Parere 16 gennaio 2008, n. 1 Quesiti n. 45 del COA di Velletri e n. 59 del COA di Orvieto, rel. cons. Cardone Il quesito del Consiglio di Velletri verte sull’ipotesi di un iscritto che intenda candidarsi alle elezioni forensi e che abbia svolto le funzioni di commissario d’esame, nell’ambito di un mandato che deve ancora terminare e con la prospettiva di termine dei lavori oltre la data delle elezioni. Chiede il Consiglio di Orvieto: - se possano candidarsi alle elezioni per il Consiglio dell’Ordine forense iscritti i quali siano stati nominati nella Commissione per gli esami di avvocato per la sessione in corso e che, quindi, non abbiano svolto l’intero mandato ma abbiano solo presieduto alle prove scritte; - se possano candidarsi alle correnti elezioni coloro che abbiano svolto la funzione di commissario d’esame nell’anno della precedente tornata elettorale, terminando i lavori di commissione successivamente alle elezioni. La Commissione delibera di trattare congiuntamente, a ragione della sostanziale contiguità delle questioni poste, i due quesiti pervenuti da diversi Ordini. Dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “L’art. 22, comma 6°, del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578, come sostituito dall’art. 1 del D.L. 21 maggio 2003 n. 112, così come modificato dalla legge di conversione del 18 luglio 2003 n. 180, statuisce, tra l’altro, che gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni agli esami di avvocato non possono candidarsi ai rispettivi Consigli dell’ordine ed alla carica di rappresentante della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense alle elezioni immediatamente successive all’incarico ricoperto. La riforma degli esami di abilitazione forense, infatti, aveva l’evidente intento di apportare una complessiva moralizzazione ed una maggior trasparenza nelle procedure di valutazione dei candidati all’abilitazione professionale. A questo scopo sono rivolte tutte le disposizioni inserite nel provvedimento, dal nuovo sistema di correzione degli elaborati, alle limitazioni volte a contrastare il fittizio trasferimento del praticante volto a spostare la sede d’esame, fino – appunto – ad una più rigida disciplina delle incompatibilità per i membri delle Commissioni esaminatrici. Proprio con riferimento a questo punto, si è introdotta una normativa volta a contrastare ogni possibilità, per i commissari d’esame, di tenere un contegno atto a raccogliere attorno alla propria persona un consenso diffuso, da utilizzare poi in sede di elezioni al Consiglio dell’Ordine ovvero alla Cassa nazionale di previdenza, e viceversa. In considerazione della ratio legis e dell’espressione letterale, che riferisce all’intero incarico, non può che considerarsi tutto il periodo nel quale l’avvocato svolga la funzione di commissario d’esami per valutare la sua ineleggibilità a Consigliere dell’Ordine, rimanendo altrimenti la previsione priva di senso. Quindi l’espressione «elezioni immediatamente successive all’incarico ricoperto» ricomprende tutte le tornate elettorali che si svolgano durante l’espletamento del mandato di commissario, con l’aggiunta delle votazioni immediatamente successive alla sua conclusione (sia essa per esaurimento dei lavori o per altra causa). In relazione alle esposte considerazioni si deve ritenere che le delineate incompatibilità con la candidatura sussistano.” Parere 16 gennaio 2008, n. 2 Quesito del COA di Ancona, rel. cons. Allorio Il quesito riguarda la possibilità di ammettere al patrocinio un praticante che, ad un anno dall’iscrizione nel registro, abbia conseguito il diploma di una scuola di specializzazione per le professioni legali ma non avendo mai frequentato uno studio legale, né avendo presenziato ad udienze. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La soluzione della questione posta non può che darsi con riferimento a quanto precisato, a più riprese, da questa Commissione e dal Consiglio nazionale in genere (cfr. circolare C.N.F. n. 30B/2003 e i pareri 27 aprile 2005, n. 27; 6 ottobre 2005, n. 72; 14 dicembre 2005, n. 96). In particolare si è evidenziato che il beneficio della sostituzione di un anno di pratica attraverso il conseguimento del diploma di una scuola di specializzazione per le professioni legali non esenta affatto il praticante dall’obbligo di svolgere il tirocinio forense che rappresenta ancora, all’evidenza, il nucleo fondamentale dell’attività formativa. Perciò il legislatore, opportunamente, non ha sottratto coloro che intendono frequentare una delle scuole universitarie agli obblighi formativi comunque incombenti sul praticante. Il D.M. 11 dicembre 2001, n. 475, nel disporre, all’art. 1, che “Il diploma di specializzazione (…) è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per l'accesso alle professioni di avvocato e notaio per il periodo di un anno” , precisa dunque inequivocabilmente la valenza del titolo, limitandola alla finalità dell’integrazione del compimento del periodo di pratica, con esclusione, dunque, di altre finalità astrattamente possibili, quali ad esempio quella di costituire elemento utile ai fini della concessione dell’abilitazione provvisoria al patrocinio. Per altro si osserva che le norme relative alla concessione dell’abilitazione provvisoria al praticante, costituendo deroga al principio costituzionale dell’accesso alla professione mediante il superamento dell’esame di Stato, debbono necessariamente essere interpretate in senso tassativo, il che esclude che l’anno di tirocinio pratico necessario ai fini della concessione del beneficio possa essere integrato con modalità alternative a quelle previste dalla legge. Il praticante, quindi, potrà chiedere l’abilitazione al patrocinio provvisorio solo avendo proficuamente concluso i precedenti due semestri di pratica, frequentando lo studio professionale e le aule di giustizia secondo la disciplina di legge e le modalità prescritte nell’ambito dei regolamenti degli ordini circondariali. Se così non è, ossia se l’Ordine di appartenenza non ha convalidato i precedenti semestri di pratica, la richiesta di abilitazione andrà senz’altro respinta; a nulla rilevando, al proposito, l’eventuale possesso di un diploma di specializzazione rilasciato da una scuola universitaria.” Parere 16 gennaio 2008, n. 3 Quesito del COA di Ferrara, rel. cons. Florio Si chiede parere circa la sussistenza di una situazione di incompatibilità con l’esercizio professionale in capo ad un iscritto che sia altresì socio accomandatario di una s.a.s. la quale, però, risulti “inattiva” all’esito della visura presso la Camera di commercio. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Nella società in accomandita semplice il socio accomandatario risponde illimitatamente per le obbligazioni sociali (art. 2313 c.c.) e la società ha obbligo di iscrizione nel registro delle imprese. L’attività commerciale è sempre consentita, sì come la permanenza nel predetto registro, fino al momento nel quale si conclude la fase liquidatoria della società stessa (art. 2312 in relazione all’art. 2315 c.c.). Pertanto la qualificazione “società inattiva” non rileva ai fini della connotazione di soggetto esercente il commercio, poiché la società può compiere atti di carattere commerciale in ogni momento e la responsabilità dei socî si estende a tutte le obbligazioni presenti e passate. La conclusione è, necessariamente, che il socio accomandatario di s.a.s. non può svolgere la professione d’avvocato, rientrando nella previsione di cui all’art. 3 l.p.f. Va da ultimo ricordato che il Consiglio nazionale forense in sede giurisdizionale ha ritenuto che l’assunzione della qualità di socio accomandatario in società commerciale, a prescindere dall’effettivo esercizio del commercio, rappresenti un contegno deontologicamente rilevante (cfr. C.N.F., sent. 16 maggio 2001, n. 85)”. Parere 16 gennaio 2008, n. 4 Quesito della dott.ssa Marta Mattiuzzi, rel. cons. Cardone. Il quesito lamenta la mancata risposta da parte di un ordine ad un quesito proposto dall’istante e vertente in materia di incompatibilità. La mancata risposta deriverebbe dalla qualità dell’interessata, non ancora iscritta nell’albo. “Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo iscritto, mentre il regolamento del Consiglio nazionale forense prevede che possano essere esaminate solo questioni veicolate attraverso gli ordini circondariali. Si segnala peraltro che, nella specifica materia, il Consiglio dell’Ordine ha competenza propria e l’eventuale provvedimento di rigetto è impugnabile dinanzi al C.N.F. in sede giurisdizionale. La Commissione non può dunque interferire con l’esercizio di tale ultima funzione. L’interessata potrà produrre domanda di iscrizione all’albo a norma di legge e, in caso di rifiuto, far valere le proprie ragioni con il procedimento di impugnazione cui si è fatto riferimento. Nell’intento di fornire un’indicazione di utilità, si allega comunque all’interessata copia del parere di questa Commissione 9 maggio 2007, n. 27, che si occupa del problema sollevato con il quesito”. Parere 16 gennaio 2008, n. 5 Quesito del COA di Tortona, rel. cons. Allorio Il quesito prefigura l’ipotesi di uno studio legale che, all’interno della carta intestata, indichi insieme al nome dei professionisti associati, anche quello della segretaria, la quale è stata in passato iscritta nel registro dei praticanti ma non ha portato a compimento la pratica. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La Commissione ritiene che il contegno degli iscritti, così come rappresentato dal Consiglio richiedente, dia luogo ad un effetto decettivo nei confronti della clientela, in quanto ingenera l’aspettativa che lo studio annoveri un’ulteriore professionista, ancorché nella realtà si tratti di persona che svolge attività diversa da quella forense. La pratica in oggetto confligge, inoltre, con il disposto dell’art. 1 della legge 23 novembre 1939, n. 1815 che impone agli studî associati per l’esercizio di professioni regolamentate di «usare, nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti coi terzi, esclusivamente la dizione di “studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario”, seguito dal nome e cognome, coi titoli professionali, dei singoli associati». In conclusione nulla vieta di dare un riconoscimento anche alla professionalità della segretaria, ovvero di indicarne a terzi le generalità, menzionandola in un documento ufficiale dello studio o nella sua carta intestata, purché si dia chiaramente atto della diversa qualità dell’impiegata rispetto ai professionisti associati nelle studio legale. Parere 16 gennaio 2008, n. 6 Quesito del COA di Bassano del Grappa, rel. cons. Cardone L’Ordine di Bassano del Grappa pone il quesito sulla possibilità di rilasciare ad un proprio iscritto copia integrale di una decisione disciplinare (con sanzione non sospensiva, né interdittiva) emessa nei confronti di altro iscritto, per il solo fatto che l’istante ne faccia richiesta in quanto esponente. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “L’art. 51 del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 dispone che la decisione disciplinare è pubblicata mediante deposito dell’originale negli uffici di Segreteria. Ne deriva che la norma consente la conoscenza pubblica del documento. Tuttavia, in tema di accesso agli atti amministrativi, l’art. 22 della legge 7 agosto 1990, n. 241, come sostituito dall’art. 15 comma 1 della legge 11 febbraio 2005 n. 15, non consente una conoscenza illimitata della documentazione in possesso della P.A., ma solamente quella connessa al procedimento, e che incide su una posizione giuridica rilevante, e che legittima, quindi, l’accesso nei confronti degli atti del procedimento disciplinare che da quell’esposto ha tratto origine (v., tra le altre, Consiglio di Stato, dec. 29 ottobre 2001 n. 5636, 20 aprile 2006 n. 2755 e 15 dicembre 2006, n. 7111). Come si è già illustrato nel diffuso parere 9 maggio 2007, n. 14, ciò che la giurisprudenza amministrativa e forense concordemente indicano quale discrimine fondamentale per una valutazione delle richieste di accesso agli atti del procedimento disciplinare è la presenza di un interesse attuale, concreto e differenziato alla conoscenza di detti atti, non essendo nemmeno la qualità di esponente in sé sufficiente a dar prova della sussistenza di queste circostanze (sul punto l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, sent. 20 aprile 2006, n. 7). Pertanto la valutazione della richiesta non può prescindere dalla valutazione in concreto degli elementi che l’istante produce a sostegno della sua richiesta, dovendo il Consiglio valutare (e motivare) la presenza di un siffatto interesse.” Parere 16 gennaio 2008, n. 7 Quesito del dott. Luigi D’Angelo, rel. cons. Cardone Il quesito è proposto da un ufficiale di P.G. appartenente all’Arma dei Carabinieri che chiede chiarimenti circa la sua possibilità di svolgere la pratica legale. “Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo, mentre il regolamento istitutivo della Commissione prevede che possano essere esaminate solo questioni veicolate attraverso gli ordini circondariali. L’interessato dovrà quindi rivolgersi all’ordine territorialmente competente, cui spetta la funzione di gestione dell’albo e dei registri nonché la responsabilità delle iscrizioni.” Parere 16 gennaio 2008, n. 8 Quesito dell’avv. Antonello Bagnato, rel. cons. Cardone “Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo, mentre il regolamento del Consiglio nazionale forense prevede che possano essere esaminate solo questioni veicolate attraverso gli ordini circondariali. L’interessato dovrà quindi rivolgersi all’ordine territorialmente competente, cui spetta la funzione disciplinare di primo grado.” Parere 20 febbraio 2008, n. 9 Quesiti riuniti dei COA di Modena, Acqui Terme e Pordenone, rel. cons. Cardone Quesito del C.O.A. di Modena del 22 marzo 2007: si chiedono chiarimenti sull’espressione “in ogni momento nel corso del secondo anno di pratica” contenuta nella circolare 5-C/2007 e riferita al periodo nel quale il praticante può chiedere l’abilitazione al patrocinio. Quesito del C.O.A. di Acqui Terme del 25 luglio 2007: ritiene illogica la limitazione, della facoltà di chiedere l’abilitazione al patrocinio entro il biennio di pratica, e chiede se dev’essere concessa l’abilitazione anche in seguito, pur con decorrenza dal primo giorno del secondo anno di pratica. Quesito del C.O.A. di Pordenone del 20 aprile 2007, sollecitato con lettera 18 luglio 2007: riferisce di casi nei quali il C.N.F. in sede giurisdizionale avrebbe accolto ricorsi di praticanti cancellati dal registro per decorso del sessennio di abilitazione, e chiede pertanto chiarimenti su quale sia il termine ultimo per la richiesta di abilitazione al patrocinio nonché sulla possibilità di procedere o meno alla cancellazione dal registro dei praticanti, a prescindere dall’abilitazione. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “1. Alcuni Consigli dell’ordine hanno sollevato taluni quesiti circa la portata delle norme in tema di abilitazione al patrocinio del praticante nonché rispetto all’interpretazione dei pareri e delle decisioni del Consiglio nazionale adottate in materia. Si ricorda che il Consiglio nazionale ha ritenuto di fare il punto delle questioni relative al sessennio di abilitazione provvisoria concesso al praticante avvocato con la circolare n. 5-C/2007 del 22 gennaio 2007, le cui valutazione di carattere generale, soprattutto quanto alla lacunosità delle norme di legge ed alla necessità di un contegno che faccia salva la ratio delle medesime, vanno senz’altro ribadite. È peraltro apparso opportuno procedere ad una ricognizione dei principi in materia e necessario fornire alcuni chiarimenti rispetto ad alcuni profili della circolare da ultimo citata, anche alla luce dei quesiti proposti da taluni Consigli dell’ordine che hanno rilevato problemi applicativi e sollevato delicate questioni interpretative. 2. Il fine dell’abilitazione provvisoria al patrocinio non è quello di permettere al praticante l’esercizio della libera professione forense, ancorché entro limiti prefissati, in deroga al principio della necessità del superamento dell’esame di Stato, principio -come noto- dotato di sicuro fondamento costituzionale (art. 33 Cost.), ma quello di consentire a coloro che intendono intraprendere la professione forense il raggiungimento di una più adeguata ed approfondita preparazione, e ciò entro ben precisi limiti temporali, di valore e materia (cfr. sul punto, ex multis, le sentenze C.N.F. n. 28/1995, 153/1999 e 5/2007). Questa considerazione va senz’altro ribadita, sì come le sue immediate conseguenze in termini di individuazione del periodo nel quale l’abilitazione può essere richiesta dal praticante. 3. In tale ottica va dunque letta anche la norma di cui all’art. 8, comma secondo, della legge professionale, nella parte in cui prevede che l’ammissione al patrocinio possa avvenire «dopo un anno dall’iscrizione nel registro» dei praticanti: la decorrenza dell’abilitazione al patrocinio non è rimessa all’arbitrio del richiedente, ma è fissata dalla legge al primo giorno del secondo anno di pratica forense, a prescindere dal momento nel quale l’interessato si attivi per chiederla effettivamente. In altri termini la legge impone che la richiesta di ammissione all’abilitazione al patrocinio si configuri come facoltà del praticante (che può anche non chiederla), da godersi – ove accolta, in presenza dei requisiti prescritti - entro un periodo temporale definito, collegato funzionalmente all’inizio del periodo formativo, non prorogabile né suscettibile di sospensioni recuperabili. Tale periodo è previsto in sei anni decorrenti dal primo giorno del secondo anno di iscrizione nel registro dei praticanti (cfr. sul punto, ex multis, le sentenze C.N.F. n. 28/1995, 86/1995, 3/1997 e 106/1997). La delibera d’ammissione al patrocinio ha portata costitutiva e segna la decorrenza concreta del periodo abilitativo; ad essa segue il giuramento, che è configurato come condizione per l’esercizio del patrocinio in concreto (cfr. parere 24 maggio 2006, n. 22). 4. È senz’altro opportuno chiarire, ad ulteriore specificazione di quanto illustrato nella circolare n. 5-C/2007, che nella normalità dei casi il praticante chiederà l’abilitazione nel corso del biennio prescritto per il conseguimento del certificato di compiuta pratica. In assenza, peraltro, di una norma che imponga la cancellazione dal registro dei praticanti al trascorrere dei predetti due anni ed al conseguimento del predetto certificato, l’esercizio della facoltà di legge consistente in tale richiesta potrà avvenire anche in seguito, in ogni momento del periodo nell’ambito del quale la legge consente l’accesso al patrocinio provvisorio, ossia durante il descritto sessennio, fermi restando i termini, iniziale e finale, che ne determinano la massima durata potenziale. La richiesta ritardata rispetto al termine iniziale provocherà pertanto una riduzione del periodo concretamente disponibile, restando immutabile la scadenza, sempre computata in un sessennio a partire dal primo giorno del secondo anno di pratica forense. 5. Non vi è dubbio, poi, che il carattere rigorosamente delimitato ratione temporis che la legge conferisce al patrocinio provvisorio determina per l’Ordine competente il dovere di procedere con rigore alla cancellazione del praticante dall’elenco degli abilitati immediatamente dopo il decorso del sessennio, ovviamente ove la cancellazione non debba essere disposta prima, ad altro titolo (si pensi, ad esempio, al praticante abilitato che abbia superato l’esame di abilitazione; in termini anche copiosa giurisprudenza del Consiglio nazionale forense: cfr., da ultimo, le sentenze 54/2005, 2/2007, 7/2007). 6. Diversa, e da considerarsi separatamente, è la questione della permanenza dell’iscrizione nel registro dei praticanti in quanto tale, a prescindere dal possesso o meno dell’abilitazione al patrocinio, che peraltro si configura -come detto- quale modalità integrativa del tirocinio forense. Nulla vieta di mantenere l’iscrizione in detto registro anche successivamente all’ottenimento del certificato conclusivo della pratica, ferma restando l’unicità del certificato di compiuta pratica e il radicamento territoriale che esso determina ai fini dell’esame (v., da ultimo, il parere della Commissione consultiva n. 82/2006, i precedenti nn. 86/2002 e 180/2003, nonché le sentenze C.N.F. nn. 61/2001 e 2/2007). La possibilità di mantenere l’iscrizione non è impedita dalla legge ed è avallata da recente copiosa giurisprudenza (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 26 maggio 2006, n.12543; Consiglio di Stato, sentenze 6692/2005, 2331/2006 e 5512/2006). Tuttavia deve anche considerarsi che, conformemente a quanto già osservato dalla Commissione consultiva del C.N.F. con i pareri nn. 70-71/2002 e 42/2005, non appaiono censurabili le iniziative degli Ordini forensi volte a verificare che gli iscritti nei proprî registri continuino effettivamente la pratica professionale. L’Ordine che provveda a verificare l’interesse del praticante già in possesso di certificato di compiuta pratica a rimanere iscritto nel registro dei praticanti (ad esempio inviandogli comunicazione scritta o convocandolo presso la propria sede) e, in assenza di riscontro, ne disponga la cancellazione, pone in essere un contegno legittimo. Non potrà comunque, in presenza dei prescritti requisiti di legge, essere negata la reiscrizione del praticante così cancellato, ove questi intenda riprendere e proseguire la pratica forense; avvalendosi altresì della facoltà di richiedere l’abilitazione al patrocinio successivamente alla cancellazione dal registro dei praticanti, purché nei limiti del sessennio e salvo il termine finale fisso di questo periodo. In conclusione la risposta ai quesiti posti è nei seguenti termini sintetici: a. il sessennio di abilitazione al patrocinio ha durata massima di sei anni, decorrenti in ogni caso dal primo giorno del secondo anno di pratica; l’abilitazione può essere richiesta in ogni momento del sessennio, ferma la sua durata massima; al termine del periodo sessennale andrà sempre disposta la cancellazione dall’elenco degli abilitati; b. l’iscrizione nel registro dei praticanti è indipendente dal possesso dell’abilitazione e può protrarsi anche oltre il conseguimento del certificato di compiuta pratica, salvi gli effetti di quest’ultimo ai fini dell’esame di Stato, e salvo il potere dell’Ordine di provvedere alla cancellazione di coloro che – a seguito di opportuni accertamenti e verifiche inquadrabili nel generale dovere di vigilanza dell’Ordine sull’esercizio della pratica forense – risultino non svolgere più attività di praticantato legale; c. nel caso in cui l’Ordine abbia provveduto a cancellare il praticante dal registro una volta ottenuto il certificato di compiuta pratica, o a seguito dell’esercizio del potere di vigilanza di cui al punto che precede, dovrà comunque procedersi alla reiscrizione del praticante già cancellato, il quale potrà anche chiedere di essere ammesso al patrocinio provvisorio. L’Ordine potrà conseguentemente continuare ad esercitare la propria vigilanza sul praticante così reiscritto. In ogni caso, il periodo massimo di ammissione al patrocinio non potrà superare i sei anni decorrenti dal primo giorno del secondo anno di tirocinio (cfr. punto a); il che comporta che il periodo concreto nel quale l’interessato potrà avvalersi della facoltà in oggetto sarà tanto più breve quanto più tardi l’interessato dovesse esercitare la facoltà di richiedere l’ammissione”. Parere 20 febbraio 2008, n. 10 Quesito del COA di Brescia, rel. cons. Florio Il quesito concerne la sussistenza di cause di incompatibilità tra l’esercizio della professione di avvocato e l’attività di agente di calciatori. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Benché sia oggi consentito, entro certi limiti, il patto di quota-lite (cfr. art. 45, c.d.f., riformato a seguito della cd. “Legge Bersani”), resta ferma, a parere di questa Commissione, l’incompatibilità dell’attività di avvocato con quella di agente di calciatori, in quanto l’art. 3, RDL 27 nov. 1933, n. 1578, prevede quale espressa causa di incompatibilità, sia “l’esercizio di commercio in nome proprio o in nome altrui”, che “la qualità di …mediatore” è comunque da rilevare che la normativa professionale della F.I.G.C. prevede che “ai calciatori e alle società sportive non è consentito avvalersi dell’opera di un agente non iscritto nell’Albo, salvo che si tratti di un avvocato iscritto nel relativo albo, e per attività conforme alla normativa professionale vigente” (art. 5, reg. F.I.G.C.). Ne consegue che l’avvocato potrà svolgere attività professionale sia nell’interesse dei calciatori che di società sportive, senza necessità di iscriversi nell’albo degli agenti di calciatori, con l anecessaria limitazione del rispetto della normativa professionale propria dell’avvocato. Si conferma e si integra l’orientamento già espresso nel parere n. 16 del 27 aprile 2005, e nel parere n. 146 del 17 luglio 2003: pertanto il Consiglio dell’ordine degli avvocati dovrà negare l’iscrizione a colui che la richieda e non intenda rinunziare ad una precedente iscrizione nell’albo degli agenti di calciatori, ovvero coloro che già facciano parte di entrambi gli albi debbono optare per una delle due iscrizioni.” Parere 20 febbraio 2008, n. 11 Quesito del COA di Ferrara, rel. cons. Florio Il quesito verte sulla sussistenza di causa di incompatibilità tra lo svolgimento della professione di avvocato e l’iscrizione nella Camera di commercio quale unico socio accomandatario di una società commerciale “attualmente inattiva”. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “deve ritenersi che l'iscritto in argomento versi in situazione di incompatibilità e sia tenuto a rimuoverla, pena l'avvio del procedimento di cancellazione, a nulla rilevando la circostanza di fatto dell’attuale inattività della società; il Consiglio nazionale forense ha avuto modo di pronunziarsi su fattispecie analoga in sede giurisdizionale, statuendo che “L'avvocato che, in violazione dell'art. 3 r.d.l. n. 1578/33, assuma il ruolo di socio accomandatario in una società commerciale, indipendentemente dalla effettuazione di concrete operazioni imprenditoriali, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante in quanto lesivo del dovere di indipendenza a cui ciascun iscritto è tenuto (CNF, 16 maggio 2001 n. 85).” Parere 20 febbraio 2008, n. 12 Quesito del COA di Bari, rel. cons. Bianchi Il quesito concerne la sussistenza o meno del diritto in capo al procuratore della parte vittoriosa di ottenere dal convenuto soccombente il riconoscimento delle spettanze relative alle attività ulteriori compiute per il soddisfacimento dei diritti dell’assistito, dopo sentenza che abbia disposto la compensazione totale delle relative spese processuali. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Il quesito deve ritenersi inammissibile, poiché non attiene alla materia dell’ordinamento forense bensì a quella del diritto processuale. L’attività della Commissione consultiva mira a fornire un orientamento unitario agli Ordini circa questioni di competenza delle istituzioni dell’Avvocatura, mentre in campo strettamente processuale non sussiste, ai sensi di legge, una competenza specifica.” Parere 20 febbraio 2008, n. 13 Quesito del COA di Trani, rel. cons. Allorio Il COA di Trani inoltra quesito pervenuto da un’iscritta nell’albo. Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo iscritto, in contrasto con il regolamento istitutivo della Commissione e con la prassi costante. Pertanto il quesito va sottoposto al Consiglio dell’Ordine competente, il quale, ove intendesse raccogliere l’avviso del Consiglio nazionale ai fini di una uniforme interpretazione, provvederà a sottoporre la questione in forma astratta e senza riferimenti nominativi. Parere 12 marzo 2008, n. 14 Quesito del COA di Roma, rel. cons. Cardone L’Ordine di Roma pone il seguente quesito: «se l’assenza del Consigliere segretario, per come sostengono alcuni consiglieri, non consentirebbe lo svolgimento dell’adunanza, non potendo lo stesso essere sostituito da altro consigliere» La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La Commissione, dopo ampia discussione, ritiene che nel caso prospettato non possa ipotizzarsi alcuna invalidità delle sedute del Consiglio in assenza del segretario titolare, ben potendo la funzione di segretario della seduta essere espletata da un qualsiasi consigliere, designato volta per volta dal presidente dell’adunanza. Infatti bisogna distinguere la funzione del segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, e cioè quella istituzionale, collegata alla formale elezione prevista dall’art. 2 del d.lgs.lgt. 23 novembre 1944 n. 382 – peraltro senza specifica indicazione di funzioni, al contrario del presidente – da quella di segretario delle adunanze, prevista dall’art. 42 del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37. Questa ultima funzione viene attribuite, di volta in volta, dal presidente della adunanza, ai sensi dell’ultimo comma dello stesso art. 42, che richiama la norma contenuta nell’art. 75 del R.D. n. 37 del 1934. Mentre la presidenza delle adunanze appartiene al presidente eletto, la cui eventuale sostituzione è disciplinata dal quarto comma dell’art. 42 R.D. n. 37 del 1934 (così come sostituito dal secondo comma dell’art. 16 del d.lgs.lgt. n. 382 del 1944), per il segretario, appunto perché intercambiabile, non vi è alcuna previsione normativa. Si aggiunga che la disciplina per la validità delle sedute, prevista dall’art. 43 del R.D. n. 37 del 1934, così come modificato dal primo comma dell’art. 16 del d. lgs. lgt. n. 382 del 1944, non statuisce che il segretario dell’adunanza debba essere quello titolare, prevedendo come unica causa di invalidità della seduta la non presenza della maggioranza dei componenti. Del resto dal contenuto del quesito non si evince quale sia il fondamento giuridico della paventata insostituibilità del consigliere segretario e dell’invalidità della seduta in sua assenza, tesi che potrebbe comportare, contro ogni principio ed irragionevolmente, la paralisi dell’organo. Conseguenzialmente deve essere ritenuta la piena validità della seduta alla quale non partecipi il Consigliere segretario nominato ai sensi dell’art. 2 del d. lgs. lgt. n. 382 del 1944: la funzione di segretario della seduta essendo rivestita dal componente del Consiglio, designato di volta in volta, anche verbalmente, dal presidente della seduta medesima.” Parere 16 aprile 2008, n. 15 Quesito del COA di Taranto, rel. cons. Baffa Il quesito concerne l’eventuale insussistenza di causa di incompatibilità tra l’esercizio della professione di avvocato e l’assunzione dell’incarico di difensore civico presso un ente pubblico territoriale. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La Commissione consultiva ritiene di confermare il proprio precedente consolidato orientamento (cfr. i pareri 6 ottobre 2005, n. 77 e il n. 52/1995, in I pareri del Consiglio nazionale forense (19941997), a cura di V. PANUCCIO, Milano 1998, 51-52). In tali circostanze si è esclusa la sussistenza di una causa di incompatibilità tra la professione forense e la funzione di difensore civico, costituendo quest’ultimo un incarico di natura onoraria e non professionale. Nell’attuale quadro normativo è demandata allo statuto comunale o provinciale la disciplina delle modalità di elezione del difensore civico, l’impiego di risorse dell’ente per il suo ufficio nonché i suoi rapporti con l’organo consiliare (d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 11). Si tratta perciò di un incarico elettivo, al quale corrisponde un compenso di tipo indennitario e che non comporta un rapporto di subordinazione gerarchica verso l’Amministrazione. Perciò la disposizione dell’art. 3, commi secondo e terzo, del R.D.L. 1578/1933 non si applica all’incarico di difensore civico, ivi prevedendosi lo “stipendio” pubblico ovvero un diverso “impiego” quali elementi incompatibili con l’esercizio della professione. Rimane integra, ovviamente, la competenza dell’Ordine a vigilare affinché gli incarichi conferiti a proprî iscritti da parte delle Pubbliche amministrazioni si svolgano in modo da preservare l’indipendenza degli stessi ed in forme compatibili con gli obblighi deontologici.” Parere 16 aprile 2008, n. 16 Quesito del COA di Nola, rel. cons. Baffa Il parere concerne la questione se sia valido, ai fini dell’iscrizione nell’elenco dei difensori d’ufficio avanti al Tribunale per i minorenni, la frequenza di un corso di aggiornamento nelle materie attinenti al diritto minorile e le problematiche dell’età evolutiva ancorché organizzato da un Ordine diverso da quello distrettuale ove ha sede detto Tribunale. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Si ritiene che al quesito sottoposto vada data risposta negativa. L’art. 11 del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (recante “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”) stabilisce che «il consiglio dell’ordine forense predispone gli elenchi dei difensori con specifica preparazione nel diritto minorile». L’art. 15 del d. lgs. 28 luglio 1989, n. 272, attuativo del precedente, dà precise indicazioni circa la formazione degli elenchi degli iscritti disponibili alle difese minorili, prevedendo che vi possa accedere, in quanto «in possesso di specifica preparazione», «chi abbia svolto non saltuariamente la professione forense davanti alle autorità giudiziarie minorili o abbia frequentato corsi di perfezionamento e aggiornamento per avvocati e procuratori legali nelle materie attinenti il diritto minorile e le problematiche dell'età evolutiva». L’ultimo comma della disposizione in esame affida l’organizzazione dei corsi al «consiglio dell’ordine forense dove ha sede il tribunale per i minorenni». La chiarezza della norma nell’individuare soltanto i consiglî dell’ordine ove ha sede il Tribunale per i minorenni (ossia quelli cd. “distrettuali”) quali legittimati ad organizzare i corsi è tale da precludere l’adesione ad un’interpretazione estensiva. Risponde ad una scelta del legislatore stabilire i criterî di individuazione dei soggetti legittimati ad organizzare i corsi de quibus con il valore previsto dalla stessa norma. L’ampliamento prospettato dal COA interpellante, pertanto, è risultato non conseguibile per via interpretativa, ma necessita senz’altro di una modifica legislativa (che sarebbe, peraltro, opportuna alla luce del nuovo ruolo acquisito dagli Ordini in materia di formazione continua ed aggiornamento degli iscritti). Parere 16 aprile 2008, n. 17 Quesito del COA di Como, rel. cons. Bianchi Il quesito riguarda la compatibilità con l’iscrizione all’albo degli avvocati di soggetto che intenda svolgere attività di mediazione familiare in modo indipendente ed in totale autonomia rispetto alla professione forense. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “L’attività di mediazione familiare non si configura, allo stato, come attività regolamentata; sono note alcune libere associazioni di settore, una delle quali risulta iscritta al CNEL, secondo il V rapporto di monitoraggio sulle professioni non regolamentate (aprile 2005). Dal sito web di una di esse (Società italiana di mediazione familiare) si ricava che «per mediazione familiare si intende quel percorso finalizzato alla riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al divorzio, in cui in un contesto strutturato, un terzo “neutrale”, cioè un professionista equidistante dalle parti, con una preparazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario favorisce la ricerca di soluzioni sufficientemente buone per la riorganizzazione delle relazioni familiari, a seguito di conflitti connessi con eventi critici quali la scissione della coppia sposata o non sposata». A proposito della compatibilità col mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati va innanzitutto premesso il costante orientamento della Commissione, sicché va confermato che le ipotesi di incompatibilità devono essere di stretta interpretazione, posto che pongono sostanziali limitazioni ai diritti dei singoli. Nel caso non si ravvisa motivo d’incompatibilità. Dal punto di vista oggettivo, infatti, l’attività di mediazione familiare si configura come una generica prestazione di consulenza (di area psicologica, giuridica e sociale) autonomamente e liberamente richiesta dai committenti tendente a favorire il raggiungimento di accordi tra parti in conflitto. In tal senso essa appare compatibile ed anzi coerente con una tipologia caratteristica d’esercizio della professione legale. La mediazione familiare poi non è certamente inquadrabile tra le attività d’impresa ed è del tutto diversa dalla mediazione (art. 1754 e seguenti del codice civile) alla quale fa riferimento l’art. 3 della legge professionale, finalizzata alla conclusione di affari e non alla soluzione di conflitti personali. Anche sotto il profilo disciplinare, dall’esame dei codici di autoregolamentazione adottati dalle varie associazioni che risultano costituite, non è dato rilevare situazioni di contrasto rispetto al codice deontologico forense quanto, in particolare, alla riservatezza ed ai diritti degli utenti (anche in relazione ai compensi). Una di tali associazioni (Associazione Nazionale Avvocati Mediatori Familiari - A.N.A.Me.F.), anzi, si caratterizza per la doppia formazione ed il codice di autoregolamentazione dalla stessa adottato prevede espressamente il rispetto anche del codice deontologico forense. Pur non comprendendosi con precisione a quali modalità si faccia riferimento nel quesito relativamente all’esercizio indipendente ed in totale autonomia delle due attività (quella d’avvocato e di mediatore familiare), è evidente come la separazione degli interventi per l’uno e l’altro titolo sia da condividere in conformità all’orientamento etico della mediazione familiare che prevede autonomia dall’ambito giudiziario, apparendo di fatto non sovrapponibili, rispetto ai medesimi soggetti, i campi dell’attività prestata. Al proposito il codice di autoregolamentazione A.N.A.Me.F (art. 5) vieta esplicitamente al mediatore familiare di esercitare, con le stesse persone, una funzione diversa da quella di mediatore. Anche con riferimento all’attività di mediazione familiare, in particolare, la Commissione ritiene possa operare il divieto di cui all’art. 51, canone primo, del vigente codice deontologico forense”. Parere 16 aprile 2008, n. 18 Quesito del COA di Terni, rel. cons. Florio L’ordine trasmette una richiesta di parere in materia di liquidazione di onorarî maturati nell’ambito di difese d’ufficio. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La Commissione, vista la nota dell’Ordine di Terni, con la quale si trasmette alla Commissione copia della richiesta di parere pervenuta da un iscritto, prende atto che, pur essendo stato cancellato il nome dell’interessato nella nota di trasmissione, questi risulta identificato tramite il fax inviato. Si deve perciò ricordare che non sono evase richieste di parere nella quali l’Ordine territoriale svolga la funzione di mero inoltro; ove l’Ordine non si ritenga in grado di fornire risposta alle richieste degli iscritti dovrà chiaramente far proprio il quesito in termini generali, escludendo il rischio che il Consiglio nazionale intervenga in specifiche vicende di rilevanza giudiziaria o deontologica. Per gli esposti motivi il quesito sottoposto va dichiarato inammissibile.” Parere 16 aprile 2008, n. 19 Quesito del COA di Ferrara, rel. cons. Cardone Il quesito verte sull’interpretazione della disposizione di cui all’art. 28 del codice deontologico forense, ed in particolare sulla necessità di includere nel divieto di produzione in giudizio di “lettere qualificate riservate” anche le missive di cui è stato autore colui che intende esibirle in giudizio. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “È necessario premettere che la Commissione consultiva non può pronunciarsi allorquando tale intervento possa interferire con lo svolgimento della funzione disciplinare degli Ordini, ovvero anticipare la trattazione di fattispecie poi oggetto di cognizione del C.N.F. in sede giurisdizionale. Tuttavia, in via del tutto astratta, si deve convenire che, essendo l’interesse tutelato dalla norma deontologica quello della lealtà e probità nei dei rapporti tra colleghi, si ritiene che il divieto di cui all’art. 28 c.d.f. faccia riferimento alla corrispondenza riservata nel suo complesso a prescindere dai latori dei singoli messaggî, in ispecie quando la sua produzione è in grado di danneggiare ingiustamente la controparte (come nel caso di lettera contenente proposta transattiva). Perciò la risposta al quesito posto dall’ordine è di segno positivo, salva l’autonomia nella verifica delle circostanze di specie, oggettive e soggettive, che permane integra per ciascun giudizio deontologico.” Parere 16 aprile 2008, n. 20 Quesito dell’avv. Carmelo Giuseppe Torrisi, rel. cons. Cardone La richiesta di parere riguarda l’interpretazione del D.M. 127/2004, recante la tariffa professionale forense. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La richiesta è inammissibile, in quanto il Consiglio può provvedere solo su quesiti provenienti dagli Ordini circondariali o da questi fatti proprî. L’interessato dovrà rivolgersi all’ordine di appartenenza o di competenza.” Parere 16 aprile 2008, n. 21 Quesito dell’avv. Silvio Bonea, rel. cons. Cardone Un avvocato chiede parere circa la regolarità dei lavori di un Consiglio che provveda ad eleggere il solo Presidente, e che solo in seduta successiva provveda all’elezione delle restanti cariche. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La richiesta è inammissibile, in quanto il Consiglio nazionale forense è giudice dell’impugnazione sia in materia elettorale che in ambito disciplinare, sicché non è possibile fornire parere su fatti specifici e su segnalazione di singoli. Non è infatti ammissibile un’interferenza nell’attività dei singoli ordini circondariali né è possibile condizionare l’autonomia di giudizio del C.N.F. in sede giurisdizionale.” Parere 16 aprile 2008, n. 22 Quesito dell’avv. Piero Antonio Peruzzi, rel. cons. Cardone Un avvocato chiede un parere in materia di liquidazione di compensi professionali, segnalando che l’Ordine di appartenenza non si è pronunciato su una richiesta di congruità. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La richiesta è inammissibile, sia poiché proviene da singolo iscritto, mentre la Commissione consultiva può pronunciarsi solo su quesiti di ordini o da questi fatti proprî, sia perché la legge non prevede un potere sostitutivo del C.N.F. nei confronti di eventuali inadempienze degli Ordini circondariali.” Parere 16 aprile 2008, n. 23 Quesito dell’avv. Daniela Marzano, rel. cons. Cardone Un avvocato chiede se sia legittima la costituzione di una società di consulenza legale cui partecipino anche soggetti imprenditoriali, pur con ruoli estranei alla redazione di consulenze. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La richiesta è inammissibile, poiché proviene da singolo iscritto, mentre la Commissione consultiva può pronunciarsi solo su quesiti di ordini o da questi fatti proprî. L’interessata dovrà quindi rivolgersi all’Ordine di appartenenza, e solo in caso di dubbio quest’ultimo potrà far pervenire la questione alla Commissione.” Parere 25 giugno 2008, n. 24 Quesito del COA di Salerno, rel. cons. Baffa Il quesito concerne le modalità di espressione del voto in occasione delle elezioni del Consiglio dell’ordine, e, in particolare, la possibilità di indicare validamente nella relativa scheda un numero di preferenze inferiore a quello dei consiglieri da eleggere. La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “ Si premette che la normativa per l’elezione dei componenti dei Consigli degli ordini e collegi” di cui al d. lgs. lgt. 23 novembre 1944, n. 382 si applica, in forza del suo art. 18, anche ai Consigli dell’ordine degli avvocati. L’art. 2, primo comma, del citato decreto dispone che “i componenti del Consiglio sono eletti dall’assemblea degli iscritti nell’albo a maggioranza assoluta di voti segreti per mezzo di schede contenenti un numero di nomi uguale a quello dei componenti da eleggersi”. Il Consiglio dell’Ordine di Salerno chiede se, in forza della disposizione testè richiamata, sussista “l’obbligo di indicare un numero di nomi esattamente eguale a quello dei componenti da eleggersi, pena la nullità della scheda”. È nota al proposito la giurisprudenza della Corte di Cassazione (iniziata con la sentenza delle Sezioni Unite 19 dicembre 1991, n. 13714, confermata con la sentenza 10 dicembre 1993, n. 12161 e ribadita dalla terza sezione con sentenza 14 gennaio 2002, n. 358). Si tratta tuttavia di giurisprudenza dalla quale il Consiglio nazionale forense ha già ritenuto doversi discostare, offrendo ampia motivazione del proprio convincimento che la Commissione ritiene poter ribadire anche nella sede consultiva. Pronunciandosi in veste giurisdizionale su reclamo ex art. 6 del decreto legislativo citato, il Consiglio ha risolto la questione nel senso della piena validità della scheda elettorale che contenga un numero di preferenze inferiori a quello dei consiglieri eligendi (decisioni n. 109 del 3 ottobre 1997 e n. 119 del 29 settembre 1998). Con tali decisioni si è chiarito, in particolare, che la disposizione sopra richiamata, nella parte in cui prevede che la votazione avvenga per mezzo di scheda che contenga “un numero di nomi uguali a quello dei componenti da eleggersi”, non ha contenuto cogente (tant’è che la sua violazione non è presidiata da una espressa sanzione di nullità, non ricavabile neppure dal sistema, nel quale, anzi, vige il principio di conservazione della volontà espressa dall’elettore, in forza del quale non tutte le irregolarità implicano la nullità dell’espressione di voto, ma solo quelle che contraddicono alla sua segretezza ed impediscono la corretta ricostruibilità della volontà dell’elettore) e “non rispondendo ad un interesse pubblico generale, né a principi di ordine pubblico ovvero ad esigenze della collettività, non presenta carattere di inderogabilità” (che, invece, deve riconoscersi alle disposizioni relative all’elettorato attivo e passivo, alla segretezza del voto, ai quorum costitutivi e deliberativi). A dispetto del dato letterale, perciò, deve ritenersi che all’avvocato/elettore debba riconoscersi “la piena libertà….nell’esprimere –nell’unico vincolo del tetto massimo della compagine da eleggere- il numero di preferenze che crede”, senza alcun obbligo di indicare nella scheda, con carattere di necessarietà, tante preferenze quanto sono i componenti da eleggere. Nelle richiamate decisioni il C.N.F. ha osservato, altresì, come a sostegno dell’opposta soluzione non vale addurre che la lettura restrittiva della norma in esame discenda dalla necessità di conseguire, all’esito finale delle votazioni, la copertura di tutti i posti di consiglieri, che, in astratto, l’interpretazione accolta potrebbe non assicurare. Trattasi, invero, di argomento di scarsa pregnanza giuridica e –si direbbe- di puro effetto, posto che “l’esperienza pratica, da sempre vissuta in tutti i Consigli degli Ordini forensi” ha mostrato che, pur ritenendosi valida l’espressione di voto limitata ad un numero di preferenze inferiore a quello dei consiglieri da eleggere, mai si è pervenuto al risultato paventato. L’ipotesi che in un’assemblea elettorale –che, ormai, nella quasi totalità degli Ordini si compone di un numero rilevante di soggetti- tutti gli elettori limitino numericamente la loro espressione di voto e la esprimano tutti per gli stessi candidati, è di pura scuola e fuori da ogni realtà. La Commissione ritiene le conclusioni cui è pervenuto il Consiglio nelle richiamate decisioni pienamente persuasive e convincenti e ad esse aderisce, richiamando la propria posizione consolidata, da tempo favorevole alla possibilità, per i singoli Consigli dell’ordine, di darsi un regolamento di dettaglio per lo svolgimento delle operazioni elettorali (sent. C.N.F. 3 ottobre 1997, n. 109 e pareri 30 gennaio 1998, n. 13; 27 aprile 2005, n. 34).” Parere 25 giugno 2008, n. 25 Quesito del COA di Monza, rel. cons. Baffa Il remittente chiede se sia legittimo che un Consiglio dell’Ordine fissi un calendario delle sedute con relativi procedimenti disciplinari anche per il periodo successivo alla scadenza del proprio mandato. La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La programmazione dei lavori rientra senz’altro nell’ambito di autonomia proprio dell’organo consiliare. È evidente che il Consiglio è sottoposto ad un ricambio continuo dei suoi membri a mezzo delle elezioni biennali, ma è altrettanto chiaro che l’ente mantiene la propria funzione e la propria facoltà organizzativa anche a prescindere dalle scadenze elettorali. Non vi è quindi alcun ostacolo pregiudiziale a che il Consiglio, nella propria responsabile autonomia, valuti conveniente ed opportuno fissare un calendario delle sedute anche oltre la scadenza elettorale, salva evidentemente la corrispettiva facoltà del Consiglio subentrante di apportarvi le modifiche che reputi necessarie. Quanto alla nomina di relatori per i procedimenti disciplinari, essa si configura come attribuzione propria del Presidente, ai sensi dell’art. 47, comma terzo, R.D. 22 gennaio 1934, n. 37. Pertanto si potranno designare i relatori di tutti i procedimenti disciplinari via via iniziati, salva la necessità del Presidente di sostituire il relatore allorquando – a seguito delle elezioni forensi e dell’insediamento del nuovo Consiglio – il consigliere precedentemente designato non faccia più parte dell’organo consiliare e salva la facoltà di nominarne altro anche per motivi di opportunità.” Parere 25 giugno 2008, n. 26 Quesito del COA di Ancona, rel. cons. Baffa L’ordine anconetano chiede come debbasi valutare un provvedimento di un giudice che revochi dal beneficio del patrocinio a spese dello Stato un cittadino argentino, così superando la contraria delibera del Consiglio dell’Ordine, nonostante l’accordo bilaterale del 1988 con il Paese sudamericano preveda la reciprocità nel gratuito patrocinio. La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Non può esservi dubbio circa l’eccezionalità dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato a favore del cittadino extracomunitario non regolarmente soggiornante in Italia (come richiesto dall’art. 119, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115), eccezione che riguarda in particolare la fattispecie relativa alla contestazione giudiziale del provvedimento di espulsione di cui all’art. 13 del d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Altri procedimenti, come quello del riconoscimento del diritto d’asilo ovvero della contestazione del provvedimento che nega lo status di rifugiato, sono esclusi dal perimetro dell’estensione del diritto di cui si tratta, posto che non è ammessa interpretazione estensiva in presenza di norme derogatorie. In questo senso vanno rammentate le decisioni dei giudici di primo grado (Trib. Trapani 13 marzo 2006 oppure Trib. Salerno 22 gennaio 2007). Tuttavia non si può trascurare il fatto che le decisioni, come quella del Tribunale di Trapani citata nel quesito, non riguardanti cittadini argentini bensì extracomunitarî di altra provenienza, non possono essere utilizzate acriticamente per la corretta soluzione della questione. Infatti in materia vige un accordo bilaterale, la Convenzione relativa all'assistenza giudiziaria ed al riconoscimento ed esecuzione delle sentenze in materia civile tra la Repubblica italiana e la Repubblica argentina, firmata a Roma il 9 dicembre 1987, ratificata a mezzo della legge 22 novembre 1988, n. 532, prevalente in base al principio di specialità. Non si ha notizia di abrogazioni o dell’intervento di altri atti o fatti ostativi alla vigenza della norma in parola. È bensì vero che lo strumento del gratuito patrocinio, descritto nella convenzione, è stato abolito in Italia dalla legge 30 luglio 1990, n. 217, sostituendolo con il patrocinio a spese dello Stato; tuttavia tra questi due strumenti di tutela sussiste una continuità pressoché completa e l’espressione “gratuito patrocinio” permane addirittura in uso nel linguaggio legislativo (cfr., ad es., d. lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 16). In conclusione, quindi, si ritiene che i cittadini argentini debbano beneficiare del medesimo trattamento riservato ai cittadini italiani per ciò che attiene all’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in materia civile.” Parere 25 giugno 2008, n. 27 Quesito del COA di Voghera, rel. cons. Bianchi Il quesito concerne la possibilità di iscrivere nella Sezione speciale dell’albo degli avvocati riservata agli avvocati stabiliti un professionista che ha conseguito il titolo di “abogado” per essersi iscritto all’Ilustre Colegio de Abogados de Madrid. La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La richiesta di parere è irricevibile, poiché essa include le generalità del professionista interessato e la questione potrebbe costituire oggetto di cognizione in sede di esercizio delle funzioni decisorie del Consiglio nazionale forense. Ai sensi del regolamento istitutivo, la Commissione consultiva del Consiglio nazionale forense può esprimersi solo su richieste di parere provenienti da Consigli dell’ordine degli avvocati, o da enti e associazioni, ma formulate in forma anonima, secondo criteri di generalità ed astrattezza, e in ogni caso non riferibili fattispecie concrete che possano costituire oggetto di cognizione del Consiglio nazionale in sede giurisdizionale. A proposito del quesito possono solo essere richiamate la Direttiva 98/5/CE, la sua attuazione di cui al decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96 e la giurisprudenza della Corte di Giustizia (per la quale si segnalano gli atti della causa C-311/06 – Cavallera).” Parere 25 giugno 2008, n. 28 Quesito del COA di Oristano, rel. cons. Cardone Il Consiglio chiede se possa iscriversi nell’elenco di cui all’art. 17-bis della legge 30 luglio 1990, n. 217, un professionista (indicato) già inserito nella sezione speciale dell’albo riservata agli avvocati comunitarî stabiliti, fruendo del periodo di tempo trascorso nella detta sezione ai fini dell’iscrizione. La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La richiesta di parere è irricevibile, poiché essa include le generalità del professionista interessato e la questione potrebbe costituire oggetto di cognizione in sede di esercizio delle funzioni decisorie del Consiglio nazionale forense.” Parere 25 giugno 2008, n. 29 Quesito dell’avv. Armin Schielein, rel. cons. Bianchi Il richiedente, un singolo iscritto, chiede informazioni circa le modalità di iscrizione ad un “elenco degli avvocati specialisti”. La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La richiesta di parere è inammissibile, poiché proviene da un singolo iscritto, mentre la Commissione consultiva del Consiglio nazionale forense è tenuta, a tenore di regolamento, a riscontrare le sole richieste astratte di parere provenienti dai Consigli dell’Ordine. L’interessato dovrà rivolgere la propria domanda di chiarimenti al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, salvo il fatto che non esistono nell’ordinamento italiano attuale quegli “elenchi di avvocati specialisti” dei quali egli parla. Parere 9 luglio 2008, n. 30 Quesito del COA di Lucca, rel. cons. Bianchi Il quesito concerne il caso di cittadina comunitaria (rumena) residente in Italia, laureata in giurisprudenza secondo l’ordinamento di quel Paese, ove ha svolto attività di pratica legale e che chiede l’iscrizione nel registro dei praticanti in Italia. La Commissione, dopo ampia discussione, fa propria la proposta del relatore e rende il seguente parere: “Va confermato in proposito l’orientamento già espresso dalla Commissione, in particolare e da ultimo nei pareri 25 maggio 2005, n. 49 e 24 maggio 2006, n.28 (quest’ultimo con riguardo a cittadini extracomunitari). Il titolo di studi è considerato dal diritto comunitario sotto un duplice profilo: innanzitutto come attestato di un percorso formativo in sé, e in secondo luogo come titolo abilitante all’esercizio di determinate attività professionali regolamentate. Nel caso di specie il diploma di laurea in giurisprudenza acquisito all’estero può assumere rilievo accademico-formativo, e dunque essere riconosciuto ai fini della prosecuzione degli studi, a scopo concorsuale o ad altri fini, ovvero può essere considerato come il titolo presupposto per l’accesso (ed il successivo esercizio) alla professione forense. Nel primo caso, ossia ai fini della piena equiparazione della laurea rumena a quella italiana, la normativa applicabile è quella internazionale pattizia. Infatti Italia e Romania hanno entrambe sottoscritto e ratificato la “Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore nella Regione europea”, fatta a Lisbona l’11 aprile 1997 (nel caso italiano la ratifica è avvenuta con la legge 11 luglio 2002, n. 148 e l’atto è divenuto operativo nel nostro ordinamento dal 26 luglio 2002; per la Romania la Convenzione è in vigore dal 1° marzo 1999). La legge che ha autorizzato la ratifica della citata Convenzione ha disposto che siano, nell’ordinamento italiano, i singoli Atenei, nell’ambito della loro autonomia e in conformità ai rispettivi ordinamenti, a provvedere sulle domande di riconoscimento (art. 2, l. 148/2002). La laureata in giurisprudenza potrà, ove intenda percorrere questa strada, presentare domanda di riconoscimento presso qualsiasi Università della Repubblica nella quale sia istituito il corso di laurea in giurisprudenza. L’Ateneo dovrà provvedere entro novanta giorni dalla richiesta. Se, viceversa, la cittadina comunitaria intende valersi del proprio diploma di laurea al fine esclusivo e specifico di essere iscritta nel registro dei praticanti avvocati, in tal caso spettano al Consiglio dell’ordine competente per territorio le relative valutazioni. A tal proposito, la più recente giurisprudenza comunitaria - ed in particolare la sentenza 13 novembre 2003, nella causa C-313/01 - Morgenbesser, recepita dalla giurisprudenza interna (Cass. Sezioni unite, 19 aprile 2004, n. 7373) - ha precisato che il rifiuto dell’iscrizione non può essere dovuto per il solo fatto che il titolo proviene da istituzione accademica straniera. La sentenza ha posto il principio che “il diritto comunitario si oppone al rifiuto da parte delle autorità di uno Stato membro di iscrivere, nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessario per essere ammessi alla professione di avvocato, il titolare di una laurea in giurisprudenza conseguita in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una laurea in giurisprudenza conferita, confermata o riconosciuta come equivalente da un'università del primo Stato”. Così che “spetta all'autorità competente verificare, ..., se, e in quale misura, si debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato in un altro Stato membro e le qualifiche o l'esperienza professionale ottenute in quest'ultimo, nonché l'esperienza ottenuta nello Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le condizioni richieste per accedere all'attività di cui trattasi”. Più precisamente ed in dettaglio è precisato non trattarsi “di una semplice questione di riconoscimento di titoli accademici, ... per quanto pertinente e persino determinante per l’iscrizione” agli albi e registri professionali, poiché in casi siffatti non va verificata soltanto “l’equivalenza accademica del diploma di cui si avvale l’interessato rispetto al diploma normalmente richiesto ai cittadini dello stato ospitante”, ma la presa in considerazione del titolo accademico dev’essere “effettuata nell’ambito della valutazione dell’insieme della formazione, accademica e professionale” che l’istante può far valere. La procedura di valutazione, che l’autorità competente dello Stato membro ospitante (da identificarsi nel Consiglio dell’ordine che tiene il registro nel quale l’iscrizione è richiesta) ha il dovere di compiere, deve tendere ad “assicurarsi obiettivamente che il diploma straniero attesti, da parte del suo titolare, il possesso di conoscenze e di qualifiche, se non identiche, quanto meno equivalenti a quelle attestate dal diploma nazionale. Tale valutazione dell'equivalenza del diploma straniero deve effettuarsi esclusivamente in considerazione del livello delle conoscenze e delle qualifiche che questo diploma, tenuto conto della natura e della durata degli studi e della formazione pratica di cui attesta il compimento, consente di presumere in possesso del titolare”. Nel contesto di questo esame l’autorità competente dello Stato membro “può tuttavia prendere in considerazione differenze obiettive relative tanto al contesto giuridico della professione considerata nello Stato membro di provenienza quanto al suo campo di attività. Nel caso della professione di avvocato, lo Stato membro ha pertanto il diritto di procedere ad un esame comparativo dei diplomi tenendo conto delle differenze rilevate tra gli ordinamenti giudiziari nazionali interessati”. Se “a seguito di tale confronto emerge una corrispondenza solo parziale tra dette conoscenze e qualifiche, lo Stato membro ospitante ha il diritto di pretendere che l'interessato dimostri di aver maturato le conoscenze e le qualifiche mancanti”. Ed a questo proposito “spetta alle autorità nazionali competenti valutare se le conoscenze acquisite nello Stato membro ospitante nel contesto di un ciclo di studi ovvero anche di un'esperienza pratica siano valide ai fini dell'accertamento del possesso delle conoscenze mancanti”. La giurisprudenza comunitaria risulta pienamente recepita dal Consiglio nazionale forense che in sede giurisdizionale ha condotto esame di merito dei requisiti per l’iscrizione, confermando in un caso (29 maggio 2006, n. 35) il diniego del Consiglio territoriale e riformandolo in altro caso (8 ottobre 2007, n. 141). Le sentenze citate sono consultabili per esteso all’indirizzo web: http://cnf.ipsoa.it/comuni/home.jsp. Sarà, in conclusione, il Consiglio dell’ordine che dovrà valutare la completezza del percorso formativo, non solo accademico, della richiedente ai fini del proficuo svolgimento del tirocinio professionale, considerando la documentazione da questa prodotta in relazione al sistema giudiziario ed accademico di provenienza, al corso degli studi scelto ed al complesso delle sue esperienze pratiche.” Parere 9 luglio 2008, n. 31 Quesito del COA di Massa-Carrara, rel. cons. Florio L’Ordine richiedente domanda: “se possa un avvocato che ha partecipato ad un corso di perfezionamento e specializzazione organizzato da una Università e dall’Ordine degli Avvocati del luogo, indicare nella propria carta intestata la specializzazione così conseguita con la semplice dicitura «specializzato in...» ai sensi dell’art. 17 e 17-bis cod. deont.”. La Commissione, dopo ampia discussione, fa propria la proposta del relatore e rende il seguente parere: “L’art. 17-bis del codice deontologico dà all’avvocato la possibilità di indicare “i diplomi di specializzazione conseguiti presso gli istituti universitari”. Deve quindi trattarsi di diplomi in senso stretto (che quindi presuppongono, tra l’altro, un esame finale), ai quali non sembra equiparabile un semplice corso di approfondimento, ancorché esso sia atecnicamente denominato con l’uso della parola “specializzazione”. Se l’iscritto ha ottenuto il diploma nel senso sopra indicato, potrà definirsi specializzato, e dovrà indicare anche l’università che gli ha rilasciato il diploma. In caso contrario, il riferimento alla specializzazione non è consentito nella carta intestata, ma può solo essere inserito, nell’eventuale curriculum, il riferimento al corso frequentato. Nel diverso caso della nozione di “materia prevalente” è consentita la menzione nella carta intestata, purché però vi sia un effettivo esercizio in via prevalente della professione nel settore indicato, da confermare anche attraverso la formazione continua nel medesimo settore, ai senti del Regolamento del C.N.F. del 13 luglio 2007.” Parere 9 luglio 2008, n. 32 Quesito del COA di Siracusa, rel. cons. Cardone Si espone il caso di un Consiglio dell’Ordine di recente rinnovato, nel quale i precedenti consiglieri, cessati dalla carica, restituiscano i fascicoli dei procedimenti disciplinari già celebrati e in attesa di deposito della decisione, affermando di non avere più alcun dovere di redazione delle sentenze in seguito al venire meno della carica consiliare. L’Ordine pertanto formula quesito nei seguenti termini: “se, a seguito della cessazione dalla funzione di Consigliere, questi, a suo tempo designato relatore, abbia l’obbligo di redigere e depositare la decisione con la relativa motivazione in relazione a un procedimento disciplinare che, dal verbale della seduta risulta essere andato in decisione”. La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Non può esservi dubbio che il consigliere relatore di un procedimento disciplinare abbia l’obbligo – ai sensi dell’art. 51, comma terzo, R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 - di redigere la decisione, curandone il deposito presso la segreteria dell’Ordine. Tale onere non viene meno in caso di rinnovo delle cariche consiliari, trattandosi di attività legata al collegio che ha presenziato alle udienze e deliberato la decisione in camera di consiglio. Bisogna, pertanto, concludere che è obbligo dell’avvocato, cui sia affidata la funzione di relatore di un procedimento disciplinare, curare la redazione ed il deposito della decisione completa di ogni suo elemento, senza che la cessazione dalla carica importi alcunché in merito all’obbligo medesimo.” Parere 9 luglio 2008, n. 33 Quesito del COA di Genova, rel. cons. Florio L’Ordine chiede come debba considerarsi la richiesta di magistrati onorarî tesa a beneficiare di iscrizione di diritto all’albo degli avvocati senza il superamento dell’esame di Stato. La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Appare corretto quanto rilevato dal COA richiedente, cioè che la norma della legge professionale (art. 30) che consente le iscrizioni di diritto, è di stretta interpretazione estensiva o analogica si porrebbe in netto contrasto con l’art. 33 Cost. Pertanto, la possibilità di iscrizione di diritto in favore dei Vice Pretori onorari non può intendersi estesa a tutti i magistrati onorari, ma va considerata come un’eccezione alla regola generale, peraltro superata dalla scomparsa della citata figura di magistrato onorario. Nella legge sull’ordinamento giudiziario le figure del magistrato professionale appartenente all’ordine giudiziario e quella del magistrato onorario sono ben distinte. Nella relazione che accompagnava il testo di legge originario (anno 1941) il Guardasigilli Grandi scriveva al Re: “Ho meglio specificato da quali persone sia composto l’ordine giudiziario … ho riservato questo titolo a coloro che, superate le difficili prove di ammissione alle funzioni giudiziarie, dedicano tutte le loro attività all’amministrazione della giustizia”. Se ne deduce che il superamento del difficile esame di concorso era già allora considerato un requisito indispensabile, e ciò spiega perché tale esame sia sempre stato ritenuto equivalente al nostro esame di Stato. Per le considerazioni che precedono, si ritiene che il laureato in legge, il quale – dopo l’ottenimento del certificato di compiuta pratica – abbia prestato la sua attività per oltre 15 anni quale Magistrato Onorario, rivestendo la funzione di Vice Procuratore Onorario e successivamente del Giudice Onorario di Tribunale, non possa essere iscritto all’Albo degli Avvocati senza sostenere e superare l’esame di ammissione.” Parere 9 luglio 2008, n. 34 Quesito del COA di Matera, rel. cons. Cardone Il Consiglio dell’Ordine chiede se l’assunzione del patrocinio difensivo da parte di un avvocato in un giudizio, o nei successivi gradi, nel quale abbia precedentemente assunto la veste di sostituto processuale dell’avvocato della controparte in una udienza, costituisca illecito deontologico. La Commissione consultiva, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La richiesta di parere è inammissibile, poiché un pronunciamento della Commissione su una questione di merito di carattere deontologico rischia verosimilmente di interferire con l’esercizio delle funzioni giurisdizionali attribuite dalla legge al Consiglio nazionale forense in forma plenaria.” Parere 11 dicembre 2008, n. 35 Quesito del COA di Pordenone, rel. cons. Allorio Il Consiglio dell’Ordine, nella propria comunicazione, sottolinea che nella precedente richiesta (alla quale si è dato seguito con il parere 12 dicembre 2007, n. 53) si prospettava un caso generico, nel quale vi fosse un cliente il quale – nel mentre viene assistito per procedure di separazione o di divorzio – intrattenga una relazione sentimentale con il professionista, a prescindere che si tratti di una moglie ovvero di un marito. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Anche alla luce delle precisazioni inviate da parte dell’Ordine interessato, si conferma l’inammissibilità del quesito originario, in quanto un pronunciamento sulla specifica vicenda – ossia sulla sussistenza di una responsabilità deontologica per il descritto contegno – potrebbe integrare un’astratta interferenza con l’attività giurisdizionale attribuita dalla legge al Consiglio dell’Ordine e, in sede di gravame, al C.N.F. Quanto all’utilizzo di termini maschili o femminili nella sintesi del quesito che è premessa al parere, va evidenziato che tale formulazione è del tutto indifferente e non influisce sulla deliberazione della Commissione, atteso che la sintesi dei quesiti è redatta a mero scopo illustrativo.” La Commissione, a latere del parere, rileva che le comunicazioni pervenute dall’Ordine contengono anche una proposta di modifica della normativa deontologica atta a prevedere espressamente il caso in oggetto. Si comunica, perciò, che dell’argomento sarà interessata la commissione deontologica del Consiglio Nazionale per le eventuali conferenti modifiche al codice deontologico.” Si delibera l’invio della documentazione al Coordinatore della Commissione deontologica. Parere 11 dicembre 2008, n. 36 Quesito del COA di Pescara, rel. cons. Allorio L’ordine, facendo seguito ad una precedente richiesta, formula quesito circa la compatibilità con le norme legislative e deontologiche del contegno di un avvocato che intenda svolgere consulenza legale telefonica, predisponendo un numero a tariffazione speciale, sì che all’utente sia addebitato un costo correlato alla durata della chiamata. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Si ritiene necessario, per inquadrare correttamente la fattispecie descritta, scindere chiaramente la consulenza resa per via telefonica in sé e per sé rispetto alle modalità e circostanze nelle quali tale prestazione viene resa da parte dell’avvocato. Infatti il mezzo telefonico e telematico è pacificamente ammesso quale canale del quale è consentito valersi per rendere consulenze legali, questo genere di comunicazione con la clientela rientrando tra le prestazioni tipiche descritte nella tariffa forense attualmente vigente (cfr. D.M. Giustizia 8 aprile 2004, n. 127, tabella D). Questa considerazione di fondo non vale ovviamente a compromettere il potere-dovere dell’Ordine forense di vigilare sul corretto esercizio della professione da parte degli iscritti. È infatti necessario che qualunque offerta da parte dell’avvocato di prestare la propria attività professionale sia conforme ai canoni di dignità e decoro nello svolgimento della professione sui quali si regge il sistema della deontologia forense. Tale funzione di vigilanza dovrà essere ancor più attenta in casi come quello prefigurato nel quesito, nei quali l’offerta di consulenza è rivolta ad un pubblico sostanzialmente indistinto ed è verosimilmente accompagnata da una comunicazione a carattere promozionale. Pertanto il Consiglio dell’Ordine competente dovrà vagliare le modalità concrete con le quali il servizio è offerto ed erogato, censurando eventuali elementi degradanti per la dignità dell’avvocatura. Circa il profilo specifico della tariffazione a tempo, essa rientra tra i criterî utilizzati dalle vigenti tariffe e non può considerarsi quindi in assoluto estranea al nostro sistema: cionondimeno spetta al Consiglio dell’Ordine verificare che il corrispettivo richiesto per il tramite del servizio telefonico non sia manifestamente sproporzionato alla prestazione resa, e per questo deontologicamente censurabile. Peraltro va ricordato che un’iniziativa del tipo descritto dovrà rispettare non solo la normativa forense, ma anche la vigente legislazione posta a tutela del pubblico in materia di consultazioni telefoniche a pagamento, sicché la modalità ed i contenuti del servizio dovranno tenere conto dei vincoli di correttezza e trasparenza previsti in questo settore (ad es. quanto all’informazione del pubblico rispetto ai costi massimi, all’identità del prestatore e dell’intermediario etc.).” Parere 11 dicembre 2008, n. 37 Quesito del COA di Mantova, rel. cons. Cardone L’Ordine richiedente riferisce che una locale azienda ASL ha istituito un “albo dei responsabili della sicurezza, prevenzione e protezione (R.S.P.P.)”, elenco non previsto dalla legge ma che pare volto ad agevolare le aziende nell’individuare soggetti in possesso dei requisiti previsti dall’art. 8bis, d. lgs. 626/94. Si chiede, pertanto, se l’iscrizione in un siffatto elenco, preordinata allo svolgimento di una consulenza a carattere tecnico presso una clientela aziendale, possa considerarsi compatibile con l’iscrizione nell’albo degli avvocati. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Come da consolidata prassi della Commissione, è necessaria premessa che le disposizioni concernenti l’incompatibilità all’esercizio della professione di avvocato sono eccezionali e restrittive di un diritto soggettivo perfetto, pur a tutela di un prevalente interesse pubblico, sicché esse sono di stretta interpretazione ed insuscettibili di estensione analogica. Ciò posto, l’ipotesi prefigurata non può essere disgiunta dal tipo di attività che l’avvocato vada a svolgere a favore dell’azienda interessata, dal momento che l’elenco istituito dall’ASL non costituisce una nuova “professione” né ha carattere di elenco pubblico previsto dalla legge. Tali informazioni possono essere acquisite dall’Ordine nel caso specifico. La Commissione deve invece desumere il tipo di attività che i soggetti inseriti nell’elenco andranno a svolgere dal quadro normativo vigente. In particolare si deve avere riguardo ai soggetti di cui agli artt. 8 ed 8-bis del d. lgs. 19 settembre 1994, n. 626, norma oggi abrogata, ma che trova una sostanziale continuità negli artt. 31 e 32 del d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81. Gli addetti ed i responsabili al “servizio di prevenzione e protezione” dell’azienda devono possedere alcuni requisiti di tipo formativo ed esperienziale (indicati nell’art. 32 cit.), ma quanto al regime professionale possono essere sia dipendenti dell’azienda sia soggetti esterni; in ogni caso, poi, devono reperirsi figure estranee al complesso aziendale in assenza di personale interno provvisto delle qualifiche necessarie. Pertanto è necessario concludere che la mera iscrizione nell’elenco istituito ad opera dell’ASL non vale di per sé ad influenzare il regime delle incompatibilità: se l’interessato instaura un rapporto di lavoro dipendente con l’impresa allora sarà senz’altro necessaria la cancellazione dall’albo degli avvocati; se, al contrario, egli presta un’attività di consulenza mantenendo la propria qualità di libero professionista, non sussistono elementi di incompatibilità. Quanto alla circostanza, evidenziata nel quesito, che l’apporto fornito dal professionista all’azienda cliente sia di carattere più tecnico che legale non pare possa costituire oggetto di un sindacato di merito, sia perché nella materia della sicurezza sul lavoro si intrecciano profili giuridici con questioni più strettamente tecniche, sia perché la consulenza legale non è, nel nostro ordinamento, sottoposta a controlli di contenuto o a speciali divieti. In conclusione si evidenzia che, pur sussistendo in capo al Consiglio dell’Ordine il più pieno potere di verifica delle circostanze di ciascun singolo caso, non emergono nella fattispecie indicata elementi idonei a determinare un’incompatibilità tra l’iscrizione all’albo e la presenza nel descritto elenco.” Parere 11 dicembre 2008, n. 38 Quesito del COA di Sassari, rel. cons. Bianchi I quesiti riguardano il Regolamento per la formazione continua approvato dal Consiglio nazionale forense il 13 luglio 2007 ed in particolare gli esoneri per i docenti universitari e la posizione dei consiglieri dell’ordine in carica. La Commissione, dopo ampia discussione congiunta con la Commissione per l’accesso e la formazione, fa propria la proposta del relatore e rende il seguente parere: “1. L’art. 5, comma 1, del Regolamento prevede l’esonero dagli obblighi formativi, relativamente alle materie di insegnamento, per i docenti universitari di prima e seconda fascia nonché per i ricercatori con incarico d’insegnamento, fermo restando l’obbligo relativamente alla materia deontologica, previdenziale e di ordinamento professionale. La portata della disposizione va correlata con la regola generale della libertà di scelta recata dal comma 4 dell’articolo 2 secondo la quale la formazione continua non deve necessariamente riguardare la totalità delle materie giuridiche (né lo potrebbe), essendo rimessa al singolo professionista la scelta del percorso formativo più confacente ai propri interessi ed alla propria attività (tenendo conto, naturalmente, delle disposizioni dell’art. 1 comma 3 e 2 comma 5 a proposito della formazione negli ambiti di esercizio di attività prevalente dei quali sia data comunicazione). L’esonero quindi s’intende totale, sul presupposto che l’attività di ricerca ed insegnamento universitario implichi particolare costanza di accrescimento ed approfondimento delle conoscenze e competenze utili anche alla professione. Il riferimento regolamentare alle “materie d’insegnamento” collega la formazione soltanto a tali materie, le sole che potranno essere oggetto di comunicazione quali settori di attività prevalente. In altre parole ed in sostanza l’attività formativa non è richiesta al docente per il solo fatto che è tale, qualsiasi sia la branca di esercizio; a meno che non effettui dichiarazioni che equivalgano ad indicazioni sull’attività prevalente, nel qual caso occorre un supplemento di accertamento: la verifica della relazione tra materia insegnata ed attività prevalente. Un criterio per elaborare il giudizio di coerenza o di eccentricità (tra insegnamento ed attività prevalente) potrebbe essere quello di attingere alle declaratorie delle materie universitarie raggruppate (ad es. IUS 01 raccoglie tutte le materie civilistiche). 2. Nessun esonero è esplicitamente previsto dal Regolamento per i Consiglieri dell’ordine, nemmeno limitatamente all’ordinamento professionale e previdenziale ed alla deontologia. Risulta peraltro che alcuni Consigli territoriali dell’ordine abbiano previsto l’esonero, con riferimento all’area deontologica, con norme regolamentari integrative. La partecipazione effettiva e documentata a commissioni di studio, gruppi di lavoro o commissioni consiliari istituite dal Consiglio dell’ordine (evento formativo ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera b)) rileva per i partecipanti “in qualità di membro esterno”, secondo l’interpretazione fornita dalla relazione di accompagnamento al Regolamento (sub art. 3 n. 2), che la Commissione ritiene di poter confermare”. Parere 11 dicembre 2008, n. 39 Quesito del COA di Pisa, rel. cons. Bianchi Il quesito riguarda la competenza della Commissione per l’accesso agli atti amministrativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri a conoscere dei ricorsi nei casi di diniego dell’accesso ad atti dei Consigli locali dell’ordine forense. Dopo ampia discussione, la Commissione fa propria la proposta del relatore e, premesso che la rilevante portata generale del caso sottoposto nonché l’assenza di qualsiasi potenziale interferenza con l’attività giurisdizionale consentono di ritenere ammissibile il quesito, adotta il seguente parere: “Se appare scontata la natura pubblicistica dei Consigli dell’ordine forense anche nelle loro articolazioni locali e quindi la loro appartenenza alla “pubblica amministrazione” agli effetti della legge 241/1990, la competenza della Commissione istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, quale istanza sovraordinata per i ricorsi nei casi di diniego d’accesso, risulta avere un ambito oltremodo più ristretto, mentre –in punto di competenza- la decisione adottata dalla Commissione nel caso non appare convincente, fondata com’è su giurisprudenza non in termini. Del segnalato distinto ambito di operatività è evidente segnale letterale e sistematico, interno alla normativa di cui alla legge citata, la sensibile differenza espressiva tra la definizione di cui all’art. 22, comma 1, lettera e), che intende quale pubblica amministrazione alla quale è dichiarata applicabile la disciplina dell’accesso “tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”, e la limitazione, invece, della richiesta di riesame da rivolgersi alla predetta Commissione per l’accesso agli “atti delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato” (art. 25). Analoga distinzione appare chiara nell’articolo 29 della stessa legge. Il concentrico disegno che ne emerge porta evidentemente ad escludere dallo speciale rimedio giustiziale gli atti di diniego provenienti da soggetti che non siano amministrazioni dello Stato. I Consigli dell’ordine degli avvocati (tanto nell’espressione centrale quanto nelle periferiche) sono senza dubbio e notoriamente enti pubblici non economici ad appartenenza necessaria (per un approfondito esame, anche sotto il profilo storico, della loro evoluzione e dello stato giuridico attuale, si veda: G. COLAVITTI, Rappresentanza e interessi organizzati, Milano, 2005, pagg. 251 e seguenti in particolare). Ancorché l’interesse pubblico che perseguono, finalizzato a garantire il corretto esercizio della professione a tutela dell’affidamento della collettività, abbia dimensione nazionale e sia infrazionabile (Corte Costituzionale, sentenza 3 novembre 2005, n. 405), essi non appaiono tuttavia in alcun modo riconducibili all’”Amministrazione dello Stato”. In tal senso è tra l’altro costante la giurisprudenza della Corte di Cassazione (per la quale si vedano, tra le altre, le sentenze 1 febbraio 1995, n. 1115; 2 aprile 2001, n. 4788; 13 aprile 2001, n. 5566; 3 maggio 2005, n. 9097; 28 marzo 2006, n. 7094; 10 maggio 2007, n. 10704), in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee. La suprema Corte, pronunciando particolarmente in tema di tariffe ed ordinamento deontologico, è ferma nel considerare l’espressione centrale degli ordini professionali in genere e di quello forense in particolare quale “autorità non statale”, pure dotata di autonomo potere regolamentare che ripete la sua disciplina da leggi speciali. Anzi: proprio sull’alterità dell’ordine forense rispetto allo Stato, la Corte di Giustizia fonda la compatibilità del regime tariffario con la disciplina comunitaria della concorrenza. Il quesito, pertanto, va risolto nel senso dell’incompetenza della Commissione.” Parere 11 dicembre 2008, n. 40 Quesito della Sezione polizia giudiziaria della Polizia di Stato presso la Procura della Repubblica di Roma, rel. cons. Cardone Il primo dei quesiti proposti attiene alla decorrenza degli effetti del provvedimento di cancellazione dall’albo su richiesta dell’interessato. Il secondo quesito attiene alla possibilità di rilasciare la certificazione di cancellazione a terzi che ne facciano richiesta, precisando in caso affermativo, le modalità di accesso e le eventuali imposte da pagare. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Con riferimento al primo dei quesiti proposti, si osserva che, pur avendo il provvedimento di cancellazione su richiesta dell’iscritto natura evidentemente costitutiva, specularmente a quanto accade per il provvedimento di iscrizione, va considerato che la norma di cui all’art. 37, comma 3, R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, prevede la necessaria notifica del provvedimento di cancellazione sia all’interessato che al pubblico ministero. Se ne ricava che la decorrenza degli effetti della cancellazione vada calcolata in relazione alla data della notifica del provvedimento. Con riferimento al secondo quesito, attesa la natura pubblica dell’albo professionale, la Commissione ritiene del tutto lecito il rilascio della certificazione di cancellazione a terzi che ne facciano richiesta, presentando apposita domanda al Consiglio dell’ordine competente, che riscuoterà gli eventuali diritti di segreteria e copia.” Parere 11 dicembre 2008, n. 41 Quesito del COA di Brescia, rel. cons. Bianchi Il Consiglio dell’ordine forense di Brescia chiede se, anche alla luce dell’orientamento del giudice amministrativo, si può affermare e riconoscere che il conseguimento del diploma di specializzazione della scuola per le professioni legali di cui all’art. 16, d. lgs. 398/1997 esonera il praticante dall’iscrizione biennale nel registro dei praticanti o, al contrario, si deve continuare ad affermare che è necessaria l’iscrizione al registro dei praticanti per almeno due anni. Dopo ampia discussione congiunta con la Commissione per l’accesso e la formazione, la Commissione fa propria la proposta del relatore e, premesso che la rilevante portata generale del caso sottoposto nonché la deliberazione d’iscrizione che risulta adottata nel caso specifico consentono di ritenere ammissibile il quesito, adotta il seguente parere: “1-. La questione propone argomenti sui quali – come ricorda il COA richiedente – il Consiglio Nazionale Forense ha espresso una posizione consolidata, attraverso due pareri dell’anno 2005 (nn. 27 e 72) conformi a quanto già nella circolare 30-B/2003 del 24 ottobre 2003. Tale impostazione va confermata, nonostante il difforme orientamento del giudice amministrativo. Va al proposito ricordato che: 1.1) ai sensi del D.M. Giustizia 11.12.2001, n. 475 (GU n. 25 del 30.1.2002) solo il diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali di cui all’art. 16 del decreto legislativo 17.11.1997 n. 398 e successive modifiche “(…) è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per l’accesso alle professioni di avvocato e notaio per il periodo di un anno”; 1.2) la frequenza di una delle suddette scuole è di per sé inidonea a garantire il beneficio di cui al D.M. cit.; 1.3) la frequenza è compatibile con l’eventuale compimento del periodo di pratica tradizionale ed in particolare con la partecipazione alle udienze; 1.4) “(…) in ogni caso il periodo complessivo di formazione post laurea del praticante non può essere inferiore a due anni solari”; 1.5) l’iscritto nel registro il quale, frequentando la scuola, non ottenga il diploma, può – ai sensi dell’art. 1, 3° comma del DPR n. 101 del 1990 – utilizzare il dato della frequenza come se fosse relativa ad un corso post-universitario e quindi esonerarsi dalla sola pratica dello studio (e non dalla partecipazione alle udienze) per il periodo di un anno. 2-. Ciò detto, la soluzione della questione suppone, nel quadro della conferma delle premesse poste dalla citata circolare, l’ulteriore precisazione dei nessi (e delle relative conseguenze) che si instaurano tra le principali norme che regolano la materia. Tra esse spicca, da un lato, l’art. 17, 1° comma, n. 5) del RDL 27.11.1938, n. 1578 (come modificato dall’art. 2 della legge n. 406 del 1985) e dall’altro il complesso normativo costituito dalla legge (delega) 15.5.1997, n. 127 (art. 17, 114° comma), dal decreto legislativo (di attuazione della predetta delega) 17.11.1997, n. 398 (art. 16) e dal D.M. Giustizia 11.12.2001, n. 475 cit. (articolo unico). L’art. 17, 1° comma, n. 5 del RDL 1578/1933 cit. prevede che per l’iscrizione nell’albo degli avvocati è necessario, tra l’altro, aver compiuto (lodevolmente e proficuamente) un periodo di pratica frequentando, per almeno due anni consecutivi posteriormente alla laurea, lo studio di un avvocato, assistendo alle udienze civili e penali. A questa esigenza si finalizza l’iscrizione nel registro dei praticanti. Con il secondo gruppo di norme si prevede (per quanto qui rileva) che il conseguimento del diploma presso una scuola di specializzazione è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per il periodo di un anno. Se da un lato è evidente che solo il conseguimento del diploma (e non la mera frequenza) assicura il risultato premiale sul fronte della pratica, dall’altro si potrebbe ritenere che quest’ultima, una volta conseguito diploma, è ridotta ad un anno e correlativamente ad un anno è ridotta la durata dell’iscrizione nel registro dei praticanti. Questa conclusione combacerebbe anche con l’art. 17, 114° comma della legge delega n. 127 del 1997 che, nel riservare al regolamento da emanare con successivo D.M. la disciplina dei termini entro cui il diploma può costituire titolo valutabile ai fini del compimento della pratica (D.M. nella specie identificabile in quello n. 475 dell’11.12.2001), avverte che tale regolamento è adottato “(…) anche in deroga alle vigenti disposizioni relative all’accesso alle professioni di avvocato e notaio”. Ciò fa venire meno l’ipotetico contrario argomento per cui il decreto ministeriale non potrebbe novare la materia della pratica col ridurla ad un anno siccome norma di rango inferiore rispetto a quella dell’art. 17, 1° comma, n. 5) RDL 1578/1933 che quella pratica vuole sia svolta per due anni consecutivi dopo la laurea. Infatti, la normazione per decreto non incontra l’anzidetto limite stante il rinvio autorizzatorio contenuto nell’art. 17, 114° comma della legge delega n. 127 del 1997 che permette la posizione di una disciplina anche in deroga alle vigenti disposizioni relative all’accesso. Tuttavia, l’interpretazione da preferire (per i motivi che ora si diranno) è quella per cui non è la durata della pratica (e la correlativa necessità di iscrizione nel registro), ma la sua modalità di attuazione ad essere stata oggetto di intervento novativo. 3-. Infatti, l’art. 17, 114° comma della legge (delega) n. 127 del 1997, nell’autorizzare il Ministro a regolamentare la materia anche in deroga alla legislazione vigente, prevede che “(…) il diploma (…) costituisce, nei termini che saranno definiti con decreto del Ministro della giustizia (…) titolo valutabile ai fini del compimento del relativo periodo di pratica”. Ma un conto è la possibilità che un anno sia sostituito dal diploma, ferma rimanendo la pratica biennale, altro è dire che quest’ultima sia ridotta ad un anno. L’interpretazione letterale e sistematica fa ritenere che sia la prima la soluzione corretta e pertanto che il decreto ministeriale in commento abbia novato la sola modalità di computo del periodo biennale di pratica e non la sua durata; sotto il profilo letterale, infatti, alludere al “(…) compimento del relativo periodo di pratica” significa rimandare, con l’uso del termine relativo, al periodo di pratica previsto dalla legge (due anni) ed ammettere – con l’uso del termine compimento – che esso può ritenersi compiuto anche quando uno dei due anni sia sostituito dal diploma. Sotto il profilo dell’analisi di sistema, poi, non sfugge come la seconda soluzione assegna alla deroga della norma primaria operata dal regolamento, un ambito di incidenza modificatrice maggiore di quella frutto della prima opzione dato che quest’ultima circoscrive la novità normativa alla sola modalità di computo del periodo di pratica, questa restando per il resto non investita dalla modifica. Il riferimento ad un’interpretazione della norma condizionata anche dalla misura della deroga, valorizza il principio della eccezionalità del potere di modifica e della tendenziale conservazione dell’enunciato normativo. Si consideri poi che la seconda soluzione permetterebbe di ottenere il certificato di compiuta pratica anche prima del decorso di due anni dalla laurea (come invece richiesto dall’art. 17, 1° comma, n. 5) cit.) e ciò quale conseguenza della non coincidenza dell’anno solare con l’anno accademico, dato che il diploma può – dal punto di vista del computo in anno solare – essere conseguito dopo un anno e mezzo dall’iscrizione alla scuola. Ciò si tradurrebbe in forma di disparità di trattamento tra praticanti, alcuni dei quali costretti ed altri no, a rispettare il requisito del biennio senza che la discriminante possa nemmeno essere ricondotta un atto volitivo dell’interessato posto che l’attuale meccanismo di accesso alle scuole, basato sul numero chiuso, esclude che ci si possa iscrivere sol perché lo si voglia. La pratica resta pertanto quella biennale prevista dalla legge fondamentale, scandita da due anni consecutivi successivi alla laurea, spesi nella frequenza di uno studio legale e nella partecipazione alle udienze, un anno dei quali è sostituibile dal diploma in modo tale che il periodo complessivo di pratica non risulti inferiore al biennio solare (in termini, TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 22.12.2003, n. 3605; contra, TAR Lazio, Roma, sez. III, 23.03.05, n. 3312; TAR Calabria, Catanzaro, sez. III, 8.07.05, n. 1153; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 2.12.04, n. 8391; TAR Toscana, Firenze, sez. I, 24.02.04, n. 506). 4-. La conclusione porta a ritenere che l’iscrizione nel registro debba protrarsi per almeno due anni e, in conformità a quanto già ritenuto da questo Consiglio Nazionale Forense nella richiamata circolare, per uno di essi la pratica dovrà svolgersi in modo (per così dire) tradizionale, mentre per l’altro il consiglio dell’ordine interessato non potrà eccepire l’interruzione se la sua modalità di svolgimento tradizionale sia surrogata dall’ostensione del diploma. 5-. Quanto detto, pur nella consapevolezza dell’opinione contraria di una parte della giurisprudenza amministrativa, sfugge alle critiche da taluno avanzate. Certamente inappropriata è quella con cui si denuncia un presunto effetto distorsivo conseguente al fatto che la frequenza della scuola, finalizzata al conseguimento del diploma, è (per il momento) biennale sicché la pratica si amplierebbe sostanzialmente a tre anni; così argomentando non si tiene conto di quanto già rilevato dal Consiglio Nazionale Forense nella citata circolare laddove si sottolinea che la frequenza è compatibile con lo svolgimento tradizionale della pratica. Di guisa che è certamente ammissibile una parziale sovrapponibilità di quest’ultima e della frequenza della scuola, considerando sia, in astratto, che la pratica è stata persino ritenuta compatibile con la maggior parte dei rapporti di lavoro dipendente e dunque a maggior ragione lo è con la frequenza di una scuola, sia, in concreto, che quest’ultima è quasi dappertutto organizzata in modo tale da consentire ampia frequenza dello studio legale e delle udienze. 6-. Non convince nemmeno l’argomento per cui, se l’iscrizione biennale nel registro attribuisce al consiglio dell’ordine un potere deontologico nei confronti del praticante, esso è in concreto inesplicabile per l’anno di svolgimento non tradizionale della pratica. Infatti, la presa deontologica si esprime anche in relazione a fatti e comportamenti estranei all’esercizio della pratica ma che siano idonei a produrre un riflesso deontologico, sicché poca conta che nell’anno di riferimento il praticante non esplichi attività tipica della pratica tradizionale rappresentando la sua iscrizione nel registro la precondizione per un controllo deontologico comunque possibile. 7-. Anche la sentenza del Consiglio di Stato sezione IV del 5 ottobre 2005, n. 5353 non appare convincente alla Commissione. Il Consiglio di Stato ammette che esistono fonti di rango primario che inequivocabilmente stabiliscono la durata complessiva del tirocinio professionale in almeno due anni (cfr. articolo 17, comma 1, lett. 5, Rdl 1578/33, e articolo 2, legge 406/85). Tuttavia afferma che la norma di legge che ha autorizzato la fonte regolamentare a rendere la disciplina dei termini entro cui il diploma di specializzazione può costituire titolo valutabile ai fini del compimento della pratica, nella misura in cui ha disposto che il predetto regolamento è adottato "(...) anche in deroga alle vigenti disposizioni relative all'accesso alle professioni di avvocato e notaio" (articolo 17, comma 114, legge 127/97), ha consentito al successivo atto di esercizio della potestà normativa delegata di incidere non solo sulle modalità concrete di svolgimento della pratica, ma anche sulla sua durata, perché la durata non afferirebbe a quei "principi fondamentali" della materia che soli sarebbero al riparo dalla deroga. Il giudice amministrativo propone quindi una ricognizione dei principi fondamentali che regolano l'accesso alla professione di avvocato (nei generici termini di necessaria, idonea e adeguata preparazione teorica e pratica, nonché di consapevolezza della funzione, dei diritti e dei doveri deontologia professionale- e di decoroso comportamento). Sennonché l’approccio appare assai semplificato, per esempio nel mancato richiamo, tra i principi fondamentali, della necessità di un esame di Stato per l'accesso alla professione di avvocato, principio di rango propriamente costituzionale (cfr. articolo 33, comma 5, della Costituzione). Sembra piuttosto che debba essere precisata l’effettiva portata della delegificazione operata con il comma 114 dell'articolo 17 della legge 127/97. Al proposito è vero, come afferma il Consiglio di Stato, che la legge non precisa quali siano le norme di rango primario effettivamente derogabili con la fonte regolamentare, tuttavia appare discutibile distinguere, nell'ambito di tali disposizioni, quelle che accedono al terreno dei principi fondamentali e quelle che non vi accedono. Ritiene la Commissione che la norma primaria non individui le norme di legge derogabili perché rimette tale scelta alla fonte regolamentare, in termini assolutamente eventuali ("anche in deroga" e non, semplicemente, "in deroga"), secondo una tecnica di delegificazione forse incoerente ma assai diffusa nell’ordinamento. Nel caso di specie l'atto di esercizio del potere regolamentare in oggetto è il decreto del ministro della Giustizia 475/01, che nel suo articolo unico, come detto, dispone che "il diploma di specializzazione è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per l'accesso alle professioni di avvocato e notaio per il periodo di un anno". Da questa formulazione non pare possibile ricavare un'intenzione nel senso della deroga alle norme di legge che prevedono una durata complessiva del tirocinio di almeno due anni. Ed è almeno indubbio che sia del tutto assente, dal testo riportato, una norma esplicita in questo senso. Pare ragionevolmente potersi concludere che la fonte regolamentare abbia fatto un uso molto moderato della facoltà di deroga concessa dalla legge. Ha sancito che il diploma tiene luogo della pratica "tradizionale" per un anno, ma nulla ha disposto in ordine alla durata complessiva del periodo di tirocinio che, ai sensi della legge, si svolge "almeno per due anni consecutivi, posteriormente alla laurea". In ipotesi, in base all'ampia deroga concessa, la fonte regolamentare avrebbe potuto dotare di valenza maggiore il diploma. Poiché essa nulla dispone in ordine alla durata complessiva del tirocinio, questa resta regolata dalle fonti primarie in materia, a nulla rilevando che queste fonti accedano o meno all'area dei principi fondamentali che reggono la disciplina dell'accesso alla professione. 8-. In conclusione, la Commissione ritiene di confermare che il conseguimento del diploma di cui si discute, se esonera per un anno dall’effettuare la pratica nel modo tradizionale descritto dall’art. 17, 1° comma, n. 5), RDL 1578/1933, non esonera tuttavia dall’iscrizione biennale nel registro dei praticanti.” Parere 11 dicembre 2008, n. 42 Quesito dell’avv. Lucia Loprieno, rel. cons. Cardone La Commissione, dopo ampia discussione, delibera il seguente parere: “Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un singolo avvocato, mentre la Commissione consultiva del C.N.F. può giudicare solo su richieste provenienti da Ordini degli avvocati o da enti ed associazioni. L’interessata ha già rivolto quesito al proprio Consiglio dell’ordine, il quale ha ritenuto di non potersi esprimere, trattandosi di materia possibile oggetto di cognizione in sede disciplinare. L’interessata, nella nota inviata, allude pertanto al fatto che il competente Ordine locale (COA Venezia) l’avrebbe autorizzata ad inoltrare il quesito al Consiglio nazionale. In via generale, deve rilevarsi come il singolo iscritto sia tenuto ad indirizzare la propria richiesta al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, il quale – in caso di dubbio – potrà rivolgersi, con quesito astratto e rigorosamente privo delle generalità di eventuali interessati, a Questa Commissione, a nulla rilevando eventuali autorizzazioni a contattare direttamente il Consiglio nazionale o la Commissione consultiva del Consiglio nazionale stesso.” Parere 11 dicembre 2008, n. 43 Quesito della sig.ra Rosanna Eramo, rel. cons. Cardone La Commissione, dopo ampia discussione, delibera il seguente parere: “Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un privato, mentre la Commissione consultiva del C.N.F. può giudicare solo su richieste provenienti da Ordini degli avvocati o da enti ed associazioni. L’interessata dovrà, perciò, indirizzare la propria richiesta al Consiglio dell’Ordine competente, il quale – in caso di dubbio – potrà rivolgersi, con quesito astratto e rigorosamente privo delle generalità di eventuali interessati, a Questa Commissione.” Parere 11 dicembre 2008, n. 44 Quesito dell’avv. Corso, rel. cons. Cardone La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “Il quesito è inammissibile, poiché proviene da un privato, mentre la Commissione consultiva del C.N.F. può giudicare solo su richieste provenienti da Ordini degli avvocati o da enti ed associazioni. Peraltro il quesito attiene a materia previdenziale e risulta inviato dall’interessato alla Cassa nazionale di previdenza forense”. Parere 11 dicembre 2008, n. 45 Quesito del COA di Foggia, rel. cons. Cardone. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La richiesta di parere è inammissibile, poiché essa si riferisce ad una vicenda specifica, descritta nel dettaglio, mentre la Commissione consultiva del Consiglio nazionale forense può esprimersi sono su quesiti astratti e non idonei ad interferire con la funzione giurisdizionale del Consiglio medesimo” Parere 11 dicembre 2008, n. 46 Quesito del COA di Siracusa, rell. conss. Cardone e Allorio Il quesito pone la questione se, cessati dalle funzioni, Presidente e Consigliere Segretario debbano sottoscrivere le decisioni disciplinari assunte durante il loro mandato. Si chiede altresì come si debba comportare il nuovo Consiglio in caso di rifiuto del precedente collegio di sottoscrivere le motivazioni. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La risposta al quesito proposto non può prescindere da un’interpretazione sistematica che tenga conto per un verso della normativa processualcivilistica normalmente applicata ai procedimenti disciplinari (cfr. artt. 132, 3° comma, e 161, 2° comma, c.p.c.), e per altro verso, della natura giuridica del procedimento stesso, che è quella di un procedimento amministrativo a carattere contenzioso, con garanzie di contraddittorio. La norme del processo civile sopra richiamate vanno interpretate nel senso della esigenza di una sicura identificazione della decisione come riferibile al collegio che l’ha deliberata con quella specifica motivazione. Per altro verso, non vi è dubbio che il deposito della decisione sia il momento nel quale il presidente ed il segretario in carica – che possono anche non avere preso parte alla decisione - attestano l’intervenuta assunzione del provvedimento disciplinare nei termini indicati, nonché la conformità dello stesso allo svolgimento del procedimento come rappresentato agli atti. È questa attestazione a dar conto degli autori della decisione, nonché del contenuto materiale del provvedimento, comprensivo di idonea motivazione e degli altri elementi necessari di cui all’art. 51, secondo comma, R.D. n. 37/1934. In questo senso, l’atto del deposito acquista una sorta di autonomia logico-giuridica, finalizzata alla pubblicazione della decisione stessa: per questo, pur a fronte della diffusa prassi in forza della quale sono il presidente e il consigliere segretario del collegio che ha assunto la decisione ad effettuare la sottoscrizione di cui al citato art. 51, non sussistono motivi ostativi a che tale sottoscrizione sia invece materialmente apposta dal presidente e dal consigliere segretario in carica al momento del deposito. Del resto, la lettera del citato art. 51 non contiene elementi che forniscano spunti interpretativi decisivi a favore dell’una o dell’altra delle evenienze possibili a proposito della sottoscrizione (con riferimento al tempo: a quello del giudizio ovvero del deposito), così che entrambe, nel silenzio della norma, appaiono legittime e tra loro alternative, secondo discrezionalità, prassi e possibilità del Consiglio procedente, anche considerato lo spazio di autonomia che a tali enti compete, in quanto enti pubblici non economici a carattere associativo (per tale nozione, pacifica in dottrina, vedi per tutti G. ROSSI, Enti pubblici associativi. Aspetti del rapporto tra gruppi sociali e pubblico potere, E. Jovene ed., Napoli 1979, 23 ssg.). Parere 11 dicembre 2008, n. 47 Quesito del COA di Trieste, rel. cons. Bianchi Il quesito riguarda l’incompatibilità, ai sensi dell’art. 3 della legge professionale, del presidente del Consiglio di amministrazione di una società per azioni di gestione di servizi pubblici locali. Dopo ampia discussione, la Commissione fa propria la proposta del relatore e adotta il seguente parere: “Va preliminarmente ricordata la stabile interpretazione della Commissione Consultiva e della giurisprudenza del Consiglio sul tema nuovamente sottoposto all’esame, secondo la quale è incompatibile con l’esercizio della professione forense l’assunzione della carica di presidente del Consiglio di amministrazione di società commerciale che comporti poteri gestori, in termini di capacità astratta. Di per sé, infatti, la sola funzione di rappresentanza giudiziale e direzione del Consiglio di amministrazione non determina incompatibilità (C.N.F. sent. 12 novembre 1996, n.159). Sicché certamente non versa in situazione d’incompatibilità il presidente che sia stato privato, per statuto sociale o per successiva deliberazione, dei poteri gestori attraverso la nomina di un amministratore delegato (C.N.F. sent. 159/1996, cit; 20 settembre 2000, n.90; Cass. SS.UU. 5 gennaio 2007, n. 37). Con riferimento al caso specifico va premesso che l’analisi della fattispecie concreta è di stretta competenza del Consiglio locale. Senza sostituirvisi indebitamente, la Commissione rileva, da un lato, la natura gestoria del potere–dovere statutario di adozione dei provvedimenti d’urgenza, assistito anche dall’attribuzione di autonoma capacità di spesa, e –d’altro canto- le funzioni meramente esecutive assegnate dallo statuto alla figura del direttore generale. La natura potenzialmente pubblica e lo scopo della società non incidono sull’eventuale incompatibilità (parere 21 novembre 2001), mentre non è concretamente valutabile –innanzitutto in termini di coerenza statutaria e di estensione- la delega di poteri gestori ad altro amministratore”. Parere 11 dicembre 2008, n. 48 Quesito del COA di Massa Carrara, rel. cons. Cardone Il quesito attiene alla possibilità di iscrivere nel registro dei praticanti il laureato in giurisprudenza che non abbia sostenuto l’esame di procedura penale. La Commissione, dopo ampia discussione, adotta il seguente parere: “La Commissione consultiva ha già in passato avuto modo di prendere in considerazione casi simili a quelli di cui al presente quesito (cfr. parere 9 maggio 2007, n. 22), ed ha dovuto prendere atto del fatto che, nonostante alcune scelte curricolari adottate nell’ambito dell’autonomia universitaria possano legittimamente apparire poco consone agli obiettivi di formazione degli aspiranti alla carriera forense, non è possibile sindacare tali scelte ove adottate in conformità dell’attuale normativa accademica. In particolare il Consiglio dell’Ordine deve limitarsi ad accertare il possesso del titolo di studio richiesto dalla legge per l’iscrizione nel registro dei praticanti. Deve pertanto ricordarsi che la nuova laurea magistrale in giurisprudenza corrisponde a tutti gli effetti alla precedente omonima laurea quadriennale, ancorché non vi sia un provvedimento ministeriale di formale equiparazione ai fini dell’ammissione al tirocinio, bensì ai soli fini della partecipazione ai pubblici concorsi (D.M. M.I.U.R. 5 maggio 2004, in G.U. 21 agosto 2004, n. 196). Nel caso di specie la questione centrale attiene alla possibilità, per l’Ordine competente, di non iscrivere nel registro dei praticanti laureati che presentino delle evidenti lacune quanto al numero ed al tipo di insegnamenti ed esami necessari all’esercizio della professione forense. Ciò è impedito esplicitamente dall’attuale normativa regolamentare, che impone, al contrario, di considerare in modo omogeneo tutte le lauree rientranti in un’unica classe (cfr. DM M.I.U.R. 22 ottobre 2004, n. 270, art. 4, in G.U. 12 novembre 2004, n. 266). La stessa norma che prevede che «Il corso di laurea magistrale ha l'obiettivo di fornire allo studente una formazione di livello avanzato per l'esercizio di attività di elevata qualificazione in ambiti specifici» è rivolta a garantire il dispiegarsi dell’autonomia didattica degli atenei, e non anche a consentire un sindacato esterno sull’orientamento dei corsi o sulla distribuzione dei crediti nell’ambito dei diversi corsi. In conclusione deve ritenersi che l’istante laureato in giurisprudenza abbia diritto all’iscrizione nel registro dei praticanti. Ciò non esclude, tuttavia, che il Consiglio dell’ordine competente, in sede di verifica dello svolgimento della pratica, possa, conformemente al quadro normativo vigente, esercitare la dovuta sorveglianza volta a garantire che il praticante non sia scevro di cognizioni fondamentali in una materia, quale quella della procedura penale, che deve necessariamente rientrare nel bagaglio di conoscenze proprie dell’avvocato, considerato che l’abilitazione al patrocinio, sia quella provvisoria di cui all’art. 8 del R.D.L. n. 1578/1933, sia quella propria dell’iscritto nell’albo e prevista dalla Costituzione della Repubblica (art. 33, comma 4 Cost.) consentono al soggetto in questione di esercitare il patrocinio anche dinanzi al giudice penale. Ne consegue che il COA competente potrà espletare gli opportuni accertamenti sulle dichiarazioni rese dal praticante ai sensi dell’art. 7, D.P.R. 101/1990, ed in quella sede invitare il praticante ad un colloquio nel quale potrà essere valutata anche la preparazione del praticante in materia di procedura penale (cfr. art. 7, comma 3, D.P.R. cit.). Analogo penetrante controllo potrà essere esercitato in sede di concessione dell’eventuale abilitazione provvisoria al patrocinio di cui all’art. 8 R.D.L. cit., nonché, in sede di rilascio del certificato di compiuta pratica, il quale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 10, D.P.R. n. 101/1990 attesta appunto che il praticante abbia “atteso alla pratica stessa, per il periodo prescritto, con diligenza e profitto”.