato le loro
considerazioni su argomenti estremamente discussi della psichiatria, arricchendo e
attualizzando il tutto anche con il resoconto congressuale firmato da Pisseri.
Il numero inizia con un articolo di Ferro che, attraverso un inquadramento storico
dei sintomi della depressione, ripercorre la concezione del vissuto temporale nella
depressione e affronta quindi successivamente nel dettaglio i diversi orientamenti del
trattamento psicoterapico.
Nell’articolo vengono confrontate le varie metodologie psicoterapiche sulla base anche
di un’analisi dei relativi vantaggi e svantaggi, che offrono al lettore diversi spunti di
riflessione sull’intervento integrato psicofarmacologico e psicoterapico della patologia
depressiva resistente al trattamento.
Nella seconda parte dell’articolo, l’autore entra quindi nella pratica clinica e fornisce
delle indicazioni interessanti su come debba muoversi lo psichiatra/psicoterapeuta
nella relazione con il paziente, prendendosi cura della sua sofferenza da un lato e,
dall’altro, evitando di medicalizzare in modo irrazionale.
Se il trattamento della sintomatologia depressiva è complesso e necessita di
attenzione ed appropriatezza di trattamento, dall’altro il concetto di schizofrenia ha
da sempre infiammato profonde discussioni nel corso degli anni, a partire dalla
definizione diagnostica per giungere anche, e soprattutto, alle implicazioni
patogenetiche: in tal senso Buscaglia e Ciancaglini affrontano il difficile tema della
schizofrenia nel secondo articolo della rivista.
Gli autori esortano qui il lettore a riflettere sull’importanza del ruolo dello studio
nel tempo e nello spazio della distribuzione della schizofrenia nella popolazione.
Nell’articolo sono discussi i progressi metodologici al fine della valutazione
scientifica della schizofrenia. È indiscutibile la rilevanza che ha per la difesa della
salute mentale e per la cura della psicopatologia conoscere il ruolo dei fattori
biologici, psicologici e sociali (e delle loro interazioni) nella comparsa, nel decorso e
nell’esito dei disturbi mentali.
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Infine, un capitolo non marginale della psichiatria generale è rappresentato dalla
psichiatria forense che costituisce un importante esempio di collaborazione tra
discipline diverse che affrontano la medesima problematica.
Un confronto finalizzato a ottimizzare la collaborazione tra l’attività giudiziaria e
talune situazioni d’interesse psichiatrico è descritto da Pisseri che riassume
dettagliatamente gli argomenti trattati al Convegno dei Magistrati dal titolo
“L’autore di reato con problemi psichiatrici”, svoltosi lo scorso 15 marzo.
L’incontro è stato animato dalla partecipazione di professionisti che, nel quotidiano,
si occupano di psichiatria e giustizia, e fornisce anche ulteriori nozioni e
approfondimenti ai professionisti del settore e non solo. Il Convegno ha permesso di
fare il punto della situazione sul trattamento degli autori di reato psichicamente
compromessi, con vari e attualissimi riferimenti su leggi e opportunità di presa in
carico/cura/riabilitazione.
Mi sembra utile segnalare che il dibattito forse più interessante si è concentrato sulle
reali possibilità a disposizione degli operatori del settore, anche e soprattutto in
funzione della riforma riguardante gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.
Questo numero si presenta indubbiamente alquanto interessante, e invita il lettore
ad approfondire diverse posizioni su specifici argomenti psichiatrici: questo confronto
per paradosso, può rappresentare la modalità più vantaggiosa per far affiorare il
valore dei presupposti che ci uniscono.
Buona Lettura
Cristina Rambelli
Tra prassi e teoria
9
Antonio Maria Ferro
Depressione Cronica/Ricorrente
Introduzione
“Destandosi un mattino da sogni inquieti Gregor Samsa si trovò tramutato nel suo
letto in un enorme insetto. Se ne stava disteso sulla schiena, dura come una corazza,
e per poco che alzasse la testa poteva vedersi il ventre abbrunito e convesso… Sotto i
suoi occhi annaspavano impotenti le sue molte zampette di una sottigliezza
desolante se raffrontate alla sua corporatura abituale «Che cosa mi è accaduto?» si
domandò. Non stava affatto sognando… Per quanti sforzi facesse per girarsi sul
fianco, ricadeva ogni volta indietro supino. Ci provò almeno un centinaio di volte,
tenendo gli occhi chiusi per risparmiarsi la vista delle sue zampette sgambettanti, e
smise soltanto allorché cominciò ad avvertire nel fianco una fitta leggera, sorda, mai
provata in passato” (Kafka, 1915).
Quello che Franz Kafka fa succedere a Gregor Samsa una mattina, a
mio avviso è simile alle profonde alterazioni del sentimento di sé che
Tellenbach (1974) descrive nello sviluppo del vissuto melanconico,
riprendendo il Freud di Lutto e melanconia del 1915. Questa metamorfosi
richiama anche la “tristezza vitale” di Schneider (1950) che invade il
soggetto, s’impone a lui come un’oscura estraneità! Si tratta ancora di
quella specie d’insopportabile oppressione “creaturale” quell’infelicità
senza speranza che per Weitbrecht (1979) viene vissuta dalla persona
depressa come esperienza di essere materialmente danneggiato.
Gozzetti (1996) psichiatra e fenomenologo padovano, scriveva di

Psicoanalista Società Italiana di Gruppo Analisi, Socio Ordinario Società Italiana di Terapia
Sistemica, Direttore Scientifico Centro Regionale per i Disturbi dell’Adolescenza e
dell’Alimentazione di natura psichica ASL 2 Savonese.
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12
totale metamorfosi verso “l’essere del non essere in eterno” della
Sindrome Cotard (1882). Metamorfosi e la depressione fredda,
secondaria alla frattura mente-corpo, al blocco degli aspetti affettiviemotivi che Jaspers (1913) definirà “il sentimento della mancanza di
sentimento”.
Kaplan (1997), ricorda come il disturbo depressivo maggiore unipolare
tenda ad avere andamento cronico e a recidivare.
Egli ricorda come dei pazienti che abbiano avuto un primo episodio
depressivo maggiore:
- il 25% recidiva nei primi sei mesi;
- il 30-50% nei primi due anni;
- il 50-75% nei primi cinque anni.
È ormai acquisita quindi la nozione che il disturbo depressivo tenda a
divenire quasi parte integrante del vivere di questi pazienti: un dramma
con il quale essi dovrebbero confrontarsi sempre.
Nelle depressioni ricorrenti o croniche il primo episodio – scrive
Kaplan – frequentemente è preceduto da “fattori che provocano stress”,
molto meno questo avviene negli episodi successivi.
Questo confermerebbe l’ipotesi di modificazioni persistenti, della
biologia cerebrale e dei meccanismi psicopatologici profondi e radicati.
In realtà, come mi aveva insegnato molti anni fa Luc Ciompi (1997), un
altro fattore prognostico importante, a parità di gravità psicopatologica,
resta l’atteggiamento di chi cura.
La presenza di speranza di cambiamento, piuttosto che la
rassegnazione alla cronicità, nella mente del terapeuta, costituisce, a
mio avviso, una variabile che non va trascurata, variabile sulla quale
tornerò in seguito. Una disamina, anche parziale, degli studi sui disturbi
depressivi, conferma poi come l’incidenza di recidiva sia inferiore di
molto nei pazienti che proseguono una profilassi farmacologia… a
lungo? Nei periodi stagionali delle ricorrenze del disturbo? Per sempre?
Ritengo inoltre che l’incidenza di recidive sia influenzata anche dalla
possibilità, o meno, di un trattamento psicoterapico, magari focale,
vuoi ad orientamento dinamico, cognitivo, interpersonale o ancor
meglio un trattamento che recepisca in modo eclettico elementi di
queste tre modalità terapeutiche, come cercherò di esemplificare nella
seconda vignetta clinica dove utilizzo la psicoterapia breve ad
orientamento analitico di Davanloo (1980) e Malan (1979), modificata.
L’ipotesi allora che svilupperò in questo lavoro è che un intervento
integrato possa influenzare positivamente le modificazioni biologiche e
psicopatologiche persistenti della depressione cronica e/o ricorrente.
Il pensiero di Glen Gabbard: alcune riflessioni sulle interazioni
tra trattamenti farmacologici e psicoterapici
Glen Gabbard (1994) premette l’importanza della componente
biologica dei disturbi affettivi, legata soprattutto a: 1) fattori genetici; 2)
neurobiochimici. Tuttavia, sulla base di molti studi e soprattutto di uno
studio, ormai vecchio, sul trattamento della depressione (Elkin, 1989)1
Gabbard evidenzia come il placebo e la sola gestione clinica diano
scarsi risultati nei tempi medio/lunghi (non bastano 8-12 settimane per
la valutazione clinica come avviene invece in tanti studi
“pseudoscientifici”) mentre l’integrazione di psicofarmacoterapia,
gestione clinica e trattamento psicoterapico – per lui soprattutto la
Psicoterapia Interpersonale – siano decisamente più efficaci.
Ciò che prima era intuibile e confermato dall’esperienza, oggi risulta
comprensibile scientificamente alla luce di quello che sempre più
conosciamo
sulle
interconnessioni
continue
tra
ambiente/cervello/mente
(studi
di
neuroimaging,
teorie
dell’attaccamento, teorie sul trauma). Abbiamo così maggiori possibilità
di verificare le ricadute – a questi tre livelli – che i nostri interventi
possono o non possono avere.
Ad esempio: la dimensione psicologica di un disturbo depressivo può
risentire positivamente di trattamento psicofarmacologico, così come
1
Elkin et al. (1989): Archivio Generale Psichiatrico, 46: 971-982.
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un’esperienza di cura dialogico-interpersonale può modificare un
funzionamento neurobiochimico alterato.
L’aumento dell’interesse per gli studi, gli interventi sulla gravidanza e il
puerperio a rischio di disturbo depressivo, s’iscrive in questa moderna
visione “umanistica” del disturbo psichiatrico e della sua cura (la più
precoce possibile!).
Peraltro – ricorda Gabbard – nelle depressioni minori le terapie
farmacologiche possono essere meno efficaci, mentre anche questi
disturbi tendono ad essere ricorrenti e/o cronici e producono non
poca sofferenza e “danni sociali”.
D’altra parte la co-presenza di un disturbo di personalità tende a
peggiorare l’esito del trattamento, anche per una ridotta compliance
rispetto alla cura farmacologica.
Credo sia utile qui ricordare almeno Tellenbach (1974) che individua il
Typus Melancholicus, il cui tratto fondamentale è:
- un ancoramento all’ordine;
- un’alta esigenza nel lavoro, in temi di qualità e quantità;
- muoversi entro limiti umani sicuri e programmati come lontani
dall’errore.
Per Kraus (1991) si tratta di un comportamento ipernomico privo di
libertà.
Gabbard cerca quindi di mettere a fuoco gli aspetti di un disturbo
depressivo – ma qui sarebbe meglio parlare di personalità depressiva –
aspetti che vanno affrontati in una terapia dialogica, anche per
permettere al farmaco di fare, con minore difficoltà, il proprio dovere:
- cronici sentimenti di colpa;
- autostima costantemente bassa;
- tendenza ad autopunirsi o comunque inconsciamente, a negarsi
momenti di felicità o almeno liberi dal soffrire;
- tendenza all’ipercriticità in relazione a tratti narcisistici patologici
marcati;
- sentimento di disperazione costante “perché le cose non
cambieranno”. Ricordo Istruzioni per rendersi infelici di Paul
Watzlawick (1983), dove l’autore in modo paradossale “consiglia”
come costruirsi la propria infelicità, con competenza e,
finalmente, consapevolezza.
In questi casi gli antidepressivi, sempre necessari, soprattutto nelle
“ricorrenze” del disturbo, vanno – secondo Gabbard – sempre
accompagnati da una psicoterapia per le caratteristiche croniche della
personalità.
Roland Kuhn (1989) il grande psichiatra svizzero, ricorda che i farmaci
psicotropi, in questo caso gli antidepressivi, ragionevolmente
somministrati, hanno un’influenza evidente sui fenomeni della
disposizione affettiva che è allora più facile esplorare e osservare con
gli strumenti della psichiatria umanistica.
Ritengo necessario presupposto per avvicinarci alla comprensione delle
“fratture temporali” che caratterizzano la depressione cronica e/o
ricorrente, conoscere – almeno un po’ – il pensiero di Ludwig
Binswanger sul vissuto del tempo nella depressione maggiore cronica
e/o ricorrente.
Binswanger (1960) in Melanconia e mania – testo che l’illustre
fenomenologo scrisse a settantanove anni nel 1960 – scrive: “l’indagine
fenomenologia ed antropoanalitica in psichiatria non si conclude con la descrizione
dei mondi dei malati… è necessario anche esaminare la peculiarità di questi mondi,
di come si sono costituiti per chiarirne le forme costitutive”.
Invita quindi ad esaminarne il loro costituirsi per:
- studiare i momenti strutturali costitutivi;
- cogliere le differenze costitutive.
Per Binswanger la struttura intenzionale della coscienza è intesa come
unità significante orientata, più che dalle pulsioni, dalla storia degli
individui che proiettano in modo anticipatorio nel presente e futuro il
loro passato. L’intenzionalità è quindi:
- da un lato momento strutturante e “protentivo” dell’esistenza;
- dall’altro è storia, sintesi di esperienze passate via via
sedimentatesi nell’arco della vita.
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L’intenzionalità si situa nel flusso temporale in modo che il vissuto del
tempo costituisca la Temporalità in un continuum tra un prima e un
dopo.
Binswanger, rifacendosi ad Husserl, ricorda come la temporalità
stabilisca una correlazione tra gli eventi psichici dell’esistenza,
permettendo all’individuo di riconoscervi la propria storia.
Vi è un orientamento umano naturale, quasi obbligato, verso il futuro
che Binswanger chiama “carattere intenzionale della coscienza
temporale”.
Gli accadimenti, le esperienze della vita, si presentano alla nostra
coscienza che “li” conosce attraverso i vettori temporali (Husserl)
della:
- Protentio (futuro),
- Retentio (passato),
- Praesentatio (presente).
Ad esempio, mentre scrivo, ora, qui, sono nella Praesentatio, ma per
andare avanti nel discorso sono già nella Protentio, ma per scrivere, qui
ed ora, ho anche attivato la Retentio, altrimenti mi perderei, non
ricorderei, non saprei ciò di cui scrivo mentre scrivo.
Quindi l’analisi della Temporalità Costitutiva permette anche di
cogliere la struttura del mondo nel paziente melanconico.
Nella melanconia osserveremo l’intrecciarsi:
- di momenti retentivi con quelli protentivi e questo produrrà le
autoaccuse, i sentimenti di colpa. Ricordo le espressioni
linguistiche delle autoaccuse melanconiche: “se avessi fatto”, “se
non avessi fatto”; “avrei dovuto”, “non avrei dovuto”. Questi
“Se” sono vuote possibilità perché la libera possibilità legata alla
Protentio è invasa dal passato. La nostra progettualità, imprigionata
dal passato, diviene vuota intenzione e perde inevitabilmente la
spinta volitiva, divenendo solo energia distruttiva che lascia il
nostro Io in una disperata angoscia di fronte ad un futuro vuoto
di significato o piuttosto di fronte ad un vuoto con unica
possibilità futura; questo perché la Protentio alla quale si legano
speranza, progettualità, curiosità, competitività, sogni, non è più al
servizio del nostro futuro ma è imbrigliata dal passato: questo
spiega perché il paziente melanconico non veda futuro (ed in
realtà ha ragione a non vederlo il futuro in quel vuoto che trova
davanti a sé).
Nella Melanconia osserveremo ancora l’intrecciarsi:
- di momenti protentivi con momenti retentivi e questo produrrà i
deliri melanconici. Per Binswanger il delirio melanconico c’è
sempre, è necessario saperlo trovare. Anche per quanto riguarda
le tematiche deliranti vi è frequentemente una loro
intercambiabilità, quello che resta costante è la peculiare
alterazione della temporalità.
L’alterazione del flusso temporale turba quindi profondamente il flusso
del pensiero stesso ed è per questo che la melanconia è disturbo
psichiatrico grave.
Nella melanconia quindi vi è una modalità difettosa delle tre
dimensioni temporali e delle loro interrelazioni, per un difetto della
struttura degli atti intenzionali temporali, per cui vi è la presunzione
che l’esperienza melanconica – per altro ritenuta del tutto vera ed unica
– continuerà per sempre.
Binswanger individua nello Stato d’Animo Melanconico del Perdere
quindi l’aspetto significativo della malattia melanconica. Il tema della
perdita è quindi insito nella depressione: perdita dei beni materiali, della
salute, dell’onore, delirio d’impoverimento, delirio ipocondriaco, delirio
di colpa. I temi sono intercambiabili, quello che li unisce è la loro
irriducibilità essendo vissuti come veri, unici ed eterni.
Riassumendo, rispetto al vissuto temporale, nella melanconia vi è un
allentamento ed anche un’inversione dei “fili della costruzione
intenzionale della temporalità”, Retentio e Protentio sono utilizzate in
modo alterato, ma non scompaiono.
Nella melanconia Binswanger ribadisce quindi che vi è un difetto della
temporalità, della capacità d’intenzionare il tempo in tempo vissuto: i
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vettori temporali s’intrecciano confusivamente e quando i momenti
Retentivi invadono la Protentio assisteremo alle autoaccuse melanconiche,
quando i momenti Protentivi invadono la Retentio compariranno i deliri
melanconici.
Ricordo come per l’autore il carattere dell’endogenicità nella
depressione, resti centrale. Egli scrive “il paziente non si sarebbe
malato ora, se non vi fosse stato un qualche motivo; egli sarebbe
peraltro rimasto sano anche in questo caso se non fosse stato
costituzionalmente predisposto”.
Mutamenti dei
cambiamento
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quadri
depressivi
oggi
e
resistenze
al
Richiamo ora un breve testo di alcuni anni fa L’epoca delle passioni tristi di
Miguel Benasayag e Gérard Schmit (2003). Condivido con loro la
constatazione di un continuo aumento di richieste d’aiuto ai nostri
servizi, soprattutto da parte di giovani, delle loro famiglie ma anche
dalle istituzioni e dalla società più in generale: una società che è
attraversata – scrivono gli autori – da una “innegabile tristezza”. Siamo
sempre più chiamati a riconoscere, accogliere, curare sofferenze
psichiche che si esprimono in forme anche diverse dai classici quadri
psicopatologici. Siamo consultati con domande che talvolta sembrano
quasi impossibili. Benasayag scrive: “I nostri servizi sono così diventati, un
po’ alla volta una specie d’imbuto in cui si riversa la tristezza diffusa che
caratterizza la nostra società”.
In realtà, mi sembra che anche la complessità naturale del vivere, del
vivere in una società della crisi e della precarietà, rischi di essere letta
subito come patologia, come malattia individuale. Non di rado queste
nuove forme espressive della sofferenza psichica si caratterizzano per
un sentimento permanente d’insicurezza, di precarietà, talvolta di
vergogna e/o di rabbia e frustrazione indicibile.
Insomma, queste ricadute psicopatologiche, queste forme depressive
che tornano, ad esempio così diverse dalle classiche melanconie,
possono essere viste anche come conseguenza di questa “precarietà del
vivere” che, soprattutto nei giovani, sembra non trovare limiti e
contenitori solidi, affettivi e affidabili.
Simona Argentieri (2008), psicoanalista romana, introduce nel suo
scritto L’ambiguità una riflessione che può essere utile per cogliere il
denso intreccio tra psicopatologia e psicopatologia della vita
quotidiana.
Giovanni Jervis (1975), mio direttore quando lavoravo a Reggio Emilia,
parafrasando Freud (1901) e la sua Psicopatologia della vita quotidiana
scriveva a questo proposito, nel Manuale critico di Psichiatria, della
“politica della vita quotidiana”.
Simona Argentieri osserva come vi sia sempre più “…una sorta di
ambiguità del pensiero che consente a livello individuale e collettivo di eludere la
fatica delle proprie responsabilità e delle proprie scelte, in una deriva silenziosa ma
inarrestata… dove è considerata ormai normalità una mentalità dominante dove
sembra esservi sempre meno spazio per il conflitto, per la responsabilità, forse anche
per la colpa, e comunque per l’etica e dove trova spazio sorprendente la malafede e il
rifiuto di un tempo e di uno spazio mentale individuale e collettivo per il pensare”.
Allora – come ricorda il filosofo Massimo Marraffa (2012) – “il sentirsi
di esistere… il sentimento dell’unità dell’Io, della presenza di Sé a se stessi sono
una facoltà psicologica mai garantite per sempre ma piuttosto un’acquisizione
precaria ogni giorno faticosamente costruita”. Ancora Giovanni Jervis in L’idea
di guarigione nella tradizione psicodinamica scrive che “…la costruzione del
benessere psichico è processo dinamico che prosegue per tutta la vita” (Jervis,
1993).
È evidente che questo discorso non riguarda solo il superamento delle
passioni patologiche, delle malattie psichiche quanto la possibilità di
vivere, onorando la nostra umanità, sapendo cogliere anche i pochi
momenti possibili di un po’ di felicità.
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Interventi psicoterapici nei disturbi depressivi (Ricorrenti)
Cronici
Harold Kaplan, ma anche il professore statunitense di origine iraniana
Habib Davanloo, docente di psichiatria alla McGill University di
Montreal, che è stato uno degli inventori della psicoterapia brevefocale ad orientamento analitico con Peter Sifneos e Daniel Malan,
sono punti di riferimento per queste riflessioni.
Le tecniche d’intervento psicoterapico possono essere diverse, mi
soffermo qui soprattutto sui tre approcci psicoterapeutici alla
depressione proposti da Kaplan.
Evidenzierò vantaggi e limiti di questi approcci ed introdurrò la
proposta dell’utilizzo di un approccio eclettico che ha come
riferimento prevalente la psicoterapia breve focale.
Caratteristiche principali dei tre approcci psicoterapeutici alla depressione
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Approccio Psicodinamico
L'apparato pulsionale del soggetto è talvolta “anestetizzato” per quelle
cose che devono essere tenute “a distanza”.
Appena ci si avvicina, ci si confronta con burrasche ove amore e odio
si avvicendano rapidamente.
Il lavoro psicoterapico dovrà favorire inizialmente l'instaurazione di un
transfert positivo, di un buon clima transferale, a partire dal quale si
potrà valutare fino a che punto è possibile un’evoluzione.
I pazienti che risponderanno con un’iperattività all'immagine delle loro
vecchie compensazioni, oppure, all'opposto, con una condotta
depressiva, mostreranno tutta la loro forza delle loro difese.
Coloro che invece apporteranno un reale calore, interesse, curiosità, il
desiderio di comprendere, mostreranno di poter raggiungere il livello
genitale (nevrotico).
Sarà da questi dati che ci si orienterà sulla scelta e sulla conduzione
della terapia.
Il fine dell’Approccio Psicodinamico è:
- promuovere la modificazione della personalità attraverso la
comprensione dei conflitti pregressi;
- avviare un’introspezione nelle difese, nelle distorsioni dell’Io e del
Super-io.
Vantaggi dell'approccio psicodinamico
Nel trattamento individuale l'approccio psicodinamico incoraggia il
paziente a cercare le soluzioni dentro di sé, anziché dipendere
dall'esterno o da fonti estranee. Inoltre la posizione di neutra
accettazione da parte del terapeuta, assicura un atteggiamento non
giudicante e obiettività.
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Limiti dell'approccio psicodinamico
Per contro i limiti derivano dalla focalizzazione sui fenomeni
intrapsichici che può oscurare altri fattori (ad esempio: interpersonali,
ambientali). La regressione del transfert può produrre un’eccessiva
idealizzazione del terapeuta e una sottostima del proprio valore
personale. Un altro fattore limitante è dovuto ai requisiti dei pazienti
che possono limitare l'utilità alla popolazione predisposta in senso
verbale e psicologico all'introspezione e, soprattutto, il maggior limite
può essere la lunga durata della terapia.
Approccio cognitivo
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Si basa sulla teoria dell'apprendimento. Parte dal presupposto che la
psicopatologia sia in gran parte attribuibile al modo in cui le persone
apprendono a gestire il proprio ambiente psicosociale, a modificare il
proprio umore e ad interpretare gli eventi che accadono intorno a loro.
La vulnerabilità alla depressione sarebbe mediata dall’acquisizione di
abilità e di apprendimento durante l'arco della vita.
Lo scopo è quello d’istruire i pazienti a gestire l'umore e a sviluppare
strategie di coping, in modo d’affrontare il proprio ambiente
psicosociale.
Viene utilizzato soprattutto in riferimento ai pensieri distorti legati a
visioni negative apprese del Sé, come ad esempio: non mi merito cose
buone, non valgo niente, ho fatto sempre e solo errori, non potrà mai
cambiare nulla, non potrò mai cambiare.
Qui il terapeuta evidenzia gli aspetti cognitivi distorti, gli assunti errati e
cerca di favorire l’autocontrollo sugli schemi di pensiero, fornendo
anche un contenuto di pensiero alternativo. Vengono così utilizzati ad
esempio schemi di lettura ritualizzata preparati insieme come concreto
aiuto per “cacciare” il pensare nocivo.
Queste “correzioni” sono possibili solamente in un contesto
relazionale emotivo-empatico vivo e significativo. Qui vi è una grande
differenza rispetto alle terapie comportamentali dove non è rilevante la
dimensione relazionale empatica, ma piuttosto l’utilizzo di strumenti
suggestivi.
Vantaggi dell'approccio cognitivo-comportamentale
I vantaggi di questa tecnica derivano dalla tangibilità e obiettività del
trattamento, dalla breve o fissa durata, che è economicamente più
vantaggiosa e può favorire risultati in tempi brevi, incrementare
l'aspettativa di un rapido cambiamento, incoraggiando l'ottimismo. Il
terapeuta, che qui ha un compito più attivo, può direttamente
intervenire per interrompere gli schemi depressivi e suggerire
alternative al pensiero errato.
Limiti dell'approccio cognitivo-comportamentale
Per contro, i limiti derivano dall'enfasi che può portare a trascurare la
persona nel suo insieme, soprattutto a trascurare la componente
affettiva. L'interesse per i sintomi trascura la storia pregressa, le aree di
problemi complessi e i conflitti nascosti.
Il suggerimento attivo e la direttività possono indebolire l'autostima del
paziente attraverso l'imposizione del punto di vista e dei valori del
terapeuta. Infine, i pazienti complessi e introspettivi, possono trovare
l'approccio troppo semplicistico o superficiale.
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Approccio Interpersonale
Impiega tecniche d’indagine, chiarimento, rassicurazione, analisi della
comunicazione e d’incoraggiamento a tentare strategie alternative di
coping. S’incentra su aree problematiche prevalenti nei pazienti depressi,
affrontando aspetti riguardanti prevalentemente il trattamento delle
transizioni di ruolo, il trattamento dei contrasti nei rapporti
interpersonali.
Fornisce soprattutto la possibilità di un’esperienza interpersonale
diversa da quella abitualmente sperimentata, favorendo l’insight emotivo
in un’atmosfera empatica. È possibile l’apertura dell’intervento anche ai
familiari; viene dato spazio all’esame del ruolo del coniuge nella
predisposizione del paziente alla depressione e agli affetti della malattia
sul matrimonio.
Si forniscono informazioni sulla malattia e sulle tecniche di cura e sui
meccanismi di funzionamento degli psicofarmaci: il fine è di abituare a
comunicazioni chiare ed esplicite per migliorare, sul campo, la capacità
di comunicazione interpersonale.
Come per la terapia psicodinamica è necessario che il terapeuta abbia
un’esperienza pregressa di psicoterapia personale individuale o almeno
di gruppo.
Vantaggi della psicoterapia interpersonale
La durata del trattamento è breve, solitamente dieci sessioni, ha una
maggiore efficacia nella depressione moderata-severa, rispetto alla
depressione lieve, può dare migliori risultati anche in associazione con
farmacoterapia.
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Limiti della psicoterapia interpersonale
Il lavoro del terapeuta è concentrato prevalentemente sul
funzionamento sociale attuale del paziente. I meccanismi di difesa e i
sogni vengono esaminati come un riflesso di problemi interpersonali
attuali. Vi è un'enfasi nel legittimare il paziente nel ruolo di malato.
La psicoterapia breve e la psicoterapia “duttile”
Un modello cui faccio maggiore riferimento, nella pratica clinica, è
quello della psicoterapia breve che io preferirei chiamare duttile o
eclettica. Essa dal punto di vista teorico si fonda sia su aspetti propri
della psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale sia di
quella ad orientamento psicodinamico. Si differenzia dalla psicoterapia
breve ad orientamento analitico di Davanloo, in quanto prevede
l’utilizzo sinergico della terapia psicofarmacologica, dell’utilizzo di
elementi della terapia cognitiva e sistemico-relazionale.2
Il modello che propongo è quello della Psicoterapia breve ad
orientamento analitico, sperimentata ad esempio da Malan alla
Tavistock Clinic di Londra e, soprattutto, da Davanloo alla McGill
University di Montreal.
La tecnica di Davanloo si differenzia dalla tecnica psicoanalitica, perché usa il “visà-vis”, lo scambio verbale diretto ed un’attività del terapeuta per dirigere
l’attenzione del paziente verso le aree più significative delle problematiche
sintomatiche, caratteriali e affettive, utilizzando una P(ressione) modulata.
Il presupposto è ritenere che l’individuo tenda a riproporre nelle
relazioni umane e ancor più nella relazione con il terapeuta modalità
relazionali, a partire dall’esperienze cognitivo-emotivo dei primi anni di
vita.
Lo scopo è aprire rapidamente verso il mondo dell’inconscio del
paziente, cercando di fargli vivere un’esperienza emozionale correttiva,
proprio a partire da quanto egli sperimenta nella relazione di cura:
“dove vi è la possibilità di avere una visione diretta delle forze
psicologiche dinamiche, responsabili dei sintomi e dei disturbi del
carattere del paziente” ricorda Davanloo. Egli evidenzia da un lato la
possibilità di lavorare sull’alleanza terapeutica inconscia, che
rappresenta il bisogno di benessere del paziente, dall’altro di lavorare
sulle resistenze strutturate in difese contro sentimenti dolorosi e
impulsi inaccettabili.
È evidente che presuppone psicoterapeuti con molteplici esperienze di training formativo: mi si potrebbe obiettare
che allora è poco praticabile! Tuttavia mi chiedo perché per un intervento chirurgico impegnativo si pretende ottima
competenza e allora perché per interventi di terapia di patologie così complesse come i disturbi depressivi, soprattutto
se già ricorrenti o addirittura ritenuti cronici, non si deve pretendere psichiatri e psicoterapeuti con notevole
competenza? Mi chiedo se questa consuetudine in psichiatria, di dare poca importanza alla competenza individuale
dello specialista, non sottenda ancora una visione della clinica legata allo stigma e al poco rispetto nei confronti dei
malati psichici.
2
25
Egli lavora soprattutto sul transfert, ma in modo rapido, fin dalle prime
sedute, stimolandolo e chiarificandolo subito con il paziente, evitando
così lo sviluppo di una “nevrosi da transfert” centrale nella psicoterapia
analitica, che rende però estremamente lungo il lavoro terapeutico.
Il modello della tecnica è visualizzato nei “due triangoli” il triangolo del
conflitto, il triangolo delle persone:
Il triangolo del conflitto
Il triangolo delle persone
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Il triangolo del conflitto colloca ai vertici la difesa D, l’ansia A e
l’impulso con i sentimenti nascosti I/S.
Il triangolo delle persone colloca ai vertici, il transfert T, le persone della
vita attuale C (current people) e le figure significative del passato P
(parenti).
Una parte considerevole dei disturbi depressivi è sensibile a questa
terapia con esclusione dei pazienti con precedenti suicidari, con forme
melanconiche gravi, con passaggi all’atto frequenti. Tuttavia l’utilizzo di
un’adeguata terapia psicofarmacologica, durante il trattamento
psicoterapico, ne può estendere l’uso anche a queste situazioni cliniche,
fatta eccezione per i pazienti con passaggi all’atto frequenti.
Il mio lavoro consiste allora nell’aiutare il paziente a riconoscere come
egli si difenda D da sentimenti impulsi conflittuali I/S che generano
Ansia e sintomi nelle relazioni attuali C e nella relazione con noi T,
fino a rintracciarne le origini nel rapporto con le figure significative del
passato P.
A fasi di pressione (P) sui meccanismi di difesa inconsci, legati
soprattutto a intensa rabbia, mortificazione, sentimento di colpa, fasi in
cui si suscitano situazioni molto vive emotivamente, seguono fasi di
consolidamento durante le quali tutti gli aspetti vengono rivisti e
analizzati (fase cognitiva).
Si permette così: a) l’esperienza di sentimenti e impulsi profondi; b) la
comprensione del modo in cui erano stati interiorizzati fino ad allora;
c) l’apprendimento cognitivo-emotivo della somiglianza e delle
differenze tra le relazioni attuali e quelle parentali attraverso il banco di
prova di quanto egli sta sperimentando nella relazione di cura.
Infatti, l’ambivalenza inconscia di queste relazioni introiettate è una
delle cause dei sintomi dell’ansia, della colpa e dell’apatia.
Nel paziente che soffre di depressione cronica e/o ricorrente, si
evidenzia quindi frequentemente un nucleo affettivo primario
costituito da: 1) rabbia, anche omicida – scrive Davanloo – 2) colpa; 3)
dolore per la/le perdite.
Questo lavoro sui triangoli del conflitto e delle persone, è utile anche
per valutare e a volte ravvivare, nei limiti del possibile capacità e
funzioni cognitive, verificando la congruità della carica emotiva ad esse
collegate.
Non sempre in realtà nasce la possibilità di accedere all’inconscio e ai
sentimenti e impulsi più complessi e più radicati, poiché il paziente che
soffre di depressione cronica ha una maggiore difficoltà a differenziare
tra i vertici dei triangoli. Peraltro, quando egli è troppo stimolato nel
lavoro introspettivo, può in realtà accentuare le difese, con il
riemergere di ansia e vistosi quadri sintomatologici.
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Occorre quindi cautela, una notevole dimensione empatica e una
capacità del terapeuta di moderare la sua “vis curandi”, richiamando
spesso l’alleanza terapeutica conscia e inconscia.
Un concomitante trattamento psicofarmacologico, al contrario di
quanto ritiene Davanloo, è a mio avviso utile per accelerare la
riduzione dei sintomi, migliorare l’attenzione e lo slancio vitale e
permettere così una migliore partecipazione all’impegnativo lavoro
psicoterapico.
Se il lavoro proseguirà bene, il paziente inizierà a: a) separare la rabbia
dalla colpa, riconoscendo anche i concomitanti sentimenti positivi
verso le figure oggetto di aggressività; b) riconoscere le sequenze
difensive in gioco; e potrà c) riattraversare le relazioni originarie, che
nel continuum del processo vitale hanno accompagnato il paziente,
attraverso la comprensione della natura delle relazioni attuali con il
T(erapeuta) e con il mondo esterno per lui significativo.
Viene evidenziato allora a noi e al paziente il dispendio energetico
somato-psichico legato all’ansia e alle difese usate spesso in modo
autolesivo; si permetterà il recupero dell’energie psicofisiche, magari
ormai gracili, ma finalmente libere; si aiuterà a tollerare – avendone
sperimentato nell’hic et nunc della relazione terapeutica l’effetto benefico
– l’inevitabile ambivalenza verso gli oggetti interiorizzati e verso il
mondo attuale.
Qualche volta egli raggiungerà finalmente un’affettuosa o almeno
tollerante convivenza con queste relazioni interiorizzate, i propri cari,
spesso i cari estinti, che sempre ha portato con Sé.
La nostalgia – in greco dolore nel ritorno – così liberata dalla dimensione
del rammarico, della rabbia, della colpa, può divenire un tempo attuale
condivisibile con tante presenze, finalmente più leggere.
Vantaggi della psicoterapia breve
Si fonda su un numero di sedute definito, da quattro a dieci, con
frequenza settimanale/quindicinale o mensile. Favorisce la presa di
coscienza e la drammatizzazione a vari livelli che riguardano le
relazioni parentali – il ricordo del passato – le relazioni attuali e future
“hic et nunc”, la relazione sul proprio corpo, la relazione con le proprie
emozioni e frustrazioni: il vivere male nel mondo.
Limiti della psicoterapia breve
Non è idonea a trattare pazienti con gravi quadri melanconici, con il
rischio di passaggio all'atto e condotte autolesive, con deficit cognitivi e
comorbilità somatica medio-grave, che vivono in precarie condizioni
socio-economiche. Non prevede l'utilizzo associato di farmaci.
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Psicoterapia breve “duttile” e trattamento psicofarmacologico
Con un approccio integrato si può utilizzare la psicoterapia breve nella
prima fase del trattamento, durante il periodo di “latenza” degli
antidepressivi. L’obiettivo è quello di stabilire un’alleanza per la cura,
migliorare la compliance, ridurre il ricorso a terapie farmacologiche
invasive. Peraltro, come sopra scritto, Roland Kuhn, ricorda che i
farmaci antidepressivi influenzano positivamente i fenomeni della
disposizione affettiva, che divengono così più facili da riconoscere e
curare.
E il curante?
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La possibilità di mettersi in relazione con “l’Altro da noi”, qualsiasi
forma esso assuma, presuppone che venga mantenuta viva quella
capacità squisitamente umana che è data dall’empatia.
Edith Stein (1916) definisce l’empatia come “il fondamento degli atti in cui
viene colto il vissuto altrui”.
Così ne parla anche Eugenio Borgna (2010) mettendo in discussione la
modalità prevalente di far diagnosi oggi in Psichiatria, rappresentata dal
Manuale Diagnostico e Statistico delle Malattie Mentali
dell’Associazione degli Psichiatri Americani: “…come posso giungere alla
diagnosi in Psichiatria se non riesco a fare sgorgare dalla vita interiore dei pazienti
le ragioni ferite dei loro cuori… se non ho mai conosciuto queste esperienze umane,
prima ancora che nella psicopatologia, nella mia anima o nella mia
immaginazione?”. Egli ci riporta alla possibilità o non possibilità di vivere
in modo empatico la relazione con gli altri.
Momento centrale del trattamento è quindi l'assetto mentale del
terapeuta.
Nel rapporto con i pazienti depressi, il terapeuta, può attivare
meccanismi controtransferali atti a proteggersi dall'ansia e a preservare
la propria integrità narcisistica.
È inevitabile che questi meccanismi possano presentarsi, ma è
fondamentale che il terapeuta se ne renda conto, al fine di evitare agiti
pericolosi o dannosi.
Bisogna entrare in sintonia con quel “noi diverso ma comunque
nostro” che il paziente depresso ci evoca.
A questo proposito resta fondamentale Sigmund Freud nello scritto Il
Perturbante dove, considera la sorprendente vicinanza tra l’Heimliche e
Unheimliche, ovvero il familiare e il non familiare (Freud, 1919).
Lo straniero, e per straniero qui intendo proprio i nostri pazienti più
complessi, e i depressi cronici lo sono, e le situazioni familiari che ci
appaiono impossibili, possono presentarsi ospitali al nostro incontro e
noi al nostro incontro con loro. Possono altresì presentarsi del tutto
inospitali perché l’angoscia, che proviene dalla loro condizione di
sradicamento e di alienazione, spesso non consente di esprimere la loro
ospitalità, la loro possibilità di chiedere aiuto, costringendoli a rimanere
chiusi, troppo estranei, talvolta irritanti. In realtà per ospitare pazienti
gravi, come quelli affetti da gravi melanconie, è necessario rendere
possibile in noi operatori e nelle istituzioni in cui operiamo lo spazio,
soprattutto mentale, per ospitarli.
Credo che la depressione ricorrente e/o cronica quindi non debba
esser mai un alibi per non provare a curare sia il corpo che la mente di
una persona sofferente.
Non si è giustificati a non trattare la depressione.
Concludo con due relazioni cliniche e con Ingmar Bergman e il suo
film “Fanny ed Alexander”.
Primo caso: è esplicativo di un intervento di psicoterapia breve
eclettico
Luigina è una donna di settantun anni, ha due figlie e dei nipoti; per
anni ha gestito con i genitori, poi con il marito ed infine anche con le
figlie un bel negozio d’arredamento, che è sempre migliorato nel
tempo.
Con il marito faceva molti viaggi e forse le figlie pativano, dei genitori,
questo loro stare così bene insieme, da soli.
Il marito è morto quattro anni fa, lasciandola sola nella villa costruita in
campagna: Luigina amava stare in città ed era andata a vivere fuori per
accontentare il marito, che peraltro aveva fatto costruire e arredare la
casa, come la moglie aveva voluto.
Soffre in modo continuativo di depressione da quattro anni, è sempre
stata una persona sensibile e piuttosto bella, amata dai genitori che
avevano severe regole morali, amata soprattutto dal marito che
“stravedeva per me, come faceva anche mia mamma” ricorda Luigina.
31
32
In questi ultimi anni ha sofferto di calcolosi renale – ha già avuto due
interventi tramite litotritore – è dimagrita fino a divenire quasi
anoressica e soprattutto è divenuta molto depressa.
Le figlie sono preoccupate, lei è disperata e vive in modo molto
doloroso e greve. Il corpo esile, è rigido, contratto, gli occhi dalle
palpebre pesanti, si aprono talvolta in modo angoscioso.
Non riesce a stare in pace neppure quando va a letto, molto presto alla
sera, per non dormire quasi nulla.
Durante la prima visita prendo informazioni, senza eccedere, sulla sua
vita, sulla sua salute e sulle sue relazioni, cerco di cogliere se vi è
fluidità nel pensiero e nel percepire se stessa, gli altri ed anche il
sottoscritto che dialoga con lei.
Non sento un prevalere dell’organicità, sostenuto in questa
impressione dai risultati di molteplici indagini somatiche che mi porta a
conoscere. Deve fare ancora un intervento per la calcolosi renale, per
cui, d’accordo con la paziente, rinvio l’inizio di un progetto terapeutico
quando avrà superato l’intervento.
Nel secondo incontro propongo una terapia psicofarmacologica,
sorretta da informazioni sul disturbo depressivo, operando un’iniziale e
parziale medicalizzazione: “una malattia che fa stare male come le altre gravi”,
le dico, per detendere gli aspetti più angosciosi legati all’apatia,
l’anedonia e il sentimento di colpa.
Questo dialogo in parte avviene anche con le figlie che l’hanno
accompagnata, sostanzialmente per fare loro capire, ma anche alla
paziente che ascolta, che non si tratta di un problema di “maggiore
volontà da mettere nella vita”, perché la depressione l’ha prosciugata
per ora quella vita: “se avesse avuto un incidente, una grave malattia somatica
non pretenderebbe troppo, non le richiedereste di fare di più”.
Nel terzo incontro, dopo quindici giorni, la paziente comincia a
migliorare, grazie alla terapia farmacologica; posso iniziare a lavorare
sui triangoli di Davanloo, soprattutto su quello delle emozioni: il senso
di colpa, la demoralizzazione, il dolore, la perdita d’interesse vitale.
Nel quarto incontro lavoro di più sul triangolo delle persone: emerge il
conflitto con se stessa, per come tiene in sé le relazioni con il marito e
le figure genitoriali.
Emerge soprattutto una struttura di carattere ambivalente, tra il senso
di dovere nel fare propria una cultura piuttosto rigida portata da
genitori amati e la spinta a vivere i propri desideri trasgredendo anche
alcune delle regole introiettate.
Porto poi l’attenzione sulle relazioni attuali, con le figlie e con il marito,
non ancora sufficientemente sepolto. Racconta come, dopo due
interruzioni volontarie di gravidanza, per la paura di restare ancora
incinta avesse dopo i quaranta-quarantacinque anni ridotto
notevolmente i rapporti sessuali; di questo ora si sente colpevole “lui
era buono, accettava tutto ma così non l’ho fatto felice”.
Nel quinto incontro, con la tecnica della “Life review”, enfatizzo quegli
aspetti positivi del carattere di Luigina che avevano sempre affascinato
il marito: “lei ora non sa più vedere le cose buone che aveva, ed ha dentro di sé, ma
che il marito vedeva”.
Così il marito, comincia a divenire una presenza meno persecutoria e
più accogliente.
Torno allora al triangolo del conflitto e aiuto l’emergere di sentimenti
rimossi: Luigina commossa ma viva prende il coraggio di raccontare
delle serate passate a casa a pregare in modo ossessivo e tetro
chiedendo perdono al marito, forse anche per essere rimasta viva.
Passo poi ad affrontare la rabbia sottostante: in realtà questo marito
che la costringe ad implorare perdono è un “fantasma” persecutore,
una presenza inquietante che la costringe, fra l’altro, a rimanere
prigioniera in quella casa che già non gradiva quando vi andò a vivere.
Quella casa, dentro di lei, è ora divenuta una casa “odiosa” dove non vi
sono vie di scampo.
Nel settimo incontro, aiuto la paziente a riconoscere l’ambivalenza dei
suoi sentimenti e introduco la differenza tra i suoi vissuti e i dati della
realtà: “lei in fondo è troppo severa con se stessa, mentre il marito sarebbe contento
che la sua Luigina tornasse al negozio, cercasse ancora le cose che le possono fare
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34
piacere”… “suo marito aveva sempre amato di lei la perseveranza, ma anche quella
sua simpatica, capricciosa leggerezza”.
Luigina sorride, si distende mentre scompare la contrazione muscolare
e la corazza del corpo si è ormai molto attenuata: mi sembra ancora
bella ed è ora curata nella persona. Ci sembra di rivedere la ragazzina
birichina, amante delle cose belle.
La casa, mi dice poi, è tornata vivibile, dorme sempre poco ma ci sta
meglio e con calma vedrà cosa farne, forse venderla “ma senza
rimetterci”. Intanto è tornata, dopo tanto tempo in negozio: “faccio un po'
di fatica, non ricordo come prima le cose, ma mi piace ancora”.
La rabbia verso il marito e poi anche verso le figlie, che non la
capivano e sole lavoravano nel negozio, ha potuto emergere, slegandosi
però dai sentimenti di colpa, anche perché riconosciamo insieme come
i suoi sentimenti siano anche profondamente positivi verso queste
figure care.
Luigina riconosce anche emotivamente la sua ambivalenza che così
non produce più colpa e angoscia.
Siamo ormai ad un buon punto della terapia!
Secondo caso: alcune vicissitudini
psicoterapia e psicofarmacologia
nell’integrazione
tra
Maria ha quarantaquattro anni, è alta, bionda, potrebbe essere bella, ma
prevale un non so che di estraneo, quasi di devitalizzato, di automa; è
sposata con un bell’uomo che le vuole bene, non hanno figli. Lavora in
un’azienda con un posto di responsabilità.
Soffre da anni di crisi depressive e, soprattutto, è molto infelice: nella
sua mente sono ospiti sgraditi pensieri ossessivi, sentimenti di colpa
per ogni possibile momento di felicità. Tutto questo si è aggravato un
anno fa con la morte dell’unico fratello di cinque anni più vecchio per
un tumore.
Maria è rimasta orfana del padre a venti mesi: la madre con i due figli
era tornata per motivi economici a vivere nella sua famiglia d’origine,
dove vi era un fratello, alcolista, che terrorizzava costantemente la
donna e i suoi figlioli.
Non vi era mai un po’ di pace.
Io penso che quest’uomo attaccasse continuamente la possibilità,
soprattutto mentale, di vivere della sorella con i suoi due bambini.
Maria trae un notevole beneficio dalla terapia psicofarmacologica
basata su antidepressivi a dosaggi medi alti, bassissimi dosaggi di
neurolettico non sedativo e una leggera cura per il difficile dormire.
Asserisce che così bene non si sentiva da anni e le sembra finalmente
di poter tornare a vivere.
Dopo alcuni mesi di terapia psicofarmacologica, che viene lasciata
inalterata, chiede d’iniziare un percorso psicoterapeutico.
In realtà, quasi subito dopo l’inizio dei nostri colloqui, comincia a
peggiorare e i farmaci sembrano non essere più in grado di lenire la sua
sofferenza.
Decido di mantenere la stessa terapia perché penso che l’inizio della
psicoterapia sia in un qualche modo responsabile del peggioramento,
piuttosto che una ridotta efficacia della terapia farmacologia.
Scopriamo insieme che forse è proprio l’idea di dedicare uno spazio a
se stessa, uno spazio per essere un po’ meno infelice, che viene
attaccato dal ritorno dei pensieri melanconici e ossessivi.
Forse si sente colpevole per questo spazio-tempo che ha iniziato a
dedicare a se stessa, mentre il fratello è morto e la mamma è sola: in
realtà mi dice che la mamma vive bene da sola ed esorta sempre Maria
a farsi la sua vita.
È come se Maria avesse ancora nella mente questo zio che distrugge
ogni cosa – relazione oggettuale interiorizzata e rimossa, ma il
persecutore interno fa ancora il suo mestiere! – che distrugge anche il
nostro spazio d’incontro.
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E allora le comunico quanto penso dicendole che i pensieri ossessivi e
tristi sono in un qualche modo questo zio che non è mai stato
“sepolto” del tutto.
Lei rimane stupita ma interessata dalle mie parole. Si commuove come
vi fosse finalmente la possibilità d’entrare in contatto con quella se
stessa piccola, maltrattata e, allora come adesso, inevitabilmente
impotente di fronte a tanta forza distruttiva.
La paziente va migliorando e gli psicofarmaci tornano a fare il loro
buon lavoro… gradualmente la terapia è stata ridotta, ma siamo
entrambi d’accordo che va mantenuta ancora perché Maria è
finalmente in grado di accettare tutti gli aiuti che possono essere utili
per essere un po’ felice.
Spero ora che la donna di quarantaquattro anni possa finalmente
aiutare quella bambina e ridarle speranza per una vita migliore.
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“Fanny e Alexander”
La giovane e bella attrice, sposa di uno dei tre figli di Elena, la grande
matriarca – Ingrid Thulin, nel film – di questa ricca e singolare famiglia,
rimasta vedova va sposa al Vescovo Protestante della città.
È la discesa nella melanconia più disperata, in una casa, in una famiglia,
dove vi è spazio solo per un’arida intransigenza, per la colpa e
soprattutto per il biasimo per ogni ricerca di un po’ di felicità.
Tuttavia una parte di lei, rappresentata dal figlio Alexander, non si
rassegna e risalirà dall’incubo melanconico mentre il Vescovo, che
rappresenta l’attacco rancoroso al vivere le passioni, troverà una fine
che non suscita commozione. La giovane donna e i suoi figli, Fanny e
Alexander che rappresentano il desiderio di tornare a vivere, sono
nuovamente nella grande famiglia. Vi è una festa gioiosa per una nuova
nascita, una bimba che rappresenta anche la possibilità della vita di
tornare più leggera. Bergman, che per anni ha sofferto di terribili
depressioni, fa dire a Gustav Adolf, il figlio che dirige il teatro di
famiglia: “…noi siamo gente che si muove, che sa vivere nel mondo piccolo, delle
piccole cose, ma così, quando arriva la felicità, quando arrivano quegli attimi di
felicità, li sappiamo vivere…”.
Questo è un antidoto, che mi sembra sempre più raro, al prevalere
delle passioni tristi, rancorose, anche violente che colorano male il
vivere quotidiano in questa epoca della crisi e della precarietà.
Conclusione
Pierre Fédida (2001) ricorda che siamo posti di fronte ad uno strano
paradosso: il fenomeno della depressione diventa sempre più comune e
diffuso, lo psichiatra ha a disposizione strumenti farmacologici
decisamente migliori per ben curare, ma paradossalmente non concede
più tempo all’osservazione ed all’ascolto dei malati negandosi così e
negando a loro la possibilità di buone cure integrate, che sarebbero
oggi veramente possibili.
Credo che gli psicofarmaci antidepressivi siano molto utili, tuttavia
dobbiamo imparare a chiedere ai farmaci antidepressivi quello che essi
possono dare mentre non dobbiamo dimenticare di chiedere a noi
stessi di essere degli psichiatri, degli psicoterapeuti, che mantengono
una dimensione ampia, umanistica della cura, dove inevitabilmente la
relazione con l’altro e la capacità di leggere che cosa gradualmente in
essa si sviluppa, devono restare fondamentali, pena perdere il senso del
nostro operare, non fornire un senso alla sofferenza dell’altro e quindi
sviluppare ahimè cattive pratiche terapeutiche.
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RIASSUNTO
L’ipotesi sviluppata è che un intervento integrato, psicofarmacologico e
psicoterapeutico, influenzi positivamente le modificazioni biologiche e
psicopatologiche, persistenti nella depressione cronica e/o ricorrente.
Viene richiamata la concezione del vissuto temporale nella depressione
di Binswanger. Vengono riportate le opinioni di Kaplan, Gabbard e
Davanloo soprattutto in merito a vantaggi e limiti dei più significativi
approcci psicoterapeutici. Viene affrontato il tema dei mutamenti
espressivi nelle depressioni oggi, con i contributi di BenasayagSchmidt, Simona Argentieri e Pierre Fédida.
Infine vengono presentate alcune vignette cliniche inerenti la
psicoterapia di pazienti depressi.
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PAROLE CHIAVE
Depressione cronica e/o ricorrente, psicoterapia dei disturbi
depressivi, mutamenti espressivi dei quadri psicopatologici.
SUMMARY
The hypothesis developed is that an integrated, psychopharmacological
and
psychotherapeutic
intervention,
can
influence
the
psychopathological and biological changes, persistent in chronic
depression and/or recurrent, positively. In this article we can find
Binswanger’s concept of temporal experience in depression. Also the
views of Kaplan, Gabbard and Davanloo regarding especially benefits
and limitations of the most significant psychotherapeutic approaches.
We can also find the issue of expressive changes in today’s
depressions, with contributions from Benasayag-Schmidt, Simona
Argentieri and Pierre Fédida. Finally we present some clinical vignettes
concerning the psychotherapy of depressed patients.
KEY WORDS
Recurrent and/or chronic depression, psychotherapy of depressive
disorders, expression changes in psychopathological states.
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41
Appunti di viaggio
43
Giacinto Buscaglia, Panfilo Ciancaglini
Epidemiologia
della
schizofrenia:
acquisizioni e nuove suggestioni
nuove
a Paola Panizza
La prima difficoltà che dobbiamo affrontare per descrivere la
distribuzione e i fattori causali della schizofrenia è il dubbio che si tratti
di un’entità nosologica ben definita.
Sappiamo che esistono movimenti di opinione che sostengono che la
schizofrenia non esiste e pratiche antipsichiatriche fondate sul rifiuto
della nosologia e della terapia, sull’autodeterminazione e sulla presenza
di ex utenti nello staff. Possiamo citare due strutture residenziali, “La
Casa di Hilde” fondata da Giuseppe Bucalo in Sicilia e la “Weglaufhaus”
(Casa del Fuggitivo) di Berlino, come esempi di queste impostazioni.
Esperienze molto interessanti, come quella degli “uditori di voci”,
propongono modelli di cura alternativi alla psichiatria tradizionale,
anche se meno radicali dei precedenti.
“…se a dieci ricercatori esperti, che hanno dedicato le loro carriere alla
schizofrenia, venisse chiesto di fare una lista dei 10 fatti più importanti
che loro conoscono al di là di ogni dubbio, è molto probabile che non
ce ne sarebbero due uguali” (DeLisi, 2006).
Del resto i confini della schizofrenia sono molto sfumati. Il disturbo
schizoaffettivo si costituisce come area di sovrapposizione nei
confronti dei disturbi bipolari, mentre il disturbo schizotipico di

Psichiatra, Dipartimento Salute Mentale ASL 2 Savonese.
Psichiatra, gruppo “Redancia”.

45
46
personalità e i disturbi psicotici brevi creano un ponte tra la
schizofrenia e condizioni di “normalità”.
Anche l’ampia variabilità del decorso, in mancanza di markers biologici,
è un elemento di difficoltà per l’individuazione di un quadro
nosologico unitario.
Esistono molte altre malattie in medicina caratterizzate, come la
schizofrenia, dall'eterogeneità nella sintomatologia e dei fattori
eziopatogenetici, ma il problema nella schizofrenia è ancora più
complesso perché all’eterogeneità si associa la mancanza a tutt'oggi di
un marker biologico definito. La sindrome da fatica cronica, i cui criteri
diagnostici ricordano quelli della schizofrenia, originariamente descritta
come una vaga costellazione di sintomi di debolezza, mal di testa,
dolori, è stata scomposta in una serie di sindromi con eziologia
semplice (malattia di Lyme, Virus di Epstein-Barr) e in condizioni
psichiatriche eterogenee (disturbi somatoformi e depressione) con
manifestazioni apparentemente simili.
Infine, il tentativo di restringere i criteri diagnostici (molto allargati
dalla psichiatria americana rispetto a quella europea) potrebbe essere
una delle cause per cui i dati per lungo tempo sono stati difficilmente
confrontabili e fonte di confusione.
Jim van Os (2011) nel commentare un lavoro di altri autori sottolinea
la difficoltà di discutere “fatti” di un costrutto che non rappresenta
un’entità nosologica.
Fino agli anni Settanta del secolo scorso, la schizofrenia era ritenuta
una malattia “processuale” con esito invariabilmente peggiorativo e
invalidante. Le osservazioni si basavano quasi esclusivamente su
popolazioni di pazienti manicomiali o di dimessi dagli ospedali
psichiatrici. D’altronde fino alle pionieristiche ricerche di Shepherd
nulla si sapeva dei disturbi psichici e delle malattie mentali nella
popolazione.
Grazie ad alcuni grandi studi internazionali, i cui risultati furono
pubblicati negli anni Ottanta (tra cui Jablensky 1980 e 1988, Ciompi
1980 e 1989, Zubin 1983, Harding 1988) si poté stabilire che l’esito
della malattia non era necessariamente peggiorativo e che gli elementi
di contesto influenzavano l’efficacia delle cure. Queste acquisizioni
sono tuttora valide ma altre conclusioni derivate dalle stesse ricerche si
sono rivelate erronee.
Una prima questione riguarda l’incidenza.
In una ricerca del 1986 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che
aveva lo scopo d’identificare l'incidenza della schizofrenia in 8 località
in 7 nazioni, l'incidenza annuale si collocava in un range da 16 a 42 x
100.000 abitanti. Utilizzando criteri più restrittivi il range si riduceva da
7 a 14 x 100.000 abitanti. Gli autori commentavano: “i risultati
forniscono un forte sostegno all’ipotesi che la malattia schizofrenica si
manifesti con una frequenza simile in popolazioni differenti” (Sartorius
et al., 1986).
“Le evidenze portano alla singolare conclusione che, al contrario di
quasi tutte le altre condizioni, l’incidenza della schizofrenia è
indipendente dall’ambiente ed è una caratteristica delle popolazioni
umane” (Crow, 2000).
Da questa, come da altre descrizioni, derivava il profilo di un disturbo
di origine biologica con una componente ereditaria di gran lunga
prevalente sui fattori socio ambientali.
Le ricerche svolte negli anni Duemila hanno modificato questa
impostazione.
Nel 2006 McGrath, in un articolo il cui titolo era piuttosto esplicito
“Variazioni nell’incidenza della schizofrenia: dati versus dogmi”, compie
un’ampia revisione dell’argomento, che viene confermata anche da dati
successivi.
Sintetizzando per punti.
L’incidenza della schizofrenia varia in modo significativo nelle
diverse aree geografiche
Valore mediano: 15,2 per 100.000 all’anno.
47
Range da 7,7 a 43,00 (80% centrali della distribuzione cumulativa).
L’incidenza della schizofrenia ha significative variazioni per
sesso
Risk ratio maschi/femmine 1,4.
L’età media d’insorgenza è di 22-23 anni, con un ritardo delle femmine
di 3-4 anni.
L’esordio è più precoce nei maschi, con un’eccedenza che in età
infantile può arrivare fino a 2,5/1.
Al contrario, le forme ad esordio tardivo, oltre i 40 anni sono quasi
esclusivamente femminili.
Il decorso nei maschi è più sfavorevole, anche se la prevalenza non
presenta differenze specifiche per genere.
48
L’incidenza della schizofrenia ha significative variazioni relative
al contesto di vita
Chi nasce in città ha un rischio doppio rispetto a chi nasce in zone
rurali. Il trasferimento in età infantile dalla città alla campagna
costituisce un fattore protettivo. Questi dati consentono una diversa
interpretazione dell’eccesso di casi nei centri urbani rispetto alla teoria
della deriva sociale, focalizzando l’urbanizzazione come vero e proprio
fattore causale.
L’incidenza della schizofrenia ha variazioni significative per lo
stato di migrante
Risk ratio da 1/3 a 1/5.
Il dato varia in funzione della proporzione tra comunità immigrata e
popolazione generale: il rischio diminuisce con l’aumentare del numero
dei migranti. Il fattore implicato sarebbe quello dell’esclusione e della
marginalizzazione sociale.
L’incidenza della schizofrenia varia nei diversi periodi dell’anno
Nascere in inverno e primavera aumenta il rischio di ammalare.
L’incidenza della schizofrenia varia a seconda dei periodi storici
Studi condotti nella zona sud-est di Londra tra il 1965 e il 1997
mostrano un raddoppio dei tassi negli ultimi decenni. Al contrario, una
sistematica review della letteratura evidenzia dati d’incidenza minore
negli studi più recenti rispetto a quelli precedenti. Queste
contraddizioni potrebbero dipendere dalla difficoltà di selezionare
campioni identici per esposizione ai fattori di rischio.
La prevalenza della schizofrenia varia ampiamente nelle diverse
aree geografiche
Il dato più significativo è quello di una notevole variabilità con
oscillazioni tra 160 e 1.200 casi per 100.000 abitanti con media 400.
Si è notato che la prevalenza della schizofrenia nei paesi sviluppati è
significativamente più alta rispetto ai paesi in via di sviluppo. Anche
l'esito è diverso (migliore nei paesi in via di sviluppo), nonostante nei
paesi “poveri” la quota dei pazienti psicotici trattati non supera il 30%,
mentre nei paesi industrializzati è ben oltre l’80%.
49
50
La schizofrenia è responsabile dell’1,1% del totale di anni di vita persi a
causa della disabilità (DALYs, Disability Adjusted Life Years) e del 2,8%
complessivo di anni vissuti in condizioni di disabilità.
Il fatto che una malattia con incidenza relativamente bassa abbia una
prevalenza alta ed un forte impatto di disabilità significa che molte
delle persone che ammalano rimangono a lungo in trattamento e che lo
stesso è poco efficace, almeno per ciò che riguarda le competenze
relazionali e sociali. È probabile che, almeno in parte, questo dipenda
dall’immagine distorta della malattia e delle relative conseguenze sui
trattamenti. Vediamone alcune:
- spesso il trattamento farmacologico è considerato il fulcro della
terapia a discapito degli interventi psicosociali;
- non viene sufficientemente valorizzato il vissuto del paziente ed il
significato simbolico del delirio;
- l’impatto della stigmatizzazione, soprattutto per quanto riguarda
l’imprevedibilità e la pericolosità è molto forte e ostacola la
guarigione.
Ciò che ha radicalmente modificato il quadro d’insieme, favorendo la
confutazione dei “miti” sulla schizofrenia è stata l’introduzione di
criteri diagnostici dimensionali invece che categoriali. Le ricerche sono
state condotte anziché su soggetti "puri", sicuramente schizofrenici, su
gruppi di popolazione che presentano costellazioni variabili di sintomi
di quella che viene chiamata “sindrome psicotica multidimensionale
complessa”, caratterizzata da quattro tipi di sintomi:
- psicosi (deliri ed allucinazioni);
- deficit motivazionali (avolizione, amotivazione);
- sregolazione affettiva (depressione, mania);
- alterazione dei processi d’informazione (deficit cognitivo).
Oggi sappiamo che questi sintomi sono presenti anche in una parte
della popolazione che non ha mai ricevuto diagnosi di psicosi.
Inoltre, “un numero sempre più corposo di evidenze suggerisce che
esperienze deliranti e allucinatorie sono più frequenti nella popolazione
generale rispetto alla prevalenza di casi di disturbi psicotici, facendo
supporre l'esistenza di un continuum sintomatologico tra soggetti della
popolazione generale e casi clinici di psicosi” (Van Os et al., 2002).
Per gli stessi autori “esplorare i fattori di rischio che modulano
l'espressività dei sintomi psicotici in popolazioni non cliniche può
contribuire meglio a chiarire l'eziologia della psicosi piuttosto che
ricerche ristrette a pazienti al punto estremo della distribuzione della
dimensione psicotica”.
In questa prospettiva i disturbi psicotici possono essere visti come
disturbi dell'adattamento al contesto sociale. Rimane dimostrata una
componente ereditaria, ma la comparsa del disturbo è correlata a
fattori ambientali. L'ipotesi è che l'esposizione a questi fattori abbia un
impatto sullo sviluppo del cervello "sociale" durante periodi considerati
sensibili.
La schizofrenia può essere considerata l’esito più sfavorevole, che
colpisce lo 0.5-1% della popolazione nel corso della vita, della
sindrome psicotica multidimensionale complessa descritta in
precedenza, presente nel 2-3% della popolazione ed evoluzione, a sua
volta, di una vulnerabilità che caratterizza il 10-20% delle persone.
51
52
Fig. I – Complexity of the psychotic disorder phenotype in aetiological research (da
Jim Van Os, 2010).
Il profilo della vulnerabilità prevede bassa intensità dei disturbi, loro
appartenenza ad una sola delle quattro aree della sindrome e livelli
moderatamente alti d’ereditarietà.
Interazioni gene-ambiente fanno crescere i livelli dell'espressione
fenotipica, con una più alta correlazione delle quattro dimensioni, fino
a superare il filtro dei servizi psichiatrici.
Nei disturbi affettivi e psicotici la soglia dei servizi è superata per la
necessità di chiedere un aiuto (più frequente nelle femmine), mentre
nei deficit motivazionali e nei disturbi cognitivi per una progressiva
riduzione della competenza sociale (più frequente nei maschi).
A questo punto si arriva alla diagnosi clinica e il ruolo dell'ereditarietà è
più alto, arrivando fino all’80-90%.
I fattori ambientali maggiormente implicati nella genesi della
schizofrenia sono i seguenti:
- traumi dello sviluppo, sia in senso dell'abuso che dell'abbandono;
- appartenenza ad un gruppo etnico minoritario;
- crescere in un contesto urbano;
- uso di cannabis;
- traumi perinatali: stress prenatale e deficit nutrizionale della madre,
livelli materni serici di piombo e omocisteina, incompatibilità Rh,
bassi o alti livelli neonatali di vitamina D, toxoplasmosi prenatale,
infezioni virali o batteriche, complicazioni varie in gravidanza e
alla nascita.
La sensibilità ai fattori di rischio è modulata geneticamente e produce i
suoi effetti secondo una tempistica dello sviluppo cerebrale che inizia
col concepimento e arriva intorno ai venticinque anni.
L'importanza dei fattori ambientali si coglie solo se si costruiscono
sottogruppi maggiormente vulnerabili.
La figura mostra la differente sensibilità all'urbanizzazione e all'uso di
cannabis tra un sottogruppo a rischio genetico (G+) e il gruppo di
controllo (G-).
53
54
Fig. II – Evidence for vulnerable subgroups and gene-environment interaction using
proxy measures of genetic risk (da Jim Van Os, 2010).
Nella figura successiva viene rappresentato il timing dello sviluppo del
cervello umano, delle abilità funzionali e dell'impatto dei fattori
ambientali.
Le frecce rappresentano l'impatto di fattori ambientali associati con la
sindrome psicotica. Le barre indicano approssimativamente i periodi
dello sviluppo durante i quali i processi si verificano.
55
Fig. III – Schematic illustration of the approximate timing of the development of
the human brain, functional abilities, and impact of environmental exposures (da
Jim Van Os, 2010).
56
Le conoscenze sull’origine e lo sviluppo dei disturbi psichici si sono
enormemente accresciute negli ultimi decenni. Il libro di Goldberg e
Goodyer uscito nel 2005 e tradotto in italiano nel 2009 ne offre una
sintesi esemplare, mettendo a disposizione dei clinici utili informazioni
non solo per il trattamento ma anche per la prevenzione. Il passaggio
dai modelli categoriali a quelli dimensionali costituisce il presupposto
per un corretto approccio ai concetti di vulnerabilità, interazione geneambiente, trauma e fattori di rischio.
Gli studi più recenti ci consentono d’ipotizzare che non solo i disturbi
depressivi, d’ansia, da abuso di sostanze e di personalità rientrino
nell’ormai classico modello dei cinque livelli e quattro filtri (Goldberg
& Huxley, 1980; Goldberg & Goodyer, 2005), ma anche quelli
psicotici.
I sintomi psicotici, i deficit motivazionali, la sregolazione affettiva e i
deficit cognitivi sono presenti nel 10-20% della popolazione come
espressione fenomenica di una vulnerabilità che, ricordiamo, non va
mai disgiunta dalla resilienza che rappresenta la seconda, non meno
importante,
componente
della
predisposizione.
L’impatto
dell’ambiente e dei fattori di rischio può condurre alla psicosi
multidimensionale complessa descritta in precedenza circa un decimo
di queste persone.
Si tratta, per ora, di un’ipotesi che necessita di ulteriori conferme ma è
evidente che, se intendiamo la schizofrenia come l’esito più sfavorevole
di patologie meno gravi, si aprono nuove e diverse prospettive per ciò
che riguarda la prevenzione e gli interventi precoci.
Non è negli scopi del lavoro approfondire questi aspetti.
Sottolineiamo, tuttavia, il ruolo dell’epidemiologia nell’offrire
informazioni ai clinici per il miglioramento della prevenzione e della
cura precoce dei disturbi psicotici, soprattutto alla luce dei recenti
sviluppi, che sembrano aver corretto errori metodologici che hanno
rallentato l’evoluzione delle conoscenze sull’argomento.
RIASSUNTO
Gli autori sottolineano la difficoltà di descrivere la distribuzione e i
fattori causali della schizofrenia nel momento in cui appare sempre più
discutibile come entità nosologica ben definita.
Si considera, successivamente, l’evoluzione delle conoscenze
epidemiologiche sull’argomento: dalla concezione processuale agli studi
internazionali sulla popolazione degli anni Ottanta del secolo scorso.
Le conoscenze acquisite con questi ultimi sono attualmente in parte
confermate (variabilità del decorso e influsso dell’ambiente sull’esito
del trattamento) e in parte smentite (stabilità e ubiquitarietà
dell’incidenza dovuta quasi esclusivamente alla componente genetica).
L’analisi di questi “errori metodologici” e il loro influsso sul modello di
malattia portano a riflettere su un corretto uso delle evidenze della
letteratura nella pratica clinica e nell’organizzazione dei servizi.
Vengono poi elencate le più recenti acquisizioni sull’incidenza e la
prevalenza della malattia.
Parte della letteratura più recente propone un modello di nascita e
sviluppo della schizofrenia assimilabile a quello di Goldberg per i
disturbi psichici comuni e cioè un continuum tra disturbi nella
popolazione e patologie psicotiche che impattano con i servizi sanitari.
Questo modello, che si è sviluppato nell’ambito delle più aggiornate
acquisizioni sulle interazioni gene-ambiente, necessita di ulteriori
conferme ma è di indubbia utilità per chi opera nel campo della
prevenzione e degli interventi precoci nei disturbi psicotici.
PAROLE CHIAVE
Schizofrenia, epidemiologia, interazioni gene-ambiente.
57
58
SUMMARY
The authors emphasize the difficulty of describing distribution, and the
causal factors of schizophrenia in the moment in which it appears
more and more questionable as a well defined nosological entity. It is
therefore considered that the evolution of epidemiological knowledge
in the topic from a process-based view to international studies on the
population of the eighties of last century. Knowledge acquired in this
way are currently partially confirmed (variability of the course and
environmental influences on the outcome of treatment) and denied in
part (stability and ubiquity of the incidence due almost exclusively to
the genetic component). The analysis of these "procedural mistakes"
and their influence on the disease model led to reflect on the proper
use of evidences in the literature in clinical practice and organization of
services. It then lists the most recent findings on incidence and
prevalence of the disease. Part of the recent literature suggests a model
of onset and development of schizophrenia similar to that of Goldberg
for common mental disorders that is a continuum between disorders in
the population and psychotic diseases who impact on health services.
This model, which was developed as part of the latest acquisitions on
gene-environment interactions, needs further confirmation, but is
certainly valuable for those working in the field of prevention and early
intervention in psychotic disorders.
KEY WORDS
Schizophrenia, epidemiology, gene-environment interaction.
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60
Quattro passi per strada
61
Pasquale Pisseri
L’autore di reato con problemi psichiatrici
Il 15 marzo 2013 si è svolto a Genova nella sede del Centro di Cultura
Formazione Forense l’incontro di studio su “L’autore di reato con
problemi psichiatrici”, organizzato e introdotto da Donatella Aschero,
Magistrato del Tribunale di Savona, con attenzione rivolta a tre topiche
fondamentali: problemi generali posti dall’intreccio fra esigenze
cliniche e vincoli giuridici nel corso dei procedimenti e dell’eventuale
misura di sicurezza; cambiamenti legati al superamento in corso degli
Ospedali Psichiatrici Giudiziari; gestione dei disturbi psichici insorti
durante la detenzione.
La dottoressa Aschero ha presentato il convegno rimarcando che il
confronto fra Giudici e professionalità diverse, sempre più
fondamentale, ha però spazi spesso limitati e compressi. Gli strumenti
penal-processuali non hanno tenuto il passo con i progressi della
psichiatria: accade che il Magistrato per far fronte a esigenze medicopsichiatriche all’interno del processo cerchi di adattare norme non a
questo strettamente finalizzate, creando però così successive difficoltà.
Quando e come utilizzare gli articoli del Codice Penale e di Procedura
in modo non contrastante con le esigenze di cura? Come rapportarsi
con i Centri Clinici Penitenziari e con gli SPDC?
Ha quindi introdotto i vari relatori.
L’area di più stretto interesse forense ha visto gli interventi di Marco
Pellissero Ordinario di Diritto Penale nell’Università di Genova, di

Neuropsichiatra, già Primario SPDC Savona, Consulente Scientifico del gruppo “Redancia”.
63
Annalisa Giacalone Magistrato del Tribunale di Genova, di Gianluigi
Rocco Psichiatra Forense, di Maria Laura Fadda Magistrato di
Sorveglianza di Milano, di Massimo Cusatti Magistrato del Tribunale di
Genova.
Hanno invece trattato dei vari dispositivi di cura e organizzativi
Roberto Maggi Responsabile dell’ Osservazione Psichiatrica nella Casa
Circondariale Cittadina, Luigi Ferrannini Direttore del Dipartimento di
Salute Mentale di Genova, Franco Scarpa Direttore dell’OPG di
Montelupo Fiorentino, Graziella Giusto Funzionario della Regione
Liguria.
64
Cusatti nel suo intervento ad ampio raggio ha trattato vari aspetti
problematici dei procedimenti riguardanti l’indagato psichicamente
infermo: il diritto alla difesa da salvaguardare anche al di là della
volontà espressa dall’interessato; la via giudiziaria talora vista come
estrema “soluzione” a difficoltà non altrimenti superabili dalla famiglia
del paziente; l’esigenza di garantire cure psichiatriche adeguate anche in
condizioni di detenzione; la necessità di una valutazione critica del
rapporto, difficilmente univoco, fra malattia e reato; l’ambiguità del
concetto di vizio parziale di mente; i problemi posti da un’incapacità
temporanea al momento del reato seguita da un ritorno alla normalità
psichica; quelli relativi all’urgenza posta dall’arresto di persona
psichicamente sofferente ma da ritenere imputabile fino a prova
contraria e quindi da ricoverare se necessario in SPDC, con passaggio
di competenza all’OPG se subentra un giudizio di non imputabilità.
Pellissero ha trattato della prevenzione del reato, collegandola
all’attuale crisi del tradizionale concetto di pericolosità; ha fornito dati
numerici sull’attuale popolazione degli OPG (803 più 289 in Casa di
Cura e Custodia), cui si affiancano 3.038 pazienti in libertà vigilata; ha
segnalato il rischio che gli OPG sopravvivano in forma diversa, anche
se in Italia – a differenza che in altri paesi europei – il ricorso alle
misure di sicurezza va scemando.
Anche Rocco, nel suo intervento concertato con Giacalone, ha messo
in guardia contro la deduzione diretta dal riscontro di disturbo mentale
a un giudizio d’incapacità; ha sottolineato l’importanza dell’intuizione e
di possibili premonizioni nella sempre difficile valutazione della
pericolosità; ha ricordato la necessità di un lavoro fortemente integrato
con il Giudice, gli Avvocati, l’eventuale Tutore o Amministratore. Ha
aggiunto concretezza al discorso portando ricordi della propria
esperienza clinica e psichiatrico-forense.
Anche Annalisa Giacalone ha trattato della pericolosità, che va
verificata periodicamente e da valutare in rapporto non soltanto al dato
strettamente psicopatologico ma anche alla gravità del reato e al
contesto sociale più o meno supportivo. Va quindi evitato ogni
giudizio di non pericolosità condizionata e cioè subordinata, ad
esempio, alla regolarità e adeguatezza del trattamento o ad un buon
sostegno familiare e sociale; aspetti questi che andavano già inclusi
nella valutazione globale. Ha anche additato il rischio che la nuova
legge non porti cambiamenti realmente decisivi, e che le nuove
strutture a distribuzione regionale divengano nuovi OPG.
Daniela Verrina, partendo dal principio indiscusso che nessuna misura
o sanzione deve nuocere alla salute, ha fatto notare che il Magistrato di
Sorveglianza, pur dotato di ampi poteri formali, di fatto non ha grandi
possibilità di concreti interventi, anche perché, in caso di reclamo
avanzato da un detenuto, il solo interlocutore diviene
l’Amministrazione Penitenziaria.
Franco Scarpa ha parlato dell’attuale situazione degli Ospedali
Psichiatrici Giudiziari che, inevitabilmente, hanno carattere ancora
carcerario. Dal 1° aprile prossimo dovranno cessare gli ingressi in
65
OPG; ma non tutte le circa 500 licenze finali esperimento avranno
esito positivo. La legge 09/2012 si limita a cambiare i luoghi
dell’incontro fra controllo e cura, senza incidere in profondità
sull’attuale modalità d’intervento, imperniata su quel concetto di
pericolosità sociale che fra l’altro è profondamente in discussione.
Personalmente aggiungerei che una netta differenziazione fra i luoghi
di cura destinati ai pazienti autori di reato e quelli che accolgono
pazienti esenti da vincoli giudiziari ha certo un senso organizzativo ma
non ne ha di ordine clinico, almeno per un’ampia fascia di pazienti: la
tipologia degli uni non si discosta da quella degli altri, e nell’esperienza
maturata dalle nostre Comunità non risultano differenze significative
sul piano della gestione, al di là degli adempimenti e limiti imposti per
legge dal Magistrato.
66
Sappiamo che su questo aspetto ha posto l’attenzione la Società
Italiana di Psichiatria, preoccupata che venga in qualche modo
paradossalmente ostacolato il processo virtuoso, innescato dalla nota
sentenza della Corte Costituzionale, di una gestione dell’autore di reato
non differenziata da quella degli altri pazienti. I Rappresentanti
Regionali della Società “si sono dimostrati preoccupati di non poter più
mantenere i progetti territoriali per i pazienti autori di reato, la cui
pericolosità sociale non richieda l’inserimento nelle strutture alternative
all’OPG. Questo perché esiste il rischio che una volta disponibili le
strutture alternative all’OPG vi sia una ridotta attitudine da parte dei
Magistrati, dei Periti e dei Servizi Territoriali stessi a realizzare progetti
esterni alle strutture che comportano un minimo rischio di recidiva.
Occorre instaurare una prassi operativa di comunicazione fra
Magistrati, Periti e Operatori dei servizi delle ASL, che devono essere
coinvolti nelle decisioni di cura dei pazienti già in fase progettuale”.
È verosimile che questo rischio venga ridotto dalla prevedibile – e per
una volta benefica – insufficienza quantitativa dei posti disponibili nelle
nuove strutture: cruciale sarà l’attenzione a che i limiti posti dalla legge
alle loro dimensioni non vengano aggirati.
Ulteriori perplessità la SIP ha espresso sulla tempistica, avanzando il
fondato dubbio che il divieto di nuovi ingressi negli attuali OPG,
quando le nuove strutture sono lontane dall’esser pronte, crei
situazioni d’abbandono ad alta nocività clinica e rischio.
Credo meriti una riflessione anche il criterio territoriale imposto da
questa legge. Certo è evidente che il dispositivo finora in atto ha spesso
reciso brutalmente i legami con il territorio d’origine, favorendo la
cronicità e il persistere ingiustificato dell’internamento anche a misura
di sicurezza scaduta. Ciò conferma, se ce ne fosse stato bisogno, che il
riferimento territoriale è una variabile significativa nella scelta del luogo
di cura anche per questa tipologia di pazienti: credo che esso vada
riflessivamente pensato, non perseguito con rigidità burocratica che
consideri esclusivamente i confini regionali.
Intanto, perché il rispetto di questi non sempre garantisce al meglio il
legame con il territorio. Esempio evidente la Liguria, la cui
conformazione geografica fa sì che i riferimenti territoriali e i relativi
collegamenti di singole zone con remote aree intraregionali possano
essere meno efficaci di quelli con viciniori distretti extraregionali: per
Imperia e Savona il Cuneese, per Genova l’Alessandrino, per La Spezia
la provincia di Pisa. Inoltre, non è affatto raro che i legami del paziente
autore di reato con il territorio d’origine si siano formati con ambienti
di forte degrado sociale e ricchi di potenziali criminogeni; in questi casi
una presa di distanza può rivelarsi opportuna, in piena coincidenza
dell’esigenze terapeutiche con quelle di sicurezza sociale. La
destinazione del paziente dovrebbe quindi essere ragionatamente
clinica.
Ferrannini ha richiamato alla necessità di mantenersi in un’ottica
psicosociale per una comprensione dei cambiamenti epidemiologici
attualmente segnalati, con diminuzione dei disturbi schizofrenici e
67
aumento dei bipolari e dei disturbi di personalità. Ciò si deve ad un
cambiamento dei criteri diagnostici? Ad un mutamento dei contesti
sociali e della percezione del malessere psichico? Ad altri fattori
ancora? Ha additato i rischi di una “psichiatrizzazione” che individui
come disturbo reazioni semplicemente umane a motivazione
individuale o sociale, conducendo ad iniziative terapeutiche improprie
in situazioni che sarebbe meglio non sottoporre a cure mediche.
Analogo rischio si ravvisa nel Decreto Marino che affida senz’altro il
problema degli internati non più pericolosi ai Dipartimenti di Salute
Mentale anziché agli organi del Servizio Sanitario Nazionale; questa
seconda alternativa avrebbe opportunamente evitato un eccesso di
delega.
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Maria Laura Fadda, ricordato che nel campo s’intrecciano diverse
disposizioni non sempre ben armonizzabili, ha fornito dati sull’elevata
concentrazione di disturbi psichici fra i detenuti nei 18 carceri
lombardi: 100 pazienti psicotici, 153 bipolari, 428 disturbi di
personalità; ciò che rende indifferibile l’istituzione di reparti di
Osservazione Psichiatrica Intracarcerari. Si sta creando in Lombardia la
rete di piccole strutture previste dalla legge. Anche se la gestione sarà
sanitaria, non verrà meno la funzione di controllo del Magistrato di
Sorveglianza.
Maggi ha riferito sull’intervento dello Psichiatra nella Casa
Circondariale di Genova Marassi, intervento che supera la tradizionale
attività di consulenza per vedere un intervento integrato del DSM,
scorporato dalla medicina penitenziaria. Il Reparto di Osservazione
Psichiatrica, vicino all’attivazione, è destinato a sostituire l’ex “alta
sorveglianza” per i detenuti a rischio di acting anche di tipo autolesivo.
L’utenza prevista va dalle situazioni borderline fino alle patologie
psichiatriche maggiori in fase non di crisi acuta: per quest’ultima
evenienza si mantiene ovviamente la competenza del SPDC.
Graziella Giusto ha aggiornato i presenti sull’attività della Regione
Liguria che intende creare un sistema integrato. Per la Sanità
Penitenziaria viene attivato un Osservatorio, e si mette a punto un
programma triennale per la salute in carcere, di cui farà parte il
Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze. Ha confermato prossimo
all’attivazione il Reparto di Osservazione Psichiatrica nel Carcere di
Marassi. Quanto all’attuazione delle nuove disposizioni sui pazienti
autori di reato finora destinati agli OPG, già da un anno
l’Amministrazione ha emesso delibera sulla riorganizzazione del
settore. L’oratrice dà atto che già le attuali strutture comunitarie a
gestione pubblica e privata, non specificamente dedicate a pazienti
autori di reato, formulano e attuano progetti personalizzati per tali
soggetti. Verrà comunque attivata una struttura dedicata, definita come
“Servizio di stabilizzazione” in vista di una successiva presa in carico
territoriale. Collocata nell’area spezzina, consterà di due moduli di
diversa intensità terapeutica, per complessivi 25 posti.
L’incontro ha visto un’ampia e viva partecipazione di operatori del
Diritto e della Salute Mentale; è stata quindi, come auspicato dalla
promotrice dottoressa Aschero, un’importante occasione d’incontro
interdisciplinare sul piano teorico e operativo, importante come tale e
per gli attualissimi temi trattati. Credo che debba costituire non un
punto di arrivo ma l’inizio di un’approfondita discussione su un
cambiamento che come tale era da tempo atteso ma che va monitorato
e, nei limiti del possibile, pilotato affinché, evitando soluzioni
“gattopardesche” conduca invece ad un reale profondo cambiamento
nella futura realtà operativa.
Nota: in una successiva intervista il Ministro annuncia l’intenzione di prorogare i termini per la
definitiva chiusura degli OPG.
69
PAROLE CHIAVE
Infermità mentale, incapacità d’intendere
psichiatrico giudiziario, riforma, pericolosità.
e
volere,
ospedale
KEY WORDS
Mental disorder, understanding and willing incapacity, judiciary mental
hospital, reform bill, dangerousness.
70
71
Roberta Antonello, Paola Bartolini
Il cuoco e l’informatica: ma che razza di menù!!
Premessa
Ricordo la televisione e il mio cuoco che andava dietro per veder se
c’era qualcuno. Avevo dieci anni. Ricordo il mio primo cellulare visto
con sospetto e anche con critica, esibizione d’importanza (un breve
sketch televisivo di non so chi faceva vedere un ladro che fuggiva e il
suono del suo cellulare lo faceva beccare).
Sono passati più di vent’anni da quel 1990 in cui iniziava la vera
rivoluzione informatica, l’introduzione di mezzi comunicativi
completamente diversi, dai fax alle email, poi internet, la rete virtuale.
Ora è nel nostro contesto, nessuna battuta ma molte perplessità, pareri
diversi, comunicazioni d’allarme o d’entusiasmo, condanne o sentenze
che portano a ritenere ancora confusa la comprensione di qualcosa che
ormai appartiene al nostro mondo e non possiamo scotomizzare.
Insomma c’è confusione, mentre i nostri nipoti navigano come noi
accendiamo la luce.
Cos’ha cambiato questa rivoluzione tecnologica, che impatto ha
portato su chi l’ha vissuta e la vive nel quotidiano?
Ci interroghiamo chiedendolo a tre persone diverse per età, sesso e
professione. E sperando di andare OLTRE, capire di più e dare spunti
di riflessione, non di giudizio. La rete c’è, conosciamola meglio.

Psichiatra, Supervisore Comunità gruppo “Redancia”.
Psichiatra, CT Villa del Principe (GE).

73
Prima intervista
74
Maria è una signora di quarantun anni, sposata con due figlie di otto e
dieci anni. Il marito è medico, è laureata in lettere, ha avuto
un’educazione borghese con molti stimoli, ma anche molta richiesta
d’indipendenza precoce. Lavora nella preparazione di eventi, dopo
altre esperienze lavorative nel campo della moda, ed è una madre
vicina alle figlie. Ha ampiamente utilizzato e utilizza internet per lavoro.
Ma il suo utilizzo personale oltre al lavoro è limitato, né sembra aver
modificato le sue abitudini, portato risorse culturali. È uno svago, un
mezzo comodo per i propri hobbies, poche comunicazioni su facebook,
uso per le foto e le email. Le bimbe rispondono a questo modello,
usano, la maggiore soprattutto, il loro Mac per le foto e lo scambio
delle stesse con le amiche, la condivisione del loro hobby preferito, lo
sci, si messaggiano su questi temi, sulla scuola. La madre è tranquilla
sull’assoluta innocuità del mezzo. Sono disinvolte nelle applicazioni
che interessano a loro.
Diverso è il rapporto con il cellulare per Maria. L’uso del telefonino a
partire dai vent’anni d’età diventa elemento ansiogeno, come riferisce.
È collegato alla paura. Il controllo che le permette il telefonino sulle
persone significative le causa angoscia: se qualcuno non risponde al
cellulare è morto. Sia il marito che la madre devono comunicare i loro
spostamenti e rispondere sempre.
Non dà il cellulare alle figlie per la propria angoscia, ma si contraddice:
quando è utile per loro lo dà (ad esempio in gite sciistiche). L’aspetto è
criticato e cerca di contenere il contatto telefonico con la madre ed il
marito. Questa è la componente negativa insieme al non poterne fare a
meno.
L’aspetto della messaggistica telefonica è prevalente, è una scelta
rispetto al contatto telefonico verbale. Maria usa molti aggettivi:
intrigante, ambiguo, misterioso, “è come un gioco”. Il messaggio è
unilaterale. Ci mette dentro la sfida, il mettere davanti all’altro cose che
può capire o non capire. C’è anche la paura che un dialogo non le
permetta di esprimere il suo pensiero fino in fondo, c’è la paura di non
essere capita. Dice “io sono molto aggressiva”, evitare il dialogo
telefonico tramite un sms potrebbe permetterle da una parte di essere
molto aggressiva per l’assenza del limite posto dall’altro, dall’altra
potrebbe essere un modo per contenere e limitare l’aggressività che
l’altro stimola e di esprimere il proprio pensiero con maggior
riflessività. La messaggistica l’aiuta perché scrivere serve per
mantenere, per arginare la paura di perdere il suo pensiero, così come
le foto la tranquillizzano dal perdere la memoria. La vista è il senso
prevalente, che rassicura sulla perdita. “Per me scrivere è catartico”
(oggetto senza resistenza) dove sciolgo i nodi ed esplodo
nell’aggressività come nell’amore. Ma è anche rifiuto e paura del
dialogo, “tappo la bocca all’altro e la tappo un po’ anche a me”.
In tutta l’intervista Maria è collaborante, sincera, cerca le esatte parole
per esprimere i vari sentimenti che accompagnano le stesse parole.
Mostra flessibilità nei giudizi ed interesse.
75
Seconda intervista
Francesco, professore universitario, sessant’anni, è da sempre
all’avanguardia nell’uso del mezzo informatico nella comunicazione, il
suo utilizzo è prevalentemente culturale. Gli preme sottolineare il
potenziale culturale di cui è entusiasta.
Fondatore di uno dei primi siti specializzati sulla psichiatria, s’interessa
da sempre di aspetti psicologici e sociali delle nuove tecnologie. Molto
disponibile, è interessato all’argomento. Subito constata che ormai il
mondo web è un ambiente che fa parte della realtà che ci circonda, di
cui non possiamo non tenere conto in senso fenomenologico. Nel
corso dell’intervista si definisce in due modi: sia l’intellettuale, sia lo
psichiatra attento alla psicopatologia. Come psichiatra si augura che il
DSM futuro consideri a parte la psicopatologia legata alla realtà
76
virtuale. Questa è una realtà che dobbiamo considerare come psichiatri
per capire il contesto in cui il paziente vive. Così come tutti noi non
possiamo scotomizzare questo contesto che ci appartiene come realtà
che ci circonda.
Bill Gates affermava negli anni Ottanta che nel virtuale “l’oggetto è
senza resistenza”. Riprendendo il concetto di Jaspers, che la realtà sta
nella coscienza dell’essere come tale, non possiamo oggi non includervi
il mondo virtuale. Francesco afferma che, mentre per Freud e la
psicoanalisi l’oggetto è qualcosa di diverso da me, esterno, qui l’oggetto
è parte di me, non è solo una rappresentazione, è un oggetto: la mia
rappresentazione nel mondo virtuale è qualcosa che fa parte di me, non
è un oggetto esterno o altro da me, ma è in me, fa parte di me.
Francesco dice che il dialogo non è unilaterale ma possibile. Insiste
sull’importanza di conoscere i codici della comunicazione virtuale,
proprio perché ritiene inarrestabile questa rivoluzione tecnologica,
invoca l’educazione dei giovani a fornire loro la giusta patente per
entrare nel web. Condanna chi se ne sente fuori perché rischia un
apartheid, un danno a sé e alla società, tanto più se è un intellettuale, un
maestro, un riferimento culturale.
Questa rivoluzione tecnologica inarrestabile per forza coinvolgerà tutti
e determinerà una rivoluzione sociale direttamente proporzionale
all’acquisizione di molti. Béla Kun dice che le rivoluzioni sociali
avvengono quando s’impone una rivoluzione tecnologica, in questo
caso dev’essere acquisita da molti, altrimenti diventa strumento di
controllo da parte di pochi. L’interesse economico prevarrà sulla
cultura e sulla valenza democratica del mezzo.
Come psichiatra Francesco affronta anche i pericoli, la tossicità, gli
effetti psicopatologici dell’utilizzo di questa tecnologia. La possibilità di
costruirsi un falso sé, il rischio di scissione-fusione, e la dipendenza.
Ovviamente tutti questi aspetti iatrogeni non dipendono dal mezzo, ma
dalla personalità di chi vi accede e anche dall’invasione di modi sempre
più “easy”, semplificati, per accedervi “senza patente”.
Francesco sottolinea nuovamente quanto sia importante conoscere i
codici della comunicazione per non essere esposto ai rischi di tossicità.
Se al bambino insegniamo solo come accedere ai siti, sicuramente non
lo aiutiamo e tuteliamo. Non potrà farne un uso corretto, completo,
vedrà un mondo parziale che più gli è facile cogliere. È importante che
la scuola insegni i codici e non avvengano usi più semplicistici. La
conseguenza e il pericolo sono la manipolazione da parte di chi gestisce
la rete. Ai detentori del potere economico fa gioco un popolo di
teledipendenti via internet piuttosto che un popolo attivo attraverso
internet. Il potere economico ha bisogno dei “superficialoni”!
La conclusione della densa intervista è che tre sono i possibili rischi: la
patologia; l’uso del potere da parte di pochi; l’abbassamento culturale
attraverso la diffusione di un uso di livello limitato.
Terza intervista
77
Luigi, cinquantatré anni, è un giornalista, responsabile di una testata del
quotidiano forse più diffuso in Italia. Ci accoglie con il suo cellulare in
mano da cui non riesce a momenti a togliere lo sguardo perché le email
dei colleghi lo raggiungono.
Da un elogio dell’oggetto, “sollievo” che permetteva di non dover
lasciare in ogni luogo il proprio nome per essere raggiungibile
(ricordate l’amico di Woody Allen in “Provaci ancora Sam”, impegnato
in ambito economico, in particolare in Borsa? Esilarante esempio della
schiavitù telefonica in anteprima), dalla gioia di potersi muovere, fare
una passeggiata, andare in bici, passa al vederlo diventare man mano
un invasore.
Luigi viene raggiunto a sproposito, in maniera maleducata, la gente non
si presenta ma impone la sua presenza “Luigi senti, dimmi…” al posto
di “scusi la disturbo, sono Pinco è Luigi? È libero?”.
Certo è indispensabile, il suo lavoro lo richiede.
78
Esiste un’invasione necessaria, utile, quella che anticipa una notizia,
permette di progettare il lavoro del lunedì, ma queste invasioni utili
hanno creato la dipendenza. Non esce senza telefono e questo gli
dispiace. Eppure è utile, indispensabile.
Luigi si muove con rispetto verso gli altri, verso i familiari, ne fa un uso
affettivo e discreto. Si controlla. Risponde immediatamente agli sms dei
figli perché lo sentano affettuoso, loro invece aspettano, registrano
l’importanza e rispondono in tempi diversi. Si colpevolizza perché
l’occhio corre sui messaggi anche durante l’intervista. Eppure sta
lavorando. Non segue un suo piacere.
Nel corso dell’intervista spiega come ha sempre voluto controllare i
suoi bisogni ed impulsi, gustando la sua capacità di saper attendere la
soddisfazione di un bisogno, questo è in contrasto con il modo
prepotente dell’invasione ed è anche un’offesa alla sua attenzione.
Insomma il fastidio di averne bisogno, lui che controlla i suoi bisogni è
messo in corner da quell’oggetto.
Come una volta, la telefonata ha per Luigi una sua importanza, una
telefonata persa è associata ad una cosa negativa. La sua età lo rimanda
a quando il suono del telefono fisso poneva il quesito: cos’è successo?
Qualcosa di grave? Il cellulare ha rotto questa connessione per i
giovani, non per lui. L’oggetto è ansiogeno, permette di raggiungere i
familiari ma anche di rimanere sospesi per una non risposta.
Il cellulare impone un’accelerazione del pensiero, si dice abituato per
mestiere, ma aggiunge anche che le comunicazioni degli stolti che non
sanno filtrare le notizie importanti fanno cortocircuitare il cervello. Il
telefono è una trasmissione di una comunicazione spesso non
elaborata.
Il tablet rappresenta per il giornalista di nuovo un oggetto affascinante e
fastidioso “sul tablet faccio tutto, leggo, gioco, guardo mail, TV, riesco a
fare tutto e non mi doso più… mentre leggo un libro vado a vedere
cosa succede nel mondo, guardo questo, quell’altro, un minestrone
senza sapere, senza sapore, lapsus!”.
L’analogia con lo zapping televisivo lo porta a considerare la funzione
del giornale: internet dà l’informazione autonomamente, il giornale è
fatto da chi sceglie per te la notizia. Il taglio della notizia.
E anche il passato gli viene come stimolo, non si piega al computer per
l’impaginazione, forza il computer, forza l’impaginazione perché ha
conosciuto la base, il lavoro dei tipografi. Questo manca ai giovani.
Il tablet oggetto affascinante l’ha costretto ad un ripensamento, alle sei
di mattina ha già letto le testate giornalistiche, corre ma per cosa!?
Riflette sugli effetti tossici.
L’effetto perverso della rete virtuale rende simile il lavoro dell’inviato
speciale a quello che copia dieci minuti dopo, il giornalista non pensa a
quello che sta facendo, perde la sua funzione di dare un’informazione
“buona” che suscita dubbi, che fa riflettere, la sua funzione di
intellettuale, internet ha portato all’equivoco che tutto ciò che non è
mediato è vero.
“Le fotografie non dicono bugie, ma i bugiardi sanno fotografare
benissimo” cita.
Il linguaggio di internet tanto è più semplice, tanto più non dà, non va in
profondità. E vi accedono i più sprovveduti con un autovoyerismo
pericoloso (facebook), se apparentemente i mezzi di comunicazione
aumentano la comunicazione, l’individuo è sempre più solo in un non
dialogo.
L’email, nel contesto aziendale, può essere autoritaria, la comunicazione
di servizio per email ha un altro impatto rispetto alla discussione. È un
diktat. Non posso più dire “guarda il pezzo è sbagliato, siediti e ne
parliamo” no, i tempi rapidi e le modalità di risposta imposti dall’uso
della posta elettronica mi permette solo di correggerlo e di non
spiegare nulla. Risbaglierà. Il dialogo è contratto, diminuito, si esegue
senza troppe domande.
Insomma, invece di usare la velocità del mezzo per migliorare la
qualità, la si usa per aumentare la produzione. Il tempo risparmiato è
buttato.
79
L’intervista con Luigi, sensibile e gentile, finisce in un’atmosfera un po’
velata dalla malinconia, il rimpianto di tempi più lenti, la necessità di
dominare l’oggetto, la paura dell’onnipotenza che l’oggetto può dare e
di un’accelerazione mortifera per il pensiero.
Conclusioni
80
Parlare, dialogare, esprimere le proprie emozioni, esporsi all’attacco,
mostrare la propria rabbia distruttiva o vendicativa, non è mai stata
cosa semplice per molti. Poco importa se l’oggetto che mediava questo
era il diario segreto, la lettera anonima o la lettera non spedita, lettera e
diario non erano oggetti negativi di per sé, lo diventavano se
prendevano il posto alla capacità di comunicare la propria sofferenza o
i propri sentimenti totalmente. Se diventavano l’unico sfogo. E
intrappolavano in una solitudine senza confronto. E preludevano a
“vado a prendere le sigarette… torno” o “basta vado a vivere da mia
madre” o atti molto più cruenti come la cronaca ci sbatte in faccia ogni
giorno.
Il confronto può essere facilitato dall’uso della scrittura, degli sms, solo
se come premesse, pensiero solitario verso il potersi spiegare meglio
all’altro. In un dialogo. Corre Maria il rischio di fermarsi per paura?
Scontro o abbandono, sensazione che mai nessuno capirà quello che
prova veramente e lei stessa se lo deve imprimere con foto, immagini e
scritti per paura di perdersi, o meglio non essere riconosciuta dall’altro.
Il cellulare diventa la rassicurazione che l’altro è ancora vivo, e non a
caso è la madre o il marito che suscitano l’angoscia di morte. Le figlie
no, (nell’intervista dice di darlo alla bimba quando va a sciare perché
possa essere d’aiuto alla stessa).
Non diversamente il Professore parla chiaramente di un effetto tossico
di cui la psicopatologia dovrebbe interessarsi quando l’oggetto diventa
fonte di scissione: io sono quello che rappresento nel mio mondo
virtuale, io sono quello che stravince, o uccide, o conquista, mentre
continuo ad essere un altro nel mondo reale, ma non come Batman
che sapeva di essere due persone, no, sono scisso, confuso,
imprevedibile e posso fondermi con la mia rappresentazione-oggetto
nel mondo virtuale fino a devastare il mondo reale con comportamenti
che si collegano a questa patologica fusione (penso agli omicidi
americani nelle scuole preceduti da ampia documentazione del tipo nel
suo sito web). O posso coltivare un’immagine di me diversa, una sorta
di falso sé sostenuta dalla rete, dalle comunicazioni in rete, solitudine,
assenza di contatto, assenza di risposte emotive, solo quelle che
provoco con la mia rappresentazione oggetto falso.
E arriviamo alla dipendenza che sembra preoccupare tutti. Il
Professore ovviamente la fa riferire alla personalità dell’individuo, cosa
indiscutibile, ma la facilitazione alla dipendenza sembra nelle interviste
colpire in fondo i più anziani, affascinati da questi mezzi, da questa
grande possibilità. Luigi ne è preoccupato, non Maria.
Cosa accomuna le interviste? La spiegazione del Professore su quanto
il potere economico avrà in mano la possibilità di fare di una
rivoluzione tecnologica potenzialmente portatrice di un cambiamento
sociale, un ulteriore mezzo invece per non essere uno strumento
democratico ma di manipolazione ci riporta alla nostra vecchia TV, che
trasmetteva sceneggiati di opere letterarie ad italiani che negli anni ‘5060 non le conoscevano, trasmissioni come “Non è mai troppo tardi” o
“La donna che lavora”, informazioni… vediamo oggi cos’è la TV!! Ma
il Professore è anche il portavoce delle enormi possibilità culturali che
il mezzo permette e permetterà in modo democratico.
Accomuna una forte preoccupazione che questa rivoluzione
tecnologica possa portare certo ad un ampiamento della nostra cultura,
della nostra capacità di riflettere, pensare, inventare, scambiare opinioni
e/o invece accelerarci in un vuoto senza pensiero.
Sì i nostri nipoti navigano come noi accendiamo la luce ma verso
dove?
81
Sta a noi pensarci e, seguendo il consiglio del Professore, comunque
tenere in testa una realtà che è nel nostro contesto, che ci appartiene.
O forse accompagnare il mondo web, e questa è la nostra riflessione
conclusiva, seguirlo passo, passo, senza eludere, scotomizzare, non
avere nessuna certezza, conservarci il nostro pensiero, il nostro
dramma, il nostro personale specchio degli eventi.
Commento
82
Tale lavoro è molto stimolante pur riguardando solo, in via diretta, persone che sono
“sorprese” dall’avvento del mezzo tecnologico e da esso “catturate”. Mi consente di
pensare che chi, come Maria, ha problemi di controllo e angosce di perdita si
confronterà con cellulare ed email modificando le difese dall’angoscia con mezzi che,
ambiguamente, per la loro straordinarietà, possono rinforzarla incessantemente.
Allora cellulare-umanizzato cui demandiamo la nostra sicurezza. Non sono
ovviamente cambiate le forme dell’angoscia, sono presenti altri strumenti per
potenziarla e trasformarne la patoplastica.
Quello che indubbiamente paghiamo è un ingresso “spregiudicato” nella vita altrui e
uno “pseudo-contatto”, virtuale, con la liberazione di emozioni di ogni tipo, protetti
da anonimato, assenza del motore empatico o comunque dal contatto con
l’esperienza emotiva “reale” dell’altro, cosa che impedisce la creazione del “campo”
di cui parlano i Baranger. Ancora, la rapidità di accesso e di risposta inibisce
profondamente, spesso, uno “spazio-tempo per creare i pensieri”, la “triangolazione”
di cui parla Britton, tra gli altri.
Carmelo Conforto
Caro Lettore,
lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed agevolare il dialogo tra
i professionisti delle scienze umane, con particolare riguardo all’area della Psichiatria.
A tale proposito, la Segreteria Scientifica e di Redazione invita i Lettori ad inviare elaborati, loro o dei
loro collaboratori, dai quali poter trarre nuovi spunti di dialogo e riflessione e che possano contribuire ad
un arricchimento dei temi trattati.
La pubblicazione di un articolo sulla rivista è, in ogni caso, rigorosamente subordinata al parere positivo
di referee esterni al Comitato Editoriale.
Note per gli Autori
1.
Nel proporre il proprio scritto alla Segreteria Scientifica e di Redazione, l’Autore dovrà specificare
che si tratta di un lavoro inedito e che intende pubblicarlo esclusivamente sulla rivista “Il Vaso di
Pandora”.
2.
Preferibilmente, l’elaborato proposto dovrà essere inviato tramite mail come file di WORD allegato
agli indirizzi di posta elettronica: [email protected] e [email protected]
Qualora ciò non fosse possibile, l’Autore potrà inviare il file WORD, salvato su CD, al seguente recapito:
Segreteria de “Il Vaso di Pandora”, Via Montegrappa 43 – 17019 Varazze (SV), all’attenzione della
Dott.ssa Federica Olivieri
84
3.
Ogni testo dovrà essere accompagnato da:
 Nome e Cognome per esteso degli Autori;
 una breve nota biografica relativa ad ognuno (la Segreteria si fa carico di omettere questi dati dalle
copie che invia ai referee per la valutazione);
 almeno un indirizzo postale a cui i lettori possano inviare eventuali loro comunicazioni agli autori, un
indirizzo di posta elettronica e un numero di telefono per eventuali comunicazioni della Segreteria;
 titolo in italiano ed inglese;
 alcune parole chiave in Italiano ed Inglese;
 un breve riassunto in Italiano ed Inglese;
4.
Qualora l’elaborato si sia ispirato ad una relazione presentata ad un Convegno (è questo il caso
degli “estratti”), dovrà comunque essere accompagnato da un breve riassunto, sia in Italiano che in
Inglese e dalle parole chiave.
5.
Le note dovranno essere ridotte al minimo e numerate progressivamente.
6.
Le citazioni, accuratamente controllate, dovranno apparire tra virgolette doppie (anche le virgolette
usate per fini diversi dalla citazione dovranno essere doppie). I corsivi originali dovranno essere
sottolineati (o meglio riportati in corsivo); i corsivi aggiunti dovranno essere indicati tra parentesi con:
(corsivo aggiunto), oppure (sottolineatura mia). Ogni aggiunta dell’Autore dell’articolo dovrà essere
posta in parentesi quadra; per esempio. “egli [S. Freud] intendeva”. Le omissioni nel testo verranno
segnalate nel seguente modo: (…). Parole o frasi in lingua diversa dall’italiano saranno senza virgolette,
ma sottolineate (o scritte in corsivo) e seguite, nel caso, dalla traduzione tra parentesi o in nota.
7.
I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente con il cognome
dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle pagine: (Freud 1921, p. 315), ma
(Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve: (Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se
gli Autori sono due, appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due:
(Racamier et al. 1981, p.184).
8.
I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di articoli apparsi in
riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento bibliografico nel testo dovrà
corrispondere una voce nella bibliografia finale.
9.
La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve contenere
unicamente gli Autori citati nello scritto.
La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello:
- Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford.
Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo sottolineato,
editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche la citazione del titolo della
traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome dell’Autore, figuri la data di uscita del lavoro in
originale. La data della traduzione va in fondo. Es.:
- Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983.
Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con ripetizione del nome
dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica delle opere:
- Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation. S.E., 19.
- Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19.
Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il primo seguito da: et
al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore apparirà in primo luogo come Autore
singolo.
La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo questo modello:
- Wittember I. (1975): “Depressione primaria dell’autismo. John”. In D. Meltzer et al., Esplorazioni
sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977.
Oppure, quando l’Autore è lo stesso:
- Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In First Contributions
to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952
La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo modello:
- Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp. 162-168.
10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su singolo foglio e
numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in fogli singoli, dovranno essere
numerate in cifre romane. Sia le tavole, sia l’iconografia dovranno essere richiamate nel testo ed essere
accompagnate da una legenda esplicativa.
La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori piccole correzioni,
qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i testi stessi allo stile della rivista. Ogni
qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà immediata comunicazione.
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Centro Terapeutico “Villa del Principe”
Via Peschiera 6 – 16122 Genova (GE)
Tel. e Fax 010.8376374 – email: [email protected]
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Direttore Sanitario:
Dott. Marco Massa
Disturbi Alimentari
Responsabile di Presidio:
Prof. Antonio Maria Ferro
Direttore Scientifico:
Prof. Giovanni Giusto
Direttore di Comunità:
Dott. Luca Gavazza
Consulente Psichiatra:
Dott.ssa Paola Bartolini
Coordinatori:
Dott.ssa Cristina Foppiani
Dott. Lorenzo Maura
Il Centro Terapeutico “Villa del Principe” si trova a Genova in pieno
centro cittadino, e occupa un’intera palazzina di tre piani con giardino
interno. Offre servizi di tipo residenziale e semiresidenziale per il
trattamento delle patologie psichiatriche, servizi strutturati all’interno di
tre prevalenti aree d’intervento: riabilitazione psicosociale di gravi
malattie psichiatriche sul modello della Comunità Terapeutica,
trattamento di riabilitazione intensiva per i Disturbi Alimentari e
programmi brevi di cura e riabilitazione per pazienti post-acuti,
provenienti dai reparti psichiatrici degli ospedali cittadini (funzione
svolta come Struttura Extraospedaliera Post-Acuti, nell’ambito del
Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL 3 Genovese). La struttura è in
grado di accogliere fino a 22 ospiti in regime residenziale e 15 in regime
di Centro Diurno.
Il percorso di cura del paziente si sviluppa in varie fasi: invio da parte
dei Servizi Territoriali competenti, accoglienza con formulazione di un
progetto terapeutico condiviso. L’attuazione del trattamento si avvale
di modelli d’intervento diversi, in particolare i pazienti affetti da
Disturbo Alimentare hanno spazi autonomi e programmi di
trattamento specifici, e si svolge con verifiche periodiche del progetto.
Vengono anche effettuati studi di follow-up a medio-lungo termine.
Il Centro, nel complesso, si propone di offrire un modello d’intervento
finalizzato alla presa in carico integrata, alla cura e alla riabilitazione del
paziente con patologia psichiatrica. In quanto struttura intermedia,
Villa del Principe si pone come possibile punto di passaggio tra il
ricovero ospedaliero e il regime di trattamento ambulatoriale. Il
concetto di struttura intermedia fa anche riferimento alla possibilità di
fornire uno spazio che potremmo definire “transizionale”, vale a dire
un luogo dove saggiare le residue potenzialità della persona e fornirne
stimoli “ottimali” per favorire il reinserimento sociale e lavorativo.
Possiamo considerare come primo obiettivo quello di creare una
“residenza emotiva” all’interno della quale si possa articolare il
percorso terapeutico specifico; a tal fine gli operatori sono formati a
gestire con consapevolezza elementi relazionali e affettivi, con
particolare riguardo all’analisi dei bisogni specifici del paziente.
L’équipe si caratterizza per un alto livello di preparazione specifica, con
formazione universitaria e specializzazione post-lauream. La formazione
prosegue in itinere attraverso la partecipazione a seminari e convegni,
la supervisione individuale e di gruppo, l’eventuale analisi personale e
altre occasioni di studio e confronto. L’équipe è composta da varie
figure professionali: psichiatri, psicologi psicoterapeuti, infermieri
professionali, tecnici della riabilitazione psichiatrica e dietiste.
L’intervento comunitario proposto dall’équipe si fonda sul presupposto
che la terapia si attua nel gruppo e attraverso il gruppo: accanto perciò
agli interventi individuali, il Centro Terapeutico utilizza strumenti che
hanno a che fare con la residenzialità, la partecipazione alla vita
comunitaria, l’appartenenza ad un gruppo.
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Centro Terapeutico “Villa del Principe”