(2008) Normalità e nuove patologie rappresentate dalle

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(2008) Normalità e nuove patologie rappresentate dalle nuove dipendenze
Marco RivaSimposio- anno 4 N.1 aprile 2008
Nel mio lavoro di psichiatra, nel mio essere psichiatra ho sviluppato una dipendenza, forse non
nuova ma certamente presente oggi tra gli psichiatri. Mi sto riferendo alla necessità, che spesso
sento, di fare diagnosi e, in linea più generale, alla necessità di demarcare, di trovare i limiti tra
normale e patologico. Di fatto questa faccenda delle nuove dipendenze viene oggi affrontata
con un apparato diagnostico definitorio e definitivo che permette di risolvere con una linea di
demarcazione la differenza tra le dipendenze fisiologiche e patologiche prima e poi con altre
linee definitorie, le differenze tra le varie dipendenze.
Così funziona oggi, molto più che in altri tempi, la psichiatria. Tant’è che il suo strumento
diagnostico, cioè il DSM IV (e tra non molto nascerà il quintogenito), è appunto caratterizzato da
un’ottica dicotomica cioè dalla presenza o assenza di sintomi. Lo psichiatra che fa diagnosi non
sbaglia più, un sintomo c’è oppure non c’è, si sommano i sintomi e la sindrome viene prodotta
con i suoi limiti rassicuranti. Mi riferisco ad esempio ai criteri diagnostici per il gioco d’azzardo
patologico o per lo shopping compulsivo.
Purtroppo queste categorizzazioni invece che rassicurarmi e darmi soddisfazione mi agitano, mi
sento fobicizzato, soffocato in impedimenti, automatizzato da un qualche cosa di chiuso in una
ripetitività iperconcreta ma al contempo non reale. Allora cerco rassicurazioni differenti dalle
quali poter dipendere in maniera non patologica cioè non obbligato da automatismi ripetitivi.
Ecco penso alle dipendenze fisiologiche, come ad esempio la reciproca e fisiologica e sana
dipendenza del bambino dalla madre o la necessaria dipendenza transferale ed evolutiva del
paziente dall’analista e controtransferale in quanto co-costruttiva dell’analista dal paziente e
così via. In questo senso mi ritrovo allora a pensare che la dipendenza è fisiologica quando è
caratterizzata da possibilità evolutive verso l’autonomia mentre la dipendenza diventa
patologica quando tende alla ripetizione cioè al mantenimento dell’automatismo che la
sottende. Questo punto di vista meno nosografico, e in un certo senso dinamico, mi fa sentire
meglio, la soluzione del problema tra la dipendenza patologica e quella fisiologica mi permette
di sentirmi più adeguato al mio ruolo di psichiatra.
Con questo punto di vista ri-guardo allora il mondo. Guardo il mondo milanese. Forte della mia
capacità meta-osservativa do uno sguardo antropologico al mondo che abito fuori dal mio
studio. Lì però ricompaiono i miei problemi psicopatologici cioè ricompare la mia astinenza da
diagnosi. Forse delirando vedo il mondo che noi abitiamo, un mondo, almeno quello milanese,
popolato da ripetizioni cioè riproduzioni di stili cognitivi, comportamentali e vissuti affettivi cioè
da stili automatici e non evolutivi. Ho la sensazione di incontrare stili di vita tra loro omogenei,
corpi resi omogenei e soprattutto menti adese a modelli, mode e feticci. Allucinato inizio a
vedere automi, ”analoghi” dell'uomo cioè dei doppi automatizzati. Per curarmi da questi vissuti
de-realizzanti cerco allora la normalità. Eccola: la normalità può essere definita in senso
statistico come frequenza, cioè il normale è il più frequente, oppure può essere definita in senso
funzionale quando descrive la salute mentale cioè il normale corrisponde al sano. Ma queste
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definizioni strutturano definitivamente il mio delirio in quanto mi mostrano quanto oggi a Milano
la salute mentale (normalità funzionale) non sia la assolutamente la condizione più frequente.
La “normalità statistica” milanese è sempre più caratterizzata dall’uso normale di televisione, di
video giochi, di telefono (sms compresi), di giochi di ruolo, di sesso “da consumo”, di cocaina a
“basso dosaggio”, di anfetaminici in discoteca, di gas butani e di cannabinoidi tra gli
adolescenti. Questi fenomeni normali sono in evidente “continuum” con patologie manifeste e
tipizzate quali le dipendenze da droghe classiche, da nuove droghe, da psicofarmaci, da alcool
e dipendenze “without drugs” cioé da cibo, da acquisto, da gioco d’azzardo, da sesso,
televisione, e internet. Patologie queste, considerate
in comorbidità con altre patologie quali i disturbi d’ansia, depressivi e i disturbi psicotici peraltro
tutte sempre più correlate con i disturbi di personalità.
Mi ritrovo immerso nella certezza delirante o forse no di abitare una normalità marcatamente
patologica. Aspetto a curarmi con un anti-psicotico, magari con un atipico, aspetto a cancellare
il delirio. Da psicoterapeuta provo a condividere il mondo del paziente delirante, cioè di me
stesso, e da lì dentro provo a ri-orientarmi.
Inadeguatezza è la prima parola che trovo. La mia inadeguatezza, il mio narcisismo ferito
rappresentano il primo barlume di orientamento. Inadeguatezza è lo stato d’animo che
percepisco in me e attorno a me. Inadeguatezza rispetto a bisogni costantemente non appagati.
Bisogni impellenti in grado di produrre ansia-angoscia. Poi trovo il vuoto. Un vuoto da ritiri di tipo
autistico e da connesse retrazioni dalle relazioni interpersonali. Poi vedo anche i rimedi. Rimedi
all’inadeguatezza, all’angoscia, al vuoto relazionale, rimedi immediatamente disponibili. Vedo
cioè le dipendenze. Il rimedio per me è trovare configuranti parole psichiatriche dalle quali come
vi ho detto sono dipendente.
Vi propongo queste parole: “Sindrome da bisogno cronico” all’interno delle quali ripongo:
Sintomi principali: difficoltà di empatia, depressione narcisistica, ansia-angoscia
Sintomi secondari: dipendenze da “qualsiasicosa”
Il tratto caratteristico della mancanza di empatia è l’indifferenza, che esprime una dinamica di
annullamento della realtà umana ed è il prodotto di una tendenza alla omologazione cioè
all’assunzione di un qualche ruolo. Siamo in grado di adeguarci a vari ruoli ma incapaci di
cogliere e soprattutto di vivere le differenze dagli altri cioè di relazionarci empaticamente con gli
altri. Tendiamo a costituirci una visione della realtà operativa e funzionale grazie all’uniformarci
alle regole esteriori cioé ad un qualche tipo di formalità. L’alexitimia, cioé l’incapacità a
riconoscere le proprie emozioni, e la mancanza di empatia ovvero la difficoltà a mettersi nei
panni dell’altro sono gli elementi costantemente sottesi.
La differenza tra assunzione di ruolo (role taking) e l’empatia è nell’essere, quest’ultima,
un’esperienza affettiva: l’empatia è prima di tutto una reazione emozionale, uno stato di
risonanza congruente con le emozioni dell'altro, è sentire ciò che l'altro sente, è la capacità di
immedesimarsi con gli stati d'animo e con i pensieri delle altre persone sulla base della
comprensione dei loro segnali emozionali, dell'assunzione della loro prospettiva soggettiva e
della condivisione dei loro sentimenti.
Al contempo con il termine depressione narcisistica intendo configurazioni caratterizzate da
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sintomi depressivi determinati da un calo dell’autostima ovvero da sentimenti di inadeguatezza
e di vergogna. In questi soggetti il senso di colpa, cioè la convinzione di essere cattivi, è
sostituito dalla vergogna, cioè dalla convinzione di essere considerati cattivi o sbagliati. La
relazione con l”altro” è pertanto esclusivamente funzionale al proprio soddisfacimento e
all’evitamento della vergogna.
La possibilità di pensare, cioé la possibilità di elaborare le emozioni e di formare legami
simbolici, è impedita o ridotta e sostituita da “qualcosa di segno opposto” al pensiero. E’ questa
un’attività apparentemente somigliante al pensare dove i modelli possono essere acquisiti ma
non elaborati, sono “modi di fare” costanti e ripetitivi e sostituibili da altri modelli. Il continuo
adeguamento a relazioni già pre-costituite, determina la ripetizione continua di schemi ovvero
l'automatismo tipico della macchina. Sto provando a descrivere uno stile di vita che
teoricamente ha a che fare con ciò che Winnicott definisce “falso sé”, Helene Deutsch "
personalità come se”, Kohut “disturbo narcisistico” e Bion “pensiero di tipo –K”. Queste
personalità tendono a confondersi con gli oggetti desiderati, con tratti di identità non loro, con
fantasie di possibilità di esser altro da quello che sono. In altre parole, il soggetto che guarda si
fa tutt’uno con l’oggetto guardato, tenta di imitarlo, di essere come quell’oggetto o di acquisire
un valore potenziale solo grazie al fatto che lo possiede. Di fatto queste modalità relazionali
“imitative-adesive”, immediate e ripetitive comportano una costante inadeguatezza del sé. Di
fatto l’elemento costantemente presente è costituito da una dipendenza dagli oggetti, cioé da
oggetti, persone, istituzioni, sostanze, modelli ovvero una
dipendenza da “qualsiasicosa”. Questo “qualsiasicosa” non è caratterizzato dalla desiderabilità
e quindi da un percorso anche frustrante e quindi formativo-maturativo per la mente ma dal
bisogno imperativo di quella cosa che deve essere disponibile pena l’astinenza.
Noi siamo costantemente sottoposti a flussi informativi diffusi dai mezzi di comunicazione di
massa i quali sono l’espressione, l’amplificazione di un sistema-mondo basato sulla
produzione-consumo delle merci. E con merci intendo “oggetti” la cui funzione primaria è quella
di essere veicolatori di filosofie del mondo, cioé di stili di vita e di comportamenti. E soprattutto
di pensieri. Pensieri sempre più raffinati e personalizzati che sostituiscono, che hanno già
sostituito la privata capacità di pensare. Siamo consumatori di oggetti che già contengono in sé
modelli della mente, orientamenti di valore, forme di organizzazione della vita e dei rapporti
umani. Queste merci, questi pensieri-merci sono pronti all’uso, sono problemi già risolti, sono ad
esempio protocolli di intervento standardizzati, sono, ad esempio, pacchetti di diagnosi e terapie
piuttosto che interpretazioni già fatte e finite.
Noi siamo “addestrati” ad essere continuamente dipendenti da relazioni sociali standardizzate e
ruoli stereotipati e siamo perciò esposti a sentimenti di inadeguatezza, inutilità e vuoto
esistenziale, esposti cioè all’angoscia. Questa dipendenza dagli oggetti, se ripetitivamente
indotta, si oppone in quanto tale alla elaborazione delle separazioni e impedisce così la crescita
e l’autonomia mentale.
Questi messaggi oggi “producono” le strutture delle nostre personalità.
In questo senso, sempre più spesso, penso alla personalità non come ad una freudiana roccia
biologica ma come una struttura porosa all’ambiente e in continuo divenire.
I messaggi del mercato, nel quale siamo immersi ogni giorno della nostra vita, determinano la
comparsa di configurazioni, o meglio, di omologazioni narcisistiche di personalità. Credo che
questi messaggi stimolino automatiche risposte “specchio” cioè, mostrandoci come siamo
(rispecchiandoci), ci propongono poi “terapeuticamente” come dovremmo essere o come non
dovremmo essere. Ovvero offrono un manuale comportamentale, cognitivo e affettivo del
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benessere che noi possiamo acquisire solo attraverso la dipendenza da sempre più meravigliosi
e personalizzati oggetti-sé.
Credo che la terapia debba avere a che fare con la nostra consapevolezza di abitare lo stesso
mondo dei nostri pazienti, cioè con la percezione delle nostre antiche, nuove, nuovissime e
soprattutto future dipendenze.
Bibliografia
Bion, W. R.: “Attenzione e interpretazione”. Armando ed., Roma, 1973.
Freud, S.: “Ricordare, ripetere, rielaborare”. Opere Vol. Boringhieri,Torino,1980
Galimberti, U.: “Psiche e techne”. G. Feltrinelli ed., Milano,1999
Winnicott, D.W.: “Gioco e realtà”. Armando ed., Roma, 1983.
Pietropolli Charmet G.: “I nuovi adolescenti. Padri e madri di fronte a una sfida” Raffaello
Cortina, Milano, 2000
Mc Williams, N.: “La diagnosi psicoanalitica” Astrolabio ed., Roma,1999.
Kohut, H.: “Narcisismo e analisi del sé”. Boringhieri, Torino,1976.
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