Pareri commissione consultiva 2008

Parere 16 gennaio 2008, n. 1
Quesiti n. 45 del COA di Velletri e n. 59 del COA di Orvieto, rel. cons. Cardone
Il quesito del Consiglio di Velletri verte sull’ipotesi di un iscritto che intenda candidarsi alle
elezioni forensi e che abbia svolto le funzioni di commissario d’esame, nell’ambito di un mandato
che deve ancora terminare e con la prospettiva di termine dei lavori oltre la data delle elezioni.
Chiede il Consiglio di Orvieto:
- se possano candidarsi alle elezioni per il Consiglio dell’Ordine forense iscritti i quali siano stati
nominati nella Commissione per gli esami di avvocato per la sessione in corso e che, quindi, non
abbiano svolto l’intero mandato ma abbiano solo presieduto alle prove scritte;
- se possano candidarsi alle correnti elezioni coloro che abbiano svolto la funzione di commissario
d’esame nell’anno della precedente tornata elettorale, terminando i lavori di commissione
successivamente alle elezioni.
La Commissione delibera di trattare congiuntamente, a ragione della sostanziale contiguità delle
questioni poste, i due quesiti pervenuti da diversi Ordini. Dopo ampia discussione, adotta il
seguente parere:
“L’art. 22, comma 6°, del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578, come sostituito dall’art. 1 del D.L. 21
maggio 2003 n. 112, così come modificato dalla legge di conversione del 18 luglio 2003 n. 180,
statuisce, tra l’altro, che gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni agli
esami di avvocato non possono candidarsi ai rispettivi Consigli dell’ordine ed alla carica di
rappresentante della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense alle elezioni
immediatamente successive all’incarico ricoperto.
La riforma degli esami di abilitazione forense, infatti, aveva l’evidente intento di apportare una
complessiva moralizzazione ed una maggior trasparenza nelle procedure di valutazione dei
candidati all’abilitazione professionale.
A questo scopo sono rivolte tutte le disposizioni inserite nel provvedimento, dal nuovo sistema di
correzione degli elaborati, alle limitazioni volte a contrastare il fittizio trasferimento del praticante
volto a spostare la sede d’esame, fino – appunto – ad una più rigida disciplina delle incompatibilità
per i membri delle Commissioni esaminatrici.
Proprio con riferimento a questo punto, si è introdotta una normativa volta a contrastare ogni
possibilità, per i commissari d’esame, di tenere un contegno atto a raccogliere attorno alla propria
persona un consenso diffuso, da utilizzare poi in sede di elezioni al Consiglio dell’Ordine ovvero
alla Cassa nazionale di previdenza, e viceversa.
In considerazione della ratio legis e dell’espressione letterale, che riferisce all’intero incarico, non
può che considerarsi tutto il periodo nel quale l’avvocato svolga la funzione di commissario d’esami
per valutare la sua ineleggibilità a Consigliere dell’Ordine, rimanendo altrimenti la previsione priva
di senso.
Quindi l’espressione «elezioni immediatamente successive all’incarico ricoperto» ricomprende tutte
le tornate elettorali che si svolgano durante l’espletamento del mandato di commissario, con
l’aggiunta delle votazioni immediatamente successive alla sua conclusione (sia essa per
esaurimento dei lavori o per altra causa).
In relazione alle esposte considerazioni si deve ritenere che le delineate incompatibilità con la
candidatura sussistano.”
Parere 16 gennaio 2008, n. 2
Quesito del COA di Ancona, rel. cons. Allorio
Il quesito riguarda la possibilità di ammettere al patrocinio un praticante che, ad un anno
dall’iscrizione nel registro, abbia conseguito il diploma di una scuola di specializzazione per le
professioni legali ma non avendo mai frequentato uno studio legale, né avendo presenziato ad
udienze.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La soluzione della questione posta non può che darsi con riferimento a quanto precisato, a più
riprese, da questa Commissione e dal Consiglio nazionale in genere (cfr. circolare C.N.F. n. 30B/2003 e i pareri 27 aprile 2005, n. 27; 6 ottobre 2005, n. 72; 14 dicembre 2005, n. 96). In
particolare si è evidenziato che il beneficio della sostituzione di un anno di pratica attraverso il
conseguimento del diploma di una scuola di specializzazione per le professioni legali non esenta
affatto il praticante dall’obbligo di svolgere il tirocinio forense che rappresenta ancora, all’evidenza,
il nucleo fondamentale dell’attività formativa.
Perciò il legislatore, opportunamente, non ha sottratto coloro che intendono frequentare una delle
scuole universitarie agli obblighi formativi comunque incombenti sul praticante. Il D.M. 11
dicembre 2001, n. 475, nel disporre, all’art. 1, che “Il diploma di specializzazione (…) è valutato ai
fini del compimento del periodo di pratica per l'accesso alle professioni di avvocato e notaio per il
periodo di un anno” , precisa dunque inequivocabilmente la valenza del titolo, limitandola alla
finalità dell’integrazione del compimento del periodo di pratica, con esclusione, dunque, di altre
finalità astrattamente possibili, quali ad esempio quella di costituire elemento utile ai fini della
concessione dell’abilitazione provvisoria al patrocinio.
Per altro si osserva che le norme relative alla concessione dell’abilitazione provvisoria al praticante,
costituendo deroga al principio costituzionale dell’accesso alla professione mediante il superamento
dell’esame di Stato, debbono necessariamente essere interpretate in senso tassativo, il che esclude
che l’anno di tirocinio pratico necessario ai fini della concessione del beneficio possa essere
integrato con modalità alternative a quelle previste dalla legge.
Il praticante, quindi, potrà chiedere l’abilitazione al patrocinio provvisorio solo avendo
proficuamente concluso i precedenti due semestri di pratica, frequentando lo studio professionale e
le aule di giustizia secondo la disciplina di legge e le modalità prescritte nell’ambito dei regolamenti
degli ordini circondariali. Se così non è, ossia se l’Ordine di appartenenza non ha convalidato i
precedenti semestri di pratica, la richiesta di abilitazione andrà senz’altro respinta; a nulla rilevando,
al proposito, l’eventuale possesso di un diploma di specializzazione rilasciato da una scuola
universitaria.”
Parere 16 gennaio 2008, n. 3
Quesito del COA di Ferrara, rel. cons. Florio
Si chiede parere circa la sussistenza di una situazione di incompatibilità con l’esercizio
professionale in capo ad un iscritto che sia altresì socio accomandatario di una s.a.s. la quale,
però, risulti “inattiva” all’esito della visura presso la Camera di commercio.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Nella società in accomandita semplice il socio accomandatario risponde illimitatamente per le
obbligazioni sociali (art. 2313 c.c.) e la società ha obbligo di iscrizione nel registro delle imprese.
L’attività commerciale è sempre consentita, sì come la permanenza nel predetto registro, fino al
momento nel quale si conclude la fase liquidatoria della società stessa (art. 2312 in relazione all’art.
2315 c.c.).
Pertanto la qualificazione “società inattiva” non rileva ai fini della connotazione di soggetto
esercente il commercio, poiché la società può compiere atti di carattere commerciale in ogni
momento e la responsabilità dei socî si estende a tutte le obbligazioni presenti e passate.
La conclusione è, necessariamente, che il socio accomandatario di s.a.s. non può svolgere la
professione d’avvocato, rientrando nella previsione di cui all’art. 3 l.p.f.
Va da ultimo ricordato che il Consiglio nazionale forense in sede giurisdizionale ha ritenuto che
l’assunzione della qualità di socio accomandatario in società commerciale, a prescindere
dall’effettivo esercizio del commercio, rappresenti un contegno deontologicamente rilevante (cfr.
C.N.F., sent. 16 maggio 2001, n. 85)”.
Parere 16 gennaio 2008, n. 4
Quesito della dott.ssa Marta Mattiuzzi, rel. cons. Cardone.
Il quesito lamenta la mancata risposta da parte di un ordine ad un quesito proposto dall’istante e
vertente in materia di incompatibilità. La mancata risposta deriverebbe dalla qualità
dell’interessata, non ancora iscritta nell’albo.
“Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo iscritto, mentre il regolamento del
Consiglio nazionale forense prevede che possano essere esaminate solo questioni veicolate
attraverso gli ordini circondariali.
Si segnala peraltro che, nella specifica materia, il Consiglio dell’Ordine ha competenza propria e
l’eventuale provvedimento di rigetto è impugnabile dinanzi al C.N.F. in sede giurisdizionale. La
Commissione non può dunque interferire con l’esercizio di tale ultima funzione.
L’interessata potrà produrre domanda di iscrizione all’albo a norma di legge e, in caso di rifiuto, far
valere le proprie ragioni con il procedimento di impugnazione cui si è fatto riferimento.
Nell’intento di fornire un’indicazione di utilità, si allega comunque all’interessata copia del parere
di questa Commissione 9 maggio 2007, n. 27, che si occupa del problema sollevato con il quesito”.
Parere 16 gennaio 2008, n. 5
Quesito del COA di Tortona, rel. cons. Allorio
Il quesito prefigura l’ipotesi di uno studio legale che, all’interno della carta intestata, indichi
insieme al nome dei professionisti associati, anche quello della segretaria, la quale è stata in
passato iscritta nel registro dei praticanti ma non ha portato a compimento la pratica.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La Commissione ritiene che il contegno degli iscritti, così come rappresentato dal Consiglio
richiedente, dia luogo ad un effetto decettivo nei confronti della clientela, in quanto ingenera
l’aspettativa che lo studio annoveri un’ulteriore professionista, ancorché nella realtà si tratti di
persona che svolge attività diversa da quella forense.
La pratica in oggetto confligge, inoltre, con il disposto dell’art. 1 della legge 23 novembre 1939, n.
1815 che impone agli studî associati per l’esercizio di professioni regolamentate di «usare, nella
denominazione del loro ufficio e nei rapporti coi terzi, esclusivamente la dizione di “studio tecnico,
legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario”, seguito dal nome e cognome, coi titoli
professionali, dei singoli associati».
In conclusione nulla vieta di dare un riconoscimento anche alla professionalità della segretaria,
ovvero di indicarne a terzi le generalità, menzionandola in un documento ufficiale dello studio o
nella sua carta intestata, purché si dia chiaramente atto della diversa qualità dell’impiegata rispetto
ai professionisti associati nelle studio legale.
Parere 16 gennaio 2008, n. 6
Quesito del COA di Bassano del Grappa, rel. cons. Cardone
L’Ordine di Bassano del Grappa pone il quesito sulla possibilità di rilasciare ad un proprio iscritto
copia integrale di una decisione disciplinare (con sanzione non sospensiva, né interdittiva) emessa
nei confronti di altro iscritto, per il solo fatto che l’istante ne faccia richiesta in quanto esponente.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“L’art. 51 del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 dispone che la decisione disciplinare è pubblicata
mediante deposito dell’originale negli uffici di Segreteria.
Ne deriva che la norma consente la conoscenza pubblica del documento.
Tuttavia, in tema di accesso agli atti amministrativi, l’art. 22 della legge 7 agosto 1990, n. 241,
come sostituito dall’art. 15 comma 1 della legge 11 febbraio 2005 n. 15, non consente una
conoscenza illimitata della documentazione in possesso della P.A., ma solamente quella connessa al
procedimento, e che incide su una posizione giuridica rilevante, e che legittima, quindi, l’accesso
nei confronti degli atti del procedimento disciplinare che da quell’esposto ha tratto origine (v., tra le
altre, Consiglio di Stato, dec. 29 ottobre 2001 n. 5636, 20 aprile 2006 n. 2755 e 15 dicembre 2006,
n. 7111).
Come si è già illustrato nel diffuso parere 9 maggio 2007, n. 14, ciò che la giurisprudenza
amministrativa e forense concordemente indicano quale discrimine fondamentale per una
valutazione delle richieste di accesso agli atti del procedimento disciplinare è la presenza di un
interesse attuale, concreto e differenziato alla conoscenza di detti atti, non essendo nemmeno la
qualità di esponente in sé sufficiente a dar prova della sussistenza di queste circostanze (sul punto
l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, sent. 20 aprile 2006, n. 7).
Pertanto la valutazione della richiesta non può prescindere dalla valutazione in concreto degli
elementi che l’istante produce a sostegno della sua richiesta, dovendo il Consiglio valutare (e
motivare) la presenza di un siffatto interesse.”
Parere 16 gennaio 2008, n. 7
Quesito del dott. Luigi D’Angelo, rel. cons. Cardone
Il quesito è proposto da un ufficiale di P.G. appartenente all’Arma dei Carabinieri che chiede
chiarimenti circa la sua possibilità di svolgere la pratica legale.
“Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo, mentre il regolamento istitutivo della
Commissione prevede che possano essere esaminate solo questioni veicolate attraverso gli ordini
circondariali.
L’interessato dovrà quindi rivolgersi all’ordine territorialmente competente, cui spetta la funzione di
gestione dell’albo e dei registri nonché la responsabilità delle iscrizioni.”
Parere 16 gennaio 2008, n. 8
Quesito dell’avv. Antonello Bagnato, rel. cons. Cardone
“Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo, mentre il regolamento del Consiglio
nazionale forense prevede che possano essere esaminate solo questioni veicolate attraverso gli
ordini circondariali.
L’interessato dovrà quindi rivolgersi all’ordine territorialmente competente, cui spetta la funzione
disciplinare di primo grado.”
Parere 20 febbraio 2008, n. 9
Quesiti riuniti dei COA di Modena, Acqui Terme e Pordenone, rel. cons. Cardone
Quesito del C.O.A. di Modena del 22 marzo 2007: si chiedono chiarimenti sull’espressione “in
ogni momento nel corso del secondo anno di pratica” contenuta nella circolare 5-C/2007 e riferita
al periodo nel quale il praticante può chiedere l’abilitazione al patrocinio.
Quesito del C.O.A. di Acqui Terme del 25 luglio 2007: ritiene illogica la limitazione, della facoltà
di chiedere l’abilitazione al patrocinio entro il biennio di pratica, e chiede se dev’essere concessa
l’abilitazione anche in seguito, pur con decorrenza dal primo giorno del secondo anno di pratica.
Quesito del C.O.A. di Pordenone del 20 aprile 2007, sollecitato con lettera 18 luglio 2007:
riferisce di casi nei quali il C.N.F. in sede giurisdizionale avrebbe accolto ricorsi di praticanti
cancellati dal registro per decorso del sessennio di abilitazione, e chiede pertanto chiarimenti su
quale sia il termine ultimo per la richiesta di abilitazione al patrocinio nonché sulla possibilità di
procedere o meno alla cancellazione dal registro dei praticanti, a prescindere dall’abilitazione.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“1. Alcuni Consigli dell’ordine hanno sollevato taluni quesiti circa la portata delle norme in tema di
abilitazione al patrocinio del praticante nonché rispetto all’interpretazione dei pareri e delle
decisioni del Consiglio nazionale adottate in materia.
Si ricorda che il Consiglio nazionale ha ritenuto di fare il punto delle questioni relative al sessennio
di abilitazione provvisoria concesso al praticante avvocato con la circolare n. 5-C/2007 del 22
gennaio 2007, le cui valutazione di carattere generale, soprattutto quanto alla lacunosità delle norme
di legge ed alla necessità di un contegno che faccia salva la ratio delle medesime, vanno senz’altro
ribadite. È peraltro apparso opportuno procedere ad una ricognizione dei principi in materia e
necessario fornire alcuni chiarimenti rispetto ad alcuni profili della circolare da ultimo citata, anche
alla luce dei quesiti proposti da taluni Consigli dell’ordine che hanno rilevato problemi applicativi e
sollevato delicate questioni interpretative.
2. Il fine dell’abilitazione provvisoria al patrocinio non è quello di permettere al praticante
l’esercizio della libera professione forense, ancorché entro limiti prefissati, in deroga al principio
della necessità del superamento dell’esame di Stato, principio -come noto- dotato di sicuro
fondamento costituzionale (art. 33 Cost.), ma quello di consentire a coloro che intendono
intraprendere la professione forense il raggiungimento di una più adeguata ed approfondita
preparazione, e ciò entro ben precisi limiti temporali, di valore e materia (cfr. sul punto, ex multis, le
sentenze C.N.F. n. 28/1995, 153/1999 e 5/2007).
Questa considerazione va senz’altro ribadita, sì come le sue immediate conseguenze in termini di
individuazione del periodo nel quale l’abilitazione può essere richiesta dal praticante.
3. In tale ottica va dunque letta anche la norma di cui all’art. 8, comma secondo, della legge
professionale, nella parte in cui prevede che l’ammissione al patrocinio possa avvenire «dopo un
anno dall’iscrizione nel registro» dei praticanti: la decorrenza dell’abilitazione al patrocinio non è
rimessa all’arbitrio del richiedente, ma è fissata dalla legge al primo giorno del secondo anno di
pratica forense, a prescindere dal momento nel quale l’interessato si attivi per chiederla
effettivamente.
In altri termini la legge impone che la richiesta di ammissione all’abilitazione al patrocinio si
configuri come facoltà del praticante (che può anche non chiederla), da godersi – ove accolta, in
presenza dei requisiti prescritti - entro un periodo temporale definito, collegato funzionalmente
all’inizio del periodo formativo, non prorogabile né suscettibile di sospensioni recuperabili. Tale
periodo è previsto in sei anni decorrenti dal primo giorno del secondo anno di iscrizione nel
registro dei praticanti (cfr. sul punto, ex multis, le sentenze C.N.F. n. 28/1995, 86/1995, 3/1997 e
106/1997).
La delibera d’ammissione al patrocinio ha portata costitutiva e segna la decorrenza concreta del
periodo abilitativo; ad essa segue il giuramento, che è configurato come condizione per l’esercizio
del patrocinio in concreto (cfr. parere 24 maggio 2006, n. 22).
4. È senz’altro opportuno chiarire, ad ulteriore specificazione di quanto illustrato nella circolare n.
5-C/2007, che nella normalità dei casi il praticante chiederà l’abilitazione nel corso del biennio
prescritto per il conseguimento del certificato di compiuta pratica. In assenza, peraltro, di una
norma che imponga la cancellazione dal registro dei praticanti al trascorrere dei predetti due anni ed
al conseguimento del predetto certificato, l’esercizio della facoltà di legge consistente in tale
richiesta potrà avvenire anche in seguito, in ogni momento del periodo nell’ambito del quale la
legge consente l’accesso al patrocinio provvisorio, ossia durante il descritto sessennio, fermi
restando i termini, iniziale e finale, che ne determinano la massima durata potenziale.
La richiesta ritardata rispetto al termine iniziale provocherà pertanto una riduzione del periodo
concretamente disponibile, restando immutabile la scadenza, sempre computata in un sessennio a
partire dal primo giorno del secondo anno di pratica forense.
5. Non vi è dubbio, poi, che il carattere rigorosamente delimitato ratione temporis che la legge
conferisce al patrocinio provvisorio determina per l’Ordine competente il dovere di procedere con
rigore alla cancellazione del praticante dall’elenco degli abilitati immediatamente dopo il decorso
del sessennio, ovviamente ove la cancellazione non debba essere disposta prima, ad altro titolo (si
pensi, ad esempio, al praticante abilitato che abbia superato l’esame di abilitazione; in termini anche
copiosa giurisprudenza del Consiglio nazionale forense: cfr., da ultimo, le sentenze 54/2005,
2/2007, 7/2007).
6. Diversa, e da considerarsi separatamente, è la questione della permanenza dell’iscrizione nel
registro dei praticanti in quanto tale, a prescindere dal possesso o meno dell’abilitazione al
patrocinio, che peraltro si configura -come detto- quale modalità integrativa del tirocinio forense.
Nulla vieta di mantenere l’iscrizione in detto registro anche successivamente all’ottenimento del
certificato conclusivo della pratica, ferma restando l’unicità del certificato di compiuta pratica e il
radicamento territoriale che esso determina ai fini dell’esame (v., da ultimo, il parere della
Commissione consultiva n. 82/2006, i precedenti nn. 86/2002 e 180/2003, nonché le sentenze
C.N.F. nn. 61/2001 e 2/2007).
La possibilità di mantenere l’iscrizione non è impedita dalla legge ed è avallata da recente copiosa
giurisprudenza (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 26 maggio 2006, n.12543; Consiglio di Stato,
sentenze 6692/2005, 2331/2006 e 5512/2006).
Tuttavia deve anche considerarsi che, conformemente a quanto già osservato dalla Commissione
consultiva del C.N.F. con i pareri nn. 70-71/2002 e 42/2005, non appaiono censurabili le iniziative
degli Ordini forensi volte a verificare che gli iscritti nei proprî registri continuino effettivamente la
pratica professionale. L’Ordine che provveda a verificare l’interesse del praticante già in possesso
di certificato di compiuta pratica a rimanere iscritto nel registro dei praticanti (ad esempio
inviandogli comunicazione scritta o convocandolo presso la propria sede) e, in assenza di riscontro,
ne disponga la cancellazione, pone in essere un contegno legittimo.
Non potrà comunque, in presenza dei prescritti requisiti di legge, essere negata la reiscrizione del
praticante così cancellato, ove questi intenda riprendere e proseguire la pratica forense; avvalendosi
altresì della facoltà di richiedere l’abilitazione al patrocinio successivamente alla cancellazione dal
registro dei praticanti, purché nei limiti del sessennio e salvo il termine finale fisso di questo
periodo.
In conclusione la risposta ai quesiti posti è nei seguenti termini sintetici:
a. il sessennio di abilitazione al patrocinio ha durata massima di sei anni, decorrenti in ogni
caso dal primo giorno del secondo anno di pratica; l’abilitazione può essere richiesta in
ogni momento del sessennio, ferma la sua durata massima; al termine del periodo
sessennale andrà sempre disposta la cancellazione dall’elenco degli abilitati;
b. l’iscrizione nel registro dei praticanti è indipendente dal possesso dell’abilitazione e può
protrarsi anche oltre il conseguimento del certificato di compiuta pratica, salvi gli effetti di
quest’ultimo ai fini dell’esame di Stato, e salvo il potere dell’Ordine di provvedere alla
cancellazione di coloro che – a seguito di opportuni accertamenti e verifiche inquadrabili
nel generale dovere di vigilanza dell’Ordine sull’esercizio della pratica forense – risultino
non svolgere più attività di praticantato legale;
c. nel caso in cui l’Ordine abbia provveduto a cancellare il praticante dal registro una volta
ottenuto il certificato di compiuta pratica, o a seguito dell’esercizio del potere di vigilanza
di cui al punto che precede, dovrà comunque procedersi alla reiscrizione del praticante già
cancellato, il quale potrà anche chiedere di essere ammesso al patrocinio provvisorio.
L’Ordine potrà conseguentemente continuare ad esercitare la propria vigilanza sul
praticante così reiscritto. In ogni caso, il periodo massimo di ammissione al patrocinio non
potrà superare i sei anni decorrenti dal primo giorno del secondo anno di tirocinio (cfr.
punto a); il che comporta che il periodo concreto nel quale l’interessato potrà avvalersi
della facoltà in oggetto sarà tanto più breve quanto più tardi l’interessato dovesse
esercitare la facoltà di richiedere l’ammissione”.
Parere 20 febbraio 2008, n. 10
Quesito del COA di Brescia, rel. cons. Florio
Il quesito concerne la sussistenza di cause di incompatibilità tra l’esercizio della professione di
avvocato e l’attività di agente di calciatori.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Benché sia oggi consentito, entro certi limiti, il patto di quota-lite (cfr. art. 45, c.d.f., riformato a
seguito della cd. “Legge Bersani”), resta ferma, a parere di questa Commissione, l’incompatibilità
dell’attività di avvocato con quella di agente di calciatori, in quanto l’art. 3, RDL 27 nov. 1933, n.
1578, prevede quale espressa causa di incompatibilità, sia “l’esercizio di commercio in nome
proprio o in nome altrui”, che “la qualità di …mediatore” è comunque da rilevare che la normativa
professionale della F.I.G.C. prevede che “ai calciatori e alle società sportive non è consentito
avvalersi dell’opera di un agente non iscritto nell’Albo, salvo che si tratti di un avvocato iscritto nel
relativo albo, e per attività conforme alla normativa professionale vigente” (art. 5, reg. F.I.G.C.). Ne
consegue che l’avvocato potrà svolgere attività professionale sia nell’interesse dei calciatori che di
società sportive, senza necessità di iscriversi nell’albo degli agenti di calciatori, con l anecessaria
limitazione del rispetto della normativa professionale propria dell’avvocato.
Si conferma e si integra l’orientamento già espresso nel parere n. 16 del 27 aprile 2005, e nel parere
n. 146 del 17 luglio 2003: pertanto il Consiglio dell’ordine degli avvocati dovrà negare l’iscrizione
a colui che la richieda e non intenda rinunziare ad una precedente iscrizione nell’albo degli agenti di
calciatori, ovvero coloro che già facciano parte di entrambi gli albi debbono optare per una delle
due iscrizioni.”
Parere 20 febbraio 2008, n. 11
Quesito del COA di Ferrara, rel. cons. Florio
Il quesito verte sulla sussistenza di causa di incompatibilità tra lo svolgimento della professione di
avvocato e l’iscrizione nella Camera di commercio quale unico socio accomandatario di una
società commerciale “attualmente inattiva”.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“deve ritenersi che l'iscritto in argomento versi in situazione di incompatibilità e sia tenuto a
rimuoverla, pena l'avvio del procedimento di cancellazione, a nulla rilevando la circostanza di fatto
dell’attuale inattività della società; il Consiglio nazionale forense ha avuto modo di pronunziarsi su
fattispecie analoga in sede giurisdizionale, statuendo che “L'avvocato che, in violazione dell'art. 3
r.d.l. n. 1578/33, assuma il ruolo di socio accomandatario in una società commerciale,
indipendentemente dalla effettuazione di concrete operazioni imprenditoriali, pone in essere un
comportamento deontologicamente rilevante in quanto lesivo del dovere di indipendenza a cui
ciascun iscritto è tenuto (CNF, 16 maggio 2001 n. 85).”
Parere 20 febbraio 2008, n. 12
Quesito del COA di Bari, rel. cons. Bianchi
Il quesito concerne la sussistenza o meno del diritto in capo al procuratore della parte vittoriosa di
ottenere dal convenuto soccombente il riconoscimento delle spettanze relative alle attività ulteriori
compiute per il soddisfacimento dei diritti dell’assistito, dopo sentenza che abbia disposto la
compensazione totale delle relative spese processuali.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Il quesito deve ritenersi inammissibile, poiché non attiene alla materia dell’ordinamento forense
bensì a quella del diritto processuale. L’attività della Commissione consultiva mira a fornire un
orientamento unitario agli Ordini circa questioni di competenza delle istituzioni dell’Avvocatura,
mentre in campo strettamente processuale non sussiste, ai sensi di legge, una competenza
specifica.”
Parere 20 febbraio 2008, n. 13
Quesito del COA di Trani, rel. cons. Allorio
Il COA di Trani inoltra quesito pervenuto da un’iscritta nell’albo.
Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo iscritto, in contrasto con il regolamento
istitutivo della Commissione e con la prassi costante. Pertanto il quesito va sottoposto al Consiglio
dell’Ordine competente, il quale, ove intendesse raccogliere l’avviso del Consiglio nazionale ai fini
di una uniforme interpretazione, provvederà a sottoporre la questione in forma astratta e senza
riferimenti nominativi.
Parere 12 marzo 2008, n. 14
Quesito del COA di Roma, rel. cons. Cardone
L’Ordine di Roma pone il seguente quesito: «se l’assenza del Consigliere segretario, per come
sostengono alcuni consiglieri, non consentirebbe lo svolgimento dell’adunanza, non potendo lo
stesso essere sostituito da altro consigliere»
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La Commissione, dopo ampia discussione, ritiene che nel caso prospettato non possa ipotizzarsi
alcuna invalidità delle sedute del Consiglio in assenza del segretario titolare, ben potendo la
funzione di segretario della seduta essere espletata da un qualsiasi consigliere, designato volta per
volta dal presidente dell’adunanza.
Infatti bisogna distinguere la funzione del segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, e
cioè quella istituzionale, collegata alla formale elezione prevista dall’art. 2 del d.lgs.lgt. 23
novembre 1944 n. 382 – peraltro senza specifica indicazione di funzioni, al contrario del presidente
– da quella di segretario delle adunanze, prevista dall’art. 42 del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37.
Questa ultima funzione viene attribuite, di volta in volta, dal presidente della adunanza, ai sensi
dell’ultimo comma dello stesso art. 42, che richiama la norma contenuta nell’art. 75 del R.D. n. 37
del 1934.
Mentre la presidenza delle adunanze appartiene al presidente eletto, la cui eventuale sostituzione è
disciplinata dal quarto comma dell’art. 42 R.D. n. 37 del 1934 (così come sostituito dal secondo
comma dell’art. 16 del d.lgs.lgt. n. 382 del 1944), per il segretario, appunto perché intercambiabile,
non vi è alcuna previsione normativa.
Si aggiunga che la disciplina per la validità delle sedute, prevista dall’art. 43 del R.D. n. 37 del
1934, così come modificato dal primo comma dell’art. 16 del d. lgs. lgt. n. 382 del 1944, non
statuisce che il segretario dell’adunanza debba essere quello titolare, prevedendo come unica causa
di invalidità della seduta la non presenza della maggioranza dei componenti.
Del resto dal contenuto del quesito non si evince quale sia il fondamento giuridico della paventata
insostituibilità del consigliere segretario e dell’invalidità della seduta in sua assenza, tesi che
potrebbe comportare, contro ogni principio ed irragionevolmente, la paralisi dell’organo.
Conseguenzialmente deve essere ritenuta la piena validità della seduta alla quale non partecipi il
Consigliere segretario nominato ai sensi dell’art. 2 del d. lgs. lgt. n. 382 del 1944: la funzione di
segretario della seduta essendo rivestita dal componente del Consiglio, designato di volta in volta,
anche verbalmente, dal presidente della seduta medesima.”
Parere 16 aprile 2008, n. 15
Quesito del COA di Taranto, rel. cons. Baffa
Il quesito concerne l’eventuale insussistenza di causa di incompatibilità tra l’esercizio della
professione di avvocato e l’assunzione dell’incarico di difensore civico presso un ente pubblico
territoriale.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La Commissione consultiva ritiene di confermare il proprio precedente consolidato orientamento
(cfr. i pareri 6 ottobre 2005, n. 77 e il n. 52/1995, in I pareri del Consiglio nazionale forense (19941997), a cura di V. PANUCCIO, Milano 1998, 51-52).
In tali circostanze si è esclusa la sussistenza di una causa di incompatibilità tra la professione
forense e la funzione di difensore civico, costituendo quest’ultimo un incarico di natura onoraria e
non professionale.
Nell’attuale quadro normativo è demandata allo statuto comunale o provinciale la disciplina delle
modalità di elezione del difensore civico, l’impiego di risorse dell’ente per il suo ufficio nonché i
suoi rapporti con l’organo consiliare (d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 11). Si tratta perciò di un
incarico elettivo, al quale corrisponde un compenso di tipo indennitario e che non comporta un
rapporto di subordinazione gerarchica verso l’Amministrazione.
Perciò la disposizione dell’art. 3, commi secondo e terzo, del R.D.L. 1578/1933 non si applica
all’incarico di difensore civico, ivi prevedendosi lo “stipendio” pubblico ovvero un diverso
“impiego” quali elementi incompatibili con l’esercizio della professione.
Rimane integra, ovviamente, la competenza dell’Ordine a vigilare affinché gli incarichi conferiti a
proprî iscritti da parte delle Pubbliche amministrazioni si svolgano in modo da preservare
l’indipendenza degli stessi ed in forme compatibili con gli obblighi deontologici.”
Parere 16 aprile 2008, n. 16
Quesito del COA di Nola, rel. cons. Baffa
Il parere concerne la questione se sia valido, ai fini dell’iscrizione nell’elenco dei difensori
d’ufficio avanti al Tribunale per i minorenni, la frequenza di un corso di aggiornamento nelle
materie attinenti al diritto minorile e le problematiche dell’età evolutiva ancorché organizzato da
un Ordine diverso da quello distrettuale ove ha sede detto Tribunale.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Si ritiene che al quesito sottoposto vada data risposta negativa.
L’art. 11 del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (recante “Approvazione delle disposizioni sul
processo penale a carico di imputati minorenni”) stabilisce che «il consiglio dell’ordine forense
predispone gli elenchi dei difensori con specifica preparazione nel diritto minorile». L’art. 15 del d.
lgs. 28 luglio 1989, n. 272, attuativo del precedente, dà precise indicazioni circa la formazione degli
elenchi degli iscritti disponibili alle difese minorili, prevedendo che vi possa accedere, in quanto «in
possesso di specifica preparazione», «chi abbia svolto non saltuariamente la professione forense
davanti alle autorità giudiziarie minorili o abbia frequentato corsi di perfezionamento e
aggiornamento per avvocati e procuratori legali nelle materie attinenti il diritto minorile e le
problematiche dell'età evolutiva». L’ultimo comma della disposizione in esame affida
l’organizzazione dei corsi al «consiglio dell’ordine forense dove ha sede il tribunale per i
minorenni».
La chiarezza della norma nell’individuare soltanto i consiglî dell’ordine ove ha sede il Tribunale per
i minorenni (ossia quelli cd. “distrettuali”) quali legittimati ad organizzare i corsi è tale da
precludere l’adesione ad un’interpretazione estensiva.
Risponde ad una scelta del legislatore stabilire i criterî di individuazione dei soggetti legittimati ad
organizzare i corsi de quibus con il valore previsto dalla stessa norma.
L’ampliamento prospettato dal COA interpellante, pertanto, è risultato non conseguibile per via
interpretativa, ma necessita senz’altro di una modifica legislativa (che sarebbe, peraltro, opportuna
alla luce del nuovo ruolo acquisito dagli Ordini in materia di formazione continua ed aggiornamento
degli iscritti).
Parere 16 aprile 2008, n. 17
Quesito del COA di Como, rel. cons. Bianchi
Il quesito riguarda la compatibilità con l’iscrizione all’albo degli avvocati di soggetto che intenda
svolgere attività di mediazione familiare in modo indipendente ed in totale autonomia rispetto alla
professione forense.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“L’attività di mediazione familiare non si configura, allo stato, come attività regolamentata; sono
note alcune libere associazioni di settore, una delle quali risulta iscritta al CNEL, secondo il V
rapporto di monitoraggio sulle professioni non regolamentate (aprile 2005).
Dal sito web di una di esse (Società italiana di mediazione familiare) si ricava che «per mediazione
familiare si intende quel percorso finalizzato alla riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o
in seguito alla separazione o al divorzio, in cui in un contesto strutturato, un terzo “neutrale”, cioè
un professionista equidistante dalle parti, con una preparazione specifica, sollecitato dalle parti,
nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario favorisce la ricerca
di soluzioni sufficientemente buone per la riorganizzazione delle relazioni familiari, a seguito di
conflitti connessi con eventi critici quali la scissione della coppia sposata o non sposata».
A proposito della compatibilità col mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati va
innanzitutto premesso il costante orientamento della Commissione, sicché va confermato che le
ipotesi di incompatibilità devono essere di stretta interpretazione, posto che pongono sostanziali
limitazioni ai diritti dei singoli.
Nel caso non si ravvisa motivo d’incompatibilità.
Dal punto di vista oggettivo, infatti, l’attività di mediazione familiare si configura come una
generica prestazione di consulenza (di area psicologica, giuridica e sociale) autonomamente e
liberamente richiesta dai committenti tendente a favorire il raggiungimento di accordi tra parti in
conflitto. In tal senso essa appare compatibile ed anzi coerente con una tipologia caratteristica
d’esercizio della professione legale. La mediazione familiare poi non è certamente inquadrabile tra
le attività d’impresa ed è del tutto diversa dalla mediazione (art. 1754 e seguenti del codice civile)
alla quale fa riferimento l’art. 3 della legge professionale, finalizzata alla conclusione di affari e non
alla soluzione di conflitti personali.
Anche sotto il profilo disciplinare, dall’esame dei codici di autoregolamentazione adottati dalle
varie associazioni che risultano costituite, non è dato rilevare situazioni di contrasto rispetto al
codice deontologico forense quanto, in particolare, alla riservatezza ed ai diritti degli utenti (anche
in relazione ai compensi). Una di tali associazioni (Associazione Nazionale Avvocati Mediatori
Familiari - A.N.A.Me.F.), anzi, si caratterizza per la doppia formazione ed il codice di
autoregolamentazione dalla stessa adottato prevede espressamente il rispetto anche del codice
deontologico forense.
Pur non comprendendosi con precisione a quali modalità si faccia riferimento nel quesito
relativamente all’esercizio indipendente ed in totale autonomia delle due attività (quella d’avvocato
e di mediatore familiare), è evidente come la separazione degli interventi per l’uno e l’altro titolo
sia da condividere in conformità all’orientamento etico della mediazione familiare che prevede
autonomia dall’ambito giudiziario, apparendo di fatto non sovrapponibili, rispetto ai medesimi
soggetti, i campi dell’attività prestata. Al proposito il codice di autoregolamentazione A.N.A.Me.F
(art. 5) vieta esplicitamente al mediatore familiare di esercitare, con le stesse persone, una funzione
diversa da quella di mediatore. Anche con riferimento all’attività di mediazione familiare, in
particolare, la Commissione ritiene possa operare il divieto di cui all’art. 51, canone primo, del
vigente codice deontologico forense”.
Parere 16 aprile 2008, n. 18
Quesito del COA di Terni, rel. cons. Florio
L’ordine trasmette una richiesta di parere in materia di liquidazione di onorarî maturati
nell’ambito di difese d’ufficio.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La Commissione, vista la nota dell’Ordine di Terni, con la quale si trasmette alla Commissione
copia della richiesta di parere pervenuta da un iscritto, prende atto che, pur essendo stato cancellato
il nome dell’interessato nella nota di trasmissione, questi risulta identificato tramite il fax inviato. Si
deve perciò ricordare che non sono evase richieste di parere nella quali l’Ordine territoriale svolga
la funzione di mero inoltro; ove l’Ordine non si ritenga in grado di fornire risposta alle richieste
degli iscritti dovrà chiaramente far proprio il quesito in termini generali, escludendo il rischio che il
Consiglio nazionale intervenga in specifiche vicende di rilevanza giudiziaria o deontologica.
Per gli esposti motivi il quesito sottoposto va dichiarato inammissibile.”
Parere 16 aprile 2008, n. 19
Quesito del COA di Ferrara, rel. cons. Cardone
Il quesito verte sull’interpretazione della disposizione di cui all’art. 28 del codice deontologico
forense, ed in particolare sulla necessità di includere nel divieto di produzione in giudizio di
“lettere qualificate riservate” anche le missive di cui è stato autore colui che intende esibirle in
giudizio.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“È necessario premettere che la Commissione consultiva non può pronunciarsi allorquando tale
intervento possa interferire con lo svolgimento della funzione disciplinare degli Ordini, ovvero
anticipare la trattazione di fattispecie poi oggetto di cognizione del C.N.F. in sede giurisdizionale.
Tuttavia, in via del tutto astratta, si deve convenire che, essendo l’interesse tutelato dalla norma
deontologica quello della lealtà e probità nei dei rapporti tra colleghi, si ritiene che il divieto di cui
all’art. 28 c.d.f. faccia riferimento alla corrispondenza riservata nel suo complesso a prescindere dai
latori dei singoli messaggî, in ispecie quando la sua produzione è in grado di danneggiare
ingiustamente la controparte (come nel caso di lettera contenente proposta transattiva).
Perciò la risposta al quesito posto dall’ordine è di segno positivo, salva l’autonomia nella verifica
delle circostanze di specie, oggettive e soggettive, che permane integra per ciascun giudizio
deontologico.”
Parere 16 aprile 2008, n. 20
Quesito dell’avv. Carmelo Giuseppe Torrisi, rel. cons. Cardone
La richiesta di parere riguarda l’interpretazione del D.M. 127/2004, recante la tariffa
professionale forense.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La richiesta è inammissibile, in quanto il Consiglio può provvedere solo su quesiti provenienti
dagli Ordini circondariali o da questi fatti proprî.
L’interessato dovrà rivolgersi all’ordine di appartenenza o di competenza.”
Parere 16 aprile 2008, n. 21
Quesito dell’avv. Silvio Bonea, rel. cons. Cardone
Un avvocato chiede parere circa la regolarità dei lavori di un Consiglio che provveda ad eleggere
il solo Presidente, e che solo in seduta successiva provveda all’elezione delle restanti cariche.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La richiesta è inammissibile, in quanto il Consiglio nazionale forense è giudice dell’impugnazione
sia in materia elettorale che in ambito disciplinare, sicché non è possibile fornire parere su fatti
specifici e su segnalazione di singoli. Non è infatti ammissibile un’interferenza nell’attività dei
singoli ordini circondariali né è possibile condizionare l’autonomia di giudizio del C.N.F. in sede
giurisdizionale.”
Parere 16 aprile 2008, n. 22
Quesito dell’avv. Piero Antonio Peruzzi, rel. cons. Cardone
Un avvocato chiede un parere in materia di liquidazione di compensi professionali, segnalando che
l’Ordine di appartenenza non si è pronunciato su una richiesta di congruità.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La richiesta è inammissibile, sia poiché proviene da singolo iscritto, mentre la Commissione
consultiva può pronunciarsi solo su quesiti di ordini o da questi fatti proprî, sia perché la legge non
prevede un potere sostitutivo del C.N.F. nei confronti di eventuali inadempienze degli Ordini
circondariali.”
Parere 16 aprile 2008, n. 23
Quesito dell’avv. Daniela Marzano, rel. cons. Cardone
Un avvocato chiede se sia legittima la costituzione di una società di consulenza legale cui
partecipino anche soggetti imprenditoriali, pur con ruoli estranei alla redazione di consulenze.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La richiesta è inammissibile, poiché proviene da singolo iscritto, mentre la Commissione
consultiva può pronunciarsi solo su quesiti di ordini o da questi fatti proprî. L’interessata dovrà
quindi rivolgersi all’Ordine di appartenenza, e solo in caso di dubbio quest’ultimo potrà far
pervenire la questione alla Commissione.”
Parere 25 giugno 2008, n. 24
Quesito del COA di Salerno, rel. cons. Baffa
Il quesito concerne le modalità di espressione del voto in occasione delle elezioni del Consiglio
dell’ordine, e, in particolare, la possibilità di indicare validamente nella relativa scheda un numero
di preferenze inferiore a quello dei consiglieri da eleggere.
La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“ Si premette che la normativa per l’elezione dei componenti dei Consigli degli ordini e collegi” di
cui al d. lgs. lgt. 23 novembre 1944, n. 382 si applica, in forza del suo art. 18, anche ai Consigli
dell’ordine degli avvocati.
L’art. 2, primo comma, del citato decreto dispone che “i componenti del Consiglio sono eletti
dall’assemblea degli iscritti nell’albo a maggioranza assoluta di voti segreti per mezzo di schede
contenenti un numero di nomi uguale a quello dei componenti da eleggersi”.
Il Consiglio dell’Ordine di Salerno chiede se, in forza della disposizione testè richiamata, sussista
“l’obbligo di indicare un numero di nomi esattamente eguale a quello dei componenti da eleggersi,
pena la nullità della scheda”.
È nota al proposito la giurisprudenza della Corte di Cassazione (iniziata con la sentenza delle
Sezioni Unite 19 dicembre 1991, n. 13714, confermata con la sentenza 10 dicembre 1993, n. 12161
e ribadita dalla terza sezione con sentenza 14 gennaio 2002, n. 358). Si tratta tuttavia di
giurisprudenza dalla quale il Consiglio nazionale forense ha già ritenuto doversi discostare,
offrendo ampia motivazione del proprio convincimento che la Commissione ritiene poter ribadire
anche nella sede consultiva.
Pronunciandosi in veste giurisdizionale su reclamo ex art. 6 del decreto legislativo citato, il
Consiglio ha risolto la questione nel senso della piena validità della scheda elettorale che contenga
un numero di preferenze inferiori a quello dei consiglieri eligendi (decisioni n. 109 del 3 ottobre
1997 e n. 119 del 29 settembre 1998).
Con tali decisioni si è chiarito, in particolare, che la disposizione sopra richiamata, nella parte in cui
prevede che la votazione avvenga per mezzo di scheda che contenga “un numero di nomi uguali a
quello dei componenti da eleggersi”, non ha contenuto cogente (tant’è che la sua violazione non è
presidiata da una espressa sanzione di nullità, non ricavabile neppure dal sistema, nel quale, anzi,
vige il principio di conservazione della volontà espressa dall’elettore, in forza del quale non tutte le
irregolarità implicano la nullità dell’espressione di voto, ma solo quelle che contraddicono alla sua
segretezza ed impediscono la corretta ricostruibilità della volontà dell’elettore) e “non rispondendo
ad un interesse pubblico generale, né a principi di ordine pubblico ovvero ad esigenze della
collettività, non presenta carattere di inderogabilità” (che, invece, deve riconoscersi alle disposizioni
relative all’elettorato attivo e passivo, alla segretezza del voto, ai quorum costitutivi e deliberativi).
A dispetto del dato letterale, perciò, deve ritenersi che all’avvocato/elettore debba riconoscersi “la
piena libertà….nell’esprimere –nell’unico vincolo del tetto massimo della compagine da eleggere- il
numero di preferenze che crede”, senza alcun obbligo di indicare nella scheda, con carattere di
necessarietà, tante preferenze quanto sono i componenti da eleggere.
Nelle richiamate decisioni il C.N.F. ha osservato, altresì, come a sostegno dell’opposta soluzione
non vale addurre che la lettura restrittiva della norma in esame discenda dalla necessità di
conseguire, all’esito finale delle votazioni, la copertura di tutti i posti di consiglieri, che, in astratto,
l’interpretazione accolta potrebbe non assicurare. Trattasi, invero, di argomento di scarsa pregnanza
giuridica e –si direbbe- di puro effetto, posto che “l’esperienza pratica, da sempre vissuta in tutti i
Consigli degli Ordini forensi” ha mostrato che, pur ritenendosi valida l’espressione di voto limitata
ad un numero di preferenze inferiore a quello dei consiglieri da eleggere, mai si è pervenuto al
risultato paventato. L’ipotesi che in un’assemblea elettorale –che, ormai, nella quasi totalità degli
Ordini si compone di un numero rilevante di soggetti- tutti gli elettori limitino numericamente la
loro espressione di voto e la esprimano tutti per gli stessi candidati, è di pura scuola e fuori da ogni
realtà.
La Commissione ritiene le conclusioni cui è pervenuto il Consiglio nelle richiamate decisioni
pienamente persuasive e convincenti e ad esse aderisce, richiamando la propria posizione
consolidata, da tempo favorevole alla possibilità, per i singoli Consigli dell’ordine, di darsi un
regolamento di dettaglio per lo svolgimento delle operazioni elettorali (sent. C.N.F. 3 ottobre 1997,
n. 109 e pareri 30 gennaio 1998, n. 13; 27 aprile 2005, n. 34).”
Parere 25 giugno 2008, n. 25
Quesito del COA di Monza, rel. cons. Baffa
Il remittente chiede se sia legittimo che un Consiglio dell’Ordine fissi un calendario delle sedute
con relativi procedimenti disciplinari anche per il periodo successivo alla scadenza del proprio
mandato.
La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La programmazione dei lavori rientra senz’altro nell’ambito di autonomia proprio dell’organo
consiliare.
È evidente che il Consiglio è sottoposto ad un ricambio continuo dei suoi membri a mezzo delle
elezioni biennali, ma è altrettanto chiaro che l’ente mantiene la propria funzione e la propria facoltà
organizzativa anche a prescindere dalle scadenze elettorali.
Non vi è quindi alcun ostacolo pregiudiziale a che il Consiglio, nella propria responsabile
autonomia, valuti conveniente ed opportuno fissare un calendario delle sedute anche oltre la
scadenza elettorale, salva evidentemente la corrispettiva facoltà del Consiglio subentrante di
apportarvi le modifiche che reputi necessarie.
Quanto alla nomina di relatori per i procedimenti disciplinari, essa si configura come attribuzione
propria del Presidente, ai sensi dell’art. 47, comma terzo, R.D. 22 gennaio 1934, n. 37. Pertanto si
potranno designare i relatori di tutti i procedimenti disciplinari via via iniziati, salva la necessità del
Presidente di sostituire il relatore allorquando – a seguito delle elezioni forensi e dell’insediamento
del nuovo Consiglio – il consigliere precedentemente designato non faccia più parte dell’organo
consiliare e salva la facoltà di nominarne altro anche per motivi di opportunità.”
Parere 25 giugno 2008, n. 26
Quesito del COA di Ancona, rel. cons. Baffa
L’ordine anconetano chiede come debbasi valutare un provvedimento di un giudice che revochi dal
beneficio del patrocinio a spese dello Stato un cittadino argentino, così superando la contraria
delibera del Consiglio dell’Ordine, nonostante l’accordo bilaterale del 1988 con il Paese
sudamericano preveda la reciprocità nel gratuito patrocinio.
La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Non può esservi dubbio circa l’eccezionalità dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato a
favore del cittadino extracomunitario non regolarmente soggiornante in Italia (come richiesto
dall’art. 119, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115), eccezione che riguarda in particolare la fattispecie
relativa alla contestazione giudiziale del provvedimento di espulsione di cui all’art. 13 del d. lgs. 25
luglio 1998, n. 286.
Altri procedimenti, come quello del riconoscimento del diritto d’asilo ovvero della contestazione
del provvedimento che nega lo status di rifugiato, sono esclusi dal perimetro dell’estensione del
diritto di cui si tratta, posto che non è ammessa interpretazione estensiva in presenza di norme
derogatorie.
In questo senso vanno rammentate le decisioni dei giudici di primo grado (Trib. Trapani 13 marzo
2006 oppure Trib. Salerno 22 gennaio 2007).
Tuttavia non si può trascurare il fatto che le decisioni, come quella del Tribunale di Trapani citata
nel quesito, non riguardanti cittadini argentini bensì extracomunitarî di altra provenienza, non
possono essere utilizzate acriticamente per la corretta soluzione della questione.
Infatti in materia vige un accordo bilaterale, la Convenzione relativa all'assistenza giudiziaria ed al
riconoscimento ed esecuzione delle sentenze in materia civile tra la Repubblica italiana e la
Repubblica argentina, firmata a Roma il 9 dicembre 1987, ratificata a mezzo della legge 22
novembre 1988, n. 532, prevalente in base al principio di specialità. Non si ha notizia di abrogazioni
o dell’intervento di altri atti o fatti ostativi alla vigenza della norma in parola.
È bensì vero che lo strumento del gratuito patrocinio, descritto nella convenzione, è stato abolito in
Italia dalla legge 30 luglio 1990, n. 217, sostituendolo con il patrocinio a spese dello Stato; tuttavia
tra questi due strumenti di tutela sussiste una continuità pressoché completa e l’espressione
“gratuito patrocinio” permane addirittura in uso nel linguaggio legislativo (cfr., ad es., d. lgs. 28
gennaio 2008, n. 25, art. 16).
In conclusione, quindi, si ritiene che i cittadini argentini debbano beneficiare del medesimo
trattamento riservato ai cittadini italiani per ciò che attiene all’ammissione al patrocinio a spese
dello Stato in materia civile.”
Parere 25 giugno 2008, n. 27
Quesito del COA di Voghera, rel. cons. Bianchi
Il quesito concerne la possibilità di iscrivere nella Sezione speciale dell’albo degli avvocati
riservata agli avvocati stabiliti un professionista che ha conseguito il titolo di “abogado” per
essersi iscritto all’Ilustre Colegio de Abogados de Madrid.
La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La richiesta di parere è irricevibile, poiché essa include le generalità del professionista interessato
e la questione potrebbe costituire oggetto di cognizione in sede di esercizio delle funzioni decisorie
del Consiglio nazionale forense.
Ai sensi del regolamento istitutivo, la Commissione consultiva del Consiglio nazionale forense può
esprimersi solo su richieste di parere provenienti da Consigli dell’ordine degli avvocati, o da enti e
associazioni, ma formulate in forma anonima, secondo criteri di generalità ed astrattezza, e in ogni
caso non riferibili fattispecie concrete che possano costituire oggetto di cognizione del Consiglio
nazionale in sede giurisdizionale.
A proposito del quesito possono solo essere richiamate la Direttiva 98/5/CE, la sua attuazione di cui
al decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96 e la giurisprudenza della Corte di Giustizia (per la quale
si segnalano gli atti della causa C-311/06 – Cavallera).”
Parere 25 giugno 2008, n. 28
Quesito del COA di Oristano, rel. cons. Cardone
Il Consiglio chiede se possa iscriversi nell’elenco di cui all’art. 17-bis della legge 30 luglio 1990,
n. 217, un professionista (indicato) già inserito nella sezione speciale dell’albo riservata agli
avvocati comunitarî stabiliti, fruendo del periodo di tempo trascorso nella detta sezione ai fini
dell’iscrizione.
La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La richiesta di parere è irricevibile, poiché essa include le generalità del professionista interessato
e la questione potrebbe costituire oggetto di cognizione in sede di esercizio delle funzioni decisorie
del Consiglio nazionale forense.”
Parere 25 giugno 2008, n. 29
Quesito dell’avv. Armin Schielein, rel. cons. Bianchi
Il richiedente, un singolo iscritto, chiede informazioni circa le modalità di iscrizione ad un “elenco
degli avvocati specialisti”.
La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La richiesta di parere è inammissibile, poiché proviene da un singolo iscritto, mentre la
Commissione consultiva del Consiglio nazionale forense è tenuta, a tenore di regolamento, a
riscontrare le sole richieste astratte di parere provenienti dai Consigli dell’Ordine.
L’interessato dovrà rivolgere la propria domanda di chiarimenti al Consiglio dell’Ordine di
appartenenza, salvo il fatto che non esistono nell’ordinamento italiano attuale quegli “elenchi di
avvocati specialisti” dei quali egli parla.
Parere 9 luglio 2008, n. 30
Quesito del COA di Lucca, rel. cons. Bianchi
Il quesito concerne il caso di cittadina comunitaria (rumena) residente in Italia, laureata in
giurisprudenza secondo l’ordinamento di quel Paese, ove ha svolto attività di pratica legale e che
chiede l’iscrizione nel registro dei praticanti in Italia.
La Commissione, dopo ampia discussione, fa propria la proposta del relatore e rende il seguente
parere:
“Va confermato in proposito l’orientamento già espresso dalla Commissione, in particolare e da
ultimo nei pareri 25 maggio 2005, n. 49 e 24 maggio 2006, n.28 (quest’ultimo con riguardo a
cittadini extracomunitari).
Il titolo di studi è considerato dal diritto comunitario sotto un duplice profilo: innanzitutto come
attestato di un percorso formativo in sé, e in secondo luogo come titolo abilitante all’esercizio di
determinate attività professionali regolamentate.
Nel caso di specie il diploma di laurea in giurisprudenza acquisito all’estero può assumere rilievo
accademico-formativo, e dunque essere riconosciuto ai fini della prosecuzione degli studi, a scopo
concorsuale o ad altri fini, ovvero può essere considerato come il titolo presupposto per l’accesso
(ed il successivo esercizio) alla professione forense.
Nel primo caso, ossia ai fini della piena equiparazione della laurea rumena a quella italiana, la
normativa applicabile è quella internazionale pattizia. Infatti Italia e Romania hanno entrambe
sottoscritto e ratificato la “Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi
all’insegnamento superiore nella Regione europea”, fatta a Lisbona l’11 aprile 1997 (nel caso
italiano la ratifica è avvenuta con la legge 11 luglio 2002, n. 148 e l’atto è divenuto operativo nel
nostro ordinamento dal 26 luglio 2002; per la Romania la Convenzione è in vigore dal 1° marzo
1999).
La legge che ha autorizzato la ratifica della citata Convenzione ha disposto che siano,
nell’ordinamento italiano, i singoli Atenei, nell’ambito della loro autonomia e in conformità ai
rispettivi ordinamenti, a provvedere sulle domande di riconoscimento (art. 2, l. 148/2002).
La laureata in giurisprudenza potrà, ove intenda percorrere questa strada, presentare domanda di
riconoscimento presso qualsiasi Università della Repubblica nella quale sia istituito il corso di
laurea in giurisprudenza. L’Ateneo dovrà provvedere entro novanta giorni dalla richiesta.
Se, viceversa, la cittadina comunitaria intende valersi del proprio diploma di laurea al fine esclusivo
e specifico di essere iscritta nel registro dei praticanti avvocati, in tal caso spettano al Consiglio
dell’ordine competente per territorio le relative valutazioni.
A tal proposito, la più recente giurisprudenza comunitaria - ed in particolare la sentenza 13
novembre 2003, nella causa C-313/01 - Morgenbesser, recepita dalla giurisprudenza interna (Cass.
Sezioni unite, 19 aprile 2004, n. 7373) - ha precisato che il rifiuto dell’iscrizione non può essere
dovuto per il solo fatto che il titolo proviene da istituzione accademica straniera.
La sentenza ha posto il principio che “il diritto comunitario si oppone al rifiuto da parte delle
autorità di uno Stato membro di iscrivere, nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica
necessario per essere ammessi alla professione di avvocato, il titolare di una laurea in
giurisprudenza conseguita in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una
laurea in giurisprudenza conferita, confermata o riconosciuta come equivalente da un'università
del primo Stato”. Così che “spetta all'autorità competente verificare, ..., se, e in quale misura, si
debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato in un altro Stato membro e le
qualifiche o l'esperienza professionale ottenute in quest'ultimo, nonché l'esperienza ottenuta nello
Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le
condizioni richieste per accedere all'attività di cui trattasi”.
Più precisamente ed in dettaglio è precisato non trattarsi “di una semplice questione di
riconoscimento di titoli accademici, ... per quanto pertinente e persino determinante per
l’iscrizione” agli albi e registri professionali, poiché in casi siffatti non va verificata soltanto
“l’equivalenza accademica del diploma di cui si avvale l’interessato rispetto al diploma
normalmente richiesto ai cittadini dello stato ospitante”, ma la presa in considerazione del titolo
accademico dev’essere “effettuata nell’ambito della valutazione dell’insieme della formazione,
accademica e professionale” che l’istante può far valere.
La procedura di valutazione, che l’autorità competente dello Stato membro ospitante (da
identificarsi nel Consiglio dell’ordine che tiene il registro nel quale l’iscrizione è richiesta) ha il
dovere di compiere, deve tendere ad “assicurarsi obiettivamente che il diploma straniero attesti, da
parte del suo titolare, il possesso di conoscenze e di qualifiche, se non identiche, quanto meno
equivalenti a quelle attestate dal diploma nazionale. Tale valutazione dell'equivalenza del diploma
straniero deve effettuarsi esclusivamente in considerazione del livello delle conoscenze e delle
qualifiche che questo diploma, tenuto conto della natura e della durata degli studi e della
formazione pratica di cui attesta il compimento, consente di presumere in possesso del titolare”.
Nel contesto di questo esame l’autorità competente dello Stato membro “può tuttavia prendere in
considerazione differenze obiettive relative tanto al contesto giuridico della professione
considerata nello Stato membro di provenienza quanto al suo campo di attività. Nel caso della
professione di avvocato, lo Stato membro ha pertanto il diritto di procedere ad un esame
comparativo dei diplomi tenendo conto delle differenze rilevate tra gli ordinamenti giudiziari
nazionali interessati”. Se “a seguito di tale confronto emerge una corrispondenza solo parziale tra
dette conoscenze e qualifiche, lo Stato membro ospitante ha il diritto di pretendere che l'interessato
dimostri di aver maturato le conoscenze e le qualifiche mancanti”. Ed a questo proposito “spetta
alle autorità nazionali competenti valutare se le conoscenze acquisite nello Stato membro ospitante
nel contesto di un ciclo di studi ovvero anche di un'esperienza pratica siano valide ai fini
dell'accertamento del possesso delle conoscenze mancanti”.
La giurisprudenza comunitaria risulta pienamente recepita dal Consiglio nazionale forense che in
sede giurisdizionale ha condotto esame di merito dei requisiti per l’iscrizione, confermando in un
caso (29 maggio 2006, n. 35) il diniego del Consiglio territoriale e riformandolo in altro caso (8
ottobre 2007, n. 141). Le sentenze citate sono consultabili per esteso all’indirizzo web:
http://cnf.ipsoa.it/comuni/home.jsp.
Sarà, in conclusione, il Consiglio dell’ordine che dovrà valutare la completezza del percorso
formativo, non solo accademico, della richiedente ai fini del proficuo svolgimento del tirocinio
professionale, considerando la documentazione da questa prodotta in relazione al sistema
giudiziario ed accademico di provenienza, al corso degli studi scelto ed al complesso delle sue
esperienze pratiche.”
Parere 9 luglio 2008, n. 31
Quesito del COA di Massa-Carrara, rel. cons. Florio
L’Ordine richiedente domanda: “se possa un avvocato che ha partecipato ad un corso di
perfezionamento e specializzazione organizzato da una Università e dall’Ordine degli Avvocati del
luogo, indicare nella propria carta intestata la specializzazione così conseguita con la semplice
dicitura «specializzato in...» ai sensi dell’art. 17 e 17-bis cod. deont.”.
La Commissione, dopo ampia discussione, fa propria la proposta del relatore e rende il seguente
parere:
“L’art. 17-bis del codice deontologico dà all’avvocato la possibilità di indicare “i diplomi di
specializzazione conseguiti presso gli istituti universitari”.
Deve quindi trattarsi di diplomi in senso stretto (che quindi presuppongono, tra l’altro, un esame
finale), ai quali non sembra equiparabile un semplice corso di approfondimento, ancorché esso sia
atecnicamente denominato con l’uso della parola “specializzazione”.
Se l’iscritto ha ottenuto il diploma nel senso sopra indicato, potrà definirsi specializzato, e dovrà
indicare anche l’università che gli ha rilasciato il diploma.
In caso contrario, il riferimento alla specializzazione non è consentito nella carta intestata, ma può
solo essere inserito, nell’eventuale curriculum, il riferimento al corso frequentato.
Nel diverso caso della nozione di “materia prevalente” è consentita la menzione nella carta
intestata, purché però vi sia un effettivo esercizio in via prevalente della professione nel settore
indicato, da confermare anche attraverso la formazione continua nel medesimo settore, ai senti del
Regolamento del C.N.F. del 13 luglio 2007.”
Parere 9 luglio 2008, n. 32
Quesito del COA di Siracusa, rel. cons. Cardone
Si espone il caso di un Consiglio dell’Ordine di recente rinnovato, nel quale i precedenti
consiglieri, cessati dalla carica, restituiscano i fascicoli dei procedimenti disciplinari già celebrati
e in attesa di deposito della decisione, affermando di non avere più alcun dovere di redazione delle
sentenze in seguito al venire meno della carica consiliare.
L’Ordine pertanto formula quesito nei seguenti termini: “se, a seguito della cessazione dalla
funzione di Consigliere, questi, a suo tempo designato relatore, abbia l’obbligo di redigere e
depositare la decisione con la relativa motivazione in relazione a un procedimento disciplinare che,
dal verbale della seduta risulta essere andato in decisione”.
La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Non può esservi dubbio che il consigliere relatore di un procedimento disciplinare abbia l’obbligo
– ai sensi dell’art. 51, comma terzo, R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 - di redigere la decisione,
curandone il deposito presso la segreteria dell’Ordine.
Tale onere non viene meno in caso di rinnovo delle cariche consiliari, trattandosi di attività legata al
collegio che ha presenziato alle udienze e deliberato la decisione in camera di consiglio.
Bisogna, pertanto, concludere che è obbligo dell’avvocato, cui sia affidata la funzione di relatore di
un procedimento disciplinare, curare la redazione ed il deposito della decisione completa di ogni
suo elemento, senza che la cessazione dalla carica importi alcunché in merito all’obbligo
medesimo.”
Parere 9 luglio 2008, n. 33
Quesito del COA di Genova, rel. cons. Florio
L’Ordine chiede come debba considerarsi la richiesta di magistrati onorarî tesa a beneficiare di
iscrizione di diritto all’albo degli avvocati senza il superamento dell’esame di Stato.
La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Appare corretto quanto rilevato dal COA richiedente, cioè che la norma della legge professionale
(art. 30) che consente le iscrizioni di diritto, è di stretta interpretazione estensiva o analogica si
porrebbe in netto contrasto con l’art. 33 Cost.
Pertanto, la possibilità di iscrizione di diritto in favore dei Vice Pretori onorari non può intendersi
estesa a tutti i magistrati onorari, ma va considerata come un’eccezione alla regola generale,
peraltro superata dalla scomparsa della citata figura di magistrato onorario.
Nella legge sull’ordinamento giudiziario le figure del magistrato professionale appartenente
all’ordine giudiziario e quella del magistrato onorario sono ben distinte.
Nella relazione che accompagnava il testo di legge originario (anno 1941) il Guardasigilli Grandi
scriveva al Re: “Ho meglio specificato da quali persone sia composto l’ordine giudiziario … ho
riservato questo titolo a coloro che, superate le difficili prove di ammissione alle funzioni
giudiziarie, dedicano tutte le loro attività all’amministrazione della giustizia”.
Se ne deduce che il superamento del difficile esame di concorso era già allora considerato un
requisito indispensabile, e ciò spiega perché tale esame sia sempre stato ritenuto equivalente al
nostro esame di Stato.
Per le considerazioni che precedono, si ritiene che il laureato in legge, il quale – dopo l’ottenimento
del certificato di compiuta pratica – abbia prestato la sua attività per oltre 15 anni quale Magistrato
Onorario, rivestendo la funzione di Vice Procuratore Onorario e successivamente del Giudice
Onorario di Tribunale, non possa essere iscritto all’Albo degli Avvocati senza sostenere e superare
l’esame di ammissione.”
Parere 9 luglio 2008, n. 34
Quesito del COA di Matera, rel. cons. Cardone
Il Consiglio dell’Ordine chiede se l’assunzione del patrocinio difensivo da parte di un avvocato in
un giudizio, o nei successivi gradi, nel quale abbia precedentemente assunto la veste di sostituto
processuale dell’avvocato della controparte in una udienza, costituisca illecito deontologico.
La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La richiesta di parere è inammissibile, poiché un pronunciamento della Commissione su una
questione di merito di carattere deontologico rischia verosimilmente di interferire con l’esercizio
delle funzioni giurisdizionali attribuite dalla legge al Consiglio nazionale forense in forma
plenaria.”
Parere 11 dicembre 2008, n. 35
Quesito del COA di Pordenone, rel. cons. Allorio
Il Consiglio dell’Ordine, nella propria comunicazione, sottolinea che nella precedente richiesta
(alla quale si è dato seguito con il parere 12 dicembre 2007, n. 53) si prospettava un caso generico,
nel quale vi fosse un cliente il quale – nel mentre viene assistito per procedure di separazione o di
divorzio – intrattenga una relazione sentimentale con il professionista, a prescindere che si tratti di
una moglie ovvero di un marito.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Anche alla luce delle precisazioni inviate da parte dell’Ordine interessato, si conferma
l’inammissibilità del quesito originario, in quanto un pronunciamento sulla specifica vicenda – ossia
sulla sussistenza di una responsabilità deontologica per il descritto contegno – potrebbe integrare
un’astratta interferenza con l’attività giurisdizionale attribuita dalla legge al Consiglio dell’Ordine e,
in sede di gravame, al C.N.F.
Quanto all’utilizzo di termini maschili o femminili nella sintesi del quesito che è premessa al parere,
va evidenziato che tale formulazione è del tutto indifferente e non influisce sulla deliberazione della
Commissione, atteso che la sintesi dei quesiti è redatta a mero scopo illustrativo.”
La Commissione, a latere del parere, rileva che le comunicazioni pervenute dall’Ordine contengono
anche una proposta di modifica della normativa deontologica atta a prevedere espressamente il caso
in oggetto. Si comunica, perciò, che dell’argomento sarà interessata la commissione deontologica
del Consiglio Nazionale per le eventuali conferenti modifiche al codice deontologico.”
Si delibera l’invio della documentazione al Coordinatore della Commissione deontologica.
Parere 11 dicembre 2008, n. 36
Quesito del COA di Pescara, rel. cons. Allorio
L’ordine, facendo seguito ad una precedente richiesta, formula quesito circa la compatibilità con le
norme legislative e deontologiche del contegno di un avvocato che intenda svolgere consulenza
legale telefonica, predisponendo un numero a tariffazione speciale, sì che all’utente sia addebitato
un costo correlato alla durata della chiamata.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Si ritiene necessario, per inquadrare correttamente la fattispecie descritta, scindere chiaramente la
consulenza resa per via telefonica in sé e per sé rispetto alle modalità e circostanze nelle quali tale
prestazione viene resa da parte dell’avvocato.
Infatti il mezzo telefonico e telematico è pacificamente ammesso quale canale del quale è consentito
valersi per rendere consulenze legali, questo genere di comunicazione con la clientela rientrando tra
le prestazioni tipiche descritte nella tariffa forense attualmente vigente (cfr. D.M. Giustizia 8 aprile
2004, n. 127, tabella D).
Questa considerazione di fondo non vale ovviamente a compromettere il potere-dovere dell’Ordine
forense di vigilare sul corretto esercizio della professione da parte degli iscritti. È infatti necessario
che qualunque offerta da parte dell’avvocato di prestare la propria attività professionale sia
conforme ai canoni di dignità e decoro nello svolgimento della professione sui quali si regge il
sistema della deontologia forense.
Tale funzione di vigilanza dovrà essere ancor più attenta in casi come quello prefigurato nel quesito,
nei quali l’offerta di consulenza è rivolta ad un pubblico sostanzialmente indistinto ed è
verosimilmente accompagnata da una comunicazione a carattere promozionale. Pertanto il
Consiglio dell’Ordine competente dovrà vagliare le modalità concrete con le quali il servizio è
offerto ed erogato, censurando eventuali elementi degradanti per la dignità dell’avvocatura.
Circa il profilo specifico della tariffazione a tempo, essa rientra tra i criterî utilizzati dalle vigenti
tariffe e non può considerarsi quindi in assoluto estranea al nostro sistema: cionondimeno spetta al
Consiglio dell’Ordine verificare che il corrispettivo richiesto per il tramite del servizio telefonico
non sia manifestamente sproporzionato alla prestazione resa, e per questo deontologicamente
censurabile.
Peraltro va ricordato che un’iniziativa del tipo descritto dovrà rispettare non solo la normativa
forense, ma anche la vigente legislazione posta a tutela del pubblico in materia di consultazioni
telefoniche a pagamento, sicché la modalità ed i contenuti del servizio dovranno tenere conto dei
vincoli di correttezza e trasparenza previsti in questo settore (ad es. quanto all’informazione del
pubblico rispetto ai costi massimi, all’identità del prestatore e dell’intermediario etc.).”
Parere 11 dicembre 2008, n. 37
Quesito del COA di Mantova, rel. cons. Cardone
L’Ordine richiedente riferisce che una locale azienda ASL ha istituito un “albo dei responsabili
della sicurezza, prevenzione e protezione (R.S.P.P.)”, elenco non previsto dalla legge ma che pare
volto ad agevolare le aziende nell’individuare soggetti in possesso dei requisiti previsti dall’art. 8bis, d. lgs. 626/94. Si chiede, pertanto, se l’iscrizione in un siffatto elenco, preordinata allo
svolgimento di una consulenza a carattere tecnico presso una clientela aziendale, possa
considerarsi compatibile con l’iscrizione nell’albo degli avvocati.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Come da consolidata prassi della Commissione, è necessaria premessa che le disposizioni
concernenti l’incompatibilità all’esercizio della professione di avvocato sono eccezionali e
restrittive di un diritto soggettivo perfetto, pur a tutela di un prevalente interesse pubblico, sicché
esse sono di stretta interpretazione ed insuscettibili di estensione analogica.
Ciò posto, l’ipotesi prefigurata non può essere disgiunta dal tipo di attività che l’avvocato vada a
svolgere a favore dell’azienda interessata, dal momento che l’elenco istituito dall’ASL non
costituisce una nuova “professione” né ha carattere di elenco pubblico previsto dalla legge.
Tali informazioni possono essere acquisite dall’Ordine nel caso specifico.
La Commissione deve invece desumere il tipo di attività che i soggetti inseriti nell’elenco andranno
a svolgere dal quadro normativo vigente.
In particolare si deve avere riguardo ai soggetti di cui agli artt. 8 ed 8-bis del d. lgs. 19 settembre
1994, n. 626, norma oggi abrogata, ma che trova una sostanziale continuità negli artt. 31 e 32 del d.
lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
Gli addetti ed i responsabili al “servizio di prevenzione e protezione” dell’azienda devono
possedere alcuni requisiti di tipo formativo ed esperienziale (indicati nell’art. 32 cit.), ma quanto al
regime professionale possono essere sia dipendenti dell’azienda sia soggetti esterni; in ogni caso,
poi, devono reperirsi figure estranee al complesso aziendale in assenza di personale interno
provvisto delle qualifiche necessarie.
Pertanto è necessario concludere che la mera iscrizione nell’elenco istituito ad opera dell’ASL non
vale di per sé ad influenzare il regime delle incompatibilità: se l’interessato instaura un rapporto di
lavoro dipendente con l’impresa allora sarà senz’altro necessaria la cancellazione dall’albo degli
avvocati; se, al contrario, egli presta un’attività di consulenza mantenendo la propria qualità di
libero professionista, non sussistono elementi di incompatibilità.
Quanto alla circostanza, evidenziata nel quesito, che l’apporto fornito dal professionista all’azienda
cliente sia di carattere più tecnico che legale non pare possa costituire oggetto di un sindacato di
merito, sia perché nella materia della sicurezza sul lavoro si intrecciano profili giuridici con
questioni più strettamente tecniche, sia perché la consulenza legale non è, nel nostro ordinamento,
sottoposta a controlli di contenuto o a speciali divieti.
In conclusione si evidenzia che, pur sussistendo in capo al Consiglio dell’Ordine il più pieno potere
di verifica delle circostanze di ciascun singolo caso, non emergono nella fattispecie indicata
elementi idonei a determinare un’incompatibilità tra l’iscrizione all’albo e la presenza nel descritto
elenco.”
Parere 11 dicembre 2008, n. 38
Quesito del COA di Sassari, rel. cons. Bianchi
I quesiti riguardano il Regolamento per la formazione continua approvato dal Consiglio nazionale
forense il 13 luglio 2007 ed in particolare gli esoneri per i docenti universitari e la posizione dei
consiglieri dell’ordine in carica.
La Commissione, dopo ampia discussione congiunta con la Commissione per l’accesso e la
formazione, fa propria la proposta del relatore e rende il seguente parere:
“1. L’art. 5, comma 1, del Regolamento prevede l’esonero dagli obblighi formativi, relativamente
alle materie di insegnamento, per i docenti universitari di prima e seconda fascia nonché per i
ricercatori con incarico d’insegnamento, fermo restando l’obbligo relativamente alla materia
deontologica, previdenziale e di ordinamento professionale.
La portata della disposizione va correlata con la regola generale della libertà di scelta recata dal
comma 4 dell’articolo 2 secondo la quale la formazione continua non deve necessariamente
riguardare la totalità delle materie giuridiche (né lo potrebbe), essendo rimessa al singolo
professionista la scelta del percorso formativo più confacente ai propri interessi ed alla propria
attività (tenendo conto, naturalmente, delle disposizioni dell’art. 1 comma 3 e 2 comma 5 a
proposito della formazione negli ambiti di esercizio di attività prevalente dei quali sia data
comunicazione).
L’esonero quindi s’intende totale, sul presupposto che l’attività di ricerca ed insegnamento
universitario implichi particolare costanza di accrescimento ed approfondimento delle conoscenze e
competenze utili anche alla professione.
Il riferimento regolamentare alle “materie d’insegnamento” collega la formazione soltanto a tali
materie, le sole che potranno essere oggetto di comunicazione quali settori di attività prevalente.
In altre parole ed in sostanza l’attività formativa non è richiesta al docente per il solo fatto che è
tale, qualsiasi sia la branca di esercizio; a meno che non effettui dichiarazioni che equivalgano ad
indicazioni sull’attività prevalente, nel qual caso occorre un supplemento di accertamento: la
verifica della relazione tra materia insegnata ed attività prevalente. Un criterio per elaborare il
giudizio di coerenza o di eccentricità (tra insegnamento ed attività prevalente) potrebbe essere
quello di attingere alle declaratorie delle materie universitarie raggruppate (ad es. IUS 01 raccoglie
tutte le materie civilistiche).
2. Nessun esonero è esplicitamente previsto dal Regolamento per i Consiglieri dell’ordine,
nemmeno limitatamente all’ordinamento professionale e previdenziale ed alla deontologia. Risulta
peraltro che alcuni Consigli territoriali dell’ordine abbiano previsto l’esonero, con riferimento
all’area deontologica, con norme regolamentari integrative.
La partecipazione effettiva e documentata a commissioni di studio, gruppi di lavoro o commissioni
consiliari istituite dal Consiglio dell’ordine (evento formativo ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera
b)) rileva per i partecipanti “in qualità di membro esterno”, secondo l’interpretazione fornita dalla
relazione di accompagnamento al Regolamento (sub art. 3 n. 2), che la Commissione ritiene di poter
confermare”.
Parere 11 dicembre 2008, n. 39
Quesito del COA di Pisa, rel. cons. Bianchi
Il quesito riguarda la competenza della Commissione per l’accesso agli atti amministrativi della
Presidenza del Consiglio dei Ministri a conoscere dei ricorsi nei casi di diniego dell’accesso ad atti
dei Consigli locali dell’ordine forense.
Dopo ampia discussione, la Commissione fa propria la proposta del relatore e, premesso che la
rilevante portata generale del caso sottoposto nonché l’assenza di qualsiasi potenziale interferenza
con l’attività giurisdizionale consentono di ritenere ammissibile il quesito, adotta il seguente parere:
“Se appare scontata la natura pubblicistica dei Consigli dell’ordine forense anche nelle loro
articolazioni locali e quindi la loro appartenenza alla “pubblica amministrazione” agli effetti della
legge 241/1990, la competenza della Commissione istituita presso la Presidenza del Consiglio dei
Ministri, quale istanza sovraordinata per i ricorsi nei casi di diniego d’accesso, risulta avere un
ambito oltremodo più ristretto, mentre –in punto di competenza- la decisione adottata dalla
Commissione nel caso non appare convincente, fondata com’è su giurisprudenza non in termini.
Del segnalato distinto ambito di operatività è evidente segnale letterale e sistematico, interno alla
normativa di cui alla legge citata, la sensibile differenza espressiva tra la definizione di cui all’art.
22, comma 1, lettera e), che intende quale pubblica amministrazione alla quale è dichiarata
applicabile la disciplina dell’accesso “tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato
limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
comunitario”, e la limitazione, invece, della richiesta di riesame da rivolgersi alla predetta
Commissione per l’accesso agli “atti delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato” (art.
25). Analoga distinzione appare chiara nell’articolo 29 della stessa legge.
Il concentrico disegno che ne emerge porta evidentemente ad escludere dallo speciale rimedio
giustiziale gli atti di diniego provenienti da soggetti che non siano amministrazioni dello Stato.
I Consigli dell’ordine degli avvocati (tanto nell’espressione centrale quanto nelle periferiche) sono
senza dubbio e notoriamente enti pubblici non economici ad appartenenza necessaria (per un
approfondito esame, anche sotto il profilo storico, della loro evoluzione e dello stato giuridico
attuale, si veda: G. COLAVITTI, Rappresentanza e interessi organizzati, Milano, 2005, pagg. 251 e
seguenti in particolare). Ancorché l’interesse pubblico che perseguono, finalizzato a garantire il
corretto esercizio della professione a tutela dell’affidamento della collettività, abbia dimensione
nazionale e sia infrazionabile (Corte Costituzionale, sentenza 3 novembre 2005, n. 405), essi non
appaiono tuttavia in alcun modo riconducibili all’”Amministrazione dello Stato”.
In tal senso è tra l’altro costante la giurisprudenza della Corte di Cassazione (per la quale si vedano,
tra le altre, le sentenze 1 febbraio 1995, n. 1115; 2 aprile 2001, n. 4788; 13 aprile 2001, n. 5566; 3
maggio 2005, n. 9097; 28 marzo 2006, n. 7094; 10 maggio 2007, n. 10704), in linea con la
giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee. La suprema Corte, pronunciando
particolarmente in tema di tariffe ed ordinamento deontologico, è ferma nel considerare
l’espressione centrale degli ordini professionali in genere e di quello forense in particolare quale
“autorità non statale”, pure dotata di autonomo potere regolamentare che ripete la sua disciplina da
leggi speciali. Anzi: proprio sull’alterità dell’ordine forense rispetto allo Stato, la Corte di Giustizia
fonda la compatibilità del regime tariffario con la disciplina comunitaria della concorrenza.
Il quesito, pertanto, va risolto nel senso dell’incompetenza della Commissione.”
Parere 11 dicembre 2008, n. 40
Quesito della Sezione polizia giudiziaria della Polizia di Stato presso la Procura della
Repubblica di Roma, rel. cons. Cardone
Il primo dei quesiti proposti attiene alla decorrenza degli effetti del provvedimento di cancellazione
dall’albo su richiesta dell’interessato.
Il secondo quesito attiene alla possibilità di rilasciare la certificazione di cancellazione a terzi che
ne facciano richiesta, precisando in caso affermativo, le modalità di accesso e le eventuali imposte
da pagare.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Con riferimento al primo dei quesiti proposti, si osserva che, pur avendo il provvedimento di
cancellazione su richiesta dell’iscritto natura evidentemente costitutiva, specularmente a quanto
accade per il provvedimento di iscrizione, va considerato che la norma di cui all’art. 37, comma 3,
R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, prevede la necessaria notifica del provvedimento di
cancellazione sia all’interessato che al pubblico ministero. Se ne ricava che la decorrenza degli
effetti della cancellazione vada calcolata in relazione alla data della notifica del provvedimento.
Con riferimento al secondo quesito, attesa la natura pubblica dell’albo professionale, la
Commissione ritiene del tutto lecito il rilascio della certificazione di cancellazione a terzi che ne
facciano richiesta, presentando apposita domanda al Consiglio dell’ordine competente, che
riscuoterà gli eventuali diritti di segreteria e copia.”
Parere 11 dicembre 2008, n. 41
Quesito del COA di Brescia, rel. cons. Bianchi
Il Consiglio dell’ordine forense di Brescia chiede se, anche alla luce dell’orientamento del giudice
amministrativo, si può affermare e riconoscere che il conseguimento del diploma di
specializzazione della scuola per le professioni legali di cui all’art. 16, d. lgs. 398/1997 esonera il
praticante dall’iscrizione biennale nel registro dei praticanti o, al contrario, si deve continuare ad
affermare che è necessaria l’iscrizione al registro dei praticanti per almeno due anni.
Dopo ampia discussione congiunta con la Commissione per l’accesso e la formazione, la
Commissione fa propria la proposta del relatore e, premesso che la rilevante portata generale del
caso sottoposto nonché la deliberazione d’iscrizione che risulta adottata nel caso specifico
consentono di ritenere ammissibile il quesito, adotta il seguente parere:
“1-. La questione propone argomenti sui quali – come ricorda il COA richiedente – il Consiglio
Nazionale Forense ha espresso una posizione consolidata, attraverso due pareri dell’anno 2005 (nn.
27 e 72) conformi a quanto già nella circolare 30-B/2003 del 24 ottobre 2003.
Tale impostazione va confermata, nonostante il difforme orientamento del giudice amministrativo.
Va al proposito ricordato che:
1.1) ai sensi del D.M. Giustizia 11.12.2001, n. 475 (GU n. 25 del 30.1.2002) solo il diploma
conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali di cui all’art. 16 del decreto
legislativo 17.11.1997 n. 398 e successive modifiche “(…) è valutato ai fini del compimento del
periodo di pratica per l’accesso alle professioni di avvocato e notaio per il periodo di un anno”;
1.2) la frequenza di una delle suddette scuole è di per sé inidonea a garantire il beneficio di
cui al D.M. cit.;
1.3) la frequenza è compatibile con l’eventuale compimento del periodo di pratica
tradizionale ed in particolare con la partecipazione alle udienze;
1.4) “(…) in ogni caso il periodo complessivo di formazione post laurea del praticante non
può essere inferiore a due anni solari”;
1.5) l’iscritto nel registro il quale, frequentando la scuola, non ottenga il diploma, può – ai
sensi dell’art. 1, 3° comma del DPR n. 101 del 1990 – utilizzare il dato della frequenza come se
fosse relativa ad un corso post-universitario e quindi esonerarsi dalla sola pratica dello studio (e non
dalla partecipazione alle udienze) per il periodo di un anno.
2-. Ciò detto, la soluzione della questione suppone, nel quadro della conferma delle premesse poste
dalla citata circolare, l’ulteriore precisazione dei nessi (e delle relative conseguenze) che si
instaurano tra le principali norme che regolano la materia.
Tra esse spicca, da un lato, l’art. 17, 1° comma, n. 5) del RDL 27.11.1938, n. 1578 (come
modificato dall’art. 2 della legge n. 406 del 1985) e dall’altro il complesso normativo costituito
dalla legge (delega) 15.5.1997, n. 127 (art. 17, 114° comma), dal decreto legislativo (di attuazione
della predetta delega) 17.11.1997, n. 398 (art. 16) e dal D.M. Giustizia 11.12.2001, n. 475 cit.
(articolo unico).
L’art. 17, 1° comma, n. 5 del RDL 1578/1933 cit. prevede che per l’iscrizione nell’albo degli
avvocati è necessario, tra l’altro, aver compiuto (lodevolmente e proficuamente) un periodo di
pratica frequentando, per almeno due anni consecutivi posteriormente alla laurea, lo studio di un
avvocato, assistendo alle udienze civili e penali. A questa esigenza si finalizza l’iscrizione nel
registro dei praticanti.
Con il secondo gruppo di norme si prevede (per quanto qui rileva) che il conseguimento del
diploma presso una scuola di specializzazione è valutato ai fini del compimento del periodo di
pratica per il periodo di un anno.
Se da un lato è evidente che solo il conseguimento del diploma (e non la mera frequenza) assicura il
risultato premiale sul fronte della pratica, dall’altro si potrebbe ritenere che quest’ultima, una volta
conseguito diploma, è ridotta ad un anno e correlativamente ad un anno è ridotta la durata
dell’iscrizione nel registro dei praticanti.
Questa conclusione combacerebbe anche con l’art. 17, 114° comma della legge delega n. 127 del
1997 che, nel riservare al regolamento da emanare con successivo D.M. la disciplina dei termini
entro cui il diploma può costituire titolo valutabile ai fini del compimento della pratica (D.M. nella
specie identificabile in quello n. 475 dell’11.12.2001), avverte che tale regolamento è adottato
“(…) anche in deroga alle vigenti disposizioni relative all’accesso alle professioni di avvocato e
notaio”.
Ciò fa venire meno l’ipotetico contrario argomento per cui il decreto ministeriale non potrebbe
novare la materia della pratica col ridurla ad un anno siccome norma di rango inferiore rispetto a
quella dell’art. 17, 1° comma, n. 5) RDL 1578/1933 che quella pratica vuole sia svolta per due anni
consecutivi dopo la laurea. Infatti, la normazione per decreto non incontra l’anzidetto limite stante il
rinvio autorizzatorio contenuto nell’art. 17, 114° comma della legge delega n. 127 del 1997 che
permette la posizione di una disciplina anche in deroga alle vigenti disposizioni relative all’accesso.
Tuttavia, l’interpretazione da preferire (per i motivi che ora si diranno) è quella per cui non è la
durata della pratica (e la correlativa necessità di iscrizione nel registro), ma la sua modalità di
attuazione ad essere stata oggetto di intervento novativo.
3-. Infatti, l’art. 17, 114° comma della legge (delega) n. 127 del 1997, nell’autorizzare il Ministro a
regolamentare la materia anche in deroga alla legislazione vigente, prevede che “(…) il diploma
(…) costituisce, nei termini che saranno definiti con decreto del Ministro della giustizia (…) titolo
valutabile ai fini del compimento del relativo periodo di pratica”.
Ma un conto è la possibilità che un anno sia sostituito dal diploma, ferma rimanendo la pratica
biennale, altro è dire che quest’ultima sia ridotta ad un anno.
L’interpretazione letterale e sistematica fa ritenere che sia la prima la soluzione corretta e pertanto
che il decreto ministeriale in commento abbia novato la sola modalità di computo del periodo
biennale di pratica e non la sua durata; sotto il profilo letterale, infatti, alludere al “(…) compimento
del relativo periodo di pratica” significa rimandare, con l’uso del termine relativo, al periodo di
pratica previsto dalla legge (due anni) ed ammettere – con l’uso del termine compimento – che esso
può ritenersi compiuto anche quando uno dei due anni sia sostituito dal diploma.
Sotto il profilo dell’analisi di sistema, poi, non sfugge come la seconda soluzione assegna alla
deroga della norma primaria operata dal regolamento, un ambito di incidenza modificatrice
maggiore di quella frutto della prima opzione dato che quest’ultima circoscrive la novità normativa
alla sola modalità di computo del periodo di pratica, questa restando per il resto non investita dalla
modifica.
Il riferimento ad un’interpretazione della norma condizionata anche dalla misura della deroga,
valorizza il principio della eccezionalità del potere di modifica e della tendenziale conservazione
dell’enunciato normativo.
Si consideri poi che la seconda soluzione permetterebbe di ottenere il certificato di compiuta pratica
anche prima del decorso di due anni dalla laurea (come invece richiesto dall’art. 17, 1° comma, n.
5) cit.) e ciò quale conseguenza della non coincidenza dell’anno solare con l’anno accademico, dato
che il diploma può – dal punto di vista del computo in anno solare – essere conseguito dopo un
anno e mezzo dall’iscrizione alla scuola.
Ciò si tradurrebbe in forma di disparità di trattamento tra praticanti, alcuni dei quali costretti ed altri
no, a rispettare il requisito del biennio senza che la discriminante possa nemmeno essere ricondotta
un atto volitivo dell’interessato posto che l’attuale meccanismo di accesso alle scuole, basato sul
numero chiuso, esclude che ci si possa iscrivere sol perché lo si voglia.
La pratica resta pertanto quella biennale prevista dalla legge fondamentale, scandita da due anni
consecutivi successivi alla laurea, spesi nella frequenza di uno studio legale e nella partecipazione
alle udienze, un anno dei quali è sostituibile dal diploma in modo tale che il periodo complessivo di
pratica non risulti inferiore al biennio solare (in termini, TAR Calabria, Catanzaro, sez. I,
22.12.2003, n. 3605; contra, TAR Lazio, Roma, sez. III, 23.03.05, n. 3312; TAR Calabria,
Catanzaro, sez. III, 8.07.05, n. 1153; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 2.12.04, n. 8391; TAR Toscana,
Firenze, sez. I, 24.02.04, n. 506).
4-. La conclusione porta a ritenere che l’iscrizione nel registro debba protrarsi per almeno due anni
e, in conformità a quanto già ritenuto da questo Consiglio Nazionale Forense nella richiamata
circolare, per uno di essi la pratica dovrà svolgersi in modo (per così dire) tradizionale, mentre per
l’altro il consiglio dell’ordine interessato non potrà eccepire l’interruzione se la sua modalità di
svolgimento tradizionale sia surrogata dall’ostensione del diploma.
5-. Quanto detto, pur nella consapevolezza dell’opinione contraria di una parte della giurisprudenza
amministrativa, sfugge alle critiche da taluno avanzate.
Certamente inappropriata è quella con cui si denuncia un presunto effetto distorsivo conseguente al
fatto che la frequenza della scuola, finalizzata al conseguimento del diploma, è (per il momento)
biennale sicché la pratica si amplierebbe sostanzialmente a tre anni; così argomentando non si tiene
conto di quanto già rilevato dal Consiglio Nazionale Forense nella citata circolare laddove si
sottolinea che la frequenza è compatibile con lo svolgimento tradizionale della pratica.
Di guisa che è certamente ammissibile una parziale sovrapponibilità di quest’ultima e della
frequenza della scuola, considerando sia, in astratto, che la pratica è stata persino ritenuta
compatibile con la maggior parte dei rapporti di lavoro dipendente e dunque a maggior ragione lo è
con la frequenza di una scuola, sia, in concreto, che quest’ultima è quasi dappertutto organizzata in
modo tale da consentire ampia frequenza dello studio legale e delle udienze.
6-. Non convince nemmeno l’argomento per cui, se l’iscrizione biennale nel registro attribuisce al
consiglio dell’ordine un potere deontologico nei confronti del praticante, esso è in concreto
inesplicabile per l’anno di svolgimento non tradizionale della pratica.
Infatti, la presa deontologica si esprime anche in relazione a fatti e comportamenti estranei
all’esercizio della pratica ma che siano idonei a produrre un riflesso deontologico, sicché poca conta
che nell’anno di riferimento il praticante non esplichi attività tipica della pratica tradizionale
rappresentando la sua iscrizione nel registro la precondizione per un controllo deontologico
comunque possibile.
7-. Anche la sentenza del Consiglio di Stato sezione IV del 5 ottobre 2005, n. 5353 non appare
convincente alla Commissione.
Il Consiglio di Stato ammette che esistono fonti di rango primario che inequivocabilmente
stabiliscono la durata complessiva del tirocinio professionale in almeno due anni (cfr. articolo 17,
comma 1, lett. 5, Rdl 1578/33, e articolo 2, legge 406/85). Tuttavia afferma che la norma di legge
che ha autorizzato la fonte regolamentare a rendere la disciplina dei termini entro cui il diploma di
specializzazione può costituire titolo valutabile ai fini del compimento della pratica, nella misura in
cui ha disposto che il predetto regolamento è adottato "(...) anche in deroga alle vigenti disposizioni
relative all'accesso alle professioni di avvocato e notaio" (articolo 17, comma 114, legge 127/97), ha
consentito al successivo atto di esercizio della potestà normativa delegata di incidere non solo sulle
modalità concrete di svolgimento della pratica, ma anche sulla sua durata, perché la durata non
afferirebbe a quei "principi fondamentali" della materia che soli sarebbero al riparo dalla deroga. Il
giudice amministrativo propone quindi una ricognizione dei principi fondamentali che regolano
l'accesso alla professione di avvocato (nei generici termini di necessaria, idonea e adeguata
preparazione teorica e pratica, nonché di consapevolezza della funzione, dei diritti e dei doveri deontologia professionale- e di decoroso comportamento). Sennonché l’approccio appare assai
semplificato, per esempio nel mancato richiamo, tra i principi fondamentali, della necessità di un
esame di Stato per l'accesso alla professione di avvocato, principio di rango propriamente
costituzionale (cfr. articolo 33, comma 5, della Costituzione).
Sembra piuttosto che debba essere precisata l’effettiva portata della delegificazione operata con il
comma 114 dell'articolo 17 della legge 127/97. Al proposito è vero, come afferma il Consiglio di
Stato, che la legge non precisa quali siano le norme di rango primario effettivamente derogabili con
la fonte regolamentare, tuttavia appare discutibile distinguere, nell'ambito di tali disposizioni, quelle
che accedono al terreno dei principi fondamentali e quelle che non vi accedono.
Ritiene la Commissione che la norma primaria non individui le norme di legge derogabili perché
rimette tale scelta alla fonte regolamentare, in termini assolutamente eventuali ("anche in deroga" e
non, semplicemente, "in deroga"), secondo una tecnica di delegificazione forse incoerente ma assai
diffusa nell’ordinamento.
Nel caso di specie l'atto di esercizio del potere regolamentare in oggetto è il decreto del ministro
della Giustizia 475/01, che nel suo articolo unico, come detto, dispone che "il diploma di
specializzazione è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per l'accesso alle
professioni di avvocato e notaio per il periodo di un anno". Da questa formulazione non pare
possibile ricavare un'intenzione nel senso della deroga alle norme di legge che prevedono una
durata complessiva del tirocinio di almeno due anni. Ed è almeno indubbio che sia del tutto assente,
dal testo riportato, una norma esplicita in questo senso.
Pare ragionevolmente potersi concludere che la fonte regolamentare abbia fatto un uso molto
moderato della facoltà di deroga concessa dalla legge. Ha sancito che il diploma tiene luogo della
pratica "tradizionale" per un anno, ma nulla ha disposto in ordine alla durata complessiva del
periodo di tirocinio che, ai sensi della legge, si svolge "almeno per due anni consecutivi,
posteriormente alla laurea". In ipotesi, in base all'ampia deroga concessa, la fonte regolamentare
avrebbe potuto dotare di valenza maggiore il diploma. Poiché essa nulla dispone in ordine alla
durata complessiva del tirocinio, questa resta regolata dalle fonti primarie in materia, a nulla
rilevando che queste fonti accedano o meno all'area dei principi fondamentali che reggono la
disciplina dell'accesso alla professione.
8-. In conclusione, la Commissione ritiene di confermare che il conseguimento del diploma di cui si
discute, se esonera per un anno dall’effettuare la pratica nel modo tradizionale descritto dall’art. 17,
1° comma, n. 5), RDL 1578/1933, non esonera tuttavia dall’iscrizione biennale nel registro dei
praticanti.”
Parere 11 dicembre 2008, n. 42
Quesito dell’avv. Lucia Loprieno, rel. cons. Cardone
La Commissione, dopo ampia discussione, delibera il seguente parere:
“Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo avvocato, mentre la Commissione
consultiva del C.N.F. può giudicare solo su richieste provenienti da Ordini degli avvocati o da enti
ed associazioni.
L’interessata ha già rivolto quesito al proprio Consiglio dell’ordine, il quale ha ritenuto di non
potersi esprimere, trattandosi di materia possibile oggetto di cognizione in sede disciplinare.
L’interessata, nella nota inviata, allude pertanto al fatto che il competente Ordine locale (COA
Venezia) l’avrebbe autorizzata ad inoltrare il quesito al Consiglio nazionale. In via generale, deve
rilevarsi come il singolo iscritto sia tenuto ad indirizzare la propria richiesta al Consiglio
dell’Ordine di appartenenza, il quale – in caso di dubbio – potrà rivolgersi, con quesito astratto e
rigorosamente privo delle generalità di eventuali interessati, a Questa Commissione, a nulla
rilevando eventuali autorizzazioni a contattare direttamente il Consiglio nazionale o la
Commissione consultiva del Consiglio nazionale stesso.”
Parere 11 dicembre 2008, n. 43
Quesito della sig.ra Rosanna Eramo, rel. cons. Cardone
La Commissione, dopo ampia discussione, delibera il seguente parere:
“Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un privato, mentre la Commissione consultiva del
C.N.F. può giudicare solo su richieste provenienti da Ordini degli avvocati o da enti ed associazioni.
L’interessata dovrà, perciò, indirizzare la propria richiesta al Consiglio dell’Ordine competente, il
quale – in caso di dubbio – potrà rivolgersi, con quesito astratto e rigorosamente privo delle
generalità di eventuali interessati, a Questa Commissione.”
Parere 11 dicembre 2008, n. 44
Quesito dell’avv. Corso, rel. cons. Cardone
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un privato, mentre la Commissione consultiva del
C.N.F. può giudicare solo su richieste provenienti da Ordini degli avvocati o da enti ed associazioni.
Peraltro il quesito attiene a materia previdenziale e risulta inviato dall’interessato alla Cassa
nazionale di previdenza forense”.
Parere 11 dicembre 2008, n. 45
Quesito del COA di Foggia, rel. cons. Cardone.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La richiesta di parere è inammissibile, poiché essa si riferisce ad una vicenda specifica, descritta
nel dettaglio, mentre la Commissione consultiva del Consiglio nazionale forense può esprimersi
sono su quesiti astratti e non idonei ad interferire con la funzione giurisdizionale del Consiglio
medesimo”
Parere 11 dicembre 2008, n. 46
Quesito del COA di Siracusa, rell. conss. Cardone e Allorio
Il quesito pone la questione se, cessati dalle funzioni, Presidente e Consigliere Segretario debbano
sottoscrivere le decisioni disciplinari assunte durante il loro mandato. Si chiede altresì come si
debba comportare il nuovo Consiglio in caso di rifiuto del precedente collegio di sottoscrivere le
motivazioni.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La risposta al quesito proposto non può prescindere da un’interpretazione sistematica che tenga
conto per un verso della normativa processualcivilistica normalmente applicata ai procedimenti
disciplinari (cfr. artt. 132, 3° comma, e 161, 2° comma, c.p.c.), e per altro verso, della natura
giuridica del procedimento stesso, che è quella di un procedimento amministrativo a carattere
contenzioso, con garanzie di contraddittorio. La norme del processo civile sopra richiamate vanno
interpretate nel senso della esigenza di una sicura identificazione della decisione come riferibile al
collegio che l’ha deliberata con quella specifica motivazione. Per altro verso, non vi è dubbio che il
deposito della decisione sia il momento nel quale il presidente ed il segretario in carica – che
possono anche non avere preso parte alla decisione - attestano l’intervenuta assunzione del
provvedimento disciplinare nei termini indicati, nonché la conformità dello stesso allo svolgimento
del procedimento come rappresentato agli atti. È questa attestazione a dar conto degli autori della
decisione, nonché del contenuto materiale del provvedimento, comprensivo di idonea motivazione e
degli altri elementi necessari di cui all’art. 51, secondo comma, R.D. n. 37/1934. In questo senso,
l’atto del deposito acquista una sorta di autonomia logico-giuridica, finalizzata alla pubblicazione
della decisione stessa: per questo, pur a fronte della diffusa prassi in forza della quale sono il
presidente e il consigliere segretario del collegio che ha assunto la decisione ad effettuare la
sottoscrizione di cui al citato art. 51, non sussistono motivi ostativi a che tale sottoscrizione sia
invece materialmente apposta dal presidente e dal consigliere segretario in carica al momento del
deposito. Del resto, la lettera del citato art. 51 non contiene elementi che forniscano spunti
interpretativi decisivi a favore dell’una o dell’altra delle evenienze possibili a proposito della
sottoscrizione (con riferimento al tempo: a quello del giudizio ovvero del deposito), così che
entrambe, nel silenzio della norma, appaiono legittime e tra loro alternative, secondo
discrezionalità, prassi e possibilità del Consiglio procedente, anche considerato lo spazio di
autonomia che a tali enti compete, in quanto enti pubblici non economici a carattere associativo (per
tale nozione, pacifica in dottrina, vedi per tutti G. ROSSI, Enti pubblici associativi. Aspetti del
rapporto tra gruppi sociali e pubblico potere, E. Jovene ed., Napoli 1979, 23 ssg.).
Parere 11 dicembre 2008, n. 47
Quesito del COA di Trieste, rel. cons. Bianchi
Il quesito riguarda l’incompatibilità, ai sensi dell’art. 3 della legge professionale, del presidente
del Consiglio di amministrazione di una società per azioni di gestione di servizi pubblici locali.
Dopo ampia discussione, la Commissione fa propria la proposta del relatore e adotta il seguente
parere:
“Va preliminarmente ricordata la stabile interpretazione della Commissione Consultiva e della
giurisprudenza del Consiglio sul tema nuovamente sottoposto all’esame, secondo la quale è
incompatibile con l’esercizio della professione forense l’assunzione della carica di presidente del
Consiglio di amministrazione di società commerciale che comporti poteri gestori, in termini di
capacità astratta. Di per sé, infatti, la sola funzione di rappresentanza giudiziale e direzione del
Consiglio di amministrazione non determina incompatibilità (C.N.F. sent. 12 novembre 1996,
n.159). Sicché certamente non versa in situazione d’incompatibilità il presidente che sia stato
privato, per statuto sociale o per successiva deliberazione, dei poteri gestori attraverso la nomina di
un amministratore delegato (C.N.F. sent. 159/1996, cit; 20 settembre 2000, n.90; Cass. SS.UU. 5
gennaio 2007, n. 37).
Con riferimento al caso specifico va premesso che l’analisi della fattispecie concreta è di stretta
competenza del Consiglio locale. Senza sostituirvisi indebitamente, la Commissione rileva, da un
lato, la natura gestoria del potere–dovere statutario di adozione dei provvedimenti d’urgenza,
assistito anche dall’attribuzione di autonoma capacità di spesa, e –d’altro canto- le funzioni
meramente esecutive assegnate dallo statuto alla figura del direttore generale.
La natura potenzialmente pubblica e lo scopo della società non incidono sull’eventuale
incompatibilità (parere 21 novembre 2001), mentre non è concretamente valutabile –innanzitutto in
termini di coerenza statutaria e di estensione- la delega di poteri gestori ad altro amministratore”.
Parere 11 dicembre 2008, n. 48
Quesito del COA di Massa Carrara, rel. cons. Cardone
Il quesito attiene alla possibilità di iscrivere nel registro dei praticanti il laureato in giurisprudenza
che non abbia sostenuto l’esame di procedura penale.
La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere:
“La Commissione consultiva ha già in passato avuto modo di prendere in considerazione casi simili
a quelli di cui al presente quesito (cfr. parere 9 maggio 2007, n. 22), ed ha dovuto prendere atto del
fatto che, nonostante alcune scelte curricolari adottate nell’ambito dell’autonomia universitaria
possano legittimamente apparire poco consone agli obiettivi di formazione degli aspiranti alla
carriera forense, non è possibile sindacare tali scelte ove adottate in conformità dell’attuale
normativa accademica. In particolare il Consiglio dell’Ordine deve limitarsi ad accertare il possesso
del titolo di studio richiesto dalla legge per l’iscrizione nel registro dei praticanti.
Deve pertanto ricordarsi che la nuova laurea magistrale in giurisprudenza corrisponde a tutti gli
effetti alla precedente omonima laurea quadriennale, ancorché non vi sia un provvedimento
ministeriale di formale equiparazione ai fini dell’ammissione al tirocinio, bensì ai soli fini della
partecipazione ai pubblici concorsi (D.M. M.I.U.R. 5 maggio 2004, in G.U. 21 agosto 2004, n.
196).
Nel caso di specie la questione centrale attiene alla possibilità, per l’Ordine competente, di non
iscrivere nel registro dei praticanti laureati che presentino delle evidenti lacune quanto al numero ed
al tipo di insegnamenti ed esami necessari all’esercizio della professione forense. Ciò è impedito
esplicitamente dall’attuale normativa regolamentare, che impone, al contrario, di considerare in
modo omogeneo tutte le lauree rientranti in un’unica classe (cfr. DM M.I.U.R. 22 ottobre 2004, n.
270, art. 4, in G.U. 12 novembre 2004, n. 266). La stessa norma che prevede che «Il corso di laurea
magistrale ha l'obiettivo di fornire allo studente una formazione di livello avanzato per l'esercizio di
attività di elevata qualificazione in ambiti specifici» è rivolta a garantire il dispiegarsi
dell’autonomia didattica degli atenei, e non anche a consentire un sindacato esterno
sull’orientamento dei corsi o sulla distribuzione dei crediti nell’ambito dei diversi corsi. In
conclusione deve ritenersi che l’istante laureato in giurisprudenza abbia diritto all’iscrizione nel
registro dei praticanti.
Ciò non esclude, tuttavia, che il Consiglio dell’ordine competente, in sede di verifica dello
svolgimento della pratica, possa, conformemente al quadro normativo vigente, esercitare la dovuta
sorveglianza volta a garantire che il praticante non sia scevro di cognizioni fondamentali in una
materia, quale quella della procedura penale, che deve necessariamente rientrare nel bagaglio di
conoscenze proprie dell’avvocato, considerato che l’abilitazione al patrocinio, sia quella provvisoria
di cui all’art. 8 del R.D.L. n. 1578/1933, sia quella propria dell’iscritto nell’albo e prevista dalla
Costituzione della Repubblica (art. 33, comma 4 Cost.) consentono al soggetto in questione di
esercitare il patrocinio anche dinanzi al giudice penale. Ne consegue che il COA competente potrà
espletare gli opportuni accertamenti sulle dichiarazioni rese dal praticante ai sensi dell’art. 7, D.P.R.
101/1990, ed in quella sede invitare il praticante ad un colloquio nel quale potrà essere valutata
anche la preparazione del praticante in materia di procedura penale (cfr. art. 7, comma 3, D.P.R.
cit.). Analogo penetrante controllo potrà essere esercitato in sede di concessione dell’eventuale
abilitazione provvisoria al patrocinio di cui all’art. 8 R.D.L. cit., nonché, in sede di rilascio del
certificato di compiuta pratica, il quale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 10, D.P.R. n. 101/1990
attesta appunto che il praticante abbia “atteso alla pratica stessa, per il periodo prescritto, con
diligenza e profitto”.