Capitolo Primo IL DIRITTO SINDACALE: OGGETTO E FONTI Sommario: 1. Diritto del lavoro e diritto sindacale. – 2. Le fonti del diritto sindacale. – 2.1. Le fonti internazionali. – 2.2. Le fonti dell’Unione. – 2.3. La Costituzione. – 2.4. La legge e gli usi. – 2.5. La contrattazione collettiva. – 2.6. La giurisprudenza. Fonti: Cost., artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 43, 46; cod. civ., artt. 2094, 2222; L. 20 maggio 1970, n. 300, c.d. Statuto dei Lavoratori; Protocollo 23 luglio 1993; Protocollo 22 dicembre 1998; Accordo quadro 22 gennaio 2009; Accordi attuativi 15 e 30 aprile 2009; Accordo interconfederale 28 giugno 2011; Trattato di Versailles del 1919; Convenzioni Oil n. 87/1948 e n. 98/1949; Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950; Carta sociale europea del 1961; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, c.d. Carta di Nizza del 2000; Accordo sulla politica sociale (Aps), allegato al Trattato di Maastricht del 1992; Trattato di Lisbona 1° dicembre 2009. Sintesi. Nella prima parte del capitolo sono individuate le partizioni che interessano il diritto del lavoro moderno mentre nella seconda parte sono elencate ed esaminate le principali fonti che concorrono a definire il diritto sindacale. Di ciascuna sono tracciate le linee essenziali a partire dalle fonti che trovano la loro origine nell’ordinamento europeo e internazionale; a seguire viene preso in esame il sistema delle fonti interne, dove viene evidenziato il ruolo centrale svolto dalla Costituzione, dalla legislazione e, soprattutto, da quella precipua fonte di produzione costituita dalla contrattazione collettiva. Principi, nozioni, istituti qui esposti sinteticamente verranno ripresi in seguito; per cui si consiglia allo studente di tenerlo presente nel corso della lettura dell’intero manuale. 1. Diritto del lavoro e diritto sindacale. Il diritto del lavoro ha come oggetto il “lavoro”, non nel senso generale ed omnicomprensivo, di cui all’art. 1 Cost., di impegno assunto e svolto personalmente; ma nel senso particolare di “lavoro subordinato, prestato «mediante retribuzione ... alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore» (art. 2094 cod. civ.). Come tale trova il suo contrario nel “lavoro autonomo”, opera o servizio compiuto «verso un corrispettivo ... con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente» (art. 2222 cod. civ.), anche se il confine tra l’uno e l’altro resta incerto a livello definitorio e spesso violato a livello pratico. Peraltro non riguarda tutto il lavoro subordinato, ma solo quello sog- 1. Il diritto del lavoro 2 Capitolo primo getto al codice civile, alla legislazione del lavoro ed alla contrattazione collettiva. Sicché fino all’inizio del decennio ’90 del secolo scorso è rimasto limitato al lavoro a favore di imprese o persone private; ma successivamente è stato esteso, con la c.d. privatizzazione, a gran parte dell’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, eccezion fatta per alcune categorie di personale rimaste sotto il diritto amministrativo. Da tempo costituisce un settore del diritto dotato di autonomia scientifica, accademica, didattica: ricostruito a sistema, con propri principi, criteri, modelli, coltivato da un corpo di giuristi specializzato, insegnato in uno o più corsi universitari; ma rimane un settore relativamente giovane perché nato a seguito della rivoluzione industriale compiutasi in Inghilterra nel settecento e diffusasi gradualmente negli altri Paesi, con la formazione del c.d. proletariato. Rinviando al prossimo capitolo per un rapido excursus storico, tradizionalmente si distingue al suo interno il diritto del rapporto individuale di lavoro, che regola diritti e obblighi reciproci del datore e del lavoratore, ed il diritto sindacale, che disciplina l’organizzazione e l’attività sindacale. Se pur ricondotto al diritto del lavoro in senso lato, costituisce un settore scientificamente e didatticamente distinto il diritto della previdenza (o della sicurezza) sociale, sia per la sua complessità, sia per la sua evoluzione da un sistema riservato solo al lavoratore subordinato, secondo un criterio assicurativo, ad uno aperto al cittadino in quanto tale, secondo un principio universalistico. Tendono ad avere un loro autonomo rilievo il diritto del lavoro internazionale ed il diritto del lavoro comunitario, ma, a dire il vero, si contraddistinguono per le loro fonti non nazionali, peraltro ormai incorporate nel diritto del lavoro, essendo tali da condizionarlo e conformarlo. Gravitano, invece, sui rispettivi settori il diritto comparato del lavoro, il diritto penale del lavoro, il diritto processuale del lavoro, il diritto tributario del lavoro, se pur tali da produrre cultori e studi specializzati. 2. Il diritto sindacale La tripartizione originaria del diritto sindacale era data da organizzazione sindacale/contrattazione/autotutela collettiva, che scontava quella relativa auto-sufficienza del diritto sindacale resa possibile dalla mancata attuazione degli artt. 39 e 40 Cost. Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, l’art. 39, 1° comma sancisce la libertà di organizzazione sindacale per entrambi, datori di lavoro e lavoratori, fermo restando più di una differenza: storica, per essere stati i lavoratori a coalizzarsi, partendo da movimenti spontanei, mentre i datori lo hanno fatto solo di risposta, procedendo da accordi relativi al controllo dei mercati delle loro merci; pratica, per essere i lavoratori soggetti collettivi solo se considerati come gruppi, mentre i datori lo sono anche individualmente rispetto ai loro dipendenti, per cui ben possono stipulare contratti collettivi; costituzionale, per essere pie- Il diritto sindacale: oggetto e fonti 3 namente legittima una politica legislativa promozionale riservata ai soli sindacati dei lavoratori. Non a tutti, però. All’iniziale lunga astensione legislativa è seguita quella normativa promozionale senza regolamentazione, giustificata dal ruolo giocato dalle tre grandi Confederazioni, che, aperta dallo Statuto dei lavoratori del 1970, col diritto riconosciuto al “sindacato maggiormente rappresentativo” di costituire RSA, sarà continuata dalla legislazione sulla c.d. contrattazione delegata, col potere attribuito al sindacato “comparativamente più rappresentativo” di integrare o modificare contrattualmente la legge. Da qui la rilevanza acquisita dall’interazione fra Stato e Confederazioni, che sfocerà all’inizio del decennio ’80 in quella lunga, tormentata e discontinua stagione all’insegna della concertazione; sì che le potrebbe far meritare una parte ulteriore, la quarta, a cavallo fra il Diritto costituzionale ed il Diritto sindacale. Come si vedrà, la mancata emanazione della legge sindacale prevista dall’art. 39, 2° comma Cost. ha lasciato campo libero all’auto-regolamentazione delle parti sociali basata sul principio del “reciproco riconoscimento”, che in concreto ha significato creare a favore di Cgil, Cisl, Uil un oligopolio negoziale, culminato nell’accordo interconfederale unitario del luglio 1993, con recepimento di un sistema di contrattazione articolata su un livello categoriale e su uno aziendale, mantenuto anche dall’accordo interconfederale separato, sottoscritto solo da Cisl ed Uil, dell’aprile 2009. Tutto questo, però, vale per il diritto sindacale del lavoro privato, non per il diritto sindacale dell’impiego pubblico privatizzato, dove prevale nettamente l’etero-regolamentazione legislativa, con una forte riserva di legge, una rigida individuazione dei soggetti, dei livelli e dei contenuti, una severa disciplina dei controlli interni ed esterni, se pur nel rispetto del doppio livello, di comparto/area dirigenziale e di unità amministrativa. Recepita una lettura dell’auto-tutela collettiva che distingueva nettamente fra sciopero e serrata, la disciplina del diritto di sciopero è rimasta consegnata ad una giurisprudenza costituzionale ed ordinaria che già nel corso del decennio ’70 lo aveva restituito ad una pienezza di esercizio priva di riscontro nell’intero mondo occidentale. Fino al 1990, quando appare una legge limitata all’esercizio del diritto nei servizi pubblici essenziali, che rilevano come tali a prescindere dallo stato giuridico dei datori, sicché qui il diritto sindacale ritorna ad essere unico per il lavoro privato e per l’impiego pubblico. Il diritto sindacale s’interessa inevitabilmente del quadro istituzionale, politico, sindacale, economico, sociale che fa sfondo al suo processo evolutivo, ma secondo l’orientamento classico condiviso in questo manuale, mantenendolo molto sullo sfondo, perché gli interessa il dato giuridico, a prescindere di massima anche dal suo livello di applicazione effettiva. Deve darsi atto che sta emer- 4 Capitolo primo gendo qualche altro orientamento, sotto l’influsso proveniente d’oltralpe o d’oltreoceano, il quale privilegia un approccio dichiaratamente economico per spiegare non come un certo diritto è nato, ma come viene usato: ma questo non interferisce di per sé sul modo in cui tale diritto è letto, interpretato, ricostruito. Difficile da inquadrare e definire è il Diritto delle relazioni industriali, che vorrebbe caratterizzarsi per un approccio interdisciplinare al fenomeno sindacale; ma corre non di rado il rischio di ricomprendere studi condotti con un unico metodo, con a comune oggetto il fenomeno sindacale, con particolare riguardo al suo modello organizzativo e al suo sistema contrattuale. Di recente ha ricevuto l’onore di intitolare corsi, libri di testo, riviste il Diritto del mercato del lavoro, che, però, costituisce solo un settore di studio caratterizzato dall’oggetto, quel mercato destinato a costituire il punto di incrocio di problemi e temi diversi, dalle politiche attive e passive alle tipologie contrattuali. 2. Le fonti del diritto sindacale. 3. La teoria dell’ordinamento intersindacale La mancata emanazione della legge sindacale veniva giustificata in base alla presunta primazia del 1° comma dell’art. 39 Cost., la cui assoluta ed incondizionata consacrazione della libertà di organizzazione sindacale sarebbe risultata del tutto incompatibile con la disciplina eteronoma prefigurata dal 2° comma ss. Il che comportava inevitabilmente una attenzione tutta particolare per l’auto-regolamentazione collettiva, assunta a “fonte” prevalente se non addirittura esclusiva. Ne rappresenta l’espressione più spinta e sofisticata quella teoria dell’ordinamento intersindacale elaborata all’inizio del decennio ’60 da un giurista destinato ad esercitare un forte influsso sul processo formativo del diritto del lavoro costituzionale, come studioso e come legislatore. Facendo ricorso alla nozione di ordinamento giuridico elaborata da Santi Romano, Gino Giugni configura un ordinamento intersindacale, basato sul reciproco riconoscimento delle organizzazioni dei datori e dei lavoratori, con la sua fonte “legislativa” data dai contratti, la sua “giurisdizione” dalle procedure di conciliazione, la sua “effettività” dalle forme di lotta. Esso vive dentro all’ordinamento statale, ma rimane distinto ed autonomo, peraltro non senza un canale di comunicazione, costituito dai giudici dello Stato, che nel recepire nelle loro sentenze le norme collettive, le trasformerebbero in norme statali. Quel che si è dovuto ammettere subito è che un ordinamento intersindacale così concepito poteva essere distinto ed autonomo solo fino ad un certo punto, perché non originario, bensì derivato e legittimato da quello statale. Ma se ne è valorizzato l’intento metodologico, cioè di trasferire l’attenzione su un fenomeno che si era ristrutturato di per sé solo nel vuoto conseguito al crollo del corporativismo ed al mancato intervento legislativo richiesto dall’art. 39, 2° comma ss. Cost., considerandolo come un sistema auto-sufficiente. Non senza una significativa ricaduta, se pur Il diritto sindacale: oggetto e fonti 5 assai più nella dottrina che nella giurisprudenza; ma tale teoria, figlia della stagione dell’astensione legislativa, era destinata a divenire superata in quella nuova della legislazione promozionale aperta dallo Statuto dei lavoratori di cui lo stesso Giugni fu definito addirittura il “padre”. Certo le fonti del diritto del lavoro, di cui fa parte il diritto sindacale, sono quelle del diritto in generale, cioè internazionali, comunitarie, costituzionali, statali e regionali, se pur con le modalità rese necessarie dalla materia disciplinata. È consuetudine considerare come fonte tutt’affatto peculiare del diritto del lavoro quella contrattazione collettiva la cui analisi rappresenta la componente più corposa e significativa del diritto sindacale; ma se questo dà rilevanza alla sua centralità nella regolazione delle relazioni collettive, ancor prima che delle condizioni di lavoro, può essere mantenuto solo nel senso di “fonte a-tecnica”, essendole precluso di produrre vere e proprie norme giuridiche. Non senza, peraltro, una qualche problematica insorta con riguardo alla contrattazione delegata dalla legge (c.d. delegata) ed alla contrattazione delle amministrazioni pubbliche, per la presunta e, rispettivamente, certa estensione della sua efficacia al di là delle parti stipulanti. 4. Le fonti del diritto sindacale 2.1. Le fonti internazionali. Le fonti internazionali, così come quelle comunitarie, trovano la loro legittimazione costituzionale nell’art. 11 Cost., che «consente, in condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo», peraltro con una distinzione fondamentale rispetto alla loro efficacia nell’ordinamento nazionale: mediata dalla ratifica per le convenzioni OIL, immediata per le direttive comunitarie. L’esigenza di una organizzazione interstatuale in materia di lavoro ha portato nella nuova stagione di cooperazione pacifica apertasi alla fine della prima guerra mondiale alla costituzione, nel Trattato di Versailles del 1919, dell’Organizzazione internazionale del lavoro, con sede a Ginevra, dotata una competenza assai ampia almeno sulla carta: di indirizzo, regolamentazione, assistenza tecnica, con la precisa finalità di contribuire al miglioramento delle condizioni lavorative e sociali, nonché allo sviluppo di un ordine economico-sociale mondiale. Ha una struttura tripartita, composta da rappresentanti degli Stati membri, fra cui tutti i principali (due per ciascuno) e delle loro organizzazioni dei datori e dei lavoratori (1 per ciascuna), e dotata di una Conferenza internazionale del lavoro, di un Consiglio di Amministrazione e di un Ufficio internazionale del lavoro (Bit), che costituisce il segretariato permanente. La competenza regolativa è riservata alla Conferenza 5. Le fonti internazionali 6. L’OIL: composizione e attività 6 7. La convenzione 8. La raccomandazione Capitolo primo internazionale, che la svolge tramite la convenzione e la raccomandazione. La convenzione è un trattato che, una volta deliberato, ogni paese membro deve sottoporre all’organo competente per la ratifica, che lo incorporerà nel diritto interno, con conseguente obbligo di farlo applicare e di accettare controlli internazionali, sia generali, sia specifici. Dovendo guadagnarsi la necessaria approvazione da parte di un’organizzazione tanto ampia quanto eterogenea, la convenzione si limita spesso all’enunciazione di principi e alla fissazione di criteri, che possono ben essere universalmente accettati per i loro caratteri generali e generici, per di più redatti in termini compromissori non facilmente interpretabili dalla stessa Corte internazionale di giustizia con sede all’Aja, competente in materia. Fra le convenzioni più importanti e citate vanno ricordate la n. 87/1948 sulla libertà di associazione e protezione del diritto all’azione sindacale e la n. 98/1949 sul diritto di organizzazione e azione sindacale, che, peraltro, sono largamente migliorate dal nostro Diritto sindacale, sì da non costituire testi di riferimento. La raccomandazione non è una normativa da sottoporre a ratifica, ma solo una direttiva che ciascun paese membro deve tener presente nell’elaborazione e gestione delle politiche del lavoro. 9. Crisi dell’autoregolamentazione e c.d. clausole sociali La prospettiva classica di autoregolamentazione volontaria dell’OIL è stata messa in crisi da una internazionalizzazione finanziaria ed economica sfociata in una globalizzazione a tutto campo, con una riduzione dell’autonomia dei singoli Stati con riguardo ai loro ordinamenti giuridici ed ai loro interventi politici. Il che si è riflesso particolarmente sui diritti più fortemente caratterizzati in senso nazionale, come quelli aventi ad oggetto le relazioni collettive, comportando un ridimensionamento del ruolo dello Stato ed un indebolimento del peso delle parti sociali. Ma, soprattutto, l’assenza di standard internazionali di diritti collettivi ed individuali, che siano sufficienti ed effettivi, favorisce una competizione al ribasso, c.d. dumping sociale. Sicché si sono pensate misure alternative quali le c.d clausole sociali, destinate a condizionare l’apertura dei mercati interni ai soli beni prodotti col rispetto di determinati livelli di protezione in primis delle libertà sindacali; le quali, però, stentano a decollare, per la resistenza dei paesi emergenti che contano per il loro sviluppo sul basso costo lavoro delle loro esportazioni. 10. Il Consiglio d’Europa Il Consiglio d’Europa è una organizzazione internazionale, costituita nel 1949, con sede a Strasburgo, per promuovere la democrazia, i diritti dell’uomo e l’identità culturale europea, pure tramite accordi e convenzioni da sottoporre alla ratifica dei suoi 47 Stati membri, quasi tutti appartenenti al vecchio continente. Nel 1950 ha dato vita alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – cui l’UE ha aderito col Trattato di Lisbona – la quale ha istituito, nel 1959, la Corte Europea dei diritti dell’uomo con sede a Il diritto sindacale: oggetto e fonti 7 Strasburgo, che giudica sui ricorsi relativi alle violazioni della Convenzione, inoltrabili solo dopo aver esaurito i rimedi interni. Lo stesso Consiglio d’Europa nel 1961 ha adottato la Carta sociale europea che menziona diversi diritti in materia di lavoro (al lavoro, alla retribuzione e a condizioni lavorative eque, alla contrattazione collettiva), in parte coincidente con quelli recepiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, c.d. Carta di Nizza. 2.2. Le fonti dell’Unione. Arenatosi il procedimento di ratifica del “Trattato costituzionale” firmato nel 2004, il compromesso raggiunto è stato quello di un “Trattato di riforma” dei precedenti Trattati: il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 ed entrato vigore nel 2009 ha rivisto sia il Trattato istitutivo della Comunità economica europea (CEE) del 1957 e successive modifiche, cambiandogli la denominazione in Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), sia il Trattato di Maastricht del 1992 e successive variazioni, che riformava la CEE, d’allora in poi Comunità europea (CE), e istituiva l’Unione europea del 1992 (TUE). Con il Trattato di Lisbona anche la CE cessa di esistere perché l’UE sostituisce e succede alla stessa, ed il termine “comunitario” è stato sostituito dall’espressione “dell’Unione”, anche se di fatto è tutt’oggi usato. 11. La “costituzione” della UE La UE è un’organizzazione internazionale che, secondo la Corte di Giustizia dell’Unione europea, dà vita ad un unico ordinamento, costituito dal diritto dell’UE e dal diritto dei singoli paesi membri, con il “primato” del primo sul secondo (concezione monista). Peraltro la Corte costituzionale italiana, facendo riferimento all’art. 11 Cost. nonché all’art. 117, come novellato nel 2001, ritiene che permanga la presenza distinta di due ordinamenti, comunitario e italiano, se pur condividendo l’esistenza del “primato” (concezione dualista). 12. La natura Costituita, insieme alla Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), dai Trattati di Roma del 1957, come Comunità economica europea (CEE) essa conoscerà una lunga evoluzione (Atto unico europeo del 1986; Trattato di Maastricht e Accordo sulla politica sociale del 1992; Trattato di Amsterdam del 1997; Trattato di Nizza del 2001; Trattato di Lisbona del 2007) che avrà una prima ricaduta sulla sua stessa fisionomia istituzionale, cambiandola da organizzazione intergovernativa in organizzazione internazionale, pur senza farla assurgere a qualcosa di simile allo Stato federale, come tentato col fallito Trattato costituzionale del 2004. La sua finalità principale rimane il “mercato interno” europeo, finalizzato ad uno “sviluppo sostenibile”, peraltro basato, oltre che su “una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi”, anche su 13. Finalità e composizione 8 Capitolo primo “un’economia sociale altamente competitiva” (art. 3.2 TUE): formula compromissoria, che, peraltro, ben testimonia come la vista lunga evoluzione abbia avuto una seconda ricaduta, trasformando una CEE concentrata sulla libera concorrenza ad una UE, compresa della necessità di coniugare crescita economica e crescita sociale. Ne fanno attualmente parte ventisette paesi europei, di cui solo 17 condividono l’euro come moneta unica. 14. Fonti primarie e fonti derivate Le fonti comunitarie si dividono in primarie e derivate: le prime (dette anche diritto primario) comprendono attualmente i Trattati TFUE e TUE, immediatamente e direttamente efficaci rispetto ai diritti dei paesi terzi, nonché sovra-ordinati rispetto alle altre fonti della UE; mentre le seconde (dette anche diritto derivato) sono costituite dagli atti normativi fondati sui trattati ed emanati dalle istituzioni, cioè in primis i regolamenti e le direttive. Sono, inoltre, fonti di diritto la giurisprudenza della Corte di Giustizia e i principi generali di diritto, fra cui riveste un ruolo fondamentale il principio di uguaglianza, sotto forma di un divieto di discriminazione fondato sulla nazionalità. 15. Gli organi Sono qualificati come istituzioni dell’UE il Parlamento, composto dai “rappresentanti dei cittadini dell’Unione”; il Consiglio europeo ed il Consiglio, costituito il primo dai capi di Stato e di Governo ed il secondo di regola dai ministri competenti per i singoli argomenti trattati; la Commissione, formata da persone designate dai singoli paesi, ma destinate ad esercitare le loro funzioni “in piena indipendenza nell’interesse generale della Comunità”, la Corte di Giustizia dell’Unione, la Corte dei Conti, la Banca centrale europea; nonché i neo introdotti Presidente del Consiglio europeo e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e per la politica della sicurezza. Pure qui la lunga evoluzione scandita dalla sequenza dei Trattati ha avuto la sua ricaduta, con la progressiva riduzione dell’area riservata alla decisione all’unanimità nell’ambito del Consiglio; ma soprattutto con la nascita e la crescente rilevanza acquisita dal Parlamento Europeo. Vi sono altri organismi di rilievo menzionati nei Trattati, come il Comitato economico sociale (CES) ed il Comitato delle Regioni, organi consultivi del Parlamento, della Commissione, del Consiglio. Il CES è composto dai rappresentanti di diverse categorie della vita economica e sociale ed esprime pareri su sua iniziativa o su richiesta delle tre Istituzioni, che sono obbligate a farlo, senza peraltro rimanervi vincolate, prima che vengano prese determinate decisioni di politica economica e sociale. 16. La Corte di Giustizia Costituita da un giudice per ciascuno Stato membro, cioè 27, anche se esercita la sua giurisdizione con sezioni più ristrette, la Corte di Giustizia con sede in Lussemburgo ha come sua funzione quella di garantire l’applicazione uniforme del diritto dell’UE in tutti i paesi membri: le spetta Il diritto sindacale: oggetto e fonti 9 decidere su vari tipi di ricorsi, fra cui quello per rinvio pregiudiziale da parte dei giudici nazionali circa la validità e l’interpretazione delle norme dell’UE; e quello per inadempimento degli Stati al diritto dell’UE. La giurisprudenza della Corte è stata di eccezionale importanza nella stessa costruzione del diritto dell’UE, con una significativa ricaduta indiretta su quella stessa materia sindacale esclusa dalla competenza della UE, come risulta dalle sentenze Laval (C-341/05) e Viking Line (C-408/05) che limitano la possibilità di ricorrere allo sciopero a pro della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. Le competenze della UE, esclusive o concorrenti con quelle degli Stati, sono rette dal principio di attribuzione, cioè sono quelle conferitele dagli Stati membri coi Trattati istitutivi in funzione della finalità da perseguire, non senza, però, una loro possibile dilatazione implicita in base alla c.d. clausola di flessibilità (art. 352 TFUE); se concorrenti devono essere esercitate secondo i principi di sussidiarietà verticale e di proporzionalità, cioè solo se l’Unione è più idonea a disciplinare quella data materia e solo nella misura strettamente necessaria (art. 5, 1° comma, TUE). A conferma del carattere strettamente nazionale del diritto sindacale, come dotato di rilievo costituzionale, formale o sostanziale, nell’ambito di ciascun Paese membro, mentre sono ricomprese nelle competenze normative della UE molte materie attinenti al rapporto individuale di lavoro, se pur con eccezioni significative, come quella costituita dalla retribuzione; continuano a rimanervi escluse le più importanti con riguardo al fenomeno collettivo, quali l’associazione sindacale e lo sciopero e la serrata, nonostante che i diritti di organizzazione e di azione collettiva siano stati sanciti dalla Carta di Nizza, ora vincolante. E allo stesso modo continuano in prevalenza ad essere assoggettate alla regola del voto all’unanimità in seno al Consiglio – con evidenti possibili effetti paralizzanti – le materie della sicurezza e protezione sociale dei lavoratori, della loro protezione in caso di risoluzione del contratto di lavoro, della rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro e delle condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi. Fra le fonti primarie, oltre ai Trattati, c’è la Carta di Nizza che elenca tutta una serie di diritti relativi alla dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia: la libertà di impresa risulta ricompresa fra i diritti di libertà (art. 16); l’informazione e la consultazione (art. 27) nonché la negoziazione e l’azione collettiva (art. 28) fra i diritti di solidarietà. Alla Carta il Trattato di Lisbona ha riconosciuto “lo stesso valore giuridico dei trattati” (art. 6 TUE 2007), con un atto dal grande valore simbolico, ma dal significato problematico: anzitutto, secondo il suo art. 52, § 5 occorre distinguere fra principi da attuarsi con atti dell’UE e degli Stati membri, come sono quelli previsti dai suoi artt. 16, 27, 28 e norme immediatamente applicabili; poi, prendere atto del fatto che la UE non ha 17. Le competenze 18. Le competenze normative in materia di diritto sindacale 19. Le fonti primarie: i Trattati e la Carta di Nizza 10 20. Le fonti derivate: i regolamenti 21. ... e le direttive 22. La contrattazione collettiva nazionale come strumento di recezione delle direttive Capitolo primo competenza in materia di associazione, di sciopero e di serrata. Come si vedrà, la Corte di giustizia, con due sentenze del 2007, riconoscerà il diritto di azione sindacale di cui all’art. 28 della Carta come un diritto fondamentale della UE, bypassando il problema della competenza; ma, in forza di un bilanciamento “sbilanciato” fra tale diritto e la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizio di cui agli artt. 49 e 56 TFUE, entrambe riconducibili nell’ambito della libertà di impresa prevista dall’art. 16 della stessa Carta (v. cap. XII). I regolamenti possono essere adottati dal Consiglio; dal Consiglio e dal Parlamento congiuntamente; dalla Commissione (su delega del Consiglio), dalla Banca centrale europea. Essi sono atti generali obbligatori nei confronti degli stati membri e dei privati, con effetti giuridici che prevalgono su tutti gli ordinamenti giuridici nazionali in termini simultanei, automatici ed uniformi. Le direttive sono presentate dalla Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo che, nel quadro della procedura di codecisione, divenuta ordinaria, le adottano; ed una volta entrate in vigore, impegnano gli Stati membri a recepirle, entro un termine da sei mesi a due anni, scaduto il quale possono essere citati dalla Commissione di fronte alla Corte di Giustizia, per inadempimento degli obblighi comunitari. Normalmente esse pongono solo un vincolo di risultato, lasciando agli Stati ampi margini di manovra circa gli atti con cui realizzarlo, purché certi e trasparenti, nonché obbligatori per i rispettivi diritti interni; ma a volte sono assai precise, sì da meritarsi la denominazione di direttive dettagliate. Se non recepite o recepite in ritardo o in modo incompleto le direttive spiegano un’efficacia c.d. verticale, fra Stati e privati, che, sempreché contengano disposizioni chiare, precise, incondizionate, possono farle valere in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Sono, invece, prive, della c.d. efficacia orizzontale, fra privati, tranne nel caso in cui si tratti di direttive dettagliate, dette self-executing, che pur non attuate possono acquisire rilevanza nell’ordinamento grazie all’obbligo di interpretazione conforme posto in capo ai giudici nazionali. Le direttive sono state la strumentazione elettiva di quella politica regolativa tesa all’armonizzazione delle discipline nazionali vigenti nelle varie materie rientranti fra le competenze della comunità che è venuta col tempo a mostrare la corda, sia per doversi attestare su standard tanto meno incisivi, quanto più destinati a valere per paesi diversi per sistemi politici, diritti del lavoro, indicatori economici; sia per limitarsi a porre vincoli e limiti, a prescindere dai loro effetti sui livelli di occupazione e sui tassi di crescita. La recezione delle direttive potrebbe avvenire, oltre che per legge, anche per tramite della contrattazione collettiva dello Stato membro, purché questa sia in grado di assicurare una efficacia erga omnes. Cosa impossibile per l’Italia, per la ben nota perdurante mancata attuazione dell’art. 39, 2° comma e ss. Cost., nonostante la aspettativa sindacale espressa nel Patto di Natale del 1998 che sottopo- Il diritto sindacale: oggetto e fonti 11 neva a concertazione “anche la trasposizione delle direttive comunitarie” e la tendenza di una certa dottrina a considerare tale contrattazione estranea all’ambito coperto dall’articolo costituzionale. Sicché la prassi è stata quella di dare attuazione alla direttiva con un “avviso comune”, concordato fra le parti sociali, che, poi, a sua volta, è stato assunto con un atto legislativo (v. l’avviso comune del 2 marzo 2005 con cui le parti sociali hanno proposto al Governo e al legislatore italiano il recepimento della direttiva 8 ottobre 2001, n. 86 che completa lo Statuto della Società europea per quanto riguarda il coinvolgimento dei lavoratori, avvenuto con D. Lgs. n. 188 del 2005; l’avv. comune del 27 novembre 2006 per il recepimento della direttiva 2002/14 che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori, poi attuata con D. Lgs. 6 febbraio 2007, n. 25; l’avv. comune del 12 aprile 2011 per il recepimento della direttiva n. 38 del 2009 riguardante l’istituzione di un Comitato aziendale europeo o di una procedura per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie, attuata con D. Lgs. 22 giugno 2012, n. 113). Si è discusso se per la recezione delle direttive avessero valore un principio generale implicito o, comunque, clausole esplicite contenutevi di non regresso, cioè di divieto di peggiorare in sede di attuazione la disciplina nazionale. Ma, esclusa l’esistenza del principio, anche l’efficacia delle clausole è stata considerata dalla Corte di Giustizia più politica che giuridica, rimessa ad un’ampia discrezionalità del legislatore del paese membro. 23. Il principio e le clausole di non regresso La conquista della dimensione sociale è stata lenta e faticosa, nonché appesantita da una qual certa ambiguità circa la sua rilevanza, non in sé ma in funzione di una concorrenza genuina e di una mobilità effettiva delle persone. Fondamentale è stato l’Accordo sulla politica sociale (Aps) che, se pur relegato ad allegato al Trattato di Maastricht, per il rifiuto della Gran Bretagna di sottoscriverlo, ha ampliato la competenza in materia sociale e ha dato inizio a una particolare procedura definita esplicitamente “dialogo sociale”. Oggi l’espressione “dialogo sociale europeo” (in senso ampio) indica una ampia gamma di relazioni intercorrenti sia trilaterali fra le istituzioni UE e le parti sociali, sia bilaterali fra le stesse: la consultazione, la concertazione, nonché la valorizzazione dell’autonomia negoziale e la partecipazione delle parti sociali al processo legislativo della UE (dialogo sociale in senso stretto). La Commissione ha il compito di “promuovere la consultazione delle parti sociali a livello di Unione e adotta ogni misura utile per facilitare il dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti”: tale compito diventa un obbligo qualora essa intenda presentare proposte legislative in tema di politiche sociali. 24. La dimensione sociale europea 25. Il dialogo sociale 12 26. Il contratto collettivo europeo 27. Il metodo aperto di coordinamento delle politiche occupazionali e sociali 28. Crisi della contrattazione collettiva europea e ripresa del dialogo sociale tramite la contrattazione collettiva transnazionale Capitolo primo La consultazione può sfociare nella conclusione di un contratto collettivo europeo di due tipi, battezzati con nomi diversi, ma che qui vengono riferiti come “accordo quadro” e “accordo libero”. Il primo è lo strumento di un coinvolgimento sindacale nel processo legislativo europeo: una volta raggiunto l’accordo su una materia rientrante fra le competenze dell’UE, dietro proposta congiunta delle parti e su proposta della Commissione, il Consiglio lo assume, con un procedimento diverso a seconda dell’oggetto, come atto normativo della UE (v. gli accordi quadro sui congedi parentali, sul lavoro part-time e sul contratto a termine, confluiti in altrettante direttive, poi recepite nel nostro ordinamento). Il secondo è avulso dal processo normativo dell’UE, sicché può riguardare anche una materia estranea alle competenze della UE, restando un mero accordo a carattere politico-orientativo (c.d. gentleman’s agreement), rimesso per la sua attuazione a “le procedure e le prassi proprie degli Stati membri”. Il Trattato di Amsterdam del 1997, coll’ampliare ulteriormente la competenza in materia sociale, pone la premessa per una espansione della politica legislativa regolativa; precostituisce al tempo stesso la base per quella politica cooperativa, realizzata fra istituzioni e stati membri, sulla base di orientamenti, formulati dal Consiglio. Decolla così la Strategia europea per l’occupazione, che, poi nel 2000, diventerà la Strategia di Lisbona, con “un nuovo obbiettivo strategico per il nuovo decennio: diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”, utilizzando come strumento il metodo aperto di coordinamento (Mac). La contrattazione collettiva europea sconta già di per sé una duplice difficoltà: di diritto, per l’inesistenza di un vero e proprio diritto sindacale europeo, perché manca qualsiasi armonizzazione delle stesse nozioni di base (libertà sindacale, autonomia collettiva, autotutela sindacale); di fatto, perché nel vuoto legislativo, sono stati individuati tre attori principali, la Confederazione europea dei sindacati (Ces), l’Unione delle industrie della Comunità europea (Unice) e il Centro europeo delle imprese pubbliche (Ceep), che hanno sì giocato un ruolo fondamentale nel dialogo sociale, ma restano a tutt’oggi privi di poteri di rappresentanza a pieno titolo loro conferiti dalle organizzazioni sindacali nazionali. Peraltro la causa determinante dell’entrata in crisi della contrattazione collettiva europea è stata la vista forte diminuzione dell’iniziativa regolativa della Commissione; tant’è che essa appare più evidente per l’“accordo quadro”, destinato ad essere incorporato in un atto normativo, di cui l’ultimo esempio risale a quello sul contratto a termine del 1999; che per l’“accordo libero”, del quale c’è più di un caso, come quello sul telelavoro del 2002 e sullo stress lavoro correlato del 2004. Di contro c’è in atto una espansione della contrattazione collettiva transnazionale, sia di settore, condotta dai Comitati di settore, organismi bipartiti costituiti nell’ambito della UE; sia di singola impresa, in particolare quella destinataria della direttiva 94/45/CE sui Comitati aziendali. Il diritto sindacale: oggetto e fonti 13 Peraltro anche la scommessa fatta con la politica cooperativa si è rivelata perdente, come ben testimonia la resa della Strategia di Lisbona a consuntivo di quel decennio aperto con una previsione/promessa rivelatasi, più che utopica, iper-reale. Sotto l’incalzare di una crisi mondiale, che penalizza l’Europa in particolare, è emersa in tutta la sua drammaticità la conseguenza di un’espansione incontrollata della UE, così da creare un’ampia area ad elevata densità abitativa caratterizzata da situazione finanziaria ed economica altamente differenziata. Per di più senza alcuna compensazione data, a livello istituzionale, da una unità del bilancio, del fisco, del controllo del sistema bancario e dalla garanzia della moneta unica da parte di una Banca di ultima istanza; e offerta, a livello territoriale, da una mobilità dei lavoratori, dei servizi, dei capitali. L’Unione europea è in mezzo ad un guado investito da una impetuosa corrente: o vince la corrente facendo un salto in avanti verso una più stretta ed integrata forma di organizzazione; o la corrente vincerà lei, causandole la dissoluzione. 29. Una UE alla ricerca di sé stessa 2.3. La Costituzione. Come ben noto la nostra è una Costituzione “lunga”, che fa precedere un Preambolo sui principi ed una Parte prima, sui diritti e doveri dei cittadini, alla Parte seconda sull’ordinamento della Repubblica: caratteristica, questa, prodotta da una generale evoluzione della tipica Carta fondamentale liberale dell’800, dovuta alla consapevolezza acquisita circa la necessità di garantire più e meglio quell’autentica base della democrazia costituita dalla libertà civile in ogni sua espressione, dalla partecipazione politica e di promuovere una maggiore giustizia sociale. Risponde a quest’ultima esigenza una serie di Principi contenuti in articoli del Preambolo, che ben può farla definire una Costituzione “sociale”: l’art. 1, che un po’ enfaticamente dichiara essere la Repubblica “fondata sul lavoro”; l’art. 3, che consacra dopo il principio di uguaglianza formale (1° comma) quello sostanziale (2° comma), destinato a giocare un ruolo fondamentale nella giurisprudenza della Corte costituzionale in materia sindacale; l’art. 4, 1° comma, per cui «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Con un’ulteriore caratteristica propria di una costituzione moderna, la nostra Costituzione è “rigida”, cioè sovra-ordinata, lei e le leggi approvate con l’apposita procedura rinforzata, alle leggi ordinarie. Cosa, questa, che comporta l’esistenza di una Corte costituzionale, chiamata a decidere della legittimità delle leggi ordinarie, nonché a risolvere i conflitti di attribuzione fra i poteri della Repubblica. 30. Una Costituzione “lunga” e “sociale” 31. Una Costituzione “rigida” 14 32. Il modello di “pluralismo istituzionalizzato” della Costituzione “formale” 33. L’art. 39, 2° comma ss. 34. L’art. 40 Cost. 35. Il modello di “pluralismo conflittuale” della Costituzione “materiale” Capitolo primo Bisogna arrivare al Titolo III della Parte Prima, sui rapporti economici, per ritrovare il diritto sindacale prefigurato nella nostra Carta fondamentale. Aperto da quell’art. 35, che impegna la Repubblica alla tutela del lavoro «in tutte le sue forme e applicazioni», continua con gli artt. 36, 37, 38, in materia di diritti dei singoli lavoratori subordinati, per approdare agli artt. 39 e 40. Il modello che ne può essere dedotto è stato battezzato di “pluralismo istituzionalizzato”, perché se l’art. 39, 1° comma, garantisce la libertà di organizzazione sindacale e l’art. 40 riconosce il diritto di sciopero, questo deve avvenire nell’ambito di un sistema di regole quali previste dall’art. 39, 2° comma ss. e dallo stesso art. 40. L’art. 39, 2° comma ss. cerca di conciliare il riconoscimento del pluralismo sindacale proprio del nuovo regime democratico col mantenimento del contratto di categoria efficace erga omnes caratteristico del sistema corporativo; e lo fa con una soluzione originale, ma complicata. Ogni organizzazione sindacale dei datori e dei lavoratori con uno statuto “a base democratica” deve o può, a seconda dell’interpretazione che lo raffigura come obbligo o come onere, chiedere la registrazione, con conseguente acquisizione della personalità giuridica; una volta registrata ha titolo per partecipare in proporzione dei propri iscritti alla rappresentanza unitaria di parte lavoratrice e di parte datoriale per la stipulazione di contratti efficaci “per tutti gli appartenenti alle categorie” cui si riferisce. L’art. 40 rappresenta la soluzione di continuità più radicale rispetto alla situazione precedente: consacra come diritto quello sciopero che era represso come reato dal codice penale del 1930. Usa al riguardo una formula anodina, quella per cui «il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano», con un sostanziale rinvio aperto al futuro legislatore. Come noto, questo sistema non ha mai visto la luce per l’art. 39, 2° comma ss., peraltro rimasto scritto nella Costituzione, con la conseguenza, mantenuta ferma dalla Corte costituzionale, di impedire qualsiasi soluzione alternativa a quella ivi prevista per conferire alla contrattazione collettiva efficacia erga omnes; e l’ha vista solo parzialmente e tardivamente per l’art. 40 Cost., con l’emanazione nel 1990 della legge sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Sicché in luogo di questo modello inscritto nella Costituzione formale se ne affermerà un altro nella Costituzione materiale, con la benedizione della stessa Corte, cui è stato dato il nome di “pluralismo conflittuale”, cioè di un confronto libero delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori, lasciato alle categorie del diritto privato: l’associazione non riconosciuta, il contratto collettivo di diritto comune, lo sciopero come diritto potestativo. Peraltro, sottovalutando un dato, che, cioè, non solo di fatto, ma anche di diritto, con l’indirizzo promozionale inaugurato dallo Statuto dei lavoratori, c’è stato un restringimento guidato di tale pluralismo in forza e ragione del favor espresso in primis per le organizzazioni sindacali dei lavoratori “maggiormente rappresentative”. Il diritto sindacale: oggetto e fonti 15 Tornando alla Carta come redatta a suo tempo dall’Assemblea costituente, il modello previsto si collocava nell’ambito di un riconoscimento della iniziativa economica privata, significativamente effettuato subito dopo con l’art. 41, peraltro accompagnato dall’esplicito divieto a «svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana», nonché dal rinvio alla legge per delineare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Nonostante si sia cercato di leggere questo testo in funzione del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, 2° comma Cost., vedendovi lo strumento per realizzare un sistema socialista, certo è che per l’indirizzo dominante, consacrato dalla Corte costituzionale e dall’intera storia repubblicana, quello che è stato recepito nel “compromesso” raggiunto fra le varie anime dell’Assemblea costituente (liberale, cattolica, socialista, comunista) è stato un sistema capitalista “temperato”: nessuna funzionalizzazione dell’iniziativa privata, ma la sua sottoposizione alle limitazioni nonché alle eventuali direttive programmatorie dettate dalla legge. Un eco del pensiero socialista lo si ritrova, oltre che nell’art. 3, 2° comma, anche negli artt. 43 e 46. Il primo legittima non solo la “nazionalizzazione” (a favore di enti pubblici) effettivamente realizzata; ma anche la “socializzazione” (a favore di comunità di lavoratori o di utenti) di imprese che forniscono servizi pubblici essenziali, gestiscono fonti di energia, operano in situazioni di monopolio rimasta sulla carta. Mentre il secondo contempla «il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende», secondo una formula ispirata da un’esperienza post-bellica rivoluzionaria, ma, nella sua versione anodina, tale da sottintendere una convergenza fra interessi dei datori e dei lavoratori, rimasta ostica all’esperienza sindacale italiana. Il regime istituzionale delineato dalla Parte seconda, all’insegna di un primato del Parlamento condiviso dai principali partiti, Democrazia cristiana, Partito socialista italiano e Partito comunista italiano, perché tale da rassicurarli tutti alla vigilia di quella consultazione elettorale politica dell’aprile 1948 destinata a definire i reciproci rapporti di forza; un centralismo statale solo ammorbidito da un regionalismo debole; un prudente temperamento della democrazia rappresentativa con l’introduzione della misura tipica della democrazia diretta, il referendum abrogativo delle leggi ordinarie su iniziativa di cinque Consigli regionali o di cinquecentomila elettori. 36. Il sistema economico di riferimento: un sistema capitalista “temperato” 37. Un eco del pensiero socialista 38. Un regime istituzionale caratterizzato da un primato del Parlamento e da un regionalismo debole 2.4. La legge e gli usi. Se fino all’attuazione dell’ordinamento regionale previsto dal vecchio Tit. V della Parte seconda della Costituzione, avvenuto nel decennio ’70 si avevano solo leggi nazionali, dopo se ne avranno anche regio- 39. La legislazione statale e regionale 16 Capitolo primo nali, nelle materie riservate alla competenza concorrente regionale dall’art. 117 Cost. allora vigente. Ma, con la riscrittura del Tit. V effettuata dalla L. cost. n. 3/2001, la ripartizione della competenza fra Stato e regioni è stata radicalmente modificata, col prevederne nel novellato art. 117 una esclusiva a favore dello Stato, una concorrente Stato-regione ed una residuale generale tutta regionale. Se pur non si è mancato di dibattere a lungo circa chi avesse titolo a legiferare in materia di lavoro, la soluzione fatta propria dalla stessa Corte costituzionale indica lo Stato, in forza del 2° comma, lett. l) dell’attuale art. 117, laddove riporta alla competenza esclusiva statale l’“ordinamento civile e penale”; d’altronde non si era mai fatta questione che il diritto sindacale fosse riservato alla competenza statale, data la sua disciplina e rilevanza costituzionale (v. cap. III). 40. Legge, legge delega, decreto legge Di massima per le grandi riforme che investono direttamente od indirettamente la materia sindacale l’alternativa fra legge e legge delega sembra consegnata ad una valutazione che privilegia rispetto alla complessità e delicatezza della materia, la peculiare congiuntura politica e parlamentare: così sono leggi lo Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970), il “pacchetto Treu” (L. n. 196/97), la “riforma Fornero” (L. n. 92/2012); mentre sono leggi delega, con conseguente decretazione delegata, quelle relative alla c.d. privatizzazione dell’impiego pubblico (LL. nn. 421/1992 e 59/1997 e D. Lgs. n. 29/1993, più volte modificato) e la “riforma Biagi” (L. n. 30/2003 e D. Lgs. n. 276/2003). In presenza di una continua fibrillazione della maggioranza parlamentare che si è alternata in questa c.d. seconda Repubblica, pur in presenza di una crisi finanziaria ed economica ormai cronica, s’è fatta regola quella destinata a restare eccezione a’ sensi di una Costituzione come la nostra, strettamente e rigidamente parlamentare, cioè il ricorso alla decretazione d’urgenza, nonché alla fiducia anche nella delicata materia del lavoro; se pure il decreto legge più famoso e rilevante nella storia del diritto sindacale resti il D.L. n. 70/1984 varato dal Governo allora presieduto da Bettino Craxi, sul contenimento del costo del lavoro, sopravvissuto sia ad una consultazione referendaria, sia ad una sentenza della Corte costituzionale (Corte Cost. n. 34/1985). 41. Lo Statuto dei lavoratori L’aspettativa della legge sindacale attuativa dell’art. 39, 2° comma ss. Cost. resterà relativamente alta fino alla fine del decennio ’50, quando fu emanata la L. n. 741/1959, che autorizzava il Governo a recepire in decreti delegati i contratti collettivi già stipulati, così rendendoli efficaci erga omnes. Se anche la sua proroga verrà dichiarata incostituzionale da una Corte che l’aveva precedentemente salvata, la definitiva condanna della legge sindacale di attuazione sarà data dall’emanazione della L. n. 300/1970, lo Statuto dei lavoratori, che, col suo Tit. III, varerà una politica promozionale selettiva, consistente nel garantire la cittadinanza nei luoghi di lavoro (costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali e attribuzione dei diritti sindacali) in primis alle organizzazioni sindacali “maggiormente rappresentative”. Il diritto sindacale: oggetto e fonti 17 Tale politica promozionale si espanderà successivamente alla stessa negoziazione, con la già ricordata legislazione sulla c.d. contrattazione delegata, destinata a costituire una costante del diritto del lavoro della fine del secolo scorso e della prima decade di questo. Di questa contrattazione costituisce l’esemplificazione più importante e significativa la L. n. 146/1990, come modificata dalla L. n. 83/2000, che inquadra in una cornice legislativa la stipula dei contratti e degli accordi, destinati ad individuare e disciplinare le prestazioni indispensabili da assicurare nel corso di scioperi effettuati nei servizi pubblici essenziali (v. cap. XIII). Nel corso del decennio ’90 prende corpo la c.d. privatizzazione dell’impiego pubblico, con il varo di quel D. Lgs. n. 29/1993, che, dopo un lungo e tormentato percorso, approderà nel c.d. testo unico sul pubblico impiego, il D. Lgs. n. 165/2001, destinato a sua volta ad essere modificato fino ai nostri giorni. Emerge, così, un diritto sindacale dell’impiego pubblico privatizzato che, per quanto ricalcato alla lontana da quello del lavoro privato, ne rimane assai differente, perché iper-regolato, con più di un passaggio pubblicistico. Sicché il processo appare double-face, visto che sembra in un primo tempo come di delegificazione, con abrogazione di tutta la disciplina pubblicistica; ed in un secondo come di ri-legificazione, con la predisposizione di una apposita disciplina di base privatistica (v. cap. XI). Gli usi aziendali, considerati del tutto distinti dai c.d. usi normativi, in quanto spontanei, sono oggi inquadrati dall’indirizzo dominante fra le cd. fonti sociali collettive, fra cui rientrerebbero anche i contratti collettivi aziendali e i regolamenti d’azienda (v. cap. X). 42. La regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali: la L. n. 146/1990 43. La c.d. privatizzazione dell’impiego pubblico: il D. Lgs. n. 165/2001 44. Gli usi aziendali 2.5. La contrattazione collettiva. Resta a tutt’oggi aperta la discussione sul se la contrattazione collettiva possa essere qualificata “fonte” di diritto: mentre la tesi favorevole gode di largo credito fra gli studiosi di diritto pubblico, quella contraria prevale nettamente fra gli studiosi ed i giudici del lavoro. Ora una fonte di diritto è caratterizzata da una procedura formale, di per sé idonea a creare vere e proprie norme giuridiche, non solo astratte e generali, ma dotate di efficacia ultra partes, com’erano i contratti collettivi corporativi e come avrebbero potuto essere i contratti collettivi ex art. 39, 4° comma Cost. Ma tale non è la contrattazione collettiva c.d. diritto comune, priva di qualsiasi procedura formalizzata, di per sé capace di produrre regole astratte e generali, ma fornite solo di un’efficacia inter partes, che non cambia natura per l’esistenza di strumenti giuridici o di fattori sociali idonei ad estenderne la portata. Il che non deve far ignorare le forme atipiche di contrattazione collettiva che ricollegano ad una procedura o alla sola selezione delle organizzazioni sindacali trattanti un’efficacia generale: esse meritano di essere qui anticipate, per venire 45. La contrattazione collettiva come fonte 18 Capitolo primo riprese in seguito nella analisi sistematica dell’efficacia della contrattazione c.d. di diritto comune (v. cap. X). Per la prima ipotesi, della presenza di una procedura, vanno ricordati i contratti di comparto e di area dirigenziale (D. Lgs. n. 165/2001) e i contratti per la disciplina delle prestazioni indispensabili (L. n. 146/1990), cui, peraltro, la Corte costituzionale ha riconosciuto sì un’efficacia generale, ma solo in via mediata, per non contraddire la sua giurisprudenza circa la illegittimità di qualsiasi procedura diversa da quella prevista dall’art. 39, 4° comma Cost. per attribuire efficacia erga omnes ai contratti collettivi nazionali di categoria. Per la seconda ipotesi, della sola selezione delle organizzazioni sindacali trattanti, quelle “maggiormente” o “comparativamente più” rappresentative, va richiamata la c.d. contrattazione delegata. Non si tratta di una categoria unitaria, per cui va disaggregata secondo le varie fattispecie che vi sono ricondotte, sicché anche la questione relativa alla sua efficacia erga omnes va affrontata distintamente, ma con una presunzione di massima contraria, almeno per quei contratti di categoria cui tale efficacia potrebbe essere conseguita solo con la procedura di cui all’art. 39, 2° comma ss. Ma deve darsi atto che Corte Cost. n. 344/1996 ha aperto una finestra, sia pur solo con un obiter dictum, circa l’esistenza di un modello costituito da «leggi che delegano alla contrattazione collettiva funzioni di produzione normativa con efficacia generale, configurandole come fonte di diritto ‘extra ordinem’ destinate a soddisfare esigenze ordinamentali che avrebbero dovuto essere adempiute dalla contrattazione collettiva prevista dall’inattuato art. 39, 4° comma Cost. L’uso di questo modello è giustificato quando si tratta di materie del rapporto di lavoro che esigono uniformità di disciplina in funzione di interessi generali connessi al mercato del lavoro». 46. La parte “obbligatoria” dei contratti collettivi. Come visto nel perdurante vuoto attuativo dell’art. 39, 2° comma ss., si è andato consolidando un indirizzo già manifestatosi a ridosso del varo del testo costituzionale, di far ricorso al contratto collettivo c.d. di diritto comune: escluso di poterlo omologare al contratto corporativo regolato dal codice civile in apertura del libro V, veniva ricondotto sotto il regime “comune” dei contratti e delle obbligazioni di cui al libro IV. Un tale regime non permetteva di soddisfare lo scopo storico del contratto collettivo di creare un trattamento comune esteso a tutti i lavoratori capaci di farsi concorrenza al ribasso nello stesso ambito produttivo o territoriale; ma lasciava spazio libero ad un regolamento autonomo del sistema contrattuale tramite appositi accordi interconfederali e le c.d. prime parti dei contratti collettivi di categoria, battezzate come “obbligatorie” perché destinate a regolare le relazioni collettive fra le stesse organizzazioni stipulanti, come tali distinte da quelle “normative” contenenti le condizioni e i termini dei rapporti di lavoro. È da ricordare che la contrattazione articolata, costruita su una serie di rinvii dal contratto nazionale a quelli decentrati per la regolamentazione di determinate materie, venne introdotta nel 1962 dal Protocollo Intersind/ Asap, per poi divenire recepita come formula generale destinata a so- Il diritto sindacale: oggetto e fonti 19 pravvivere alla stessa stagione della “conflittualità permanente”, aperta dall’autunno caldo del ’69; tanto che la ritroviamo, al servizio di una politica dei redditi anti-inflattiva, in quell’autentica carta fondamentale delle relazioni collettive costituita dal Protocollo del luglio del ’93 fra Governo e Confindustria, Cgil, Cisl, Uil rectius dall’accordo interconfederale in esso incorporato. Ma pur inquadrata in una prospettiva macro-economica resa diversa proprio dalla politica dei redditi, che, peraltro aveva sì ridotto l’inflazione ma a costo di una forte costrizione salariale, la contrattazione articolata resta sia nell’accordo interconfederale quadro separato del gennaio 2009, seguito dai due accordi attuativi dell’aprile, sia nell’accordo interconfederale unitario del giugno 2011. Gli accordi interconfederali conclusi fra le parti sociali, con a far da guida quello fra la Confidustria e Cgil, Cisl e Uil, hanno conosciuto una particolare fortuna, quando sono stati incorporati in Protocolli triangolari nel contesto di una concertazione attuata come uno scambio “politico” fra il Governo e le stesse parti sociali, a partire dall’inizio del decennio ’80 e per tutto il decennio ’90: esemplare resta a tutt’oggi il Protocollo del luglio 1993. Alla crisi della concertazione ha corrisposto la conclusione di accordi interconfederali con la partecipazione delle sole parti sociali, come testimonia l’accordo interconfederale unitario del giugno 2011 (v. cap. II, §§ 5 e 6). La contrattazione collettiva è subordinata alla legge, con la salvaguardia di quella competenza c.d. orizzontale, che secondo la Corte costituzionale le resterebbe pur sempre garantita ai sensi dell’art. 39, 1° comma: non godrebbe di una riserva assoluta ed incondizionata neppure in materia retributiva, ma non potrebbe essere espropriata in via definitiva della relativa competenza (v. cap. X). Di massima, laddove la legge interviene in materia sindacale fissa solo la disciplina minimale che può essere migliorata dalla contrattazione collettiva, come per esempio per la regolamentazione dei diritti sindacali di cui al Tit. III St. lav.; ma la legislazione assai spesso è servente rispetto alla autonomia collettiva, sostanzialmente secondo modalità diverse: la recezione in atti legislativi di precedenti accordi sindacali (c.d. legislazione “contrattata”); la delega a successivi contratti collettivi di compiti suppletivi, integrativi e modificativi rispetto a quanto da lei stessa disposto (c.d. contrattazione delegata). Pur potendosi parlare sempre di recezione, bisogna tenere distinte due ipotesi. Nella prima, c’è una sostanziale ricezione di precedenti accordi interconfederali, come la L. n. 604/1966 sui licenziamenti individuali, la legislazione sul costo del lavoro del 1977 (LL. nn. 91 e 475), e le leggi che hanno incorporato gli accordi attuativi di direttive comunitarie come il D. Lgs. n. 66/2003 sull’orario di lavoro. Nella seconda c’è una trattativa preliminare, che col tempo si è ampliata in una concertazione 47. Gli accordi interconfederali e i Protocolli 48. La legge e la contrattazione collettiva 49. La c.d. legislazione “contrattata” 20 50. La c.d. contrattazione “delegata” Capitolo primo finalizzata alla stesura di un Protocollo, propedeutico ad interventi del Governo ed a provvedimenti legislativi a tutto campo. Se si considera in tutta la sua evoluzione la politica promozionale nei confronti delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, essa può essere distinta in una prima tappa, data dal Titolo III dello Statuto dei lavoratori, con cui si garantisce a quelle “maggiormente rappresentative” la piena cittadinanza nei luoghi di lavoro; ed in una seconda rappresentata dalla c.d. contrattazione “delegata”, con la quale si riconosce a quelle “comparativamente più rappresentative” la legittimazione a varare una disciplina collettiva atta a “modulare” quella legislativa. Col che si è inteso rispondere ad una crescente esigenza di flessibilità “in entrata”, cioè rispetto alla tipologia e disciplina delle assunzioni, con una deregolazione non secca, quale data dall’abrogazione sic et simpliciter della legge, ma graduata e controllata, quale costituita dalla facoltà concessa alle parti sociali di intervenire sulla normativa di legge, dalla forma soft dell’integrazione a quella hard della “deroga”. Testimonianza iniziale ne è stata la contrattazione collettiva autorizzata ad introdurre ipotesi ulteriori rispetto a quelle tassativamente indicate per la conclusione di un contratto a termine dalla L. n. 230/1962, con la sua prima significativa espressione verso la fine del decennio ’80. Ma tale contrattazione è maturata nel corso del decennio ’90, col c.d. Pacchetto Treu (L. n. 196/97), per essere poi pienamente valorizzata dalla riforma Biagi del 2003 e ripresa dalla stessa riforma Fornero del 2012. Nell’intermezzo c’è stata quell’autentica forzatura costituita dal D. Lgs. n. 167/2011 sull’apprendistato, perché qui la legge si limita alla sola fissazione di principi vincolanti per la contrattazione collettiva, elevata ad unica ed esclusiva fonte di disciplina dell’istituto. 51. La c.d. regolamentazione consensuale del mercato del lavoro S’è parlato al riguardo di una disciplina del mercato del lavoro affidata alle stesse parti sociali per la sua adattabilità, tempestività, effettività, la c.d. “regolamentazione consensuale del mercato del lavoro”. Non si tratta di una categoria unitaria, per cui va disaggregata secondo le varie figure che vi sono ricondotte. Sicché anche la problematica relativa alla sua efficacia erga omnes va affrontata distintamente, se pur con una presunzione di massima, che, cioè, sia ben difficile ammetterla laddove non esplicitamente prevista dalla legge stessa, ferma restando la contro-indicazione data dalla presenza di un’apposita disciplina costituzionale non attuata. 52. Legge e contrattazione collettiva nella regolamentazione dell’esercizio del diritto di sciopero La L. n. 146/1990 sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, prevede una disciplina composita con la legge ad individuare i servizi, a fissare alcuni limiti, a definire i moduli tipici con cui possono essere assicurate le prestazioni indispensabili; ed i contratti collettivi e gli accordi di comparto e di area dirigenziale a regolamentare siffatte prestazioni, efficaci rispetto a tutti i potenziali destinatari solo se validati dall’apposita Commissione di Garanzia. Il diritto sindacale: oggetto e fonti 21 Stando alla Corte costituzionale, sarebbe proprio la legge a conferire ai contratti collettivi del settore pubblico privatizzato efficacia generalizzata, per via di quell’art. 40, 4° comma del D. Lgs. n. 165/2001 che impone a tutte le pubbliche amministrazioni di osservarli, sicché tale efficacia risulterebbe ex lege e non ex contractu, come tale non contrastante con l’art. 39, 2° comma ss. Cost. Ma se continua massiccia la legislazione a favore della c.d. contrattazione delegata, resta tutta la difficoltà politico-sindacale di intervenire direttamente sulla contrattazione collettiva. Sarà la rottura sindacale sul rinnovo del Protocollo del luglio 1993, sfociata nell’accordo interconfederale quadro separato Confindustria/Cisl-Uil del gennaio 2009, ad offrire l’occasione per quell’art. 8 D.L. n. 138/2011, convertito con L. n. 148/2011, che, appena varato, è stato disconosciuto pubblicamente dalle parti sociali (v. cap. II, § 7). L’art. 4, 62° e 63° comma, L. n. 92/2012, conferisce al Governo la delega per l’emanazione di decreti che autorizzino la contrattazione collettiva ad introdurre varie forme di “partecipazione”. Questo secondo un crescendo che procede ben oltre l’informazione e consultazione dei lavoratori di cui alla Direttiva Ue n. 14/2002, recepita col D. Lgs. n. 25/2007, fino a riecheggiare la codeterminazione tedesca, con la presenza di rappresentanti dei lavoratori nei Consigli di sorveglianza delle Società organizzate secondo la formula dualistica (Consigli di sorveglianza e Consigli di Gestione), nonché la partecipazione azionaria degli stessi lavoratori. Il succo di questo testo estremamente complicato e contorto è che i contratti collettivi territoriali o aziendali sottoscritti da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative o dalle loro rappresentanze in azienda possono contenere “specifiche intese” che deroghino non solo alle clausole dei contratti collettivi nazionali, ma anche alle disposizioni di leggi riguardanti materie ricomprese in una elencazione estremamente ampia ed articolata, con efficacia estesa a tutti i dipendenti, sempreché sottoscritte dalle predette rappresentanze aziendali “sulla base di un criterio maggioritario”. Questo, peraltro, presuppone un dato per niente scontato, che, cioè, l’art. 39, 2° comma ss. Cost. riguardi solo ed unicamente quel contratto di categoria cui fa esclusivo riferimento, peraltro essendo l’unico al tempo praticato; sicché sia possibile, senza previamente attuarlo, conferire ad un contratto aziendale efficacia erga omnes. Non solo, perché l’elencazione delle materie la cui disciplina legislativa può essere derogata risulta così omnipervasiva, da far seriamente dubitare della sua compatibilità con la tesi suggerita dalla Corte costituzionale dell’esistenza di una dote inderogabile di diritti correlata inscindibilmente con la subordinazione. 53. Legge e contrattazione collettiva nel pubblico impiego privatizzato 54. La contrattazione collettiva aziendale in deroga: l’art. 8 D.L. n. 138/2011 55. La contrattazione collettiva e la “partecipazione” dei lavoratori: l’art. 4, 62° e 63° comma, L. n. 92/2012 22 Capitolo primo 2.6. La giurisprudenza 56. La giurisprudenza costituzionale 57. La giurisprudenza ordinaria. La giustizia del lavoro 58. La funzione nomofilattica della Corte di Cassazione Tradizionalmente con la parola giurisprudenza si indica l’attività decisionale svolta dalla Corte costituzionale, dalla magistratura amministrativa e dalla magistratura penale e civile, così come espressa nelle sua varie figure tipiche: sentenze, ordinanze, decreti. Fondamentale nella formazione di un diritto sindacale difforme dal modello prefigurato dalla carta è stata la attività svolta dalla Corte costituzionale, con riguardo all’art. 39 Cost. Di questo ha valorizzato appieno la libertà di organizzazione sindacale inscritta nel 1° comma, senza, peraltro, ritenerla né esclusiva della politica promozionale selettiva di cui al Tit. III St., né di massima preclusiva della legislazione sul costo del lavoro. E ha mantenuto fermo il 2° comma ss., senza, però, considerarlo impeditivo dell’effetto generalizzato riconosciuto ai regolamenti contrattuali circa le prestazioni indispensabili ex L. n. 146/1990 sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, nonché ai contratti collettivi del pubblico impiego privatizzato ex D. Lgs. n. 165/2001. Se pur lo ha fatto, tramite l’utilizzo di un duplice escamotage: considerando tale effetto riconducibile, per la prima ipotesi, alla stessa legge; e, per la seconda, a contratti estranei “alla categoria del contratto collettivo prefigurato dall’art. 39 della Costituzione”. Non meno importante è stato l’apporto della Corte a proposito del riconoscimento del diritto di sciopero di cui all’art. 40, dato con l’esercizio del suo sindacato sugli artt. 502 ss. e 330 del codice penale del 1930, formalmente sopravvissuti al crollo del fascismo. Ne è riuscito ampliato progressivamente lo scopo legittimante perseguibile, non più solo contrattuale, ma anche politico-economico; e ne è risultato ammesso lo stesso sciopero nei servizi pubblici essenziali, se pur coi limiti dovuti per salvaguardare diritti costituzionalmente protetti, secondo un approccio poi ripreso e sviluppato dalla L. n. 146/1990. Altrettanto fondamentale è risultata l’azione della magistratura ordinaria: non di quella penale, di cui si ricorda la parte marginale inizialmente giocata con riguardo al reato di abbandono collettivo del lavoro; ma di quella civile, che, a seguito della riforma del 1973, conta su una sezione e su un processo dedicati alle controversie di lavoro. Le si deve la ricostruzione della figura di contratto collettivo c.d. di diritto comune, della relazione fra livelli contrattuali, della nozione di “confederazioni maggiormente rappresentative” e dei diritti sindacali di cui al Tit. III St. lav.; nonché la individuazione dei modi legittimi di esercizio del diritto di sciopero, secondo una graduale liberalizzazione destinata a trovare un suo strumento elettivo nella giurisprudenza in tema di comportamenti anti-sindacali ex art. 28 St. lav. Secondo la funzione attribuita ad un processo articolato su un triplice grado, la giurisprudenza si è formata e consolidata gradualmente, con una dialettica fra il primo grado (ieri il Pretore, oggi il Tribunale), il secondo (ieri il Tribunale/Corte d’Appello, oggi la Corte d’Appello) di “merito” ed il ter- Il diritto sindacale: oggetto e fonti 23 zo di “legittimità” (la Corte di Cassazione). Com’è noto, ogni giudicato vale solo ed esclusivamente per il caso specifico considerato, ma contribuisce a formare l’indirizzo consolidato che viene a costituire il c.d. diritto vivente, cioè quello effettivamente applicato e sanzionato, tanto da non potersene prescindere nell’offrire un quadro del diritto in vigore. Se pur frutto dell’intero percorso giudiziario, tale diritto vivente è quello fatto proprio dalla Corte di Cassazione, specie se a Sezioni unite, la quale si è vista di recente rafforzare la sua funzione nomofilattica, con la previsione di un ricorso per violazione e falsa applicazione non più solo «di norme di diritto», ma anche «dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro» (art. 360, 1° comma, n. 3 cod. proc. civ.), nonché con l’introduzione del ricorso per saltum, cioè evitando il secondo grado contro una sentenza di primo grado sull’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi (art. 420-bis cod. proc. civ.). D’altronde l’ultimo quindicennio è caratterizzato da una sequenza ininterrotta di “riforme del mercato”, alla ricerca di quella flessibilità ritenuta necessaria per far fronte ad una cronica crisi occupazionale, peraltro letta e trattata in maniera discontinua a seconda del Governo in carica, per cui ne è stata valorizzata almeno sulla carta l’azione di istituzioni triangolari in senso lato amministrative; ma soprattutto è stata vista e rivista la tipologia e la disciplina dei contratti di lavoro, come tale occasione di una giurisprudenza centrata sui diritti individuali. Il protagonismo dei giudici del lavoro ha raggiunto il suo culmine nel corso del primo decennio ’70, con l’utilizzo a tutto campo dell’art. 28 St. lav., da parte dei c.d. Pretori d’assalto, che per età e formazione erano particolarmente influenzati dal clima conflittuale del tempo; con, a fare da pendant il riconoscimento dello sciopero di imposizione politico-economica da parte della Corte Costituzionale e dello sciopero articolato da parte della Corte di cassazione, a mezzo e, rispettivamente, verso la fine di quel decennio. Col cambio di clima conseguente al processo di ristrutturazione attivato in Italia dall’effetto congiunto della crisi petrolifera del 1973 e della protesta operaia, che comporta una ridistribuzione di potere a favore della parte datoriale vis-à-vis di quella lavoratrice nonché una centralizzazione delle relazioni collettive, tale protagonismo si attenua: consolidatasi sia la definizione del diritto di sciopero, sia l’interpretazione del Tit. III St. lav., l’attenzione tenderà a concentrarsi ed a mantenersi su quella problematica dell’efficacia della contrattazione collettiva in sé e nella relazione fra livelli, rinverdita, prima, dalla fine della stagione aurea di quella esclusivamente acquisitiva e, poi, dall’aprirsi della stagione di quella “separata” oggi fiorente come non mai, a stare alla vicenda Fiat. 59. Una giurisprudenza che cambia Il ruolo riservato al giudice amministrativo (Tribunali amministrativi e Consiglio di Stato) risulta ridimensionato rispetto a quello del lavoro, toccando ormai a quest’ultimo decidere sia sul comportamento antisindacale tenuto dalle pubbliche amministrazioni, sia sulle controversie insorte fra Aran ed organizzazioni sindacali nella procedura relativa ai contratti collettivi di comparto e di area dirigenziale. 60. La giurisprudenza amministrativa 24 Capitolo primo Scheda bibliografica essenziale Sulle fonti internazionali si veda L. Nogler, Le fonti internazionali, in AA.VV., Le fonti. Il diritto sindacale, a cura di C. Zoli, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, Utet, Torino, 2007, 23 ss.; G. Perone, Le fonti internazionali, in AA.VV., Le fonti del diritto del lavoro, a cura di M. Persiani, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da M. Persiani, F. Carinci, Cedam, Padova, 2010, 184 ss.; G. Casale, Il diritto internazionale del lavoro ed il ruolo della Organizzazione internazionale del Lavoro, in AA.VV., Diritto del lavoro dell’Unione europea, a cura di F. Carinci, A. Pizzoferrato, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, Utet, Torino, 2010, 35 ss. In generale sul diritto internazionale del lavoro cfr. A. Zanobetti Pagnetti, Diritto internazionale del lavoro: norme universali, regionali e dell’Unione europea, Giuffrè, Milano, 2011; J-M. Servais, International labour law, Kluwer law International, 2011. Sull’Organizzazione internazionale del lavoro cfr. AA.VV., L’organizzazione internazionale del lavoro: diritti fondamentali dei lavoratori e politiche sociali, a cura di R. Blanpain, M. Colucci, Jovene, Napoli, 2007; S. Hughes, N. Haworth, The International Labour Organisation (ILO): coming in from the cold, Routledge, London, New York, 2011. Sulle fonti dell’Unione europea si veda A. Pizzoferrato, Le fonti comunitarie, in AA.VV., Le fonti. Il diritto sindacale, a cura di C. Zoli, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, Utet, Torino, 2007, 36 ss.; M. Roccella, Diritto comunitario e diritto del lavoro: dalle origini al Trattato di Lisbona, in AA.VV., Le fonti del diritto del lavoro, a cura di M. Persiani, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da M. Persiani, F. Carinci, Cedam, Padova, 2010, 272 ss.; M. Colucci, Le fonti, in AA.VV., Diritto del lavoro dell’Unione europea, a cura di F. Carinci, A. Pizzoferrato, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, Utet, Torino, 2010, 71 ss.; Id., Le istituzioni e gli organi comunitari, in AA.VV., Diritto del lavoro dell’Unione europea, cit., 53 ss.; S. Sciarra, Diritto del lavoro e diritto sociale europeo. Un’analisi delle fonti, in AA.VV., Manuale di diritto sociale europeo, a cura di S. Sciarra, Giappichelli, Torino, 2010, 1 ss. Sui rapporti tra fonti interne e fonti europee cfr. M. Roccella, Le problematiche specifiche della materia, in AA.VV., Le fonti del diritto del lavoro, cit., 291 ss.; P. Manzini, I rapporti tra norme comunitarie e norme italiane, in AA.VV., Diritto del lavoro dell’Unione europea, cit., 111 ss. Per una trattazione complessiva del diritto europeo del lavoro cfr. L. Galantino, Diritto comunitario del lavoro, Giappichelli, Torino, 2012; M. Roccella, T. Treu, Diritto del lavoro dell’Unione europea, Cedam, Padova, 2012. In generale sull’ordinamento europeo si vedano i manuali di G. Te- Il diritto sindacale: oggetto e fonti 25 sauro, Diritto dell’Unione europea, Cedam, Padova, 2010; F. Pocar, Diritto dell’Unione europea, Giuffrè, Milano, 2010; G. Strozzi, R. Mastroianni, Diritto dell’Unione europea. Parte istituzionale, Giappichelli, Torino, 2011. Sulle fonti interne si veda M. Dell’Olio, Il diritto del lavoro italiano e le sue fonti, GDLRI, 2002, 515 ss.; L. Mariucci, Le fonti del diritto del lavoro quindici anni dopo, Giappichelli, Torino, 2003; C. Cester, M. Miscione, C. Zoli, Le fonti interne, in AA.VV., Le fonti. Il diritto sindacale, a cura di C. Zoli, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, Utet, Torino, 2007, 3 ss.; F. Carinci, Ritornando sulle fonti del diritto del lavoro, ADL, 2008, 1093 ss.; L. Montuschi, Il sistema generale delle fonti giuslavoristiche, in AA.VV., Le fonti del diritto del lavoro, a cura di M. Persiani, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da M. Persiani, F. Carinci, Cedam, Padova, 2010, 395 ss.; Id., La Costituzione come fonte regolatrice del lavoro, in AA.VV., Le fonti del diritto del lavoro, cit., 416 ss.; P. Tullini, Legge e legislazione lavoristica, in AA.VV., Le fonti del diritto del lavoro, cit., 451 ss. Sul contratto collettivo nel sistema delle fonti: M. Persiani, Il contratto collettivo di diritto comune nel sistema delle fonti del diritto del lavoro, ADL, 2004, 1 ss.; C. Zoli, Contratto collettivo come fonte e contrattazione collettiva come sistema di produzione di regole, in AA.VV., Le fonti del diritto del lavoro, cit., 487 ss.