L`idea di musica in Leopardi e la sua incidenza sui Canti

INDICE
3
INTRODUZIONE
Capitolo primo
SUPERIORITÀ DELLA MUSICA SU TUTTE LE ARTI
12
§ I.1
Leopardi e la musica. Aspetti preliminari
41
§ I.2
La musica nel sistema leopardiano delle Belle Arti
Capitolo secondo
L’IDEA DI MUSICA ATTRAVERSO ALCUNE LINEE FONDAMENTALI
DELLA POETICA LEOPARDIANA
66
§ II.1
Poetica del vago e indefinito. Gli effetti della musica
86
§ II.2
Antichità e presente. Il potere evocativo della musica
104
§ II.3
Musica e bellezza. Caducità delle cose umane
Capitolo terzo
LA MUSICA NEI CANTI
117
§ III.1
L’Infinito e La vita solitaria
129
§ III.2
Alla Primavera o delle favole antiche e Il passero solitario
139
§ III.3
Sopra il ritratto di una bella donna e Aspasia
148
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
Le celebrazioni per il bicentenario della nascita di Giacomo
Leopardi, hanno rappresentato un’importante occasione per la critica che
ha avuto modo di ripercorrere i suoi sentieri usuali, ma anche di
introdurre nuovi spunti di riflessione, o di riprendere e sviluppare temi,
come quello trattato nel presente lavoro, la cui problematicità non è stata
indagata fino in fondo, e che sono rimasti, per molti anni, in una
posizione marginale rispetto all’interesse per i capisaldi del pensiero
leopardiano, la natura, le illusioni, la ragione, il pessimismo, la politica, e
via discorrendo.
Dopo i primi accenni di interesse verso il rapporto che legò
Leopardi alla musica, da parte di Arturo Graf, Romualdo Giani e
Giuseppe Antonio Borgese, e dopo l’interessante saggio del 1910, dal
titolo Per un Leopardi mal noto, in cui Clemente Rebora, oltre a rendere
testimonianza dell’esperienza diretta che il poeta ebbe della musica, e ad
elencare le fonti che ne hanno ispirato la riflessione teorica, compie un
ulteriore passo in avanti, affermando che la musica, inquadrata nel
complesso generale della meditazione leopardiana, rappresenta il punto
nodale in cui, da un punto di vista filosofico, l’assoluto converge col
relativo, dagli inizi del secolo scorso, perlomeno fino agli anni ’80, con i
saggi di Monterosso e De Angelis, la critica non si è soffermata ad
approfondire la proposta reboriana, ma ha puntato piuttosto il suo
interesse sulla ‘musicalità’ dei Canti, data anche l’incontrastata
affermazione dell’estetica crociana che, attribuendo un valore esclusivo
alla poesia, ha scoraggiato ogni altro tentativo di lettura.
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Introduzione
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I saggi più recenti invertono la tendenza, e quasi sembrano non
riuscire più a prescindere dall’impostazione reboriana, prediligendo
chiavi di lettura filosofiche, esoteriche, o religiose, che appellandosi
largamente al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, considerano
il suono, componente principale della musica, come voce della divinità e
manifestazione dell’Essere, entità trascendentale che si contrappone al
nulla, coinvolgendo, a sostegno di queste ipotesi, numerosi altri aspetti
della meditazione leopardiana.
Dal momento che il poeta non conosceva le teorie musicali, e non
ebbe quindi esperienza diretta di quest’arte, se non in qualità di spettatore
[Zib. 3231: «io di me posso accertare che nel mio primo udir musiche (il
che molto tardi cominciai) io trovava affatto sconvenienti, incongrue,
dissonanti e discordevoli parecchie delle più usitate combinazioni
successive di tuoni, che ora mi paiono armoniche, e nell’udirle formo il
giudizio e percepisco il sentimento della melodia»], ‘Leopardi e la
musica’, è un tema che può essere trattato solo in considerazione di
valenze esterne, come quella che attribuisce a tale rapporto il significato
filosofico a cui si è accennato sopra, o quella che si sofferma sulla sua
funzione poetica, da cui il presente lavoro prende le mosse.
Se l’interesse di Leopardi per la musica fosse stato svincolato da
questi aspetti, e in particolare dalla creazione poetica, a cui ci riferiamo,
probabilmente vi avrebbe dedicato uno scritto a parte, e invece, non a
caso, i settantatré pensieri sulla musica si trovano disseminati tra le
pagine dello Zibaldone, che costituisce notoriamente il laboratorio
poetico dei Canti.
Le pagine che seguono sono dedicate, in apertura del primo
capitolo, a una breve ricognizione della presenza della sfera semantica
della musica all’interno dell’opera leopardiana, dal Diario del primo
amore ai Ricordi d’infanzia e di adolescenza, dalle Operette morali
all’Epistolario, dallo Zibaldone ai Canti, che permette oltretutto di
4
Introduzione
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ricostruire gli interessi musicali di Leopardi e della sua famiglia, la
predilezione per le composizioni di Gioacchino Rossini, le vicende
relative alla costruzione dell’attuale teatro Persiani di Recanati, che
coinvolsero in prima persona Monaldo, e poi l’esperienza di spettatore di
opere teatrali che il poeta ebbe modo di compiere, prima nella sua città, e
poi durante i soggiorni a Roma, Bologna e Napoli.
L’excursus che qui si propone tiene conto ovviamente degli
apporti più recenti della critica, dai contributi biografici, ai ricchi
cataloghi delle mostre su Leopardi a Roma e Leopardi e Bologna,
soffermandosi su tutte quelle impressioni che il poeta ricavava stando a
teatro, commentate attraverso gli scambi epistolari con il fratello Carlo,
grande appassionato dell’Opera, a cui spesso capitava di invaghirsi di
qualche cantante, come nel caso di Clorinda Corradi dedicataria
addirittura di un sonetto, o interiorizzate fino al punto di diventare teoria,
e ci riferiamo, ad esempio, all’ammirazione per Rossini che coincide sul
piano teorico con l’affermazione della superiorità della musica vicina al
genere popolare, contro quella tedesca, fatta apposta per essere compresa
dai soli intenditori.
È chiaro che la riflessione sulla musica non può essere
interpretata soltanto alla luce delle sensazioni e delle emozioni suscitate
dalle occasioni biografiche di ascolto, ma va inserita nel suo ambito più
vasto di pertinenza, ovvero, quello che Leopardi stesso definisce nello
Zibaldone, come il proprio «Sistema di Belle Arti», e, anche in questo
caso, i tipi di approccio approntati dalla critica, di cui si cerca di dare atto,
sono molteplici, ma tutti accomunati dal tentativo di riscattare l’interesse
del poeta per l’arte dalle ipoteche poste a suo tempo da Graf e De Sanctis.
Secondo Leopardi, tutte le opere d’arte utilizzano mezzi di
espressione diversi per raggiungere lo stesso obiettivo che è il ‘diletto’.
L’identica considerazione vale anche per la musica i cui effetti non
appartengono alla sfera ‘del bello’, ma esclusivamente a quella ‘del
5
Introduzione
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piacere’ derivante, a sua volta, dal suono che è capace di agire sull’animo
umano in maniera immediata, e non dall’armonia che dipende dalla
convenienza ed è pertanto influenzata da molteplici fattori di gusto.
Per esemplificare il meccanismo di produzione del ‘diletto’ da
parte del suono, Leopardi ricorre al confronto con ‘odori’ e ‘sapori’ che
non è possibile definire belli né brutti, ma solo più o meno piacevoli, e
sviluppa, nelle pagine dello Zibaldone, una vera e propria teoria che
anticipa alcuni risultati degli attuali studi scientifici sui sensi.
Una particolare attenzione è dedicata alla corrispondenza tra odori
e suoni che, agendo direttamente sull’immaginazione e sul ricordo,
suscitano quel desiderio infinito di cui il poeta discorre ampiamente nella
sua ‘teoria del piacere’, spiegandolo come tendenza connaturata
all’esistenza che spinge l’uomo verso il piacere inteso in senso assoluto.
Un suono, un odore, un oggetto o un luogo sconosciuto, un ostacolo che
restringe la vista, una veduta sconfinata, sono i principali fattori indicati
da Leopardi come stimolatori di quella ‘facoltà immaginativa’ che
compensa l’irraggiungibile conquista del piacere, e consente, sul piano
poetico, di ricreare in modo fittizio, gli effetti propri della poesia degli
antichi.
In quest’ottica, e secondo quanto è teorizzato nel celebre passo
dello Zibaldone datato 16 ottobre 1821, il suono, sia in versione tenue
che cupa, è un fenomeno naturale capace di evocare immagini poetiche:
così una musica dolce o il rumore del tuono, la furia della tempesta, lo
stormire del vento, produrranno gli stessi effetti poetici poiché sia il bello
che il brutto, in quanto aspetti della stessa realtà, possono diventare,
secondo Leopardi, oggetto di imitazione nell’opera d’arte, e, nel caso
specifico dei suoni, «immagini bellissime in poesia».
Per dimostrare come il ‘diletto’ proveniente dalla musica
appartenga al suono e non alla melodia, Leopardi ricorre all’esempio
dell’attrazione esercitata sugli animali, i quali, estranei a qualsiasi
6
Introduzione
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concetto umano di convenienza, sono attratti esclusivamente dal potere
del suono, nella stessa maniera in cui un suono naturale qualunque,
indipendentemente dalla melodia, suscita una vasta gamma di emozioni e
di reazioni nell’animo umano: il piacere, il timore, il ricordo e, perché no,
l’«impotenza» che esprime il canto dell’usignolo nel famoso episodio
virgiliano di Orfeo, mitico poeta e musicista, riportato da Leopardi nella
pagina dello Zibaldone datata 17 ottobre 1820.
Gli effetti della bellezza umana sono simili a quelli del suono
perché entrambi appartengono alla sfera ‘del piacere’, e sono alieni da
ogni convenienza, così una «leggera stonazione» in musica, come un
piccolo difetto nella fisionomia umana non interferisce sul loro grado di
piacevolezza: ne sono prova i sentimenti che traspaiono da un’apparente
sproporzione, qual è la grandezza degli occhi rispetto al volto.
Nelle opere d’arte di ogni genere, compresa la poesia, sia il bello
che il brutto, infondono nell’animo di chi le recepisce, un grado di
piacevolezza direttamente proporzionale alla qualità dell’imitazione,
emblematico in tal senso è il tema leopardiano, di derivazione ossianica,
del ‘piacere della tempesta’, ma la musica si differenzia in questo perché
«le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento,
ma la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona,
ch’ella trae da se stessa e non dalla natura» (Zib. 79).
L’idea leopardiana di musica si sviluppa entro due principali
direttive, la prima, basata sulla valutazione della musica in quanto arte
che consta inseparabilmente di suoni musicali e armonie, l’altra, che
considera il suono naturale come substrato della musica, generatore delle
sensazioni vago-indefinite che sono alla base della poetica dell’Infinito.
Sull’associazione fra gli effetti del suono naturale e la poetica del
vago-indefinito, si apre il secondo capitolo del presente lavoro nel quale
viene approfondita la distinzione fra suono e armonia, chiamando in
causa il discorso sull’assuefazione che genera convenienze diverse a
7
Introduzione
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seconda degli individui, delle nazioni e delle epoche. La musica moderna,
per superare le limitazioni poste dalla convenienza, ricorre ad un utilizzo
sempre più scrupoloso di regole universalmente riconosciute, quali sono
quelle del contrappunto che, tuttavia, spiega Leopardi, come avviene con
l’applicazione della grammatica in poesia, privano l’opera di quella
naturalezza e immediatezza di sentimenti che erano proprie solo degli
antichi. In virtù di questa naturalezza, poesia e musica erano una cosa
sola al tempo dei greci prima, cioè, che la formulazione delle teorie
musicali e l’irrigidimento delle regole grammaticali, ne decretassero la
«funesta» separazione.
La
perdita
della
naturalezza
è
il
risultato
prodotto
dall’incivilimento che, nel caso della poesia, ha svilito l’immaginazione
rendendo il genere ‘sentimentale’, l’unico adatto ai moderni, nel caso
della musica ha favorito una corruzione dei gusti e dei costumi tale da
rendere
indispensabile
un
riavvicinamento
al
genere
popolare,
rappresentato perfettamente dalla musica rossiniana.
Se l’assuefazione incide sull’armonia, l’altro fattore di cui consta
la musica, ovvero il suono, propaga i suoi effetti senza utilizzare altra
intermediazione che l’udito, e questo spiega perché, per i poeti antichi, la
musica aveva il potere di incantare perfino i serpenti.
Convinto che la poesia antica, in quanto espressione spontanea
della natura, sia ormai irrecuperabile sul piano storico, Leopardi
considera il suono come unico legame residuo tra il poeta e la natura,
perché prima di diventare suono articolato, esso è rumore, è la voce del
vento, è il pianto di un bambino, è il canto degli uccelli, è un affascinante
richiamo che risveglia l’immaginazione dei poeti.
Le sensazioni ‘visive’, generano anch’esse «effetti d’infinito», ma
quelle ‘uditive’ possiedono un ulteriore privilegio, oltre ad intervenire
sull’immaginazione, infatti, esse agiscono anche sulla memoria
azionando, oltre l’evocazione intenzionale del ricordo, il meccanismo
8
Introduzione
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involontario della ‘ricordanza’ o ‘rimembranza’ su cui si incentra un
altro caposaldo della poetica leopardiana. Di come, a nostro avviso, il
poeta trasponga in poesia, la corrispondenza, stabilita teoricamente, tra
suono e ricordanza, si dà atto nel paragrafo del presente lavoro intitolato,
appunto, Antichità e presente. Il potere evocativo della musica.
Il rapporto tra bellezza e musica, non si esaurisce tutto entro la
comune appartenenza alla sfera del piacere, ma suggerisce un’altra
importante prerogativa della musica che, in relazione al delicato
equilibrio su cui si regge la successione dei suoni, simboleggia la
transitorietà dell’esistenza umana. Il rapido declino della giovinezza
coincide con la dissoluzione della bellezza e delle illusioni, valori
caduchi, a cui subentra la presa di coscienza dell’«arido vero», e talora,
come dimostrano i destini di alcune figure femminili presenti nei Canti,
anche la morte.
Individuato sul piano teorico, il collegamento tra l’idea di musica
e le linee fondamentali della poetica leopardiana, alla trattazione critica
dell’argomento, supportata dalla convinzione che esista in Leopardi un
profondo legame tra musica e creazione poetica, nel capitolo finale di
questo lavoro, intitolato La musica nei «Canti», segue l’analisi dei
componimenti in cui le proposte ideologiche dello Zibaldone vengono
tradotte in poesia.
9
a Giuseppe
AVVERTENZA
Le citazioni dallo Zibaldone rimandano al manoscritto leopardiano,
secondo la lezione stabilita in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri,
edizione critica e annotata a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991, 3
voll., da cui cito con l’abbreviazione Zib. e il numero del passo (es. Zib.
3213). Le altre opere sono citate da G. Leopardi, Tutte le opere, con
introduzione e a cura di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti,
Firenze, Sansoni, 1969, 2 voll., e indicate con il titolo dell’opera e il
numero della pagina (es. Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 360). Le
lettere ‘di’ e ‘a’ Leopardi, sono citate da G. Leopardi, Epistolario, a cura
di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 2 voll., da
cui cito con l’abbreviazione Ep. e il numero della lettera (es. Ep. 518).
Tutti gli altri riferimenti bibliografici sono riportati in nota.
CAPITOLO PRIMO
SUPERIORITÀ DELLA MUSICA SU TUTTE LE ARTI
§ I.1 LEOPARDI E LA MUSICA. ASPETTI PRELIMINARI
Indagare il rapporto complesso e profondo che legò Giacomo
Leopardi alla musica, implica la necessità preliminare di distinguere
l’esperienza pratica che il poeta ebbe della musica, i gusti, e le opinioni
sulla musica del suo tempo, dall’idea di musica intesa come linguaggio
universale, capace di penetrare in maniera diretta il sentimento umano, di
evocare ricordi e di suscitare immagini poetiche, idea che si sviluppa
attraverso le pagine dello Zibaldone dedicate alla riflessione sulle Belle
Arti1 e alla formulazione delle teorie ‘del piacere’ e ‘del bello’.
Nelle pagine dello Zibaldone in cui parla di musica, Leopardi
ricorre alla definizione di ‘teoria musicale’ 2 soltanto per sottolineare
come i popoli che la possiedono, o in generale, gli intenditori, abbiano un
criterio di giudizio nei confronti delle melodie, opposto ai barbari e ai
«non intendenti, i quali non hanno altra regola e canone che l’orecchio»3.
Non adopera il termine ‘teoria’ quando si riferisce alle sue riflessioni
sulla musica, come per esempio avviene per la ‘teoria del piacere’ e per
1
Tutti i pensieri sulle Belle Arti sono stati di recente raccolti in G. Leopardi, Teorica
delle arti, lettere ec. Parte speculativa, Edizione tematica dello Zibaldone di pensieri
stabilita sugli Indici leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, Prefazione di A. Prete, Roma,
Donzelli, 2000 e, Idem, Teorica delle arti, lettere ec. Parte pratica, storica, Edizione
tematica dello Zibaldone di pensieri stabilita sugli Indici leopardiani, a cura di F.
Cacciapuoti, Prefazione di A. Prete, ibidem, 2002.
2
Zib. 3213.
3
Zib. 3211.
12
Superiorità della musica su tutte le arti
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la
‘teoria
del
bello’
perché,
come
cercheremo
di
spiegare
dettagliatamente più avanti, nonostante i risultati di certe sue intuizioni
anticipino in alcuni punti le moderne teorie musicali4, Leopardi non si
interessò volutamente della musica in quanto ‘scienza’, ma solo in quanto
‘natura’.
L’intera opera leopardiana è attraversata da una fitta rete di riferimenti
più o meno diretti alla musica, che non restano mai isolati o fine a se
stessi, ma gravitano intorno al fulcro rappresentato dallo Zibaldone,
offrendo sempre lo spunto per ulteriori approfondimenti.
L’obiettivo del presente lavoro è di mettere in relazione la
riflessione teorica sulla musica, con alcune linee fondamentali della
poetica leopardiana, secondo la modalità di approccio ‘ideologico’ allo
Zibaldone suggerita da Luigi Blasucci che considera, in questo caso,
l’opera «come un complesso di svolgimenti concettuali costituenti la
trama ideologica sottesa ai testi poetici»5.
Nel Diario del primo amore, Leopardi rivela l’«incredibile potere
della musica sopra di me»6, mentre nel Discorso di un italiano intorno
alla poesia romantica, collega il ricordo di «un suono così dolce che tale
non s’ode in questo mondo» e alcune figure di «vita pastorale», catturate
attraverso l’immaginazione nella fanciullezza, con l’intima necessità di
una trasposizione poetica perfetta di tali immagini che da sola basterebbe
al poeta per definirsi «divino»7. Nel supplemento Alla Vita abbozzata di
Silvio Sarno, il riferimento al «suono delle campanelle del pagode udito
di notte o di sera dopo la cena stando in letto […]»8 , preannuncia lo
F. Foschi nell’Introduzione all’antologia da lui curata, G. Leopardi, Sulla musica,
Abano Terme, Francisci, 1987, pone a raffronto alcuni pensieri leopardiani sulla musica
con le recenti teorie di J. R. Pierce, autore di Le son musical, Paris, 1987 e di I.
Stravinskij, Poetica della musica, Pordenone, Studio tesi, 1984.
5
Cfr. L. Blasucci, Quattro modi di approccio allo «Zibaldone», in I tempi dei «Canti».
Nuovi studi leopardiani, Torino, Einaudi, 1996, p. 233.
6
Diario del primo amore, p. 357.
7
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, pp. 919-920.
8
Alla vita abbozzata di Silvio Sarno (di Ruggiero o Ranuccio Vanni da Belcolle), p. 365.
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Superiorità della musica su tutte le arti
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sviluppo futuro, in un passo dello Zibaldone datato 16 Ottobre 1821, di
un pensiero centrale sulla musica in cui il poeta sostiene che la diffusione
di qualsiasi suono o canto è molto più efficace di notte quando «si è più
disposti a questi effetti, perché né l’udito né gli altri sensi non arrivano a
determinare né a circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze
[…]»9.
Tra i numerosi passaggi che alludono alla musica nei Ricordi
d’infanzia e di adolescenza, vale la pena menzionare il «canto mattutino
di donna allo svegliarmi, canto delle figlie del cocchiere e in particolare
di Teresa […]» 10 che, oltre a contenere il dato biografico della
protagonista Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi,
anticipa la situazione dei vv. 7-9 ( Sonavan le quiete / stanze, e le vie
dintorno, / al tuo perpetuo canto) del componimento A Silvia11.
9
Zib. 1928.
Ricordi di infanzia e di adolescenza, p. 362. Per completezza, riportiamo qui di
seguito tutti gli altri passaggi dei Ricordi in cui Leopardi parla di musica o descrive
delle sensazioni uditive: «canto dopo le feste, Agnelli sul cielo della stanza, Suono delle
navi […]»; «effetti della musica in me sentita nel giardino, aria cantata da qualche opera
[…]»; «Amore, amore cantato dai fanciulli (leggendo io l’Ariosto) come in Luciano ec.,
principio del mondo (ch’io avrei voluto porre in musica non potendo la poesia
esprimere queste cose ec. ec.) immaginato in udir il canto di quel muratore mentr’io
componeva ec. […]»; «mie considerazioni sulle pluralità dei mondi e il niente di noi e
di questa terra e sulla grandezza e forza della natura che noi misuriamo coi torrenti ec.
che sono un nulla in questo globo ch’è un nulla nel mondo e risvegliato da una voce
chiamatemi a cena […]»; «mio giacere d’estate allo scuro a persiane chiuse colla luna
annuvolata e caliginosa allo stridore delle ventarole consolato dall’orologio della torre
[…]»; «canti e arie quanto influiscano mirabilm. e dolcem. sulla mia memoria […]»;
«prima gita in teatro miei pensieri alla vista di un popolo tumultuante […]»; «primo
tocco di musica al teatro e mio buttarmi ec. e quindi domandato se avessi male […]»;
«S. Agostino (cioè benedizione in quel giorno di primavera […] cantando gli uccelli
allora tornati ai nidi sotto quei tetti, bel giorno, sereno, sole, suono delle campane vicine
quivi, e al primo tocco mia commozione verso il Creatore) […]»; «sento una dolce voce
di donna che non conoscea né vedea ec. […] sentivo un bambino che certo dovea essere
in fasce e in braccio alla donna e suo figlio ciangottare con una voce di latte suoni
inarticolati e ridenti […]»; «finalmente una voce di loro oh ecco che piove era una
leggera pioggetta di primavera ec. e tutti si ritirarono e s’udiva il suono delle porte e dei
catenacci ec. e questa scena mi rallegrò […]»; «palazzo bello contemplato il 21 Maggio
sul vespro ec. gallina nel cortile ec. voci di fanciulli ec. […]».
11
A Silvia, p. 26.
10
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Superiorità della musica su tutte le arti
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Denso di significato è quel passaggio dei Ricordi dove il poeta
esprime «vaghissimi concetti come quando sognai di Maria Antonietta e
di una canzone da mettergli in bocca nella tragedia che allora ne concepii
la qual canzone per esprimere quegli affetti ch’io aveva sentiti non si
sarebbe potuta fare se non in musica senza parole […]» 12 , in cui è
racchiuso il fondamento principale dell’idea leopardiana di musica, come
viene sviluppata a livello teorico nello Zibaldone, e trasposta
poeticamente nei Canti. La musica che è un linguaggio di per sé
coinvolgente, ha un privilegio naturale che è quello di esprimere le
passioni, talvolta contrastanti, i sentimenti, gli affetti dell’animo umano,
nella maniera più diretta possibile, svincolandosi anche rispetto al potere
espressivo della parola, senza perdere efficacia e autonomia di significato.
Nello Zibaldone Leopardi afferma, infatti, che «la parola è un’arte
imparata dagli uomini […]. Perciò negli accessi delle grandi passioni:
[…] come la forza della natura è straordinaria, quella della parola non
arriva ad esprimerla […]. Il silenzio è il linguaggio di tutte le forti
passioni […]».13 E la musica contiene in sé i quattro elementi, del tempo,
dello spazio, del suono, e del silenzio14 che si mescolano e trovano, nella
poesia leopardiana, il loro massimo grado di espressione nell’idillio
L’Infinito.
Nelle Operette morali, e precisamente nella Storia del genere
umano, la creazione dell’eco, insieme a quella del mare e dei sogni è
considerata dal poeta come espediente posto in atto da Giove per dilatare
i limiti della percezione uditiva e visiva e assottigliare i confini tra realtà
Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 360, corsivo mio.
Zib. 141-142, corsivi miei.
14
Si vedano a proposito B. Gallotta, Musica ed estetica in Leopardi, Milano, Ruggirenti,
1997 e F. Foschi, Note su Leopardi e la musica, in La musica in Leopardi nella lettura
di Clemente Rebora, a cura di G. De Santi ed E. Grandesso, Venezia, Marsilio, 2001, pp.
25-32.
12
13
15
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
e immaginazione 15 , in modo che l’inclinazione dell’uomo all’infinito
potesse essere almeno illusoriamente soddisfatta, non potendo «né fare la
materia infinita, né infinita la perfezione e la felicità delle cose e degli
uomini […]»16. Ancora, insieme agli ordinamenti civili, alle leggi, e ai
valori come la Giustizia, la Virtù, la Gloria e l’Amor patrio, che
avrebbero dovuto guidare i popoli, furono mostrate agli uomini «il canto
e quelle altre arti, che sì per la natura e sì per l’origine, furono chiamate,
e ancora si chiamano divine […]»17.
L’infelicità universale e l’eterno circolo di creazione e di
distruzione della natura sono i temi centrali del Cantico del gallo
silvestre. Qui l’elemento acustico, assimilato con la vita, riveste una
grande importanza perché rompe la «profondissima quiete»
18
che
renderebbe inutile l’universo, in un sistema che non contempla la felicità,
ma la vita esclusivamente come tramite per la realizzazione del fine
ultimo della natura che è la morte19. Nell’Elogio degli uccelli, il canto
15
Cfr. Storia del genere umano, p. 80: «e risolutosi di moltiplicare le apparenze di
quell’infinito che gli uomini sommamente desideravano (dappoi che egli non li poteva
compiacere della sostanza), e volendo favorire e pascere le coloro immaginazioni, dalla
virtù delle quali principalmente comprendeva essere proceduta quella tanta beatitudine
della loro fanciullezza; fra i molti espedienti che pose in opera (siccome fu quello del
mare), creato l’eco, lo nascose nelle valli e nelle spelonche, e mise nelle selve uno
strepito sordo e profondo, con un vasto ondeggiamento delle loro cime. Creò
similmente il popolo de’ sogni, e commise loro che ingannando sotto più forme il
pensiero degli uomini, figurassero loro quella pienezza di non intelligibile felicità, che
egli non aveva modo di ridurre in atto […]».
16
Ibidem.
17
Ibidem, p. 82.
18
Cantico del gallo silvestre, p. 156.
19
Cfr. Ibidem: «se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita;
se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non
apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste,
né canto di uccelli per l’aria, né sussurro d’api o di farfalle scorresse per la campagna;
non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in
alcuna banda; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia
minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova? […]», e ibidem p. 157:
«pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non
potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo
l’ultima causa dell’essere non è la felicità […]».
16
Superiorità della musica su tutte le arti
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perpetuo di queste «creature vocali e musiche»20 di cui è popolato il cielo,
è visto come un dono della natura capace di trasmettere all’uomo un
senso di «allegrezza», una distrazione provvidenziale dal pensiero
martellante del dolore. Proprio perché è nell’aria che si diffondono
massimamente i suoni, il magistero della natura ha fatto sì che gli uccelli,
insieme al canto, possedessero anche il privilegio del volo. C’è un passo
dell’Elogio che descrive come gli uccelli interrompono il loro canto
quando si trovano di fronte alla tempesta o ad altri timori, ma appena
scampato il pericolo ritornano all’aperto cantando e giocando tra loro,
che richiama alla lettera un pensiero dello Zibaldone
Sì come dopo la procella oscura
Canticchiando gli augelli escon del loco
Dove cacciogli il vento (nembo) e la paura;
E il villanel che presso il patrio foco
Sta sospirando il sol si riconforta
[(si rasserena)
Sentendo il dolce canto e il dolce gioco21.
Nel capitolo quarto de Il Parini ovvero della gloria, Leopardi
polemizza contro la concentrazione delle opere d’arte nelle grandi città,
dove gli animi delle persone, assai più distratti e impegnati in numerose
attività, oltre che sazi di contemplare tali bellezze, non sono disposti a
goderle appieno. Insieme alle «opere riguardevoli di pittura, scultura ed
architettura»22, il poeta parla anche della musica e nell’esprimere il suo
giudizio, maturato sulla base dell’esperienza personale di spettatore di
opere teatrali, sia in una piccola città di provincia come Recanati, sia in
20
Elogio degli uccelli, p. 153.
Zib. 21.
22
Il Parini ovvero della gloria, p. 123.
21
17
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
una grande metropoli come Roma, sostiene, non senza una punta di
ironia, che la musica «nelle altre città non si trova esercitata così
perfettamente, e con tale apparato, come nelle grandi; dove gli animi
sono meno disposti alle commozioni mirabili di quell’arte, e meno, per
dir così, musicali, che in ogni altro luogo […]»23.
L’Epistolario,
attraverso
gli
accenni
contenuti
nella
corrispondenza di Leopardi con familiari ed amici, costituisce una
testimonianza rilevante dell’esperienza diretta, privata e pubblica, che il
poeta ebbe della musica a Recanati, e poi, durante i suoi soggiorni nelle
più importanti città d’Italia.
Sebbene la bibliografia su Leopardi e la musica 24 sia ormai
abbastanza ricca e aggiornata, un rapido excursus sulla sua esperienza di
appassionato di musica e spettatore di opere teatrali, non ci sembra
superfluo.
Giacomo entra in contatto, fin da bambino, con il patrimonio di
musiche e canti popolari recanatesi che menziona nello Zibaldone come
«canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a Recanati»25, nelle
quali non è difficile riconoscere l’antecedente di almeno due figure
presenti nei Canti26 , «il zappatore» che «riede alla sua parca mensa»27
23
Ibidem.
L’intera bibliografia su Leopardi e la musica si trova raccolta in G. Luppino,
L’eredità musicale di Giacomo Leopardi, Recanati, Edizioni CNSL, 2002.
25
Zib. 29. La citazione completa del passo è: «fàcciate alla finestra, Luciola, / Decco
che passa lo ragazzo tua, / E porta un canestrello pieno d’ova / Mantato colle pampane
dell’uva. / I contadì fatica e mai non lenta, / E ’l miglior pasto sua è la polenta. / È già
venuta l’ora di partire, / In santa pace vi voglio lasciare. / Nina, una goccia d’acqua se
ce l’hai: / Se non me la vôi dà padrona sei», «Io benedico chi t’ha fatto l’occhi / Che te
l’ha fatti tanto ’nnamorati», «Una volta mi voglio arrisicare / Nella camera tua voglio
venire».
26
Un’ indagine sul canto come «espressione vocale» e «modulazione ritmica della voce
umana volta a fermare una melodia», e in particolare sulle categorie dei personaggi,
identificati prevalentemente nei lavoratori manuali e nelle fanciulle, a cui Leopardi
affida il ‘canto’, è stata svolta da M. Dondero, nel saggio «Cantando con mesta
melodia». Il canto nei Canti di Giacomo Leopardi, in “Campi immaginabili”, 1, 2000,
pp. 91-103.
27
Il sabato del villaggio, p. 31.
24
18
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
nel Sabato del villaggio, e gli «sguardi innamorati e schivi»28 di A Silvia,
nonché il «contadino dicente le ave Maria e ’l Requiem Aeternam sulla
porta del suo tugurio […]»29 nei Ricordi d’ infanzia e di adolescenza.
L’esecuzione di musiche e canti era generalmente legata alle feste
celebrate dai recanatesi in occasione delle varie ricorrenze che erano
sentite e vissute molto profondamente dal popolo, e su cui si sofferma la
riflessione leopardiana che origina il tema della festa, centralissimo nei
Canti. A partire dal 1821, anno in cui si intensifica la stesura dello
Zibaldone, come già osservò Giovanni Crocioni30, Leopardi si preoccupa
di annotare puntualmente, accanto alla datazione dei pensieri, le
principali ricorrenze, sia canoniche che personali e familiari. Rintraccia31
l’origine antica dell’usanza di celebrare gli anniversari di nascita e di
morte di persone insigni, o altri importanti eventi, citando fonti
autorevoli come l’Eneide di Virgilio, la Vita Virgilii di Heyne, le Odi di
Orazio. A proposito delle ricorrenze canoniche, in un passo dello
Zibaldone datato 3 Agosto 1821, Leopardi distingue le feste popolari
antiche da quelle moderne, sottolineando la preminenza di significato
delle prime e spiega che, nonostante abbiano finito per identificarsi tra
loro, individuando le proprie radici nel Cristianesimo, feste nazionali e
feste religiose hanno, in realtà, origini indipendenti e anteriori al
Cristianesimo che adesso ha, tuttavia, il merito di conservarle. Quanto al
senso più profondo della festa secondo Leopardi, essa acquista vero
valore, anzi diventa ‘sacra’, grazie al significato soggettivo che le si
attribuisce, all’emozione e alle sensazioni che suscita nel ricordo
ed io mi ricordo di aver con indicibile affetto aspettato e notato e scorso
come sacro il giorno della settimana e poi del mese e poi dell’anno rispondente
28
A Silvia, p. 26.
Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 363.
30
G. Crocioni, Il Leopardi e le tradizioni popolari, Milano, Corticelli, 1948.
31
Zib. 2255 e 2322.
29
19
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
a quello dov’io provai per la prima volta un tocco di una carissima passione.
Ragionevolezza, benché illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec. […]32.
Non vogliamo soffermarci in questa sede sui diversi risvolti della
critica in merito al significato di ‘festa’ in Leopardi 33 , ma richiamare
semplicemente l’attenzione sulla relazione tra la speranza dell’attesa del
giorno festivo e il piacere del suo ricordo, che spesso sono sollecitati nei
Canti, proprio da una sensazione uditiva. Si pensi, per esempio, al Sabato
del villaggio dove i due momenti, quello dell’attesa e quello del ricordo
della festa appena passata, sono sollecitati rispettivamente dal «suono
della campana a festa»34, nei vv. 20-23 (Or la squilla dà segno / della
festa che viene; / ed a quel suon diresti / che il cor si riconforta)35 e, nei
vv. 31-37, dal rumore degli attrezzi dell’artigiano (Poi quando intorno è
spenta ogni altra face, / e tutto l’altro tace, / odi il martel picchiare, odi la
sega / del legnaiuol […])36 che si affretta a ultimare il suo lavoro per il
giorno seguente.
A Recanati, città ‘canora’, come attesta l’etimologia stessa del
nome (dal latino ‘re-cano’ che significa, appunto, ‘cantare’), il cui
tradizionale attaccamento al teatro era reso ancora più fervido dalla
competizione instauratasi con la vicina città di Macerata, la stagione
32
Zib. 60.
Una interessante indagine sullo «spazio metafisico del festivo» è quella compiuta da
A. Folin, nel capitolo intitolato La notte chiara e l’attesa del giorno festivo, del suo
Leopardi e la notte chiara, presentazione di C. Galimberti, Venezia, Marsilio, 1993, pp.
47-68.
34
Cfr. Il Passero solitario, in G. Leopardi, I Canti, a cura di A. Straccali, 3ª edizione
corretta e accresciuta da O. Antognoni, nuova presentazione di E. Bigi, Firenze, Sansoni,
1962, nota 29, p. 178: «squilla può significare così campana, come il suono di essa […]
Nel significato pur di campana l’usò il nostro in Amore e morte, 56; e nell’altro senso in
più luoghi. Cfr. Il risorgimento, 51; Il sabato del villaggio, 20; Paralipomeni, I, 2 e III,
37».
35
Il sabato del villaggio, p. 31.
36
Ibidem.
33
20
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
teatrale, con le relative rappresentazioni, era considerata occasione
solenne e motivo di festa, in modo particolare nel periodo di Carnevale.
Il “nuovo teatro” di Recanati, costruito interamente in legno, e
inaugurato nel gennaio del 1719 con il dramma La Partenope del
compositore toscano Silvio Stampiglia, per tutto il XVIII secolo era stato
sufficiente a soddisfare le esigenze di un pubblico numericamente
contenuto, ma quando nel secolo successivo, la partecipazione della
borghesia agli spettacoli determinò un notevole incremento del pubblico,
si rese necessaria la costruzione di un teatro più moderno e capace di
rispondere alle nuove esigenze. Fu il padre del poeta, Monaldo Leopardi,
all’epoca Gonfaloniere della città, l’ideatore e il principale fautore del
progetto di costruzione di un nuovo teatro a Recanati, e fu lui a redigere
il programma-manifesto datato 8 febbraio 1823, firmato dall’architetto
recanatese Tommaso Brandoni37.
Lo scambio epistolare tra Giacomo e suo padre, nel periodo
compreso tra il febbraio e il marzo del 1823, testimonia alcune vicende
relative alla costruzione del teatro. La prima, riguarda le sottoscrizioni
per l’acquisto dei palchetti, a cui partecipò anche Carlo Antici, lo zio
materno presso cui il poeta era ospite a Roma, che avrebbero dovuto
finanziare la costruzione del teatro ma che, in realtà, coprirono solo una
piccola parte delle spese. Così Leopardi scriveva al padre nella lettera del
15 febbraio 1823 a proposito dello zio Carlo
37
Si vedano a proposito G. Radiciotti, Teatro, musica e musicisti in Recanati, Recanati,
tipografia Simboli, 1904, e C. Benedettucci, Il teatro in Recanati, in «Il Casanostra.
Strenna Recanatese», 1930, nonché la testimonianza tratta dall’Epistolario di Giacomo
Leopardi. Nuova edizione ampliata con lettere dei corrispondenti e con note illustrative,
a cura di F. Moroncini, Firenze, Le Monnier, 1934-41, 7 voll., e riportata a p. 2193
dell’Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 2
voll.: «dopo i fasti del vecchio Teatro recanatese, detto prima “de’ Nobili” poi “de’
Condomini” (inaugurato ai primi di gennaio 1719); e specialmente dopo l’ “Operona” in
cui aveva trionfato la Corradi,venne in mente ad alcuni notabili della città, primo tra
essi Monaldo, l’idea di far sorgere un nuovo teatro di maggiore capacità e decoro; per la
cui costruzione lo stesso Monaldo scrisse il Manifesto-programma, con la data 8
febbraio ’23 ».
21
Superiorità della musica su tutte le arti
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loda ancora il progetto del nuovo teatro; e si mostrò subito disposto a
sottoscriversi, benché Donna Marianna borbottasse assai da principio. Ora pare
che anch’essa ci si accomodi […]38.
Ed ecco la lettera di risposta di Monaldo, datata 28 febbraio 1823
ero certo che il Cav. avrebbe approvata e secondata la erezione di un
nuovo teatro, come ero certo della disapprovazione di D.ª Marianna […]. Se il
Cav.re fosse quà potrebbe […] ottenere che il Teatro, come io vorrei, si
fabbricasse in faccia alla sua casa, con risparmio grande di spesa e abbellimento
della contrada, ma solo non prevalerò certamente alla predominante
inclinazione dei Piazzaroli […]39.
E ancora la replica di Giacomo a suo padre, datata 15 marzo
1823
il zio Carlo ed io siamo restati sorpresi del suo pensiero e desiderio
circa la collocazione del nuovo teatro, giacché il zio Carlo aveva concepito
questo medesimo progetto, e ce l’aveva esposto più volte, e desiderava ancor
egli che fosse posto in opera […]40.
Entrambe alludono alla disputa sorta per la collocazione del
nuovo teatro che vedeva schierati, da una parte Monaldo che voleva che
il teatro fosse eretto di fronte a Palazzo Antici, e dall’altra, la
maggioranza di coloro che avevano sottoscritto il progetto, definiti da
Monaldo «piazzaroli» perché si battevano affinché il teatro sorgesse nella
piazza centrale della città. La disputa, che fece ritardare enormemente
38
Ep. 518.
Ep. 522.
40
Ep. 534.
39
22
Superiorità della musica su tutte le arti
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l’inizio dei lavori di costruzione, si risolse con la scelta di un luogo
centrale della città su cui far sorgere il teatro, intitolato al musicista
recanatese Giuseppe Persiani, che fu completato e inaugurato il 7 gennaio
del 1840 con il dramma Beatrice di Tenda di Vincenzo Bellini41.
Fin da giovane Monaldo aveva coltivato la passione per il teatro e
si era cimentato anche nella composizione di qualche commedia in stile
goldoniano. L’allestimento domestico di spettacoli teatrali, era l’unica
alternativa allo studio che concedeva ai propri figli i quali recitavano sul
piccolo palcoscenico di casa Leopardi, di cui resta tutt’ora traccia, i versi
composti per loro dal padre. Giacomo si recò per la prima volta in un
teatro vero e proprio solo nel 1817, in occasione della rappresentazione
recanatese del Turco in Italia di Gioacchino Rossini 42 , spettacolo che
incise sui suoi gusti musicali e provocò un effetto intenso sul suo animo,
come testimoniano due passaggi dei Ricordi d’ infanzia e di adolescenza
in cui il poeta rievoca la «prima gita in teatro miei pensieri alla vista di
popolo tumultuante ec. […]» e il «primo tocco di musica al teatro e mio
buttarmi ec. […] e quindi domandato se avessi male […]»43.
In una lettera datata 22 aprile 1820, Pietro Brighenti così
esprimeva a Leopardi il suo desiderio di conoscerlo personalmente
oh! Quanto bramerei ch’Ella conoscesse Bologna […]. E io avrei la
consolazione di conoscerla di persona, il che desidero con tutto L’ardore. Non
so s’Ella ami La musica e il teatro. Avremo quì a momenti un grandioso
spettacolo […] io la importuno con parole che saranno vane e gliene chiedo
perdono […]. Ma Ella sa, che noi crediamo che tutti abbiano le nostre
Il libretto dell’opera, importante documento storico, è attualmente conservato a
Recanati, presso la Biblioteca Leopardi.
42
Oltre Il turco in Italia, di Rossini, Leopardi ascoltò a Recanati, nel ’24 il Torvaldo e
Dorliska e nel ’29 Il Barbiere di Siviglia.
43 Ricordi d’ infanzia e di adolescenza, p. 361. G. Radiciotti nel suo Teatro musica e
musicisti in Recanati cit., colloca la rappresentazione del Turco in Italia proprio nel
1817, perciò, essendo i Ricordi del ’19, è certo che nei passi citati Leopardi si riferisse
proprio al recente ascolto del Turco in Italia.
41
23
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
inclinazioni, e La musica è per me la prima, e la più grande di tutte le piacevoli
risorse […]44.
Il poeta, nella lettera del 28 Aprile 1820, ringraziava Brighenti per
l’invito a recarsi in visita da lui a Bologna «bella e dotta città» e,
lamentandosi per essere costretto a vivere in una città «incolta e morta»
come Recanati, dove né lui, né nessun altro uomo di genio, sarebbe mai
riuscito ad ottenere i dovuti riconoscimenti, manifestava all’amico il
bisogno di evadere dall’ambiente recanatese, e affermava una quasi totale
condivisione della sua passione per la musica
la musica se non è la mia prima, è certo una mia gran passione, e
dev’esserlo di tutte le anime capaci di entusiasmo. I divertimenti e le distrazioni,
se anche non fossero di mio genio, sono per sentimento di tutti quelli che mi
conoscono il solo rimedio che resti alla mia salute distrutta, senza il quale io vo
a perire e consumarmi inevitabilmente fra poco […]45.
È ovvio che con una simile risposta, Leopardi cercasse in qualche
modo di compiacere Brighenti che gli offriva la possibilità di evadere
dalle «catene domestiche e estranee»46 e che, oltre ad essere padre di una
cantante era anche impresario teatrale 47 , ma questa circostanza non
influisce sull’affermazione del poeta tanto da indurci a credere che la sua
passione per la musica non fosse autentica. È vero che Leopardi tollerava
male la lunghezza degli spettacoli e lo sfarzo della occasioni mondane ad
essi collegati, che a teatro soffriva il disagio provocatogli dalle precarie
condizioni di salute e in più dall’aggravarsi dei problemi alla vista, ma è
44
Ep. 297.
Ep. 299.
46
Ibidem.
47
P. Brighenti è stato inoltre autore di una monografia intitolata Della musica
rossiniana e del suo autore. Discorso dell’avvocato Pietro Brighenti accademico
filarmonico di Bologna, Bologna, E. Dall’Olmo, 1830.
45
24
Superiorità della musica su tutte le arti
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altresì vero che la musica lo attraeva e il canto, in modo particolare,
stimolava fortemente la sua sfera dei sentimenti.
Nell’attuale dibattito critico c’è chi, come Sergio Martinotti,
sostiene che l’attenzione del poeta fosse rivolta esclusivamente alla
musica come fenomeno in generale e che egli non provasse particolare
interesse per la musica del suo tempo né per l’esperienza teatrale 48, e c’è
chi come Alberto Caprioli sostiene, all’opposto, che nelle pagine dello
Zibaldone dedicate alla musica si possa ravvisare un interesse del poeta
verso quest’arte abbastanza ampio da includere anche le rappresentazioni
teatrali, e individua addirittura delle analogie che accomunano alcuni
passi delle opere leopardiane con il romanticismo tedesco. Per fare
qualche esempio, nel suo intervento al Convegno su Leopardi e
Bologna49 , Caprioli rileva come il «suono così dolce che tale non s’ode a
questo mondo» di cui Leopardi parla nel Discorso di un italiano intorno
alla poesia romantica, può essere considerato antecedente dell’accezione
hölderliniana del suono come «metafora di un sublime ultraterreno» 50,
arriva inoltre a intravedere un rapporto di intertestualità tra «il principio
del mondo» che nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza Leopardi
avrebbe voluto «porre in musica non potendo la poesia esprimere queste
cose»51 e la Schöpfung di Haydn, e ancora, partendo di nuovo dai Ricordi,
e precisamente da quella ‘canzone’ che il poeta avrebbe voluto esprimere
‘in musica’ senza parole, e accostando questo concetto a quello di
frühromantisch che emerge dal Don Juan di Hoffmann52, Caprioli vede
48
Cfr. S. Martinotti, La concezione musicale di Giacomo Leopardi, in Leopardi oggi.
Incontri per il bicentenario della nascita del poeta, Milano, Vita e pensiero, 2000, pp.
171-184.
49
Cfr. A. Caprioli, Giacomo Leopardi e la ‘nuova musica’, in Leopardi e Bologna, Atti
del Convegno di Studi per il Secondo Centenario Leopardiano (Bologna 18-19 maggio
1998), a cura di M. A. Bazzocchi, Firenze, Olschki, 1999, pp. 57-78.
50
Ibidem, p. 60.
51
Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 360.
52
Nel saggio di Caprioli è riportato anche quel passo del Don Juan in cui Donna Anna
afferma: «ella mi disse che tutta la sua vita era musica, e che spesso, cantando, ella
25
Superiorità della musica su tutte le arti
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in entrambi l’antecedente di un importantissimo genere musicale
romantico che si identifica con il titolo mendelssohniano di Lied ohne
Worte.
Circa l’interesse di Leopardi per il teatro, la corrispondenza con il
fratello Carlo permette di ricostruire con certezza a quali spettacoli egli
abbia assistito durante il primo soggiorno a Roma, e di conoscere le sue
impressioni e i suoi giudizi sulle varie rappresentazioni.
Carlo Leopardi, frequentatore appassionato di teatro, nel 1823, in
occasione della rappresentazione recanatese dell’Italiana in Algeri di
Rossini, si innamorò del soprano Clotilde Corradi, di cui apprezzò le
notevoli doti canore 53 , tanto da pensare di dedicarle un sonetto che
sottopose all’attenzione del poeta nella lettera del 9 gennaio 1823. Il
sonetto era il seguente:
A Clorinda Corradi
Dell’alto nome tuo ben degna sei
Bella come Clorinda, e che l’ignori
Sola, modesta e schiva, come lei
Accendi più col disperarli i cuori.
Se poi quel canto onde nostr’alme bei
Udiva il Franco Eroe, più, credo, fuori
Di senno tu che i forti lo traei
Atti della viril donna, e i rigori.
E tu pur sei guerriera: oh come bella
credeva di comprendere mille cose nascoste misteriosamente nell’essere; cose che
nessuna parola avrebbe potuto esprimere», citato da E. T. Amadeus Hoffmann, Scritti
musicali, a cura di G. Pierotti e A. Ulm, Firenze, Rinascimento del Libro, 1931, pp. 4243.
53
Cfr. Ep. 507. Nella lettera inviata a Giacomo il 26 gennaio 1823, Carlo si esprime
così a proposito della Corradi: «figurati che la Bandi, di cui raccontano che alcuni
Inglesi comprarono il cadavere per esaminare la costruzione, da cui risultava la
molteplicità prodigiosa delle sue corde, aveva due tuoni in meno di questa, che ha due
ottave e due tuoni limpidi e più sforzandosi […]».
26
Superiorità della musica su tutte le arti
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Allor che i freddi Itali petti avvampi
Coll’ardir della fervida Isabella!
Corri tua nobil via. Sol ti rammente
Di lor fra cui la prima orma tua stampi,
Che te rammenteranno eternamente54.
È interessante notare come nella sua lettera di risposta, datata 18
gennaio 1823, Leopardi non si soffermi ad esprimere un giudizio vero e
proprio sulla qualità del sonetto inviatogli da Carlo, ma cerchi piuttosto
di esprimere le sensazioni suscitate dalla sua lettura, il senso di nostalgia
per una dimensione di vita, di poesia, e di affetti all’insegna della
semplicità, di gusto per le piccole cose, da cui si sente distolto e privato
dall’ambiente della capitale. Dice, infatti, a proposito del sonetto
è molto bello e affettuoso, e mi ridesta l’idea dell’animo tuo, e del
sentimento, e della poesia, e del bello vero, tutte cose che bisogna dimenticare
affatto in Roma, in questo letamaio di letteratura di opinioni e di costumi […]55.
Il giudizio negativo di Leopardi su Roma che «mi ha fatto almeno
questo vantaggio di perfezionare la mia insensibilità sopra me stesso»56,
include anche l’organizzazione degli spettacoli e, in generale, dei
divertimenti. Ecco cosa scrive il poeta a Carlo nella lettera del 16
dicembre 1822
io v’accerto che non solo non ho provato alcun piacere in Roma, ma
sono stato sempre immerso in profondissima malinconia […]. V’accerto che gli
spettacoli e divertimenti sono molto più noiosi qui che a Recanati, perché in essi
nessuno brilla, fuori dello stesso spettacolo e divertimento. Questo è il solo che
54
Ep. 618.
Ep. 630.
56
Ep. 504.
55
27
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
possa brillare, e non si va allo spettacolo se non puramente per veder lo
spettacolo, (cosa noiosissima) […]57.
Altrove, e precisamente nella lettera del 5 febbraio 1823
indirizzata ancora una volta a Carlo, Leopardi specifica che la noia degli
spettacoli dipende principalmente dalla loro durata «intollerabile e
mortale», sei ore senza interruzione, e dai fasti eccessivi con cui i romani
si sforzano di rappresentare la loro città quasi a volerne riprodurre la
grandiosità architettonica
pare che questi fottuti romani che si son fatti e palazzi e strade e chiese
e piazze sulla misura delle abitazioni de’ giganti, vogliano anche farsi i
divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per
coglionesca che sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento che fino
a un certo segno […]58.
A parte i giudizi personali del poeta sulle rappresentazioni,
l’epistolario
leopardiano
non
contiene
testimonianze
dirette
sull’organizzazione degli spettacoli a Roma nei primi decenni
dell’Ottocento: l’attenzione del poeta si sofferma, infatti, più sul
contenuto che sulla forma degli spettacoli, più sulla musica, sul canto, sul
ballo che non sugli aspetti propriamente ‘scenografici’.
Un importante documento sui teatri romani e, in particolare, sulla
stagione teatrale del 1822-’23, anni del primo soggiorno leopardiano
nella capitale, è attualmente costituito dal catalogo della mostra Leopardi
a Roma 59 , da cui apprendiamo che, accanto alle rappresentazioni
‘ufficiali’ che si svolgevano nei teatri e che avevano una finalità più
57
Ep. 474.
Ep. 514.
59
Si veda in particolare il capitolo Leopardi all’Opera, in Leopardi a Roma, a cura di
N. Bellucci e L. Trenti, Milano, Electa, 1998, pp. 83-93.
58
28
Superiorità della musica su tutte le arti
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propriamente
edonistica,
grande
rilevanza
era
attribuita
alle
rappresentazioni legate ai fastosi riti della comunità cattolica, e a quelle
allestite all’interno dei palazzi privati su iniziativa di famiglie potenti,
con un intento specificamente autocelebrativo. Molto diffusi erano inoltre
gli ‘spettacoli popolari’ come le numerose manifestazioni che
accompagnavano i festeggiamenti del Carnevale 60 e della tradizionale
“Ottobrata”, la vendemmia «che si svolgeva come fulcro a Monte
Testaccio e a Villa Borghese aperta annualmente al popolo dal principe
[…] caratterizzata dal ballo del Salterello e da sfilate di carri da cui
venivano cantati gli stornelli»61. È verosimile che il poeta parlando di
‘divertimenti,’ nella citata lettera del 16 dicembre 1822, si riferisse
proprio a questo tipo di intrattenimenti che per lui non rappresentavano
occasione di svago anzi, in alcuni momenti, come quello descritto nella
lettera a Carlo della “sera di Carnevale 1823”, diventavano addirittura
motivo di fastidio
sono assordato dal maledetto strepito del Carnevale, di cui non ti parlo,
perché te lo puoi figurare. Spettacoli e poi spettacoli non sono mancati, non
mancano e non mancheranno fino a sei ore e mezza. Poi il diavolo se li porterà
in anima e in corpo, come tu sai. Domani farò il comodo mio: son dieci giorni
che fo quello degli altri, e che ne debbo restare obbligato […]62.
Le feste da ballo carnevalesche, dai primi dell’Ottocento fino al
1859, quando il nuovo proprietario Alessandro Torlonia ne avviò il
restauro, si svolgevano nel teatro Alibert63, mentre i teatri Fiano e Ornani
ospitavano un altro genere di spettacolo molto diffuso all’epoca, il teatro
60
Per una descrizione del carnevale romano del 1823 si veda il capitolo Scene di
carnevale, ibidem, pp. 124-129.
61
Ibidem, nota 1, p. 87.
62
Ep. 517.
63
Notizie dettagliate sul teatro si trovano in A. De Angelis, Il teatro Alibert o delle
Dame 1717- 1863, Tivoli, A. Chicca, 1951.
29
Superiorità della musica su tutte le arti
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dei burattini e delle marionette a cui l’esperienza leopardiana non rimase
estranea se è vero che il poeta conobbe personalmente in quegl’anni il
famoso burattinaio Gaetano Santangelo (1782-1832), meglio noto come
Ghetanaccio. Nel suo intervento al convegno su Leopardi e Roma 64 ,
Letizia Norci Cagiano de Azevedo sostiene che il poeta, avendo assistito
a qualche spettacolo del teatrino delle marionette di palazzo Fiano diretto
da Filippo Tedi, ne sia rimasto così favorevolmente impressionato da
adoperare, nella quinta ottava del canto VIII dei Paralipomeni, il
paragone tra la discesa nella grotta dei topi morti del “cavaliere di
Topaia” e una scena del teatrino delle marionette avente come
protagonista il famoso personaggio di Cassandrino «bellimbusto ma
fifone»65:
Io vidi in Roma sulle liete scene
Che il nome appresso il volgo han di Fiano
In una grotta ove sonar catene
S’ode e un lamento pauroso e strano,
Discender Cassandrin dalle serene
Aure per forza con un lume in mano,
Che con tremule note in senso audace
Parlando, spegne per tremar la face66.
I teatri Argentina e Valle 67 erano deputati rispettivamente alla
messa in scena delle opere serie e dei balli e delle opere buffe. «Sono sul
64
L. Norci Cagiano de Azevedo, Leopardi e la stagione teatrale romana 1822-23, in
Leopardi e Roma, Atti del Convegno (Roma 7-9 novembre 1988), a cura di L. Trenti e
F. Roscetti, Roma, Colombo, 1991, pp. 315-329.
65
Ibidem, p. 319.
66
Paralipomeni della Batracomiomachia, p. 287.
67
Per approfondimenti sui teatri romani nell’Ottocento, si vedano G. Radiciotti, Il
teatro e la cultura musicale in Roma nel secondo quarto del secolo XIX, Roma,
Tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice, 1904 (estratto dal fascicolo di agosto 1904
della «Rivista d’Italia», pp. 1-2); A. Rava, I teatri di Roma, Roma, Palombi, 1953; G.
Tiricanti, Il teatro Argentina, Roma, Palombi, 1972; L. Norci Cagiano de Azevedo,
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Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
punto di andare a teatro a sentir David […]»68, il poeta scriveva a Carlo il
26 dicembre 1822, poco prima di recarsi al Teatro Argentina per assistere
alla prima dell’Eufemio di Messina, un’opera musicata dal maestro
Michele Carafa su libretto di Jacopo Ferretti, in cui la parte di Eufemio
era affidata al famoso tenore Giovanni David. Il melodramma, che
riprendeva lo stesso soggetto della tragedia scritta nel ’20 da Silvio
Pellico, non riscosse lo sperato successo, secondo la testimonianza di
Agostino Chigi 69 , infatti «la musica ha pochissimo incontrato» e sono
stati giudicati «non abbastanza nobili i motivi principali dei pezzi». Il
giudizio di Leopardi non si discosta sostanzialmente da quello di Chigi
poiché il poeta, oltre ad evidenziare la mancanza di originalità dell’opera
di Carafa che sembra «quasi tutta rubata a Rossini», considera «nessun
pezzo interessante, fuorché un’aria del Contralto nel prim’Atto, la quale
però sembra cominciata e non finita […]»70. Il brano a cui Leopardi si
riferisce e che apprezzò maggiormente forse è lo stesso che, sempre
secondo la testimonianza di Chigi, convinse di più anche tutto il pubblico:
Ma fra le lagrime
Del mio dolore
Vedrò mai splendere
Raggio di amore?
Ho più da piangere?
Ho da sperar?
Se il fato donami,
Quel cor sì fido,
Ho in pugno il fulmine
Teatri romani, in Stendhal, Roma, l’Italia, Atti del Convegno Internazionale (Roma, 710 novembre 1983), a cura di M. Colesanti, A. Jeronimidis, L. Norci Cagiano de
Azevedo, A. M. Scaiola, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1985, pp. 125-135.
68
Ep. 479.
69
Cfr. A. Chigi, Memoriabilia privata et publica (1801-1809; 1814-1855), Codice
Vaticano Chigi 3966 bis, in data 6 novembre 1822.
70
Ep. 489.
31
Superiorità della musica su tutte le arti
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L’Affrica sfido
A me sorridere
Vedrò Fortuna,
L’Odrisia Luna
Farò eclissar;
Né più quest’anima
Saprà bramar 71.
Per quanto riguarda la qualità delle voci che, oltre al tenore
Giovanni David, erano quelle del soprano Santina Ferlotti nella parte di
Adele, del contralto Rosmunda Pisaroni nella parte di Lotario, di Gaetana
Corini nel ruolo di Eloisa e di Carlo Diofebi nel ruolo di Abdul, il
giudizio espresso da Leopardi nella lettera a Carlo del 6 gennaio 1823, è
piuttosto severo e preciso:
tutte le voci mediocri; eccetto il Tenore, cioè David, e il Contralto, cioè
la Ferlotti. Il Basso è nulla, ed agisce anche poco nell’Opera. Il canto di David
non mi ha fatto grande impressione perché ci si conosce evidentemente lo
sforzo. E perciò il corpo della sua voce, secondo il gusto mio, non può molto
dilettare. Quanto all’agilità e volubilità del suo canto, le mie rozze orecchie non
ci trovano niente di straordinario. Ma, comunque sia, la più bella voce applicata
a una melodia che non significa niente, non può far grande effetto […]72.
Nell’esprimere il suo giudizio sostanzialmente negativo sulle voci
che compongono il melodramma, Leopardi, da una parte invoca la
questione del gusto e attribuisce alla ‘rozzezza’ delle sue orecchie
l’incapacità di cogliere la straordinarietà della voce di David, dall’altra
La citazione, tratta dal libretto dell’Eufemio di Messina, Roma, Boulzazer, 1827, è
ripresa da Leopardi all’opera, in Leopardi a Roma cit., p. 88.
72
Ep. 489, corsivo mio. Da notare la ‘svista’ di Leopardi che scambia la Pisaroni,
contralto, con la Ferlotti, oppure che, riferendosi esattamente alla Ferlotti ne confonde il
ruolo.
71
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Superiorità della musica su tutte le arti
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evidenzia la banalità della melodia che non acquisterebbe valore neanche
se eseguita da una grande voce. Forse è opportuno chiedersi se giudizi
così fini come quelli pronunciati da Leopardi possano davvero provenire
da «rozze orecchie», o se piuttosto il poeta non adoperi l’espressione con
un senso di «falsa modestia»73 o di ironia. Circa la seconda affermazione
si può notare, invece, come il condizionamento delle opinioni espresse da
Chigi e da altri critici possa avere influenzato il giudizio di Leopardi
tanto da indurlo a dichiarare qualcosa di opposto rispetto a ciò che aveva
scritto in un pensiero dello Zibaldone di due anni prima. Mentre qui
l’attenzione sembra appuntarsi tutta sulla qualità della melodia che
costituirebbe
il
presupposto
fondamentale
per
un
buon
esito
dell’esecuzione, nella riflessione zibaldoniana del 17 settembre 1821
l’attenzione si concentra tutta sulla voce che, se brutta, guasta anche la
migliore melodia, se bella, fa sì che anche la melodia più mediocre
catturi il sentimento del pubblico, infatti:
la più bella melodia non commuove eseguita da una vociaccia, per
ottimamente eseguita che sia; e viceversa ti sentirai tocco straordinariamente al
primo aprir bocca di un cantante di bella voce, soave ec., che eseguisca la
melodia più frivola, la meno espressiva, o la più astrusa ec., e l’eseguisca anche
male, e stuonando […]74.
Sugli aspetti propriamente ‘spettacolari’ della rappresentazione,
Leopardi non si sofferma se non per fare qualche osservazione negativa
sul ballo di cui non apprezza la parte ‘pantomimica’ o ‘imitativa’, mentre
riconosce un certo fascino alla parte ballabile che, però, non desta in lui
alcun senso di meraviglia visto che «tutto quello ch’è puro spettacolo,
Questo è ciò che sostiene anche F. Foschi nell’Introduzione all’antologia Sulla
musica cit., p. 13.
74
Zib. 1722.
73
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Superiorità della musica su tutte le arti
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come il ballabile, dopo un quarto d’ora annoia»,75 e siccome la durata del
ballo era almeno di un’ora e mezzo, è chiaro che nessuno spettatore si
sarebbe potuto meravigliare così a lungo, infatti, puntualizza il poeta con
una punta di ironia
chi si può meravigliare per un’oretta e mezza, è molto ammirabile […]76.
Un giudizio ben diverso sul ballo è quello espresso da Leopardi
nella lettera a Carlo del 5 febbraio 1823 dove, in riferimento allo
spettacolo del Corso «bello e degno d’essere veduto»77, afferma che «una
donna né col canto né con qualunque altro mezzo può tanto innamorare
un uomo quanto col ballo: il quale pare che comunichi alle sue forme un
non so che di divino, ed al suo corpo una forza, una facoltà più che
umana […]» 78 ; poiché Giacomo e Carlo
erano soliti scambiarsi
confidenze in fatto di amore e di donne, il poeta, per rendere meglio
l’idea di ciò che ha visto dà per scontato che, se anche Carlo avesse visto
esibirsi una di quelle ballerine, nonostante i suoi «propositi antierotici»,
si sarebbe sentito «cotto al primo momento»79.
Sempre al teatro Argentina, il 23 gennaio 1823, Leopardi
assistette alla prima della Donna del lago 80 di Gioacchino Rossini 81 ,
75
Ep. 489.
Ibidem.
77
Ep. 514.
78
Ibidem.
79
Ibidem.
80
La Donna del lago è stata composta nel 1819, lo stesso anno in cui Rossini ha
composto anche Ermione, Edoardo e Cristina, Bianca e Faliero.
81
Stendhal apre la sua biografia su Rossini con una suggestiva descrizione della città di
Pesaro, dove il celeberrimo compositore nacque il 29 febbraio del 1792: «Pesaro si alza
in mezzo a colline coperte di boschi, ed i boschi si estendono proprio fino alla riva del
mare. Non vi è niente di desolato, di sterile, di bruciato dal vento marino. Le rive del
Mediterraneo, ed in particolare quelle del golfo di Venezia, non hanno nulla di
quell’aspetto selvaggio e cupo che le onde immense e i venti potenti dell’Oceano danno
alle sue rive. Qui, come sulla frontiera di un grande impero dispotico, tutto è potenza
irresistibile e desolazione; tutto è dolce voluttà e bellezza commovente, invece, verso le
76
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Superiorità della musica su tutte le arti
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melodramma composto su libretto di Andrea Leone Tottola che si
rifaceva alla trama del poema The lady of the lake di Walter Scott, nei
confronti del quale il poeta, d’accordo con la critica, si espresse molto
favorevolmente, fatte eccezione le lamentele per la lunghezza dello
spettacolo. L’ “insensibilità sopra se stesso” che il soggiorno nella
capitale aveva già perfezionato nel poeta, viene adesso intaccata
dall’emozione suscitatagli dal melodramma. Queste sono le significative
parole attraverso cui, ancora nella lettera del 5 febbraio 1823, il poeta
descrive a Carlo le sensazioni provate a teatro
abbiamo in Argentina La donna del lago, la qual musica eseguita da
voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono
delle lagrime non mi fosse stato sospeso, giacché m’avvedo pure di non averlo
perduto affatto […]82.
Le «voci sorprendenti» a cui Leopardi si riferisce, tranne il tenore
Pietro Todran, sono le stesse che, nella rappresentazione dell’Eufemio di
Messina, non lo avevano particolarmente affascinato, ma che adesso
rivaluta grazie all’effetto positivo determinato dalla loro applicazione alla
melodia rossiniana che scaturisce da una maniera di comporre la musica
che si accosta fortemente al genere popolare, quello più apprezzato da
Leopardi che così esprime a proposito di Rossini nello Zibaldone
e non per altro riesce universalmente grata la musica di Rossini, se non
perché le sue melodie o sono totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle
bocche del popolo; o più di quelle degli altri compositori, si accostano a quelle
successioni di tuoni che il popolo generalmente conosce ed alle quali è
rive ombrose del Mediterraneo, vi si riconosce senza fatica la culla della civiltà del
mondo», cfr. Stendhal, Rossini, traduzione italiana di B. Revel, Milano, 1949, p. 1.
82
Ep. 514.
35
Superiorità della musica su tutte le arti
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assuefatto, cioè al popolare; o hanno più parti popolari, o simili, ovver più simili
che dagli altri compositori non s’usa, al popolare […]83.
Al teatro Valle84, Leopardi assistette all’opera buffa Il corsaro,
ovvero Il maestro di cappella in Marocco, musicata dal maestro Filippo
Celli su libretto di Jacopo Ferretti, proprio come l’Eufemio di Messina.
Nella stessa lettera a Carlo, datata 6 gennaio 1823, in cui Leopardi
commenta lo spettacolo del maestro Carafa visto al teatro Argentina,
parla anche dell’opera del maestro Celli che andava in scena al Valle
senza fare menzione del titolo 85 , ma esprimendo una serie di giudizi
negativi a partire dal confronto con la rappresentazione recanatese del
Turco in Italia di Rossini che «non solamente per la musica, ma per
ciascun cantante, a uno per uno, e tutti insieme, fu migliore senza
nessunissimo paragone […]», e dà testimonianza dello scarso riscontro
del pubblico nei confronti della rappresentazione se è vero che «il teatro
è per lo più deserto, e ci fa un freddo che ammazza […]»86.
Durante il suo primo soggiorno nella città di Bologna, che si
protrasse dal 29 settembre 1825 all’11 novembre 1826, Leopardi, su
suggerimento dell’amico Pietro Brighenti trovò alloggio, in qualità di
subaffittuario, in un «appartamentino»87 contiguo ai locali del Teatro del
Corso, come racconta lui stesso a Monaldo nella lettera del 3 ottobre
1825
qui ho tolto a pigione p[er] un mese un appartamentino in casa di
un’ottima e amorevolissima famiglia […]88.
83
Zib. 3208-3209.
Si veda la nota 68 a p. 15 del presente lavoro.
85
Il titolo si deduce facilmente dal fatto che l’opera in questione, dal 26 dicembre 1822,
data di riapertura del teatro dopo i lavori di restauro avviati nel marzo 1821, andava
ancora in scena nel gennaio del ’23, quando il poeta scrisse la lettera al fratello.
86
Ep. 489.
87
Ep. 737.
88
Ibidem.
84
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Superiorità della musica su tutte le arti
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In realtà, il poeta non si trattenne nella casa solo per un mese visto
che, nella lettera del 18 gennaio 1826 indirizzata a Giuseppe Melchiorri,
indica lo stesso domicilio, specificando inoltre il nome del padrone che è
anche proprietario del Teatro del Corso89, e il nome della famiglia da cui
ha preso l’alloggio in affitto
io abito all’ingresso del Teatro del Corso, in casa Badini, presso il
signor Aliprandi […]90.
Vivere dentro il teatro significava stare ogni giorno a contatto, in
maniera più o meno diretta, con le manifestazioni che si svolgevano al
suo interno e che erano numerose e frequenti in un’epoca, come ai primi
decenni dell’Ottocento, in cui c’era molto fervore artistico a Bologna e
altrettanto entusiasmo e partecipazione da parte dei cittadini nei confronti
della vita teatrale91. Leopardi che in precedenza, incoraggiato dalla sua
passione per la musica, aveva frequentato sebbene saltuariamente i teatri,
adesso rinuncia del tutto a questo tipo di esperienza, mostrando una certa
insofferenza per gli spettacoli e dichiarando di annoiarsi a teatro. Ecco
cosa scrive il poeta alla sorella Paolina nella lettera del 19 ottobre 1825:
i teatri di Bologna io non so ancora come sieno fatti, p[er]ché gli
spettacoli mi seccano mortalm.e; sicché ho preferito di ess.e gentilm.e messo in
burla dalle Sigrẽ che mi hanno invit.º ai loro palchi, e dopo aver promesso di
andare e mancato di parola, ho detto francam.e a tutte che il teatro non fa al caso
mio. La bella è che il muro della mia camera è contiguo al teatro del Corso,
Notizie sulla storia di questo teatro e sulla sua attività dagli inizi dell’Ottocento fino
alla metà circa del secolo scorso, nonché sul soggiorno di Leopardi al suo interno, sono
contenute in M. Calore, Il teatro del Corso 1805-1944. 150 anni di vita teatrale
bolognese tra aneddoti e documenti, Bologna, Lo Scarabeo, 1992.
90
Ep. 822, i corsivi sono nel testo.
91
Sull’attività dei teatri Bolognesi nei primi decenni dell’Ottocento, e sulla stagione
teatrale 1825-’26, un’importante testimonianza è resa nel capitolo Leopardi e il teatro a
Bologna, in Leopardi a Bologna. Libri immagini documenti, a cura di C. Bersani e V.
Roncuzzi Roversi-Monaco, Bologna, Pàtron Editore, 2001, pp. 217-241.
89
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Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
talmente che mi tocca sentir la Commedia distintam.e e szã muovermi di casa
[…]92.
Ma la vera ragione di questa rinuncia probabilmente va ricercata
nell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, che gli fa avvertire
maggiormente il disagio derivante dall’obbligo di restare fermo per delle
ore dietro il palchetto per assistere allo spettacolo. Ad ogni modo,
durante il suo primo soggiorno a Bologna, città dove «cominciando dagli
orbi tutti vogliono cantare o suonare, e c’è musica da per tutto […]»93,
Leopardi non volle recarsi a teatro neanche per assistere a quella che lui
stesso, nella lettera del 31 ottobre 1825 a Luca Mazzanti, definisce una
«grande Opera» senza, tuttavia, specificarne il titolo
abbiamo bensì una grande Opera, che io non ho sentita, e grandi
cantanti che io non conosco […]94.
Probabilmente l’opera in questione è la Semiramide di Rossini a
cui Leopardi assisterà invece al suo ritorno a Bologna, nel 1827, quando
le sue condizioni di salute saranno migliorate e il suo animo più
predisposto alla compagnia e agli svaghi. La prima della Semiramide va
in scena il 13 maggio95, e il 18 dello stesso mese, Leopardi così scrive a
Paolina:
la stagione anche qui è ottima, e io mi diverto veramente un poco più
del solito, perché grazie a Dio mi sento bene, e perché quest’essere uscito
dall’inverno non mi può parer vero, e non finisce di rallegrarmi; e perché gli
92
Ep. 798.
Ep. 908.
94
Ep. 765.
95
Il successo della rappresentazione è testimoniato dalla «Gazzetta di Bologna», n. 40,
sabato 19 maggio 1827.
93
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amici mi tirano. Sono stato all’opera già due volte (l’opera si è avuta finora tre
sere) […]96.
A Firenze Leopardi non ebbe alcun contatto con il teatro.
«Gl’incomodi che ho, sono degli occhi e dei denti […]. La malinconia
che mi dà questa sciocchezza da un mese in qua, non è credibile […]»97,
scrive il poeta alla sorella Paolina nella lettera del 7 luglio 1827, ed è
proprio a causa di questi malesseri, e di questa malinconia che non vuole
recarsi a teatro, neanche per assistere all’opera del suo concittadino
Giuseppe Persiani, pur apprezzandolo come compositore e condividendo
l’unanime giudizio positivo della critica, come conferma il prosieguo
della lettera
l’entusiasmo destato da Persiani è verissimo. Ho sentito parecchi
intendenti o dilettanti dire che Persiani è un genio straordinario. Tutti ne dicon
gran bene, anche per riguardo al suo carattere e alla sua gran probità. […]
quando si impegnò a scrivere il Danao, il patto fu, che se l’Opera non piaceva al
pubblico, l’impresario non lo avrebbe pagato. Io non sono stato a sentirla,
perché i miei occhi in teatro patiscono troppo […]98.
Del secondo soggiorno leopardiano a Roma, nel periodo
compreso tra l’ottobre 1831 e il marzo 1832, non ci sono testimonianze
epistolari, né d’altro genere, che attestino una frequentazione seppur
minima dei teatri da parte del poeta, il solo elemento di contatto indiretto
con il teatro si basa sul fatto che Leopardi era ritornato nella capitale
insieme all’amico Antonio Ranieri innamorato dell’attrice Maddalena
Pelzet che recitava con la sua compagnia al teatro Valle.
96
Ep. 1079.
Ep. 1106.
98
Ibidem.
97
39
Superiorità della musica su tutte le arti
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E proprio dalla testimonianza di Ranieri 99 apprendiamo che
l’esperienza di Leopardi come spettatore di teatro si concluse nel 1833, al
teatro del Fondo di Napoli, dove assistette con ammirazione, nonostante
«il solecchio pe’ lumi che lo ferivano» 100 , alla rappresentazione del
Socrate immaginario di Paisiello.
§ I.2 LA MUSICA NEL SISTEMA LEOPARDIANO DELLE BELLE ARTI
99
Cfr. A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Milano, Garzanti,
1979.
100
Ibidem, p. 64
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Superiorità della musica su tutte le arti
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I pensieri sulla musica presenti nello Zibaldone sono indicizzati
da Leopardi, nelle due sezioni, Speculativa e Pratica Storica, della
Teorica delle arti, lettere ec., e l’intera riflessione leopardiana sulla
musica si inquadra, appunto, nell’ambito del discorso sulle arti e sul bello,
corrispondente a quello che il poeta stesso definisce il proprio «Sistema
di Belle Arti»101, e che già da alcuni decenni è oggetto di un notevole
interesse da parte della critica. Gli stessi riferimenti alla musica presenti
nei Canti, non si reggono in maniera autonoma ma vanno considerati alla
luce di tale riflessione che è, a sua volta, strettamente connessa con la
‘teoria del piacere’. In riferimento alle opere leopardiane, si è già
accennato al valore meditativo delle riflessioni sulla musica presenti nelle
Operette Morali, alla testimonianza dell’esperienza musicale del poeta
costituita dall’Epistolario, agli spunti presenti in altre opere quali il
Diario del primo amore, i Ricordi d’infanzia e di adolescenza, il
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, ma sarà opportuno
analizzare di seguito le modalità attraverso cui l’idea leopardiana di
musica si sviluppa nello Zibaldone, a partire proprio dal discorso sull’arte.
Gli attuali giudizi circa la sensibilità leopardiana per l’arte, sono
radicalmente mutati rispetto a quelli, precedenti alla pubblicazione dello
Zibaldone, di Francesco De Sanctis e di Arturo Graf102, e tendono tutti,
sebbene da angolature diverse, ad una rivalutazione dell’interesse di
Leopardi per le arti. Dall’interesse per le arti figurative in generale, con
101
Zib. 6.
I quali affermano rispettivamente che Leopardi «aveva il gusto poco educato alla
scultura e alla pittura […]. Un chiaro di luna tra le frondi gli faceva più effetto che non
una Venere Capitolina» (cfr. F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, a cura di E. Ghidetti,
Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 149), e che «sicuramente il Leopardi […] non fu un
visuale, o, per lo meno, non fu un visuale poderoso. Luce e colori egli vide assai meno
intensamente, non dirò di Dante […] ma anche dell’Ariosto, del Goethe, dello
Chateaubriand, dello Shelley e di cent’altri» (cfr. A. Graf, Foscolo, Manzoni, Leopardi,
Torino, Chiantore, 1898, rist. 1945, pp. 398-399).
102
41
Superiorità della musica su tutte le arti
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gli studi di Attilio Moroni e Alberto Frattini103, a quello più specifico per
la pittura, trattato in maniera particolareggiata da Margherita Pieracci
Harwell 104 , che ha isolato almeno trenta pensieri dello Zibaldone
esplicitamente dedicati alla pittura, e, evidenziandone la netta inferiorità
numerica rispetto a quelli sulla musica e sul canto, ha avallato la tesi di
Giovanni Amoretti 105 , ripresa più recentemente da Alberto Folin 106 ,
secondo cui il motivo che impedisce alla riflessione leopardiana di
soffermarsi più a lungo sulla pittura è legato alla componente ‘visiva’ di
quest’ultima, o meglio, alla volontà del poeta di “non vedere” la luce che
svela la verità delle cose. Nella stessa direzione, l’interpretazione
filosofica di Folin 107 , Galimberti 108 , Prete 109 , Scalia 110 , Caracciolo 111 ,
Cacciari112, e altri ancora, sostiene che in Leopardi l’immagine abbia un
senso diverso e ben più profondo di quello che appare esplicitamente, e
Cfr. A. Moroni, L’arte figurativa nel pensiero di Giacomo Leopardi, in Omaggio a
Leopardi, Abano Terme, Francisci, 1987, vol. II, pp. 431-444, e A. Frattini, Leopardi e
le arti figurative e Il «sistema dei colori» nel tessuto espressivo dei «Canti», in
Giacomo Leopardi, Roma, Studium, 1986, pp. 171-184 e pp. 185-198.
104
M. Pieracci Harwell, Leopardi: pittura e poesia, in Giacomo Leopardi. Estetica e
poesia, a cura di E. Speciale, Ravenna, Longo Editore, 1992, pp. 79-97.
105
G. Amoretti, Poesia e psicanalisi: Foscolo e Leopardi, Milano, Garzanti, 1979.
106
A. Folin, La natura e lo sguardo. Filosofia e percezione visiva in Leopardi, in Da
Leopardi all’eresia. Saggi sulla poesia e sul potere, Napoli, Dick Peerson, 1987. Sul
tema della “verità” in Leopardi, si veda anche, idem, La verità come svelamento, come
rivelazione e come destino, in Leopardi e l’imperfetto nulla, Venezia, Marsilio, 2001,
pp. 29-45.
107
Cfr. Idem, Dall’immagine all’«idea», in Pensare per affetti. Leopardi, la natura,
l’immagine, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 71-110, in cui l’autore sostiene che «la
meditazione leopardiana, proprio in virtù del suo carattere teoretico e al tempo stesso
evocativo, vada interrogata non solo per ciò che essa dice esplicitamente sulle arti
figurative, ma anche per ciò che è presupposto nell’immagine che quella scrittura mette
in scena poeticamente […] » (p. 72).
108
Cfr. C. Galimberti, Linguaggio del vero in Leopardi, Firenze, Olschki, 1959; idem,
Leopardi, meditazione e canto, Introduzione alle Opere di G. Leopardi, a cura di M. A.
Rigoni e R. Damiani, Milano, Mondadori, 2 vol1., 1987-’88, pp. XIII-LXXIX; idem,
Fanciulli e più che uomini, in Cose che non son cose, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 209217.
109
Cfr. A. Prete, Il pensiero poetante, Milano, Feltrinelli, 1980.
110
Cfr. G. Scalia, Etimologie della «Ginestra», in «Con-tratto», I, n. 1, dicembre 1992.
111
Cfr. A. Caracciolo, Leopardi e il nichilismo, Milano, Bompiani, 1994.
112
Cfr. M. Cacciari, Leopardi platonicus?, in «Con-tratto», I, n. 1, Dicembre 1992, pp.
143-153.
103
42
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che da essa prenda avvio il percorso che conduce all’idea. Folin sostiene,
infatti, che «Leopardi, nel mentre rifiuta l’innatismo e afferma
l’inesistenza di un bello ideale in natura, non rinuncia […] ad affermare
il carattere universale dell’eidos, dell’idea. Il luogo di questa idea,
tuttavia, non sta nel soggetto - il quale è condizionato dalla storia e
dall’assuefazione mutevole e relativa - : esso sta nel sensus communis,
cioè in quell’essere in comune che costituisce il fondamento di ogni
esserci»113.
Tra i pensieri zibaldoniani sulla pittura indicati, nel saggio sopra
citato, dalla Pieracci Harwell, ce n’è uno in cui Leopardi accosta la luce
al suono spiegando perché entrambi, attraverso meccanismi differenti,
siano in grado di procurare il ‘diletto’. Il passaggio è il seguente:
la luce il suono ricreano e dilettano per natura. Ma il diletto dell’una e
dell’altro non è né grande né durevole, se non sono applicati, questo all’armonia,
quella, non solo ai colori (chè i colori son come i tuoni, e di poco durevole
diletto, sebbene più durevole di quello della luce semplice o del bianco), ma agli
oggetti visibili o naturali o artefatti, come nella pittura, che applica, distribuisce
ed ordina al miglior effetto i tuoni della luce, come l’armonia quelli del suono. I
colori non hanno a che fare coll’armonia, ma hanno un altro modo di dilettare. I
tuoni del suono non hanno se non l’armonia, a cui possono essere
dilettevolmente applicati114.
Questi
meccanismi
differenti
sono
legati,
dunque,
alla
combinazione della materia di cui è composta l’opera d’arte, i suoni per
la musica, i colori per la pittura, i marmi per la scultura, le parole per la
poesia, e nel caso specifico della musica, il ‘diletto’ non dipenderà dalla
‘bellezza’ di una determinata composizione, vocale o strumentale che sia,
visto che il giudizio sul bello, e parimenti il gusto, è soggettivo e
113
114
A. Folin, Dall’immagine all’«idea», in Pensare per affetti cit., p. 98.
Zib. 1935-36.
43
Superiorità della musica su tutte le arti
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variabile, diverso da persona a persona, da uomo a donna, e così via, ma
dipenderà solo dal senso di piacevolezza che il suono è in grado di
produrre indipendentemente da tutti questi fattori, e quindi in maniera
naturale, immediata, istintiva. Infatti,
tali differenze non hanno a far nulla colla convenienza, nulla col bello
proprio, sono indipendenti dalla qualità delle melodie, che sole spettano nella
musica al discorso sul bello; appartengono alle qualità sole de’ suoni ec.; sono
della stessa categoria che le differenze degli odori e sapori ec. che niuno
s’avvisò di chiamare belli né brutti, bensì più o meno piacevoli o dispiacevoli
[…]115.
Il ricorso al confronto con «odori» e «sapori» che Leopardi
adopera per ribadire come il diletto nella musica provenga dal suono e
non dalla melodia, e che, pertanto, può essere considerato ‘piacevole’ e
non ‘bello’, non è un confronto casuale ma fa parte di quella che è stata
definita una vera e propria leopardiana «teoria degli organi di senso,
nell’uomo e negli animali», che si basa sull’individuazione di motivi e
intuizioni presenti nello Zibaldone, che si spingono ben oltre l’interesse
poetico ed estetico, fino ad anticipare alcuni punti dei più moderni studi
scientifici sui sensi 116 . Leopardi associa gli effetti del suono a quelli
115
Zib. 3426.
F. Foschi, nell’Introduzione all’antologia G. Leopardi, Sulla musica cit., pp. 16-17, a
proposito di questa teoria afferma che «vi sono […] delle interessanti intuizioni di
psicologia animale e comparata, che meriterebbero ulteriore analisi critica, alla luce ad
esempio delle recenti ricerche di Géza Rèvèsz o di quelle di Schneider» (cfr. G. Révész,
Psicologia della musica, Firenze, Giunti-Barbera, 1954, e M. Schneider, Il significato
della musica, Milano, Rusconi, 1981); e che «certe osservazioni sui sapori, sugli odori e
sul gusto anticipano certamente alcune modernissime conoscenze sulla biologia delle
passioni e sui meccanismi neurochimici della fame e della partecipazione dei cinque
sensi alla formazione di quel piacere del gusto, di cui la mimica e il linguaggio a loro
volta sono espressione. Conclude ad esempio Jan Didier Vincent (J. Didier Vincent,
Biologie des passions, Paris, Seuil, 1986), che “l’odorato è certamente il partner più
necessario del gusto” e anzi, condividendo l’opinione di Brillat-Savarin (Brillat-Savarin,
Physiologie du goût, Paris, Flammarion, 1982), l’odorato e il gusto non formano che un
solo senso. Gli alimenti e la loro preparazione sono l’espressione dei nostri modi di vita
116
44
Superiorità della musica su tutte le arti
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provenienti dai sensi, individuando una corrispondenza particolare tra il
tra il piacere che proviene dal suono e quello che proviene dagli odori:
il piacere che ci dà il suono non va sotto la categoria del bello, ma è
come quello del gusto, dell’odorato ec. La natura ha dato i suoi piaceri a tutti i
sensi. Ma la particolarità del suono è di produrre per se stesso un effetto più
spirituale dei cibi dei colori degli oggetti tastabili ec. E tuttavia osservate che gli
odori, in grado bensì molto più piccolo, ma pure hanno una simile proprietà,
risvegliando l’immaginazione ec. […]117.
In un altro passo, datato 24 settembre 1821, Leopardi torna a
sottolineare la differenza tra ‘piacevole’ e ‘bello’, e continuando ad
associare alla sfera dei sensi, in modo particolare all’olfatto, il piacere
proveniente dal suono, afferma che esso deriva
dal legame che la natura arbitrariamente ha posto tra le sensazioni del
suono o canto e l’immaginazione, dalla facoltà che ha dato loro di afficere
piacevolmente l’orecchio […], ovvero l’animo, […] come l’ha data, sebbene in
minor grado, agli odori, che nessuno chiama belli, ma piacevoli118.
La corrispondenza tra odori e suoni, rilevata già da M.me de Staël,
la quale a proposito della musica afferma, tra l’altro, che «De tous le
beaux arts c’est […] celui qui agit le plus immédiatement sur l’âme»119,
per Leopardi equivale alla capacità che entrambi hanno di risvegliare
l’immaginazione e il ricordo, di sollecitare sensazioni che destano quel
e delle nostre culture. I nostri gusti sono il riflesso della nostra educazione e delle
abitudini che ci sono state trasmesse. Vi è quindi una dimensione supplementare dei
sensi: accanto a quella derivante dallo “stato centrale fluttuante” fatto di mutevoli
equilibri neurochimici, vi è la dimensione interindividuale e sociale. Ma sono all’incirca
le cose intuite da Leopardi nello Zibaldone a proposito degli odori e del potere
dell’assuefazione a proposito dei sapori (agosto-settembre 1821)».
117
Zib. 157-158.
118
Zib. 1782-1783.
119
Cfr. Zib. 79.
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Superiorità della musica su tutte le arti
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desiderio di infinito che è destinato a rimanere perennemente
insoddisfatto. E queste osservazioni rinviano direttamente alla ‘teoria del
piacere’ , dove il poeta attribuisce l’infinità del desiderio ad una causa
materiale connaturata alla stessa esistenza, ad un meccanismo che induce
l’uomo a desiderare continuamente, non un piacere particolare, ma il
piacere in senso assoluto, di cui ha appena una vaga percezione, senza
possedere per natura i mezzi per ottenerlo
il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la
soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non
un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che
comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non
essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perché non si
tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla
speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere […], perché
l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una
infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato […]120.
C’è un altro passaggio molto interessante dello Zibaldone in cui si
parla degli odori come stimolatori del desiderio verso oggetti che
richiamano in noi la speranza o il ricordo di una particolare sensazione, il
desiderio di un piacere, anche in questo caso, inappagabile. Il pensiero,
datato 21 agosto 1821, può essere considerato un altro importante
corollario della ‘teoria del piacere’
gli odori sono quasi un’immagine de’ piaceri umani. Un odore assai
grato lascia sempre un certo desiderio forse maggiore che qualunqu’altra
sensazione. Voglio dire che l’odorato non resta mai soddisfatto seppur
mediocremente: e bene spesso ci accade di fiutar con forza, quasi per appagarci,
120
Zib. 166-167, il corsivo è nel testo.
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Superiorità della musica su tutte le arti
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e per render completo il piacere senza potervi riuscire. Essi sono anche
un’immagine delle speranze […]121.
All’inafferrabilità del piacere, e quindi della felicità, sopperisce la
«facoltà immaginativa»122 che, sollecitata da un suono, da un odore, da
un oggetto o da un luogo ignoto, da un ostacolo materiale che restringe la
vista, o viceversa, da una veduta senza confini, permette alla mente di
procurarsi, in modo fittizio, il piacere, proiettando se stessa verso mète
che non esistono nella realtà e che perciò possiedono il fascino
dell’infinito, e facendo sì che si immerga in un piacevole stato di
trasporto, di estasi, atto a favorire le condizioni interiori del sentimento e
le immagini da cui nasce la poesia123. Se è vero, dunque, che «il piacere
infinito che non si può trovare nella realtà, si trova […]
nell’immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec.»124
è evidente la ragione percui, secondo Leopardi, solo gli antichi possono
essere considerati grandi poeti, per l’autenticità dei loro sentimenti e per
121
Zib. 1537.
Zib. 167.
123
Sulla finzione programmatica nell’Infinito, si è soffermato di recente N. Merola nel
capitolo Leopardi e il sapere poetico, in Poesia italiana moderna. Da Parini a
D’Annunzio, Roma, Carocci, 2004, pp. 135-170, evidenziando come «a
un’immaginazione dichiarata (“io nel pensier mi fingo”), che ha sempre costituito per la
critica il centro del componimento, vanno riferiti il “vo comparando” e il “mi sovvien”
del v. 11. Qui la posizione attiva del soggetto, colto nella flagranza di una creazione
letteraria indistinguibile dalla abilità connettiva tipica dell’esercizio dell’intelligenza
(comparando), sfuma nell’involontarietà delle associazioni […], confermando il
carattere quasi automatico della reazione innescata dai dimostrativi […]. È la deissi che
sostiene infatti il peso maggiore della logica differenziale (o comparativa) cara a
Leopardi, permettendogli sia di raddoppiare la decisiva interferenza degli accidenti reali
sulla situazione inscenata e sulla presunta autosufficienza della rappresentazione
linguistica (“il suon di lei” ci induce a risalire lungo il pur breve testo, ritrovando
“questa voce” e lo “stormir”), sia soprattutto la contrapposizione, che è poi un
andirivieni e un gioco di smarrimento (donde la dolcezza del naufragio), tra “questo” e
“quello”, ovvero tra ciò che, per offrirsi direttamente all’esperienza sensibile (sempre
beninteso nella finzione), meno si affida alla verbalizzazione della poesia, e quanto
invece è di esclusiva pertinenza poetica […]» (pp. 153-154).
Per quanto riguarda il “gioco di smarrimento” e la dolcezza del naufragio si veda, R.
Callois, I giochi e gli uomini, Prefazione di P. A. Rovatti; note all’edizione italiana di G.
Dossena; traduzione di L. Guarino, 3ª edizione, Milano, Bompiani, 2004.
124
Zib. 167.
122
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Superiorità della musica su tutte le arti
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l’ingenuità dello sguardo con cui contemplavano la natura, senza cercare
di penetrarne a fondo i meccanismi, condizioni, queste, entrambe
indispensabili alla vera poesia. L’intervento della ragione e la corruzione
dei tempi hanno compromesso in modo graduale e irreversibile la
maniera di fare poesia, pertanto, il recupero del passato, nella prospettiva
letteraria indicata da Leopardi, può avvenire solo a patto che si ricreino
queste condizioni, che il poeta moderno sappia, cioè, guardare il mondo
con gli occhi degli antichi:
l’anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere ch’ella non
può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi,
abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli,
veramente Omerici in questo […], gl’ignoranti ec. in somma la natura. La
cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne125.
Nei suoi Ricordi d’ infanzia e di adolescenza, Leopardi si ritrae
più volte affacciato ad una finestra del «paterno ostello» 126 , da dove
osserva il cielo, la luna, la piazzetta, la casa di Silvia, e il giardino, da cui
spesso sente provenire l’eco di qualche musica che gli suscita particolari
sensazioni ed emozioni
scena dopo il pranzo affacciandomi alla finestra, coll’ombra delle
tettoie il cane il pratello i fanciulli la porta del cocchiere socchiusa le botteghe
ec., effetti della musica in me sentita nel giardino, aria cantata da qualche opera
[…]127.
125
Zib. 171.
A Silvia, p. 26.
127
Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 360. Gli altri passi a cui mi riferisco sono: « si
ricordi quella finestrella sopra la scaletta ec. onde io dal giardino mirava la luna o il
sereno ec. […]» (ibidem p. 362); e «giardino presso la casa del guardiano, io era
malinconichiss. e mi posi a una finestra che metteva sulla piazzetta ec. […]» (ibidem p.
363).
126
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Superiorità della musica su tutte le arti
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Questa immagine di Leopardi ‘spettatore’ alla finestra, è anche la
spia di ciò che accade nei Canti, dove c’è la presenza pressoché costante
di un ostacolo fisico, la ‘finestra’ nelle Ricordanze, la ‘siepe’ nell’Infinito,
la ‘torre’ nel Passero solitario128, i ‘veroni’ in A Silvia, che demarca il
confine tra poeta e mondo esterno. La finestra è il punto da cui il poeta,
fin da bambino, scruta la realtà in un orizzonte che tanto più si restringe
quanto più aumenta il suo inappagabile desiderio di conoscenza che lo
induce a cercare di apprendere tutto il sapere contenuto nei libri della
biblioteca paterna, dove trascorre i famosi «sette anni di studio matto e
disperatissimo» che compromettono per sempre la sua salute e
condizionano in modo irreversibile la sua visione del mondo, un
orizzonte che può essere esplorato solo grazie all’immaginazione
l’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe,
quella torre gli asconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura
cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale
escluderebbe l’immaginario […]129.
128
Sulla descrizione del punto geografico della torre nel Passero solitario, cfr. G.
Leopardi, I Canti, a cura di A. Straccali, (3ª ed. corretta e accresciuta da O. Antognoni),
Nuova Presentazione di E. Bigi, Firenze, Sansoni, 1962, p. 176, nota n. 1: «la torre o
campanile di una delle chiese di Recanati, la chiesa di S. Agostino. Questa torre, che, se
non la principale (principale è quella di piazza, detta nelle Ricordanze la torre del
borgo), è però la più antica, si leva su nel lato posteriore del fabbricato, già convento
degli Agostiniani a ponente, verso il di fuori della città, che da quella parte,
propriamente non è cinta di mura; domina la Marca occidentale e, più da vicino, la valle
sottoposta; maggiormente poi la dominava a’ tempi di Giacomo per l’alto suo cono, che
quindi, a causa dei fulmini che attirava, è stato abbattuto. In cima a quel cono v’era una
croce, dove spesso vedevasi posato un passero solitario; e a Recanati vivono anc’oggi
alcuni che si ricordano di avervelo veduto…Uscendo dalla città per la porta di Monte
Morello (la più vicina al palazzo Leopardi), Giacomo, quando faceva la passeggiata a
ponente, solea recarsi per un piccolo sentiero, fuori della città sul colle detto
popolarmente Monte Tabor, che signoreggia anch’esso la valle sottoposta e tutta la
Marca occidentale fino agli Appennini, e donde si scopre benissimo il campanile
suddetto […]».
129
Zib.171.
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Superiorità della musica su tutte le arti
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L’immaginazione era la componente principale della poesia degli
antichi, ma da quando la ‘scoperta del vero’ ha dissolto le illusioni, la
fantasia, le ingenue credenze popolari, e quant’altro poteva favorire
l’immaginazione, che cosa tocca rappresentare, secondo Leopardi, al
poeta o all’artista moderno nelle proprie opere d’arte? Nel formulare la
propria definizione di Belle Arti, il poeta parte dall’affermazione del
principio che tutte le opere d’arte devono avere come oggetto il «Vero»
che si trae esclusivamente dall’imitazione della natura
Non il Bello ma il Vero o sia l’imitazione della natura qualunque, si è
l’oggetto delle Belle Arti […]130.
Può apparire contraddittorio il fatto che Leopardi, da una parte,
riconosca
come
vera
poesia
solo
quella
nata
all’insegna
dell’immaginazione, dall’altra parte, indichi come oggetto delle opere
d’arte il «Vero» che rappresenta l’opposto, ma ciò a cui lui si riferisce
non è il ‘vero’ esplorato fino in fondo e reso arido dalla ragione, e non è
nemmeno la Verità superiore che Winckelmann contrappone al Vero
scientifico attraverso il concetto di Bello ideale, il Vero a cui il poeta si
riferisce è il reale, così come appare sotto ai nostri occhi, comprendente il
bello e il brutto, poiché ogni distinzione a proposito è artificiale, creata su
misura dall’uomo, e non dalla natura, e perciò ha un valore soggettivo,
mutevole, relativo.
L’effetto del suono è uno degli espedienti che il poeta utilizza
nelle sue rappresentazioni poetiche, per conciliare, appunto, la realtà con
l’immaginazione. Senza
attribuire la provenienza del suono a cause
misteriose e metafisiche, e considerandolo, al contrario, un fenomeno
130
Zib. 2.
50
Superiorità della musica su tutte le arti
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naturale e fisico che ha tuttavia il potere di evocare immagini poetiche 131,
Leopardi associa gli effetti prodotti dal suono, che funziona, in questo
caso, come una sorta di catalizzatore nel rapporto tra la realtà e la sua
rappresentazione poetica, alla sua idea di infinito:
quello che altrove ho detto sugli effetti della luce o degli oggetti visibili,
in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto,
a tutto ciò che spetta all’udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se
non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito
da lungi o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco
allontanando, e divenendo insensibile o anche viceversa (ma meno) o che sia
così lontano […], che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi;
un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito
in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte
di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori
che nella campagna s’ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il
muggito degli armenti ec. […]. È piacevole qualunque suono (anche vilissimo)
che largamente e vastamente si diffonda, […], massime se non si vede l’oggetto
da cui parte […]132.
E più avanti, in questo stesso passo dello Zibaldone datato 16
ottobre 1821, in cui, come ha evidenziato Blasucci, Leopardi che «ha
lungamente teorizzato sulle condizioni di un’ “ottica idillica”, passa
131
La «matrice naturale del fenomeno» è difesa da L. Blasucci che nel saggio Lo
stormire del vento tra le piante, che dà il titolo al suo volume edito da Marsilio
(Venezia, 2003), nota n. 15, p. 39, in risposta al saggio di M. Orcel, Il suono
dell’infinito. Saggi sulla poetica del primo Romanticismo italiano da Alfieri a Leopardi,
Napoli, Liguori, 1993 (già apparso in «Esperienze letterarie» anno XIII, n. 1988, pp. 2552, in Leopardi, arte e verità, a cura di C. Ferrucci, Roma, Bonacci Editore, 1990, pp.
59-88), in cui è attribuito un «rilievo eccessivo […] agli aspetti mitico-archetipici del
tema», sostiene che «la tendenza dell’Orcel, tutt’altro che isolata nella recente critica
leopardiana, è quella di recuperare alcune motivazioni esoteriche e religiose a monte,
compiendo un cammino a ritroso rispetto alla coscienza leopardiana adulta, quella che
va dal Saggio sugli errori popolari allo Zibaldone, orientata in una direzione
decisamente psico-sensistica».
132
Zib. 1927-1928.
51
Superiorità della musica su tutte le arti
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all’individuazione di un’ “acustica idillica”, fondata sulla percezione dei
suoni e dei canti come produttori di sensazioni vago-indefinite» 133 , si
giunge alla conclusione che il fragore del tuono, lo stormire del vento,
l’echeggiare di tutti gli altri suoni di cui non si vede la fonte, diventano
immagini bellissime in poesia «e tanto più quanto più negligentemente
son messe, e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cui ciò
si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per
produrre […]. La notte o l’immagine della notte è la più propria ad
aiutare, o anche a cagionare, i detti effetti del suono […]» 134 . E la
negligenza in poesia, per Leopardi, non è altro che una strategia artistica
tesa ad ottenere un effetto di naturalezza che non è assolutamente da
confondersi con la rozzezza o la fanciullaggine di chi vorrebbe ottenere
lo stesso effetto senza adoperare alcun artificio, cioè i poeti dilettanti e i
fanciulli, ma è una semplicità che ricorda quella degli antichi, e che
deriva, quasi paradossalmente, da uno studio dell’arte talmente attento da
riuscire a nascondere se stesso dietro la rappresentazione della natura
imitata con «quella celeste naturalezza»135 che era propria degli antichi
la diligenza nei poeti è contraria alla naturalezza. Quello che nei poeti
dee parer di vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella negligenza, e questa è
quella che vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima e sostanziale
arte […]136.
Ancora, in merito al discorso sull’imitazione nell’arte, è
impossibile pervenire ad un giudizio universalmente valido su ciò che si
133
L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante cit., p. 40.
Zib. 1929-1930.
135
«Quella celeste naturalezza» è l’espressione con cui Leopardi, nel Discorso di un
italiano intorno alla poesia romantica, p. 938, definisce il modo di esprimere il patetico
proprio degli antichi, e da cui M. Santagata ha ricavato il titolo del suo libro, Quella
celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, Bologna, Il Mulino, 1994.
136
Zib. 21.
134
52
Superiorità della musica su tutte le arti
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deve considerare bello, o viceversa, brutto in natura, proprio perché
manca un modello di riferimento assoluto, non ci sono canoni ideali
prestabiliti a cui la bellezza debba corrispondere, né la bellezza può
essere concepita come un’idea riconducibile alla sfera metafisica, ma
piuttosto, come un concetto che si forma nell’uomo durante il processo
conoscitivo che accompagna la sua esistenza e che, pertanto, è
continuamente suscettibile di cambiamenti e di modifiche. L’unico
criterio di giudizio sul bello che Leopardi riconosce è, dunque, la
relatività del gusto, delle opinioni, e di tutto ciò che definisce conveniente.
E così si esprime a proposito nello Zibaldone
a noi par conveniente a un soggetto (e la bellezza sta tutta si può dire
nella convenienza) quello che siamo assuefatti a vederci, e viceversa
sconveniente ec. e però ci par bello quello che ha queste tali cose e brutto o
difettoso quello che non le ha: benché in natura non debba averle o viceversa
[…]137.
Sulla diversità delle opinioni tra gli uomini e, in generale, tra i
popoli, per ciò che riguarda, da una parte il giudizio sul bello in natura,
dall’altra il bello nell’arte, Leopardi formula una serie di esempi che, nel
primo caso, interessano sia alcuni tratti della bellezza umana, come il
colore di occhi e capelli, sottolineando la diversità di gusti tra i popoli, o
nello stesso popolo in epoche diverse, sia alcune caratteristiche di animali
come «cavalli scodati» e «cani colle orecchie tagliate», per poi
concludere che «il bello ideale non è altro che l’idea della convenienza
che un artista si forma secondo le opinioni e gli usi del suo tempo, e della
sua nazione. Barba e capelli tagliati o no»138. Nel caso delle Belle Arti il
poeta, invece, per le osservazioni che riguardano la pittura e la musica,
137
138
Zib. 8, corsivo mio.
Zib. 8-9.
53
Superiorità della musica su tutte le arti
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rinvia a «MARTIGNONI, Annal. Di Scienze e lett. N. 8 p. 245», mentre si
sofferma sul colore delle facciate delle fabbriche che «presso di noi non
disdicono […] a mattoni nudi, anzi son ridicole imbiancate e colorite. Il
contrario de’ Cinesi ai quali le nostre facciate parrebbero cosa affatto
greggia e rozza»139.
Si è già visto come il diletto nella musica non appartenga alla
sfera del bello ma esclusivamente a quella del piacere, a questo punto,
però, è opportuno fare riferimento ad un passaggio dello Zibaldone che è
nodale perché introduce una distinzione fondamentale riguardo l’idea
leopardiana di musica. Il passaggio è il seguente
il diletto della musica, quanto alla principale e più essenziale sua parte,
non risulta dalla convenienza […]140.
Leopardi distingue nella musica due componenti: il suono, che
rappresenta la parte «principale e più essenziale» della musica, e
l’armonia, alla quale appartengono la melodia, il canto e i suoni
strumentali. Anche gli effetti sono differenti, perché mentre l’armonia
che esprime il relativo, produce un effetto subordinato alla convenienza,
condizionato, cioè, dal gusto e dai tempi, il suono, che esprime in questo
senso l’assoluto, produce un effetto immediato, non solo sull’animo
umano ma anche su alcuni animali
distinguete suono […] e armonia. Il suono è la materia della musica,
come i colori della pittura, i marmi della scoltura ec. L’effetto naturale e
generico della musica in noi, non deriva dall’armonia, ma dal suono, il quale ci
elettrizza e scuote al primo tocco quando anche sia monotono. Questo è quello
che la musica ha di speciale sopra le altre arti, sebbene anche un color bello e
139
140
Zib. 9.
Zib. 3422.
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Superiorità della musica su tutte le arti
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vivo ci fa effetto, ma molto minore. Questi sono effetti e influssi naturali, e non
bellezza. […] Ma l’armonia è bellezza. La bellezza non è assoluta, dipendendo
dalle idee che ciascuno si forma della convenienza di una cosa con un’altra […]
non è la musica come arte, ma la sua materia cioè il suono che farà effetto su
certe bestie […]141.
Ora, il fatto che la musica possa produrre un certo effetto anche
sugli animali, è di per sé prova che il diletto proviene dal suono, che
agisce in maniera immediata sul loro animo, senza che questi animali
abbiano percezione della convenienza o del bello. E non c’è da
meravigliarsi che
anche gli animali sieno tanto dilettati dalla nostra musica, benché non
assuefatti alle nostre melodie, e quindi non capaci di conoscere né di sentire
quello che noi chiamiamo il bello musicale […]142.
Al contrario, un suono qualunque, per esempio il canto degli
uccelli, indipendentemente dalla melodia, è in grado di esprimere
sentimenti e stati d’animo, e di suscitare effetti di profonda commozione
nell’animo umano, come dimostra il canto dell’usignolo nell’episodio di
Orfeo143, citato nella pagina dello Zibaldone datata 17 ottobre 1820
quell’usignolo di cui dice Virgilio nell’episodio di Orfeo, che
accovacciato su d’un ramo, va piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla
miserabile sua canzone, esprime un dolor profondo, continuo, ed acerbissimo,
senza moti di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza proccurar di
141
Zib. 155-156, corsivo mio.
Zib. 3423.
143
«Orfeo, figlio del re tracio Eagro e della Musa Calliope, fu il più famoso poeta e
musicista mai esistito. Apollo gli donò la lira e le Muse gli insegnarono a usarla, e non
soltanto egli ammansì le belve, ma anche gli alberi e i massi si mossero e lo seguirono,
incantati dal suono della musica […]» (cfr. R. Graves, I miti greci, traduzione di E.
Morpurgo, Presentazione di U. Albini, Milano, Longanesi, 1983, p. 99).
142
55
Superiorità della musica su tutte le arti
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ritrovare il perduto ec. è compassionevolissimo, a cagione di quell’impotenza
che esprime […]144.
Il suono è alieno da ogni convenienza, e in questo è paragonabile
con la bellezza umana i cui effetti, esattamente come quelli del suono,
appartengono alla sfera del piacere e non quella del bello. Infatti, come
una «leggera stonazione» 145 in musica non renderà meno piacevole
l’effetto all’orecchio del volgo, disposto a percepire i suoni nella maniera
naturale in cui gli pervengono, a differenza degli intenditori che
giudicano esclusivamente secondo le regole del contrappunto146, così una
sproporzione nella forma umana non basterà a determinare la bruttezza
della persona. Per essere più persuasivo a proposito, il poeta, utilizza
come esempio la parte del corpo che ritiene più importante e significativa,
sia dal punto di vista dell’espressione che della bellezza vera e propria,
cioè gli occhi, per dimostrare come una sproporzione delle loro
dimensioni rispetto al volto, pur rappresentando una sconvenienza, non
determina la sua bruttezza, al contrario, tanto più gli occhi sono belli
quanto più sono grandi e per quanto da essi traspaiono le qualità
dell’animo:
144
Zib. 281, i corsivi sono nel testo.
Zib. 1663: «una leggera stonazione in una musica non è capita dal volgo, come il
fanciullo non capisce i piccoli difetti della forma umana, e talvolta nemmeno i gravi. In
una musica alquanto astrusa, cioè per poco che gli accordi sieno inusitati, egli non
capisce neppure le grandi stonazioni, e così proporzionatamente accade alle persone
polite, e talvolta anche alle intendenti […]». Da questo passo dello Zibaldone ha tratto
spunto A. Colasanti del suo intervento al convegno di studi Leopardi e la musica nel
saggio di Clemente Rebora, (17-18 dicembre 1999) svoltosi a Recanati nella sede del
Centro Nazionale di Studi Leopardiani, intitolato, appunto, Clemente Rebora: una
leggera stonazione, pubblicato in La musica in Leopardi nella lettura di Clemente
Rebora cit., pp. 67-85, che così commenta il passo: «già in quel non capire […]
scorgiamo la grande arcata leopardiana – l’origine del suo pensiero poetico – quella
profonda delusione, il troppo dolore che fa precipitare la mente dentro una pena
ammutolita, forse persino demente come per troppa luce di fronte al nonsenso del
mondo […]» (p. 67).
146
Cfr. Zib. 3217.
145
56
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
le Dee e specialmente Giunone, è chiamata spesso da Omero βοωπις
(βοώπιδος) cioè ch’ha gli occhi di bue. La grandezza degli occhi del bue, alla
quale Omero ha riguardo, è certo sproporzionata al viso dell’uomo. Nondimeno
i greci, intendentissimi del bello, non temevano di usar questa esagerazione in
lode delle bellezze donnesche, e di attribuire e appropriar questo titolo, come
titolo di bellezza […] contuttoché contenga una sproporzione. E infatti non solo
è bellezza per tutti gli uomini e per tutte le donne […] la grandezza degli occhi,
ma anche un certo eccesso di questa grandezza, se anche si nota come
straordinario, e colpisce, e desta il senso della sconvenienza, non lascia perciò
di piacere, e non si chiama bruttezza […]. Dalle quali cose deducete:
1. Quanto sia vero che gli occhi sono la principal parte della sembianza umana,
e tanto più belli quanto più notabili, e quindi quanto più vivi. E che in essi
veramente si dipinge la vita e l’anima dell’uomo […].
2. Quanta parte di quella che si chiama bellezza e bruttezza umana sia
indipendente ed aliena dalla convenienza, e quindi dalla teoria del bello […]147.
Se si applica quanto detto ai criteri di giudizio sulle opere d’arte,
di ogni genere, ne deriva che esso non dipenderà dalla valutazione
dell’oggetto, bello o brutto che sia, ma dal grado di perfezione che
l’artista riuscirà a raggiungere nell’imitazione della natura. Così, ad
esempio, nel caso della poesia, il brutto se ben imitato, può procurare lo
stesso piacere del bello, realizzando il suo «ufficio naturale» 148 che,
secondo Leopardi, consiste principalmente nel procurare il ‘diletto’, e che,
solo indirettamente, può assumere un valore etico
l’utile non è il fine della poesia benché questa possa giovare. E può
anche il poeta mirare espressamente all’utile e ottenerlo (come forse avrà fatto
Omero) senza che però l’utile sia il fine della poesia […]149.
147
Zib. 2547-2549.
Zib. 3.
149
Ibidem.
148
57
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
È significativo rilevare come questo passaggio dello Zibaldone, in
cui il poeta distingue il fine primario della poesia da quello secondario,
utilizzando la metafora dell’agricoltore che può «servirsi della scure a
segar biade o altro senza che il segare sia il fine della scure», per
dimostrare che anche «la poesia può esser utile indirettamente, come la
scure può segare», e il passaggio successivo, in cui spiega come il diletto,
non solo in poesia, ma in generale nell’arte, derivi sostanzialmente
dall’imitazione, siano inframmezzati da un abbozzo poetico come questo:
Sentìa del canto risuonar le valli
D’agricoltori ec.150
in cui, il verbo ‘sentire’, usato all’imperfetto, esprime il permanere nel
presente dell’effetto della sensazione provocata sul poeta dal canto, e
dove gli agricoltori che cantano possono essere paragonati ad artisti che
non imitano, in questo caso, paesaggi, forme umane o animali, ma
imitano i ‘suoni’ della natura dando quasi l’impressione che le valli
risuonino di un suono proprio. L’inserimento dell’immagine poetica
riveste, dunque, uno scopo prevalentemente pratico che è quello di
esemplificare la sostanza delle affermazioni in prosa, essendo il canto
fonte di diletto per antonomasia, e non già imitazione, ma perfetta
espressione del sentimento umano.
Non necessariamente il Bello, ma la «natura qualunque» e quindi
anche il brutto, può diventare oggetto di rappresentazione nelle opere
d’arte151, in alcuni generi letterari come la commedia e la satira, e perfino
in poesia dove
150
Ibidem.
Circa l’opinione di Leopardi su questo punto si veda la lettera a Pietro Giordani del
30 maggio 1817, in cui a proposito di una prosa scritta da quest’ultimo «sopra un
dipinto del Camuccini e uno del Landi», il poeta si dilunga così: «in questa squisita
prosa ho trovato un’opinione sopra la quale avrei qualcosa che dire. Ella ricorda in
151
58
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
passioni morti tempeste ec. piacciono egregiamente benché sian brutte
per questo solo che son ben imitate […], perché l’uomo niente tanto odia quanto
la noia, e però gli piace di veder qualche novità ancorché brutta. Tragedia,
Commedia, Satira han per oggetto il brutto ed è una mera quistion di nome il
contrastar se questa sia poesia […]152.
Con questo passaggio, già in apertura dello Zibaldone, Leopardi
introduce il tema del ‘piacere della tempesta’, ricorrente nelle sue opere,
e presente nella sua memoria come ricordo di sensazioni provate nella
fanciullezza e nell’adolescenza che di tanto in tanto si riaffacciano e
tornano a far sentire i propri effetti153. Al recente convegno su Leopardi e
lo spettacolo della natura154 , Elio Gionanola si è soffermato su questo
tema con il suo intervento, Il topos della tempesta nell’opera
generale ai giovani pittori che senza stringente necessità della storia (e anche allora con
buon giudizio e garbo) non si dee mai figurare il brutto. Poiché, soggiunge l’ufficio
delle belle arti è pur di moltiplicare e perpetuare le imagini di quelle cose o di quelle
azioni cui la natura o gli uomini producono più vaghe e desiderabili: e quale consiglio o
qual diletto crescere il numero o la durata delle cose moleste di che già troppo abbonda
la terra? A me parrebbe che l’ufficio delle belle arti sia d’imitare la natura nel
verisimile. E come le massime astratte e generali che vagliono per la pittura denno
anche valere per la poesia, così secondo la sua sentenza, Omero Virgilio e gli altri
grandi avrebbero errato infinite volte, e Dante sopra tutti che ha figurato il brutto così
sovente. Perocchè le tempeste le morti e cento e mille calamità che sono altro se non
cose moleste anzi dolorosissime? E queste così innumerevoli pitture hanno moltiplicato
e perpetuato i sommi poeti. E la tragedia sarebbe condannabile quasi intieramente di
natura sua. Certamente le arti hanno da dilettare, ma chi può negare che il piangere il
palpitare l’inorridire alla lettura di un poeta non sia dilettoso? anzi chi non sa che è
dilettosissimo? Perché il diletto nasce appunto dalla maraviglia di vedere così bene
imitata la natura, che ci paia vivo e presente quello che è o nulla o morto o lontano.
Ond’è che il bello veduto nella natura, vale a dire nella realtà, non ci diletta più che
tanto, veduto in poesia o in pittura vale a dire in imagine, ci reca piacere infinito. E così
il brutto imitato dall’arte, da questa imitazione piglia facoltà di dilettare […]». (Ep 66,
corsivi miei).
152
Zib. 2.
153
M. Corti, in «Entro dipinta gabbia». Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di
Giacomo Leopardi, Milano, Bompiani, 1972, pp. XXVI-XXVII, evidenzia come fosse
«prediletto del primo Leopardi il motivo della tempesta, in cui si riflettono non solo
consuetudini letterarie dell’epoca […], ma intricati processi interiori localizzabili tra il
suo ben noto terrore infantile per i temporali e il tardo pensiero dello Zibaldone (7
agosto 1822, nn. 2601-2) sulla fecondità delle “convulsioni degli elementi” e sul piacere
che dà la “la calma dopo la tempesta”».
154
Leopardi e lo spettacolo della natura, Atti del Convegno Internazionale (Napoli 1719 dicembre 1998), a cura di V. Placella, Napoli, IUO e CNSL, 2000.
59
Superiorità della musica su tutte le arti
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leopardiana 155 , in cui, senza prescindere dall’importanza dei processi
psicologici e interiori del poeta, l’immagine della tempesta viene
analizzata oltre che nella prospettiva letteraria, anche in quella religiosa,
della tempesta come simbolo della punizione divina «secondo un
concetto di divinità che qui, come in tanti altri luoghi, risente della tipica
religiosità di casa Leopardi, conformata molto più alla terribilità
veterotestamentaria del Dio punitore che alla misericordia del Padre
celeste evangelico»156. Questo triplo nesso tra psicologia, letteratura, e
religione, che percorre l’immagine della tempesta, è delineato da
Gioanola attraverso numerosi luoghi dell’opera leopardiana: nei Canti
(La quiete dopo la tempesta e L’ultimo canto di Saffo); nell’Argomento di
elegia «di un innamorato in mezzo a una tempesta che si getta in mezzo
ai venti e prende piacere dei pericoli che gli crea il temporale […]» e
afferma «oh s’io potessi morire! Oh turbini ec. Ecco comincia a tonare:
venite qua, spingetelo o venti il temporale su di me. Voglio andare su
quella montagna dove vedo che le querce si movono e agitano assai. Poi
giungendo il nembo sguazzi fra l’acqua e i lampi e il vento ec. e partendo
lo richiami»157, nell’abbozzo del Primo delitto, o la vergine guasta, dove
la tristezza di una fanciulla per la perdita della verginità arriva a sfiorare
il «desiderio di morte»158, nel capitolo Del tuono del Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi dove leggiamo che «si teme generalmente il
tuono. Questo timore non è irragionevole come quello degli spiriti […].
Ho veduto dei fanciulli, che sapevano appena balbettare, darsi a piangere
di botto allo scoppiar violento di qualche tuono […]. Il fragore cessa di
essere un oggetto di spavento per il fanciullo cresciuto e capace di
qualche riflessione, il quale comincia a conoscere la causa dello strepito
E. Gioanola, Il topos della tempesta nell’opera leopardiana, ibidem, pp. 463-472.
Ibidem, p. 467.
157
Argomento di elegia, p. 336.
158
Il primo delitto o la vergine guasta, p. 349.
155
156
60
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
che ode» 159 e ancora «era naturale che i primi uomini, atterriti dalla
folgore, e vedendola accompagnata da uno strepito maestoso e da un
imponente apparato di tutto il cielo, la credessero cosa soprannaturale e
derivata immediatamente dall’Essere supremo» 160 , nell’Appressamento
della morte, dove, come ha osservato Neuro Bonifazi, l’immagine della
tempesta è associata alla figura del tiranno attraverso l’identificazione tra
il ‘punitore’ Padre divino e il padre terreno di Leopardi161; nei passi dello
Zibaldone, in cui il poeta descrive il suo timore infantile per i tuoni,
affermando che tuttavia esso «aveva un non so che di sì formidabile e
smanioso, che non può essere paragonato con verun altro sentimento
dispiacevole nell’uomo»162.
Ma al di là dell’origine e del significato profondo del topos della
tempesta, ciò che si vuole evidenziare in questa sede è soprattutto l’uso
artistico che ne fa Leopardi, teso a dimostrare come l’effetto finale
dell’opera d’arte dipenda esclusivamente dal livello di intensità della
sensazione che l’oggetto rappresentato è in grado di trasmettere a chi la
osserva, la legge o l’ascolta, che non si può discernere a priori il bello dal
brutto, poiché il giudizio sulla rappresentazione è subordinato, oltre che
alla qualità dell’imitazione, anche a numerosi fattori esterni quali il gusto,
la moda, l’epoca, percui non c’è da sorprendersi, ad esempio, se nel
clima romantico di primo Ottocento, ricco di echi ossianici, Leopardi si
trova ad affermare che
piace l’essere spettatore di cose vigorose ec. ec. non solo relative agli
uomini, ma comunque. Il tuono, la tempesta, la grandine, il vento gagliardo,
veduto o udito, e i suoi effetti ec. Ogni sensazione viva porta seco nell’uomo
159
Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, pp. 837-838.
Ibidem, p. 838.
161
Il riferimento di Gioanola è a N. Bonifazi, Leopardi. L’immagine antica, Firenze,
Editrice La Ginestra, 1981, pp. 52-54.
162
Zib. 531.
160
61
Superiorità della musica su tutte le arti
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una vena di piacere, quantunque ella sia per se stessa dispiacevole, o come
formidabile, o come dolorosa ec. Io sentiva un contadino, al quale un fiume
vicino soleva recare molti danni, dire che nondimeno era un piacere la vista
della piena, quando s’avanzava e correva velocemente verso i suoi campi, con
grandissimo strepito, e menandosi davanti gran quantità di sassi, mota ec. E tali
immagini, benché brutte in se stesse, riescono infatti sempre belle nella poesia,
nella pittura, nell’eloquenza ec. […]163.
Il tema della tempesta, insieme a quello della rimembranza,
dell’ubi sunt?, del piacere come cessazione del dolore, del “canto
lontanante”, della caducità delle cose umane, è un tema tipicamente
ossianico che ricorre abbastanza frequentemente nei Canti leopardiani,
non come effetto di una semplice suggestione, ma come risultato della
riflessione critica di Leopardi, che evolve da una fase di rifiuto, o a
malapena di tolleranza nei confronti di Ossian, fino ad un atteggiamento
opposto di assimilazione con i sommi modelli del passato, percui la
diffidenza iniziale si trasforma in una sostanziale ammirazione, oltre al
fatto che Leopardi avverte certamente una forte congenialità rispetto ad
Ossian. Le varie fasi del rapporto Leopardi-Ossian, e le considerazioni
della critica a riguardo, sono state dettagliatamente ripercorse da Luigi
Blasucci nel suo saggio Sull’ossianismo leopardiano 164 , in cui sono
analizzate «alcune tipiche presenze ossianiche, sia di situazioni che
linguaggio»
165
disseminate nella lirica leopardiana. Il riferimento
ossianico al piacere nella tempesta è indicato, ad esempio, in rapporto al
Frammento XXXVIII, estrapolato dall’Elegia II, dove Leopardi descrive
la disperazione di un uomo innamorato costretto a separarsi dalla donna
163
Zib. 2118, il corsivo è nel testo.
Il testo è quello dell’intervento tenuto al Convegno su Aspetti dell’opera e della
fortuna di Melchiorre Cesarotti (Gargnano del Garda 4-6 ottobre 2001), pubblicato a
cura di G. Barbarisi e G. Carnazzi, Milano, Cisalpino, 2002, tomo II, pp. 785-816, ora
anche in L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante, Venezia, Marsilio, 2003, pp.
199-235.
165
Ibidem, p. 210.
164
62
Superiorità della musica su tutte le arti
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amata che si accinge a partire, e che in preda a questo dolore si compiace
al pensiero di poter essere sommerso dalla tempesta; in Sopra il
monumento di Dante, dove «l’immagine delle “selve sibilanti” nella
descrizione dei caduti italiani nella campagna di Russia» può essere
considerato «un breve squarcio di ossianismo tempestoso (il vento che
fischia tra i rami di una selva) in un contesto esotico non propriamente
ossianico» e «quella del vento che soffia tra le piante […], è una delle
immagini predilette della fantasia leopardiana; ma è anche un’immagine
ricorrente nei poemi ossianici, soprattutto nella sua versione tempestosa
[…]»; in Nelle nozze della sorella Paolina dove il motivo ossianico della
tempesta si intreccia con il motivo virgiliano, soprattutto georgico, dei
venti e dei nembi; nell’Inno ai Patriarchi e in Alla Primavera o delle
favole antiche, dove «nell’evocazione “primaverile” s’insinua, a variarla
e a darle rilievo, qualche nota “tempestosa”». Meno frequenti sono,
invece, gli echi ossianici negli “idilli” composti tra il 1819 e il ’21,
reperibili nella Sera del dì di festa, attraverso il tema dell’ubi sunt?, e
nell’invocazione iniziale di Alla luna, nonché nell’utilizzo di espressioni
ossianiche presenti nell’Infinito.
Se tutte le altre arti per dilettare o per commuovere devono
riuscire ad imitare la natura, il più perfettamente possibile, solo la musica,
per magistero della natura, ha un potere di presa diretta sull’animo
umano e su quello degli animali, come si è già visto, perché il suo
privilegio legato al suono, che è un elemento naturale e primitivo, e che
la rende l’arte per eccellenza, superiore a tutte le altre arti, è proprio
quello di toccare le corde del sentimento umano in maniera immediata e
al di là di qualsiasi contingenza
63
Superiorità della musica su tutte le arti
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le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento,
ma la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona,
ch’ella trae da se stessa e non dalla natura, e così l’uditore […]166.
In modo più o meno analogo ebbe a esprimersi Gioacchino
Rossini, in una conversazione del 1836 con il suo amico e biografo
bolognese Antonio Zanolini che così ne riferisce il contenuto
l’espressione della musica non è quella della pittura e non consiste nel
rappresentare al vivo gli effetti esteriori delle affezioni dell’animo, ma
nell’eccitarle in chi ascolta. E questa è la possanza del linguaggio il quale
esprime e non imita […]167.
Nello stesso passo dello Zibaldone, Leopardi afferma la
superiorità della musica anche sulla poesia, perché la parola in poesia,
dovendosi applicare a degli oggetti non ha la stessa forza del suono nella
musica che, utilizzando solo se stesso come materia della propria arte,
produce un’impressione immediata e non secondaria, uguagliata, in
questo senso, solo dall’architettura. La ‘parola’, che il poeta distingue
nettamente dal ‘termine’, che serve solo per definire l’oggetto, è in grado
di arricchire la definizione anche con l’aggiunta di immagini, e tanto più,
la parola poetica, inserita negli espedienti artistici come la negligenza e la
sprezzatura, può darsi addirittura come artificio. La naturalezza, che
Leopardi ritiene indispensabile, e che ostinatamente ricerca come effetto
nella sua poesia, è una proprietà che appartiene alla musica, grazie alla
preminenza del suono che, per il poeta, significa anche preminenza della
semplicità e del modo di sentire e di poetare degli antichi: da qui il
rimpianto per i tempi in cui poesia e musica, poeti e musicisti erano la
stessa cosa prima «della funesta separazione della musica dalla poesia e
166
167
Zib. 79.
A. Zanolini, Biografia di G. Rossini, Bologna 1875, p. 287.
64
Superiorità della musica su tutte le arti
______________________________________________________________________
della persona di musico da quello di poeta, attributi anticamente, e
secondo la primitiva natura di tali, indivise e indivisibili»168.
168
Zib. 3229.
65
CAPITOLO SECONDO
L’IDEA DI MUSICA ATTRAVERSO ALCUNE LINEE
FONDAMENTALI DELLA POETICA LEOPARDIANA
§ II.1 POETICA DEL VAGO E INDEFINITO. GLI EFFETTI DELLA MUSICA
Si è già visto come, nella musica, Leopardi distingua l’armonia
dal suono, attribuendo a quest’ultimo l’effetto di presa immediata che
essa esercita sull’animo umano, si aggiunga che il privilegio del suono,
come elemento costitutivo della musica deriva, a sua volta, dall’efficacia
sensoriale posseduta dal suono in quanto elemento naturale e fisico
preesistente alla musica, il che porta all’individuazione di due livelli di
riflessione su cui si fonda l’idea leopardiana di musica: la musica in
quanto arte, formata dall’armonia e dal suono musicale che sono tra loro
inseparabili, e il suono naturale, ispiratore di sensazioni vago-indefinite
analoghe a quelle prodotte dalla vista, che agisce in maniera autonoma e
funziona come una sorta di substrato rispetto agli effetti che derivano
dalla musica.
L’armonia, o melodia, in musica, secondo Leopardi, dipende
dall’assuefazione, cioè dall’abitudine e dal gusto, conformati ad una
determinata successione dei suoni che viene percepita dall’orecchio del
popolo, ovvero dell’uditore inesperto, in maniera gradevole ma anche
abbastanza generica. Si tratta, infatti, di un piacere derivante da una
percezione sensoriale della musica ed estranea alla valutazione del
rispetto delle regole del contrappunto, le quali, proprio perché
appartengono ad una scienza o arte ben specifica e basata su leggi
66
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
universalmente valide, sono condivise da tutti gli intenditori nella stessa
maniera, indipendentemente dalla nazionalità o dall’epoca, al contrario
della musica popolare, la cui ricezione è fortemente influenzata dalle
variazioni di luogo e di tempo
e siccome le assuefazioni del popolo e dei non intendenti di musica,
circa le varie successioni de’ tuoni, non hanno regola determinata e sono diverse
in diversi luoghi e tempi, quindi accade che tali melodie popolari o simili al
popolare, altrove piacciano di più, altrove meno, ad altri più, ad altri meno,
secondo ch’elle agli uditori riescono o troppo note e usitate; o troppo poco; o
quanto conviene […]. Onde una medesima melodia musicale piacerà più ad uno
che ad altro individuo, più in una che in altra città, piacerà universalmente in
Italia, o piacerà al popolo e non agl’intendenti, e trasportata in Francia o in
Germania, non piacerà punto ad alcuno, o piacerà agl’intendenti e non al popolo
[…]169.
Ma, la stretta osservanza delle regole del «contrappunto che è al
musico quel che al poeta la grammatica» 170 , dice Leopardi, fissa la
composizione entro determinati schemi che privano la musica, come la
poesia, della naturalezza che da sola è capace di stimolare gli impulsi più
spontanei e vitali dell’animo umano, e di provocare quelle spinte del
cuore che commuovono e, in tal senso, accomunano gli tutti uomini.
Questo era l’effetto della poesia e della musica antiche171, che al tempo
169
Zib. 3209-3210.
Zib. 3217.
171
Nella formulazione dei suoi giudizi sulla musica, Leopardi tiene presente, come
fonte per le informazioni che riguardano la musica greca, il Voyage du jeune Anacharsis
en Grèce dell’abate settecentesco J. J. Barhtélemy. Altre fonti utilizzate dal poeta sono:
la rubrica «Belle Arti-Musica» dell’Antologia fiorentina che ospitò, nel tomo III, lugliosettembre 1821, p. 192, e tomo IV, p. 21, la recensione alla Storia generale della musica
di T. Busby e nel tomo IV, ottobre 1821, p. 40, le Opinioni intorno alla musica di
Gioacchino Rossini, che secondo la testimonianza di C. Rebora, Per un Leopardi mal
noto, in Omaggio a Clemente Rebora cit., pp. 71-72 «offriva notizie di fatto o meglio
delle idee di quel Rousseau musicista che forse - in quel tempo almeno - non fu dal
170
67
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
dei greci erano una cosa sola e che, nei primi decenni dell’Ottocento, il
poeta considera accomunate ormai soltanto in senso negativo, dalla
perdita della matrice iniziale e dallo sviamento dal fine principale che era
quello di «dilettare e muovere l’universale degli uditori e del popolo»172,
rispetto al quale, il passaggio dalla natura all’arte, nel caso della musica,
con la formulazione di vere e proprie teorie musicali, nel caso della
poesia, con l’irrigidimento delle proprie regole, ha prodotto una severa
selezione del pubblico, ridotto ad una cerchia strettissima di esperti, ed
un passaggio di appartenenza dalla ‘sfera del piacere’ a quella ‘del bello’,
inteso come ricerca della perfezione.
Ecco in che modo Leopardi illustra il processo di trasformazione
che ha interessato la poesia
la poesia bene spesso, lasciata la natura si rivolse per amore di novità e
per isfoggio di fantasia e di facoltà creatrice, a sue proprie e stravaganti e
inaudite invenzioni, e mirò più alle regole e a’ principi che l’erano stati
assegnati, di quello che al suo fondamento ed anima, ch’è la natura; anzi
lasciata affatto questa, che aveva ad essere l’unico suo modello, non altro
modello riconobbe e adoperò che le sue proprie regole, e su d’esso modello
gittò mille assurde e mostruose o misere e grette opere; laonde abbandonato
l’officio suo, ch’è il sopraddetto, sommamente stravolse e perdè, o per una per
altra parte, di quell’effetto che a lei propriamente ed essenzialmente si convenia
di produrre e di proccurare […]173;
e la musica, dall’origine ai suoi giorni
così l’arte musica nata per abbellire, innovare decentemente e variare e
per tal modo moltiplicare; ordinare, regolare, simmetrizzare o proporzionare,
Leopardi conosciuto altrimenti»; nonchè il romanzo Corinne ou l’Italie di M.me de
Staël.
172
Zib. 3226.
173
Zib. 3223.
68
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
adornare, nobilitare, perfezionare insomma le melodie popolari e generalmente
note e a tutti gli orecchi domestiche; com’ella ebbe assai regole e principii, e
d’altronde s’invaghì soverchiamente della novità, e dell’ambiziosa creazione e
invenzione, non mirò più che a se stessa, e lasciando di pigliare in mano le
melodie popolari per su di esse esercitarsi, e farne sua materia, come doveva per
proprio istituto; si rivolse alle sue regole, e su questo modello, senz’altro, gittò
le sue composizioni nuove veramente e strane: con che ella venne a perdere
quell’effetto che a lei essenzialmente appartiene, ch’ella doveva proporsi per
suo proprio fine, e ch’ella da principio otteneva, quando cioè lo cercava, o
quando coi debiti e appropriati mezzi lo proccurava […]174.
L’assuefazione particolare, per ciò che riguarda l’armonia e la
melodia nella musica, come nella poesia e nella prosa, respinge di solito
le novità che l’orecchio non è disposto ad accogliere perché non è
assuefatto; esiste, però, secondo Leopardi, un altro tipo di assuefazione,
l’assuefazione generale, la quale fa sì che l’udito possa introdurre
gradualmente, nel meccanismo della memoria sensoriale, nuove sequenze
di suoni producendo un nuovo adattamento. Se i principi su cui si fonda
la scienza musicale sono invariabili, tutto ciò che appartiene alla sfera
sensoriale è invece soggetto al potere dell’assuefazione che non si limita
soltanto ad accogliere gli stimoli provenienti dall’esterno e a stratificarli
dentro un ordine immutabile di concetti, ma è anche capacità di riadattare
la mente e i sensi a nuovi stimoli, come ha evidenziato Franco Brioschi,
essa «è anche disposizione attiva a sospendere le categorie abituali e
meccaniche per lasciare emergere nuove categorie, “contrarre” nuove
assuefazioni e abilità che diano nuova forma all’esperienza»175.
Leopardi esalta questa particolare facoltà dell’uomo, che si
sviluppa in maniera differente da individuo a individuo, conformandosi
174
Zib. 3223-3224.
F. Brioschi, La forza dell’assuefazione, in Lo Zibaldone cento anni dopo.
Composizione, edizioni, temi, Atti del X Convegno internazionale di studi leopardiani
(Recanati-Portorecanati 14-19 settembre 1998), Firenze, Olschki, 2001, p. 745.
175
69
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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sia ai fattori esterni contingenti, quali il gusto, le mode o le consuetudini
legate a una determinata tradizione, sia alle singolari caratteristiche o
limitazioni del soggetto che, grazie alla propria «conformabilità», è
capace di perfezionare le naturali attitudini e superare le proprie
inadeguatezze.
Così il poeta si esprime in proposito nello Zibaldone
somma conformabilità dell’uomo ec. Tutto in natura, e massime
nell’uomo, è disposizione ec. Straordinaria, ed, apparentemente, più che umana
facoltà e potenza che i ciechi, o nati o divenuti, hanno negli orecchi, nella
ritentiva,
nell’inventiva,
nell’attendere
nella
profondità
del
pensare,
nell’apprender la musica ed esercitarla e comporne ec. ec. […]176.
La polemica leopardiana, inaugurata con la Lettera ai compilatori
della Biblioteca Italiana in risposta a quella della baronessa di Staël
Holstein ai medesimi e con il Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica
177
, contro la “spiritualizzazione” 178 che ha reso la poesia
moderna «arida, astratta, ostentatamente psicologica, solo in apparenza
176
Zib. 3824, corsivi miei.
I due scritti con cui il giovane Leopardi partecipò alla polemica italiana tra classicisti
e romantici, composti rispettivamente nel 1816 e nel 1818, non furono, in realtà,
pubblicati dalle riviste a cui erano stati mandati, la «Biblioteca italiana» e «Lo
Spettatore italiano». Delle ragioni di questo rifiuto, «sistematico boicottaggio» nel
primo caso, motivi incerti, nel secondo, è resa testimonianza in S. Timpanaro,
Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1969, p. 18,
nell’Introduzione a G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica,
a cura di O. Besomi, D. Continati, P. De Marchi, G. Giambonini R. Martinoni, B. Moser,
P. Parachini, L. Pedroia, G. Pedrojetta, Bellinzoni, Edizioni Casagrande, 1988, pp. XIXVIII, e in L. Blasucci, Dall’imitazione al rimpianto. Leopardi tra «Il discorso di un
italiano intorno alla poesia romantica» e l’«Inno ai patriarchi», in Lo stormire del
vento tra le piante cit., p. 15, e nota 1.
178
G. Guglielmi, nel saggio Il Leopardi «mal noto» e la nuova poesia, in La musica in
Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit., p. 17, a proposito del concetto di
spiritualizzazione, così sottolinea il doppio significato che essa avrebbe avuto per il
poeta recanatese secondo l’interpretazione di Rebora: «da una parte significa
impoverimento dell’esperienza portato dalla civiltà, uniformazione dei costumi,
geometrizzazione della vita; dall’altra rimanda alla più acuta sensibilità dei moderni, a
una sensibilità cioè disincarnata, priva di “ogni acquisto di pienezza felice”».
177
70
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
popolare»179, si estende indirettamente, ma con la stessa intensità, anche
alla musica e ai musicisti moderni che «stante le circostanze della loro
vita, e delle moderne costumanze a loro riguardo, sono per corruzione,
per delizie, per mollezza e bassezza d’animo il peggio del peggior secolo
che nelle storie si conti […] la feccia della feccia delle generazioni
[…]»180. In sostanza, alla distinzione shilleriana fatta propria da Leopardi,
fra la poesia ingenua degli antichi e la poesia sentimentale dei moderni,
corrisponde, per analogia, la distinzione fra la musica popolare dei greci
che, grazie ai suoi ritmi naturali e mai appiattiti, era in grado di produrre
molteplici effetti su personalità diverse, basti come esempio il caso di
Alessandro Magno che «tutto il dì occupato nelle cose militari, era a
tavola mirabilmente affetto e dominato dalla musica […] di Timoteo»181,
e la musica tedesca «inutile a tutti fuori che agl’intendenti»182.
La denuncia di Leopardi riguarda la decadenza causata
dall’incivilimento: nel caso della poesia, che ha il suo fondamento in
natura, dal trionfo della ragione che ha svelato l’alone di mistero che
avvolgeva la natura e che, grazie al suo fascino, stimolava
l’immaginazione dei poeti antichi tanto da fargli attribuire un’anima agli
oggetti inanimati, dar voce agli animali, divinizzare i fenomeni naturali,
come il tuono, il lampo, il vento, l’eco, di cui avvertivano gli effetti senza
conoscere la causa; nel caso della musica, che ha il suo fondamento
nell’assuefazione, o ‘seconda natura’, dallo stile di vita moderno e dalla
corruzione dei gusti e dei costumi. Se la speranza di un recupero della
poesia antica, contemplata da Leopardi all’altezza del Discorso, è
destinata a dissolversi nel poeta maturo che vede nella poesia
179
G. Tellini, Leopardi, Roma, Salerno, 2001, p. 78.
Zib. 3228.
181
Zib. 3425.
182
Zib. 3226.
180
71
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
sentimentale la sola poesia adatta ai moderni183, per quanto riguarda la
musica, invece, l’auspicato «ravvicinamento al popolare» che «non solo è
buono, ma necessario, e primo debito della moderna musica» 184 , si
concretizza nella musica di un compositore come Rossini, le cui melodie
«totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo»185
riscuotono grande successo presso un pubblico che oggi potremmo
definire ‘di massa’, ma non restano immuni neanche alle critiche
«degl’intendenti circa il comporre di Rossini, e generalmente circa il
modo della moderna composizione, la quale da tutti è sentita essere piena
di melodia più che le antiche e classiche, e da chiunque sa è giudicata
non reggere in grammatica ed essere scorrettissima e irregolare. Tutto ciò
non per altro accade se non perché gl’intendenti giudicano, e giudicando
sentono [….] secondo i principi e le norme della loro scienza; e i non
intendenti sentono e sentendo giudicano secondo le loro assuefazioni
relative al proposito»186.
In una lettera del 26 gennaio 1823, così scrive al poeta il fratello
Carlo, dopo aver assistito alla rappresentazione della Cenerentola di
Rossini187
adesso ho conosciuto Rossini: già fra noi un’impressione forma epoca
più di un avvenimento: sicchè non mi vergogno di parlarti del gran piacere che
mi ha dato questa Musica, che è arrivata a carpirmi le lagrime […]188.
183
Sulla maturazione della coscienza leopardiana circa la possibilità di un recupero
della poesia antica, dalla fiduciosa speranza del giovane poeta esperto nella traduzione
dei classici, che ritiene possano essere imitati dai moderni attraverso l’esercizio
dell’immaginazione, alla sostanziale negazione, nel pensiero zibaldoniano dell’ 8 marzo
1821, di quanto ritenuto possibile in precedenza, si veda il saggio di L. Blasucci,
Dall’imitazione al rimpianto cit., pp. 15-30.
184
Zib. 3226.
185
Zib. 3209.
186
Zib. 3218, corsivi miei.
187
L’opera, composta su libretto di Jacopo Ferretti e ispirata all’omonima fiaba di
Charles Perrault, fu rappresentata per la prima volta a Roma, nel Teatro Valle, il 25
gennaio 1817.
188
Ep. 507.
72
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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Il commento di Carlo sembra non lasciare dubbi circa il livello di
popolarità raggiunto da Rossini, ma, come generalmente accade ai
personaggi che fanno epoca, il successo attira anche dure critiche, che
non si limitano all’attività professionale ma investono gli aspetti più
intimi della persona, così, secondo la testimonianza di Radiciotti «tra la
numerosa schiera dei grandi musicisti di ogni tempo è ben difficile
trovarne uno che, come uomo, sia stato dai biografi e giornalisti più
calunniato di Gioacchino Rossini. Non c’è vizio, di cui non l’abbia
gratificato la malignità umana, incoraggiata dal silenzio di quel Grande
che, per amore della propria tranquillità, o per naturale riservatezza,
rifuggendo dalle polemiche, non si decise mai a smentire pubblicamente
le fiabe che si propalavano, e non sempre in buona fede, sul suo conto»189.
Si spendono troppe parole sui grandi uomini, oppure, su di loro scende il
silenzio, quell’«obblio» che, secondo Leopardi della Ginestra, «preme
chi troppo all’età propria increbbe»190.
Cenerentola, l’opera di Rossini che aveva strappato le lacrime a
Carlo, era in realtà un’opera comica, e come tale, avrebbe dovuto destare
allegria, ilarità e altre sensazioni diverse dalla commozione, tuttavia, se
Carlo afferma di non vergognarsi delle lacrime suscitategli dall’opera, la
sua esperienza personale non ha niente di anomalo, anzi, è comunissima
fra i moderni uditori e trova riscontro in un passo dello Zibaldone, dove
Leopardi attribuisce la causa alla generale tendenza al malinconico
propria del suo secolo
qual uomo civile udendo, eziandio la più allegra melodia, si sente mai
commuovere ad allegrezza? Non dico a darne segno di fuori, ma si sente pure
internamente rallegrato, cioè concepisce quella passione che si chiama
veramente gioia? Anzi ella è cosa osservata che oggidì qualunque musica
189
G. Rossini, Il barbiere di Siviglia: guida attraverso la commedia e la musica, a cura
di G. Radiciotti, Milano, Bottega di poesia, 1923, pp. 20-21.
190
La ginestra, p. 42.
73
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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generalmente, anche non di rado le allegre, sogliono ispirare e muovere una
malinconia, bensì dolce, ma ben diversa dalla gioia; una malinconia ed una
passion d’animo che piuttosto che versarsi al di fuori ama anzi per lo contrario
di rannicchiarsi, concentrarsi, e restringe, per così dire, l’animo in se stesso
quanto più può, e tanto più quanto ella è più forte, e maggiore l’effetto della
musica; un sentimento che serve anche di consolazione delle proprie sventure,
anzi n’è il più efficace e soave medicamento, ma non in altra guisa le consola,
che col promuovere le lagrime, e col persuadere e tirare dolcemente ma
imperiosamente a piangere i propri mali anche, talvolta, gli uomini i più indurati
sopra se stessi e sopra le lor proprie calamità. In somma, generalmente parlando,
oggidì, fra le nazioni civili, l’effetto della musica è il pianto, o tende al pianto
[…]191.
«La musica […] consta inseparabilmente di suoni e di armonia, e
l’uno senza l’altro non è musica»192, ma l’armonia, rispetto al suono che
è l’elemento primitivo, ovvero la materia su cui la musica si fonda, è
un’arte e, in quanto tale, elabora e compone i suoni secondo l’idea che
intende rappresentare o il sentimento che desidera esprimere, tenendo
naturalmente conto delle assuefazioni, da questo deriva, all’interno della
musica, la distinzione fondamentale tra le due entità che la compongono,
una distinzione che si manifesta attraverso gli effetti differenti prodotti
dal suono e dall’armonia
l’effetto naturale e generico della musica in noi, non deriva
dall’armonia, ma dal suono, il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco […]193.
In sostanza, l’effetto prodotto dal suono sull’animo umano non ha
altra intermediazione che l’udito, laddove l’efficacia dell’armonia
191
Zib. 3310-3311, i corsivi sono nel testo.
Zib. 1934.
193
Ibidem.
192
74
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
dipende dall’imitazione, perché, mentre il suono agisce come elemento
naturale, vale a dire nella stessa maniera in cui agisce un paesaggio sulla
vista e, quindi, immediatamente sull’animo, l’armonia agisce come
agirebbe lo stesso paesaggio rappresentato su un quadro, producendo
effetti secondari e ascrivibili alla sfera del bello, non a quella del piacere,
esattamente come avviene per tutte le altre arti.
Il rapporto tra armonia e suono è stato interpretato in chiave
filosofica, com’è noto, agli inizi del secolo scorso, da Clemente Rebora
nel suo saggio Per un Leopardi mal noto194, dove l’autore, riprendendo le
intuizioni a cui era pervenuto Arturo Graf, attraverso l’analisi di alcune
liriche, nel suo saggio Foscolo, Manzoni, Leopardi
195
, sull’idea
leopardiana di musica, in particolare, per ciò che concerne il legame tra
la poesia dei Canti e alcuni nuclei meditativi dello Zibaldone (prima
ancora che fosse pubblicato), estende il significato di questo legame al
rapporto tra filosofia e poesia in Leopardi, tra «meditazione» e «canto»,
per dirla con un titolo abbastanza recente di Cesare Galimberti 196 .
L’aspetto ‘mal noto’ a cui si riferisce Rebora nel titolo del suo saggio,
nato come tesina che doveva accompagnare, secondo l’usanza del tempo,
la tesi principale di laurea all’Accademia scientifico letteraria di Milano,
intitolata Gian Domenico Romagnosi nel pensiero del Risorgimento197, è
rappresentato dai pensieri sulla musica espressi da Leopardi nello
C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, in «Rivista d’Italia», anno XIII, fasc. IX,
settembre 1910, pp. 373-449, poi nell’opera collettiva Omaggio a Clemente Rebora,
Bologna, M. Boni Editore, 1971, pp. 69-165, ora in C. Rebora, Per un Leopardi mal
noto, a cura di L. Barile, Milano, Libri Scheiwiller, 1992, e in Idem, Arche di Noè, a
cura di C. Giovannini, Milano, Jaca Book, 1994, pp. 63-124.
195
A. Graf, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Torino, Loescher, 1898. Nuova edizione,
Torino, Chiantore, 1945, pp. 185-442. Le liriche leopardiane prese in esame da Graf
sono: Aspasia, Sopra il ritratto di una bella donna, A Silvia, La vita solitaria, La sera
del dì di festa, Le ricordanze, Alla sua donna e Il tramonto della luna.
196
C. Galimberti, Leopardi: meditazione e canto, in G. Leopardi, Poesie e prose, a cura
di R. Damiani e M. A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Milano, «I Meridiani»
Mondadori, 1987, pp. XIII-LXXIX.
197
C. Rebora, G. D. Romagnosi nel pensiero del Risorgimento, «Rivista d’Italia», XIV,
novembre 1911.
194
75
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
Zibaldone 198 . Dei sei capitoli che formano il saggio, il primo, oltre a
indicare le fonti teoriche che sono alla base della meditazione
leopardiana sulla musica, passa in rassegna le occasioni d’ascolto e i
titoli delle opere a cui il poeta ha assistito a Recanati, a Roma, a Bologna
e infine a Napoli; mentre il secondo, che contiene già le tracce su cui si
muoverà lo sviluppo dei capitoli successivi del lavoro, è imperniato
principalmente sulla distinzione tra armonia e suono, e non c’è da stupirsi
se, nel riconoscimento leopardiano di una «seconda natura», prodotta
dall’assuefazione, che si affianca alla «natura» principale e autentica,
Rebora, «malato d’assoluto», veda incarnati i due estremi filosofici, il
relativo e l’assoluto che convergono nella musica, l’unica «forma
artistica che sia in grado di comporre la frattura fra il particolare e
l’universale, fra corpo e pensiero e di sanare il divorzio fra le parole e le
cose, del quale la prima generazione del Novecento prese coscienza in
modo drammatico»199.
Il primato della musica su tutte le arti è basato interamente
sull’effetto del suono, ma Leopardi tiene a specificare che
Per l’interpretazione reboriana dei pensieri di Leopardi sulla musica si vedano: R.
Pistellato, Scheda sul Leopardi del primo Rebora, in «Primo Quaderno di filologia,
lingua e letteratura italiana», Padova, 1979, pp. 143-165; D. Rondoni, Rebora e
Leopardi, in “Avvenire”, Milano, 8 marzo 1986; F. Centofanti, Leopardi in Rebora, in
Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di A. Frattini, G. Galeazzi, S. Sconocchia,
Roma, Studium, 1990, pp. 439-451; Introduzione a C. Rebora, Per un Leopardi mal
noto, a cura di L. Barile cit., 1992, pp. 9-30; S. Magherini, Per la memoria leopardiana
di Rebora, in «Studi Italiani», 8, 1992, pp. 77-88, L. Barile, Il Leopardi di un Rebora
“malato d’assoluto”, in Poesia e spiritualità in Clemente Rebora, a cura di R. Cicala e
A. Muratore, Novara, Interlinea, 1993, pp. 131-134; T. Salari, Leopardi, Rebora e la
musica, in «Microprovincia», 34, gennaio-dicembre 1996, pp. 349-365; A. Girardi,
Rebora, Leopardi e la musica, in Stilistica, metrica e storia della lingua. Studi offerti
dagli allievi a Pier Vincenzo Mengaldo, a cura di T. Matarrese, M. Praloran, P. Trovato,
Padova, Antenore, 1997 (ora anche in A. Girardi, Lingua e pensiero nei Canti di
Leopardi, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 101-122); A. Folin, Il Leopardi di Rebora tra
contingente ed eterno, in Leopardi e l’imperfetto nulla, Venezia, Marsilio, 2001, pp.
115-124; G. De Santi - E. Grandesso (a cura di), La musica in Leopardi nella lettura di
Clemente Rebora cit.; si veda, inoltre, R. Cicala e V. Rossi, Bibliografia reboriana, con
Presentazione di M. Guglielminetti, Firenze, Olschki, 2002.
199
L. Barile, Il Leopardi di un Rebora “malato d’assoluto” cit., p. 133.
198
76
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
non è [….] propriamente neppure il suono o la voce, cioè la sensazione
dell’orecchio, che la natura ha fatto capace d’influire piacevolmente sull’udito
umano, ma solo certi particolari suoni, ed oscillazioni di corpi sonori […]200.
È chiaro che il suono a cui il poeta fa riferimento è il suono
musicale, un suono articolato che si avvia a diventare melodia, sono
praticamente le note da cui nasce la musica, ed è un suono differente da
quello naturale e inarticolato rappresentato dal tuono o dal vento, ma
anche dalla voce di un bambino che non è ancora in grado di modulare i
suoni secondo il codice del linguaggio, come quella descritta nei Ricordi
d’infanzia e di adolescenza
sento una voce di donna che non conoscea né vedea ec. […] sentivo un
bambino che certo dovea essere in fasce e in braccio alla donna e suo figlio
ciangottare con una voce di latte suoni inarticolati e ridenti […]201.
Basandosi sul privilegio legato all’immediatezza del suono,
Leopardi ammette che anche gli animali possano essere in qualche modo
attratti dalla musica, ovvero dalle stesse successioni di suoni che attirano
gli uomini, ma tale possibilità non può essere avvalorata dal paragone
con gli effetti prodotti dal suono sull’uomo, perché si tratta di due specie
distinte e dotate di organi e modi di sentire differenti tra loro. Già fra gli
uomini, infatti, la disposizione ad accogliere i suoni è molto differente e
soggettiva, dunque è difficile ipotizzare che le stesse successioni di suoni
che dilettano gli uomini possano dilettare nella stessa maniera tutti gli
animali indistintamente202, tutt’al più, riconosce il poeta, se la distinzione
200
Zib. 1748.
Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 363, corsivi miei.
202
Cfr. Zib. 1786: «io credo ancora che molti uomini o per infermità o per natura ec. ec.
non solo non sieno dilettati, ma decisamente disgustati o da tutti o da alcuni de’ suoni o
voci piacevoli al comune degli uomini. Ciò accade appunto in molte specie di animali
organizzate altrimenti che la nostra, sebbene altre specie organizzate analogamente alla
201
77
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
«non sarà molto grande o almeno avrà qualche rapporto con noi in questo
punto, il suono farà colpo in quei tali animali, come leggiamo dei delfini
e dei serpenti (vedi Chateubriand)»203. A “fare colpo” su questi animali è
il suono musicale che in potenza è melodia, ma contiene in parte la
naturalezza del puro suono che agisce in maniera incondizionata, mentre
l’idea di armonia che è relativa, ammesso che possa essere compresa
dagli animali, certamente non può essere intesa secondo i nostri canoni,
così:
non è la musica come arte, ma la sua materia cioè il suono che farà
effetto in certe bestie. E infatti come vogliamo pretendere che le bestie gustino
la nostra armonia, se tanti uomini si trovano che non la gustano? Parlo di molti
individui che sono tra noi, e parlo di nazioni, come dei turchi che hanno una
musica che a noi par dissonantissima e disarmonica. Eccetto il caso che qualche
animale si trovasse in disposizione così somigliante alla nostra, che nella
musica potesse sentire se non tutta almeno in parte l’armonia che noi ci
sentiamo, vale a dire giudicare armonico quel che noi giudichiamo […]204.
Un discorso analogo a quello sull’armonia può essere applicato
anche al canto che, per i poeti antichi, possedeva il potere e il privilegio
di ammaliare perfino i serpenti, infatti, ricorda Leopardi
anticamente si diceva excantare, ora incantare i serpenti e frigidus in
pratis
CANTANDO
rumpitur anguis dice Virgilio, ma son favole che non hanno
esperienze moderne a favore. D’Arione si legge che innamorò i delfini col
suono. Chateaubriand racconta di quel serpente ammansato dal suono ec. ec.
nostra gradiscano detti suoni ec. Molto più credo, anzi son quasi certo di questo, rispetto
alle diverse armonie, ed al deciso disgusto ed effetto disarmonico ch’elle producono in
certi uomini e in certe specie di animali […]».
203
Zib. 156.
204
Ibidem.
78
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
Del resto i poeti dicevano favolosamente che le bestie si fermassero a udire il
canto di questo o di quello […]205.
Ma i poeti antichi generalizzavano un fenomeno osservato magari
sporadicamente, e creavano le loro favole, enfatizzando l’effetto che il
canto umano poteva avere su alcuni animali, senza interrogarsi sulle
differenti modalità di ricezione dei loro organi rispetto ai nostri e, quindi,
sulla relatività del piacere nei confronti del canto, basti pensare al canto
degli uccelli di cui, certamente, l’uomo non può intendere l’intrinseca
armonia, per comprendere come, a loro volta, gli uccelli e gli altri
animali non siano in grado gustare l’armonia né il canto umano.
Se «la natura […] è composta, conformata e ordinata ad un effetto
poetico»206, che i poeti antichi esprimevano grazie all’uso della fantasia e
dell’immaginazione, con una semplicità concettuale e stilistica, che si è
tradotta in ricercatezza e astruseria nella poesia moderna, Leopardi
considera il suono come legame autentico tra il poeta e la natura,
suscitatore di immagini e di effetti poetici, perché, prima ancora di essere
musica, e quindi arte, il suono è rumore «sussurro indistinto o stridore
immodulato delle cose»207, è voce che conserva il fascino dell’arcano e
205
Zib. 158.
Zib. 3241.
207
Questa è la formula adoperata da C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, in Arche di
Noè cit., p. 72, per distinguere il rumore inteso come forma primitiva del suono,
dall’armonia. E. Capodoglio, nel suo saggio dal titolo Il puro suono, in La musica in
Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit., pp. 91-104, si sofferma sul rapporto tra
suono e rumore, sulla “dissonanza”, ovvero «un rumore che col tempo diventa musica»
e, citando gli studi di Chailley, Les passions de J. S. Bach, 1963, e di M. Imberty, Suoni
Emozioni Significati, a cura di L. Callegari e J. Tafuri, Bologna, Clueb, 1986, pp. 38-39,
conclude che «la musica ci dà senso di naturalezza, e quindi di bello, in sintonia con
l’epoca acustica che viviamo mentre il rumore immediato ha esso paradossalmente
dell’artificioso. Il puro suono di cui parla Leopardi esprime perciò ancora, fino al 1823,
una fiducia nella consonanza vocale degli uomini, e nell’attrattiva naturale umana,
nell’armonia implicita delle voci umane e dei suoni sociali, più resistente al giudizio che
nelle sue riflessioni sulla lingua letteraria. Erano i tempi in cui non esisteva
l’inquinamento acustico, anche se Schopenhauer perdeva ogni concentrazione al crudele
schiocco di frusta del vetturino sul cavallo. Mentre nella Milano del decollo industriale,
Rebora si misura proprio sul confine tra suono e rumore, nella dissonanza tra vita
206
79
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
continua ad alimentare l’immaginazione dei poeti, nonostante la ragione
e la scienza ce ne abbiano consegnato un’origine del tutto fisica.
E di questa origine, il poeta è ben consapevole fin dal Saggio
sopra gli errori popolari degli antichi, dove la «segreta simpatia per il
fascino di quelle fantasie primitive»208, come la definisce Blasucci, non
implica certo la condivisione dei principi mitici e esoterici che le
ispiravano, ma è semplicemente frutto della generale ammirazione
leopardiana nei confronti del mondo antico e della capacità, propria solo
degli antichi, di guardare la natura così come si mostrava ai loro occhi e
di rappresentare gli effetti delle cose nella loro globalità senza sezionarle
in varie parti per analizzarne le cause. Leopardi sa che quei suoni, il
tuono, la folgore, il vento, che negli antichi destavano un timore
reverenziale, non rappresentano affatto la voce della divinità,
esattamente come tutti gli altri enti della natura che essi consideravano
animati e che, in realtà, non lo sono, ma non vuole rinunciare ugualmente
al piacere di credere in quelle ‘favole antiche’ senza le quali la poesia
non sarebbe mai nata, così come il suo pensiero maturo non rinuncerà
alla perenne difesa di una poeticità fondata sull’uso dell’immaginazione.
Così si esprimerà, infatti, il poeta in un passo dello Zibaldone
datato 22 agosto 1823
e siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi
conoscere ciò che è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare
e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni
sì generali, sì anche particolari, della natura. Essi soli possono meno
imperfettamente contemplare, conoscere, abbracciare, comprendere il tutto della
quotidiana, cittadina e utopia cosicché, armonizzandole poi nei suoi metri e ritmi,
diventa testimone essenziale di una storia della musica poetante, proprio perché ricerca
una natura perenne per via di civiltà attuale […]» (pp. 95-96).
208
L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante. Parabola di un’immagine, in Lo
stormire del vento cit., p. 39.
80
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
natura, il suo modo di essere, di operare, di vivere, i suoi generali e grandi
effetti, i suoi fini […]209.
Nella
prospettiva
di
una
poesia
che
attraverso
l’uso
dell’immaginazione sappia recuperare i grandi modelli del passato e
riproporne la naturalezza e la grazia, gli “errori popolari” che riguardano,
in questo caso, i fenomeni acustici, diventano espedienti poetici
finalizzati alla creazione dell’effetto vago-indefinito tipico della
maggiore poesia leopardiana. Il vento, ad esempio, che veniva
considerato dagli antichi come «percezione di una voce del Lontano»210,
come segno tangibile della presenza divina, poiché essi osservavano gli
effetti, gli «alberi agitarsi e crollare, mentre per l’aria udivasi un soffiar
veemente e un romor forte», senza comprendere le cause, per Leopardi,
senza voler attribuire un sovrassenso a certi suoi versi o porre eccessiva
enfasi su annotazioni come «voce e canto dell’erbe rugiadose in sul
mattino ringrazianti e lodanti Iddio» 211 , non ha valenza religiosa o
metafisica, come non ce l’hanno il suono, la voce, il canto, ma
rappresenta semplicemente un’immagine poetica che compare nei Canti
in due versioni, una «lene» e una «tempestosa». All’immagine lene del
vento che stormisce o mormora o sussurra, secondo l’analisi di
Blasucci212, appartengono i vv. 45-46 (e l’atro / bosco mormorerà fra le
alte mura) di A un vincitore nel pallone, i vv. 30-31 (e non de’ faggi / il
murmure saluta) dell’Ultimo canto di Saffo, i vv. 25-26 (l’errante / per li
giovani prati aura contempli) dell’Inno ai Patriarchi; all’immagine
tempestosa del vento che muggisce o fischia, appartengono il v. 25 (il
vento
muggia
nella
foresta)
del
209
Frammento
XXXVIII
incluso
Zib. 3242-3243.
M. Orcel, Il suono dell’infinito. Saggi sulla poetica del primo Romanticismo italiano
da Alfieri a Leopardi, Napoli, Liguori, 1993, p. 96.
211
Zib. 55.
212
Cfr. L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante. Parabola di un’immagine, in Lo
stormire del vento cit., pp. 34-37.
210
81
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
______________________________________________________________________
nell’appendice dei Canti, i vv. 154-155 (Di lor querela il boreal deserto /
e consce fur le sibilanti selve) di Sopra il monumento di Dante, i vv. 4445 (la secreta / nelle profonde selve ira de’ venti) dell’Inno ai Patriarchi.
Nei paragrafi dedicati alla ‘teoria del piacere’, Leopardi afferma
che la «facoltà immaginativa» che «può concepire le cose che non sono,
e in un modo in cui le cose reali non sono» 213 , sopperisce al vuoto
lasciato nell’uomo dal desiderio del piacere a cui l’anima tende
incessantemente e, non potendolo mai abbracciare, perché la sua
estensione e la sua durata sono infinite, si abbandona alle sensazioni
vago-indefinite che, in qualche modo, la appagano.
In un passo dello Zibaldone datato 4 gennaio 1821, il poeta così
illustra il rapporto che intercorre tra infinito e indefinito:
non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche
l’immaginativa è capace dell’infinito, o di concepire infinitamente, ma solo
dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perché
l’anima non vedendo i confini, riceve l’impressione di una specie d’infinità, e
confonde l’indefinito coll’infinito, non però comprende né concepisce
effettivamente nessuna infinità […]214.
Le sensazioni vago-indefinite che generano gli “effetti di infinito”
nella poesia leopardiana, appartengono a due categorie, quella ‘visiva’ e
quella ‘uditiva’, descritte dettagliatamente nello Zibaldone, dove a partire
dal principio ispiratore della ‘teoria del piacere’, il poeta sostiene che il
desiderio di infinito connaturato all’uomo, trova la sua espressione e
dimensione ideale in ciò che non ha confini e lascia spazio
all’immaginazione, o viceversa, di fronte ad un impedimento che
sollecita la curiosità verso ciò che può esserci ‘oltre’
213
214
Zib. 167.
Zib. 472.
82
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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qualunque cosa ci richiama l’idea dell’infinito è piacevole per questo,
quando anche non per altro. Così un filare o un viale d’alberi di cui non
arriviamo a scoprire il fine. Questo effetto è come quello della grandezza, ma
tanto maggiore quanto questa è determinata, e quella si può considerare come
una grandezza incircoscritta. Ci piacerà anche più quel viale quanto sarà più
spazioso più se sarà scoperto, arieggiato e illuminato, che se sarà chiuso al di
sopra, o poco arieggiato, ed oscuro, almeno quando l’idea di una grandezza
infinita che ci deve presentare deriva da quella grandezza che cade sotto i nostri
sensi, e non è opera totalmente dell’immaginazione, la quale come ho detto, si
compiace alcune volte del circoscritto, e di non vedere più che tanto per poter
immaginare ec. […]215.
Qualsiasi situazione dalla quale trapeli una visione indistinta delle
cose, è direttamente proporzionale allo sviluppo dell’immaginazione,
dunque, e delle sensazioni indefinite che derivano dal suo uso: una torre
antica, sebbene occupi uno spazio circoscritto, produce l’idea di infinito
perché «il concepire che fa l’anima di uno spazio di molti secoli, produce
una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima
si perde» 216 ; «le parole lontano, antico e simili sono poeticissime e
piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e
confuse»217; l’immagine di una campagna «arditamente declive in guisa
che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle» o «di un filare
d’alberi, la cui fine si perda di vista»218; «la luce del sole o della luna,
veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della
luce»219.
La stessa cosa vale per le sensazioni pertinenti all’udito:
215
Zib. 185.
Zib. 1429.
217
Zib. 1789.
218
Zib. 1431.
219
Zib. 1744.
216
83
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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quello che altrove ho detto sugli effetti della luce degli oggetti visibili,
in riguardo all’idea di infinto, si deve applicare parimente al suono, al canto, a
tutto ciò che spetta all’udito […]220 .
Il suono produttore di effetti vago-indefiniti nella poesia
leopardiana, prima di diventare suono musicale e canto, è suono naturale,
è lo «stridore notturno delle banderuole traendo il vento»221, è l’abbaiare
del cane di notte, il rumore delle ruote del carro, il tintinnio dei sonagli,
che compaiono fin dal primo pensiero dello Zibaldone
palazzo bello. Cane di notte dal
casolare, al passar del viandante.
Era la luna nel cortile, un lato
Tutto ne illuminava, e discendea
Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…
Nella (dalla) maestra via s’udiva il carro
Del passegger, che stritolando i sassi
Mandava un suon, cui precedea da lungi
Il tintinnìo de’ mobili sonagli […]222.
È il «suono della natura» e delle «opere umane», è il «suono della
voce della donna amata», ma anche «suono delle armi e del tempo»223, è
il «puro suono» che per Leopardi, secondo l’analisi di Enrico Capodaglio,
«consente […] l’incontro tra gli uomini e la natura» e «già l’ascolto dei
suoni, sia pure non armonizzati e non messi in melodia, accende
fortemente l’immaginazione: il verso della rana rimota alla campagna ma
220
Zib. 1927-1928.
Zib. 47.
222
Zib. 1.
223
Cfr. E. Capodaglio, Il puro suono, in La musica in Leopardi nella lettura di
Clemente Rebora cit., pp. 93-94.
221
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L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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anche la “voce dei cani” (Appressamento canto I, 5) già possono agire, al
di fuori del bello civile e convenzionale»224.
Le onde del suono che si allontana «appoco appoco» dal punto in
cui nasce, come una serie di sfere concentriche che si allontanano dal
centro, giungendo all’udito in modo via via più confuso e indistinto
fanno sì che anche l’attenzione di ascolta si allenti, lasciando spazio
all’immaginazione o al ricordo. E nella stessa maniera in cui «il suono,
gli odori, i raggi luminosi si estinguono a una certa distanza dal centro
della sfera»225, se il centro è rappresentato dal tempo, si perdono anche i
contorni reali degli oggetti e degli avvenimenti ai quali subentra la
rimembranza
un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna per
bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla.
La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se,
sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel
sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, qual ch’egli sia, non
può essere poetico, in uno o in un altro modo, si trova sempre consistere nel
lontano, nell’indefinito, nel vago […]226.
224
Ibidem, p. 95.
Zib. 150.
226
Zib. 4426.
225
85
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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§ II.2 ANTICHITÀ E PRESENTE. IL POTERE EVOCATIVO DELLA MUSICA
La speme che rinasce in un col giorno.
Dolor mi preme del passato, e noia
Del presente, e terror de l’avvenire
(Zib. 80)
Secondo ciò che si è appena affermato, nel pensiero di Leopardi,
la lontananza appare come una dimensione ideale da cui fluiscono tutte le
sensazioni vago-indefinite che sono alla base della sua poesia, sia che si
tratti di lontananza fisica, una campagna vista da lontano o un filare
d’alberi di cui per la lontananza non si scorge più l’origine, di un rumore,
di un suono, di un canto che per la lontananza giunge debole all’orecchio
o si diffonde nell’aria favorito dal silenzio della notte, sia che si tratti di
lontananza temporale, nel passato o nel futuro, di oggetti e luoghi
veduti 227 o esperienze vissute che riaffiorano nel ricordo, oppure, di
attese, eventi, immagini di persone, luoghi e cose sconosciute, che si
incorporano nella speranza
il passato, a ricordarsene, è più bello del presente, come il futuro a
immaginarlo. Perché? Perché il solo presente ha la sua vera forma nella
concezione umana; è la sola immagine del vero; e tutto il vero è brutto […]228.
227
Per effetto di «un ingannevole gioco prospettico», come è stato definito da C.
Galimberti, Fanciulli e più che uomini, in Cose che non son cose, Venezia, Marsilio,
2001, p. 213, il ricordo dei luoghi visti, torna alla memoria sempre deformato, secondo
la descrizione leopardiana, nel Pensiero XXX: «come suole il genere umano,
biasimando le cose presenti, lodare le passate, così la più parte de’ viaggiatori, mentre
viaggiano, sono amanti del loro soggiorno nativo, e lo preferiscono con una specie d’ira
a quelli dove si trovano. Tornati al luogo nativo, colla stessa ira lo pospongono a tutti i
luoghi dove sono stati» (Pensieri, p. 224).
228
Zib. 1521-1522.
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L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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Al lontano si contrappone il vicino, dunque il presente, che è un
tempo pragmatico e, in quanto tale, implica il prevalere della ragione
nell’individuo che affronta quotidianamente i suoi problemi personali,
riflette o interviene sulle problematiche sociali e sugli avvenimenti che
determinano il corso della storia, medita sul motivo del male e del dolore
che affliggono incessantemente l’umanità. Il presente è tempo dell’analisi
e dell’esperienza concreta nel suo farsi che è quasi sempre dolore, è un
tempo impoetico229 e assolutamente inadatto all’immaginazione che
spinge sempre verso ciò che non cade sotto i sensi. Quindi verso il
futuro e la posterità, perocché il presente è limitato e non può contentarla, è
misero ed arido, ed ella si pasce di speranza, e vive promettendo sempre a se
stessa […]230.
Nello stesso passo dello Zibaldone, Leopardi si sofferma
polemicamente ad osservare come nel passaggio dall’antico al moderno,
insieme all’immaginazione, anche l’intensità della speranza si sia
affievolita negli uomini, così come le grandi passioni, primo fra tutte
«l’amor della gloria» istigatore delle grandi azioni che sarebbero servite a
mantenere vivo il loro ricordo presso i posteri. Gli antichi, a differenza
dei moderni, erano molto lungimiranti, come dimostrano le loro grandi
Così si esprime in proposito A. Folin nel saggio L’enigma della memoria, in
Leopardi e l’imperfetto nulla cit., pp. 53-54: «il presente è per sua essenza impoetico in
quanto anestetizza gli “affetti”, invitandoci ad un atteggiamento di utilizzabilità nei
confronti del reale. Il tempo dell’analisi può essere soltanto presente, perché si applica a
ciò che abbiamo a portata di sguardo, con quel tratto tipico della ragione calcolante che
separa, disunisce le cose al fine di appropriarsene per sempre, facendone quindi morire
la bellezza […]. Solo futuro e passato sono le due dimensioni del tempo veramente
poetiche, perché in esse noi già da sempre viviamo e abitiamo, protesi nella speranza o
ripiegati nella ricordanza […]. La speranza implica occhi “fuggitivi”, incapaci di
soffermarsi sulle cose con “attenzione”. Ecco perché, se ben si guarda, in Leopardi la
speranza appare sempre nell’incanto del ricordo, mai nella progettualità del presente. Si
potrebbe parlare, perciò, a rigore, di un’unica dimensione, quella del passato: è in essa
che appare la speranza, così come il suo disinganno, solo in essa si manifesta la cosa nel
suo illusorio permanere […]».
230
Zib. 3437.
229
87
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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opere d’arte, la cui maestosità e solidità erano evidentemente destinate a
mantenere intatta nel tempo la fama degli artisti, ma non solo,
«qualunque fine si proponessero, qualunque effetto dovesse seguitare a
quell’opera, esso aveva ad essere eterno, s’aveva a stendere in tutto
l’avvenire, non aveva a cessar mai»231.
Le stesse considerazioni vanno estese naturalmente anche alla
letteratura, a partire da alcuni aspetti meramente pratici, come i moderni
metodi di divulgazione degli scritti, affidati a volantini, opuscoli e
brochures, tutti
mezzi
inaffidabili
per
assicurare una
corretta
conservazione e trasmissione dei testi nel tempo, laddove presso i greci e
presso i latini anche gli scritti destinati a una finalità pratica e immediata
erano custoditi come vere e proprie opere d’arte. Sebbene le opere degli
antichi contenessero l’aspirazione all’eternità, dire ‘antico’, per Leopardi,
non equivale a dire ‘eterno’, e nemmeno ‘infinito’, ma certo è che vedere
un determinato monumento, o anche una semplice torre antica, in un
luogo, e pensare che resiste lì da chissà quanti secoli, produce un effetto
indefinito e sublime che, come ha osservato Francesco Tateo, fa
dell’antico «una sensazione, non un modello […] un mito ma nel senso
specifico del termine, una parola che vive nella realtà immediata di chi la
pronuncia, non per la sua concretizzazione in un modello, è
immaginazione […] eco di qualcosa che non c’è più, ma che c’è stato
soltanto perché ce n’è il ricordo, un ricordo alimentato dal senso, insito in
noi, della distanza, ossia del tempo come spazio indefinito»232.
Nel ricordo, le sensazioni fisiche o spirituali, le grandi passioni
che animano l’uomo, i valori, le sue lotte e le sue delusioni, si dissolvono
lasciando al loro posto solo delle immagini che non hanno la forza di
risvegliare sentimenti tali e quali a quelli del passato, ma hanno in
231
Zib. 3436-3437.
F. Tateo, Leopardi e gli antichi, in Ripensare Leopardi, a cura di M. Dell’Aquila,
Fasano, Schena, 1999, p. 12.
232
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L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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alternativa, il potere di destare la malinconia come una parentesi di
piacere a cui l’anima è desiderosa di abbandonarsi, e solo da questi
momenti di trasporto assoluto può nascere la poesia sentimentale che
ricordiamo, secondo Leopardi, è l’unica forma di poesia possibile per i
moderni
la rimembranza quanto più è lontana, e meno abituale, tanto più innalza,
stringe, addolora dolcemente, diletta l’anima, e fa più viva, energica, profonda,
sensibile, e fruttuosa impressione […]. Certo è però che tali lontane
rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e di genere
contrario a quello delle sensazioni abituali, ispirando nella poesia ec. non ponno
ispirare che poesia malinconica, come è naturale, trattandosi di ciò che si è
perduto; all’opposto degli antichi a cui tali immagini, poteano ben far minore
effetto a causa dell’abitudine, ma erano sempre proprie, presenti, si rinnovavano
tuttogiorno, né mai si consideravano come cose perdute, o riconosciute per vane
[…]233.
Ha detto Singh, nel suo intervento al convegno su Leopardi e il
mondo antico, che per il poeta «perfino l’espressione del dolore antico
[…], era per necessità differente da quella del dolor moderno, e questo
perché il dolore degli antichi era “senza il conforto della sensibilità” e
non mescolato “di nessuna amara e dolce tenerezza di se stesso ec. ma
intieramente disperato”. Questo fatto conferisce alla loro tragedia non
solo quel senso di ineluttabilità e di stoicismo che il Cristianesimo ha
tolto all’uomo moderno, ma anche quella nobiltà e quella dignità che è
tutt’uno colla naturalezza e colla semplicità – qualità che sono state
sostituite dalla sottigliezza e dall’affettazione presso i moderni»234.
233
Zib. 1860-1861, il corsivo è nel testo.
G. Singh, Il concetto dell’antichità nella poetica di Leopardi, in Leopardi e il mondo
antico, Atti del V Convegno Internazionale di Studi Leopardiani (Recanati 22-25
settembre 1980), Firenze, Olschki, 1982, pp. 573-589 (la citazione è a p. 578).
234
89
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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Il ricordo delle sensazioni passate è efficacissimo nella creazione
artistica dove, afferma Leopardi, al contrario di ciò che comunemente si
crede, la sensazione presente, ovvero l’entusiasmo immediato che si
prova nell’udire una musica o di fronte allo «spettacolo della natura»235,
non è affatto favorevole all’invenzione del soggetto artistico, soprattutto
se è animato da una grande passione, perché l’intenso coinvolgimento
impedisce di mettere a fuoco e ordinare le immagini e le sensazioni che
l’artista prova in quel momento e che dovrebbero costituire la materia
dell’opera d’arte. Dunque, l’entusiasmo, in tempo reale, nuoce addirittura
alla creazione artistica, laddove il ricordo dell’entusiasmo che si è
provato in un momento passato, oppure l’attesa e la speranza di provare
delle sensazioni entusiasmanti in futuro, possiedono una intrinseca
razionalità che li rende governabili nella creatività dell’artista, infatti,
sarà utile
un influsso dell’entusiasmo passato o futuro o abituale, piuttosto che la
sua presenza, e possiamo dire il suo crepuscolo, piuttosto che il mezzogiorno.
Spesso è adattissimo un momento in cui dopo un entusiasmo, o un sentimento
provato, l’anima sebbene in calma, pure ritorna come a mareggiare dopo la
tempesta, e richiama con piacere la sensazione passata […]. E generalmente si
può dire che nelle belle arti e poesia, le dimostrazioni di entusiasmo
d’immaginazione e di sensibilità, sono il frutto immediato piuttosto della
memoria dell’entusiasmo, che dello stesso entusiasmo, riguardo all’autore
[…]236.
Stando a ciò che si è appena a detto, e quanto si è avuto modo di
osservare già nel paragrafo precedente a proposito del canto udito in
lontananza che, dileguandosi man mano, lascia spazio all’immaginazione
nella mente di chi ascolta perché, a un certo punto, non si sente più
235
236
Zib. 257.
Zib. 258-259, corsivo mio.
90
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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totalmente rapito dalla musica, si deduce che, secondo Leopardi,
attenzione e immaginazione sono due facoltà inversamente proporzionali
tra loro, percui quanto maggiore sarà l’una, tanto minore sarà l’altra, e
viceversa. ‘Ad-tendere’, nel significato latino di ‘rivolgere la propria
attenzione verso un determinato oggetto’, è un’operazione mentale
volontaria che richiede un forte grado di concentrazione a cui può
pervenire soltanto il soggetto che abbia maturato una certa capacità di
discernimento tra le varie impressioni che gli cadono incessantemente
sotto i sensi, per dirla altri termini, il soggetto adulto che sappia fare uso
della ‘ragione’. I fanciulli non sono in grado di prestare la propria
attenzione verso un determinato oggetto da indagare fino in fondo perché
la loro curiosità, e il desiderio di scoprire la realtà che li circonda, fa sì
che il loro sguardo sia rivolto verso una moltitudine di oggetti e i loro
sensi attratti da una grande quantità di sensazioni il cui aspetto è sempre
positivo perché non passano al vaglio della ragione, infatti:
la natura ha provveduto in modo, che fin che l’uomo è nello stato
naturale, come sono i fanciulli, poco e insufficientemente attende, essendo
l’attenzione nutrice della ragione, e la prima ed ultima causa della corruzione ed
infelicità umana […]237.
Alla condizione dei fanciulli è paragonabile, in tal senso, quella
degli antichi che, avendo alle spalle un trascorso storico relativamente
breve, per forza di cose, ignoravano ancora tanti aspetti della realtà,
percui la loro ingenuità e inesperienza, esattamente come quella dei
fanciulli, li induceva alla continua ricerca di impressioni e sensazioni a
cui affidarsi senza mai porsi il problema del ‘vero’, della spiegazione
razionale di ciò che vedevano o percepivano e dell’esistenza delle cose. E,
siccome il ‘non conoscere’ lascia lo spazio e la possibilità per
237
Zib. 2390.
91
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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‘immaginare’, nell’antichità, tempo «nel quale ogni cosa era viva
secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o
formata di esseri uguali a noi!», le illusioni trovavano un terreno fertile
che si è poi isterilito con l’avanzare del tempo e della storia e con il
trionfo incontrastato
della ragione, quelle
stesse illusioni
che
sopravvivono solo per un breve periodo della vita umana, destinate a
dissolversi nella delusione che contrassegna l’età matura, e che, per il
poeta moderno, è necessario mantenere vive nella finzione per aspirare ai
grandi modelli del passato. E questo è ciò che Leopardi realizza con la
sua poetica, per citare nuovamente Singh, «le qualità che egli analizza e
loda nell’arte e nel genio degli antichi, non poteva non cercare di
realizzarle nel contesto della propria poesia, anche se queste qualità – per
esempio, semplicità e naturalezza di dizione – dovevano ovviamente
caricarsi di altre qualità tipiche di un’arte essenzialmente moderna e
venire utilizzate per fini alquanto diversi da quelli di un poeta antico»238.
Sarebbe erroneo considerare le varie facoltà della mente umana
separate e indipendenti l’una dall’altra, poiché, spiega Leopardi, ciò che
le fa apparire tali non è la loro origine, ma gli effetti che esse producono
a seconda delle diverse e innumerevoli combinazioni possibili e attuabili,
così non deve sorprendere che facoltà apparentemente opposte come
immaginazione e ragione abbiano, in realtà, un’origine comune, anzi di
più, esiste tra loro un vero e proprio legame di dipendenza che il poeta
illustra dettagliatamente nel passo dello Zibaldone datato 20 novembre
1821
l’immaginazione pertanto è la sorgente della ragione, come del
sentimento, delle passioni, della poesia; ed essa facoltà che noi supponiamo
essere un principio, una qualità distinta e determinata dell’animo umano, o non
esiste, o non è che una cosa stessa, una stessa disposizione con cento altre che
238
G. Singh, Il concetto dell’antichità nella poetica di Leopardi cit., p. 576.
92
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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noi ne distinguiamo assolutamente, e con quella stessa che si chiama riflessione
o facoltà di riflettere, con quella che si chiama intelletto ec. Immaginazione e
intelletto è tutt’uno. L’intelletto acquista ciò che si chiama immaginazione,
mediante gli abiti e le circostanze, e le disposizioni naturali analoghe; acquista
nello stesso modo, ciò che si chiama riflessione ec. ec. […]239.
Lo stesso discorso si deve applicare alla distinzione tanto comune
quanto erronea tra intelletto e memoria che sono, in realtà, due facoltà
interdipendenti tra loro, nel senso che la memoria è all’inizio come una
tabula rasa che man mano si riempie, proprio perché l’intelletto le
imprime continuamente i risultati della sua esperienza e, nello stesso
tempo, la memoria a sua volta rinforza, l’intelletto perché gli consente di
assuefarsi con maggiore facilità e perché, si sa, non può esserci «ingegno
senza memoria»240. I dati, le sensazioni, i ricordi, immagazzinati nella
memoria possono riaffiorare in qualsiasi momento della vita, senza un
volontario atto di richiamo, così accade che
spessissimo una sensazione provata presentemente, ce ne richiama alla
memoria un’altra provata per l’addietro, senza che la volontà contribuisca, o
abbia pure il tempo di contribuire a richiamarla. Così un canto ci richiama, per
esempio, quello che noi facevamo altra volta udendo quello stesso canto ec.
[...]241.
E nell’opera leopardiana, la casistica di questo ‘ritorno’ involontario dei
dati contenuti nella memoria, ovvero, di quella che il poeta chiama
‘rimembranza’ o ‘ricordanza’, e che va distinta dal semplice ricordo che,
al contrario, può essere evocato volontariamente con un imput, è
frequentemente legata ad una sensazione sonora.
239
Zib. 2133-2134.
Zib. 1454.
241
Zib. 1455.
240
93
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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Proviamo a illustrarne qualche esempio. Nel Diario del primo
amore e nel componimento Il primo amore, nati contemporaneamente, il
poeta descrive in prima persona, rispettivamente in prosa e in versi, la
vicenda interiore del suo innamoramento per Geltrude Cassi Lazzari,
graziosa ventiseienne sposata con un uomo di oltre cinquant’anni, cugina
di Monaldo, abitante a Pesaro, e ospite in casa Leopardi nel dicembre del
1817. Alla partenza della donna, immediatamente si scatena nel poeta la
«ricordanza malinconica»242 dei giorni appena trascorsi, e nel suo cuore
si agitano sentimenti contrastanti che gli è impossibile governare, la
malinconia fa sentire forti i suoi effetti «quando il ritorno delle stesse ore
e circostanze della vita, mi richiama alla memoria quelle di que’
giorni»243.
Tanto nel Diario quanto nel Primo amore, l’automatismo della
ricordanza prende avvio dall’ascolto della voce della donna amata,
proprio nell’istante della sua partenza.
Così Leopardi si esprime nel Diario del primo amore: «ho
aspettato un buon pezzo coll’orecchio avidissimamente teso, credendo a
ogni momento che discendesse la Signora, per sentirne la voce l’ultima
volta, e l’ho sentita»244, analogamente nel Primo amore ai vv. 43-48 (Ed
io timido e cheto ed inesperto, / ver lo balcone al buio protendea /
l’orecchio avido e l’occhio indarno aperto, / la voce ad ascoltar, se ne
dovea / di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse; / la voce, ch’altro il cielo,
ahi, mi togliea) 245 , e nelle terzine successive, dove la potenza del
desiderio di sentire quella voce abbaglia il poeta, e lo trae in inganno,
fino a fargli credere di poterla riconoscere tra quelle che, in realtà, erano
242
Il diario del primo amore, p. 354.
Ibidem. Il senso della citazione è analogo a quello espresso in Zib. 1455.
244
Ibidem.
245
Il primo amore, pp. 15-16.
243
94
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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le voci dei servi 246 , e poi, quando finalmente riesce a sentire il tanto
sospirato suono della voce della donna amata, l’evento gli procura tutta
una serie di reazioni fisiche descritte nei vv. 52-57 (orbo rimaso allor, mi
rannicchiai / palpitando nel letto e, chiusi gli occhi, / strinsi il cor con la
mano, e sospirai. / Poscia traendo i tremuli ginocchi / stupidamente per la
muta stanza, / ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?)247.
Ma la donna sta per partire, e in un attimo il presente è già passato,
i giorni trascorsi sono già un ricordo e la voce della donna amata si è
dissolta nell’aria, non prima però di avere azionato nell’animo del poeta
il meccanismo della ricordanza (vv. 61-63: Amarissima allor la
ricordanza / locommisi nel petto, e mi serrava / ad ogni voce il core, a
ogni sembianza)248, che torna a far sentire i suoi effetti ogni qualvolta
nell’arco della giornata si presentano circostanze simili a quelle vissute
nei giorni dell’innamoramento, rendendo particolarmente sensibile
l’animo del poeta, che dichiara:
e durando il cuor mio più sensitivo assai dell’ordinario, e sempre sulle
mosse, e voglioso di slanciarsi, non è dubbio che la musica, s’io ne sentissi in
questi giorni, mi farebbe dare in ismanie e furori, e ch’io n’impazzirei dagli
affetti; e l’argomento così dal consueto incredibile potere della musica sopra di
me, come dalle spinte che mi davano al cuore certi vilissimi cantarellacci uditi a
caso in questo tempo […]249.
Nel componimento Il sogno, la lontananza della donna amata ha
un motivo tragico, perché lei è morta; la sua immagine appare al poeta
alle prime luci dell’alba tra il chiaroscuro delle persiane chiuse, e la sua
Così nel commento di F. Flora: «il primo risuonar d’una voce poteva sembrare,
ancora indistinto, il suono della voce attesa; ma l’animo del poeta era incerto, e poi
subito deluso, quando s’accorgeva che la voce udita non era della sua donna».
247
Il primo amore, p. 16.
248
Ibidem.
249
Ibidem, p. 357.
246
95
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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voce, che ormai è solo un’eco dell’aldilà, gli domanda sospirando se
conserva ancora la ricordanza del tempo passato insieme (vv. 10-13: Al
capo / appressommi la destra, e sospirando, / vivi, mi disse, e ricordanza
alcuna / serbi di noi?)250, dopo una serie di domande rivolte alla donna
morta, e di sue risposte, di considerazioni e riflessioni sugli inganni della
gioventù, Leopardi rifugge ancora una volta il presente, il doloroso
presente, cercando conforto nella ricordanza (vv. 69-71: e mi soccorra /
la rimembranza or che il futuro è tolto / ai nostri giorni)251.
La protagonista del Sogno, identificata con Teresa Fattorini, è la
stessa di A Silvia, e anche la modalità in cui si svolge il componimento è
pressappoco analoga, con il poeta che, attraverso interrogativi e
riflessioni
sulle
speranze
della
giovinezza
prontamente
deluse
dall’avanzare dell’età, immagina di discorrere con la donna amata che, in
entrambi i casi è morta, ma, nella prima situazione, appare al poeta nel
sonno sotto forma di larva, nella seconda, è una presenza astratta da lui
evocata con un atto volontario nel ricordo.
Nella canzone A Silvia il concetto di ‘rimembranza’ si trova
esplicitato in due luoghi, nell’incipit, dove compare il verbo al presente
«rimembri» 252 inserito in un’interrogazione retorica con cui il poeta
domanda alla donna se conserva ancora il ricordo della sua «vita
mortale» 253 , della bellezza che splendeva nei suoi occhi «ridenti e
fuggitivi»254 mentre percorreva il cammino che avrebbe dovuto condurla
all’età adulta, e più avanti, con il verbo «sovviemi» inserito
nell’asserzione dei vv. 32-35 (Quando sovviemmi di cotanta speme, / un
affetto mi preme / acerbo e sconsolato, / e tornami a doler di mia
250
Il sogno, p. 18.
Ibidem, pp. 18-19.
252
A Silvia, p. 26.
253
Ibidem.
254
Ibidem.
251
96
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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sventura) 255 . I versi che intercorrono tra un luogo e l’altro sono
prevalentemente scanditi dalla voce di Silvia, il suo «perpetuo canto»256
che risuona per le stanze della casa, al contrario della «mesta melodia»257
del carrettiere nel Tramonto della luna, è un gioioso canto di gioventù
che si alimenta di speranze e di illusioni sull’avvenire, ma è anche un
canto soffocato, perché la giovinezza della protagonista, inconsapevole
del triste destino che l’attende, non si avvia verso la delusione dell’età
adulta, come avviene per il poeta, ma è preludio della morte (vv. 60-61:
All’apparir del vero / tu, misera, cadesti) che, nella concezione
leopardiana, significa annullamento totale della persona, con possibilità
di sopravvivenza solo nel ricordo di quanti la conobbero.
Un «solitario canto»258 è quello dell’artigiano nella Sera del dì di
festa che ritorna a casa «dopo i sollazzi»259 della festa, e il suo risuonare
nel cuore della notte è tutto ciò che sopravvive del frastuono della
giornata festiva appena trascorsa, ed è, in questo senso, l’unico elemento
che accomuna il ‘prima’ con il ‘dopo’.
La sensazione sonora che giunge al poeta rappresenta lo stimolo
per un passo indietro nella memoria individuale, ma soprattutto in quella
storica, il silenzio della notte è paragonato all’inerzia del presente e in
esso si consuma l’interrogativo del poeta, l’ ubi sunt? espresso ai vv. 3337 (Or dov’è il suono / di que’ popoli antichi? or dov’è il grido / de’
nostri avi famosi, e il grande impero / di quella Roma, e l’armi, e il
fragorio / che n’andò per la terra e l’oceano?)260. Il rimpianto principale
espresso da Leopardi, è dunque, quello dell’ ‘azione’ motivata negli
antichi dal desiderio della gloria, nei versi citati non compare, tuttavia, il
255
Ibidem.
Ibidem.
257
Il tramonto della luna, p. 16.
258
La sera del dì di festa, p. 17.
259
Ibidem.
260
Ibidem.
256
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L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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termine ‘guerra’, sebbene il poeta alluda esplicitamente ad essa 261, ma il
senso è reso da perifrasi costruite con termini appartenenti alla sfera
acustica, «suono», «grido», «fragorio», che sorreggono la similitudine tra
la fine della festa di cui sopravvive una traccia nel canto dell’artigiano, e
la fine dei tempi antichi di cui rimane solo un debole eco.
La memoria, è il filo che congiunge le due parti di cui consta Il
risorgimento, corrispondenti rispettivamente a due fasi dell’esistenza del
poeta, una di totale aridità in cui sente che i suoi sentimenti, perfino il
dolore, si sono raffreddati per sempre, e l’altra in cui le illusioni, i ‘beati
errori’ si fanno di nuovo spazio nel suo cuore, scandite ai vv. 81-82, da
una domanda che Leopardi rivolge a se stesso (Chi dalla grave,
immemore / quiete or mi ridesta?)262. Il prima e il poi sono distinti, sul
piano temporale, dall’avverbio «or» di v. 82, mentre, dal punto di vista
del significato, l’attenzione va puntata sull’aggettivo «immemore»
riferito a «quiete». La quiete di cui il poeta parla non è semplicemente
calma, tranquillità, ma è sopore dei sentimenti durante il quale anche la
memoria è spenta: la memoria della fanciullezza (vv. 3-4: i dolci affanni /
della mia prima età), dell’amore (v. 13: Mancàr gli usati palpiti),
dell’immaginazione (vv. 29-30: l’usate immagini / la stanca fantasia), del
dolore (vv. 33-34: Fra poco in me quell’ultimo /dolore anco fu spento),
del canto e del suono
La rondinella vigile,
alle finestre intorno
cantando al novo giorno,
il cor non mi ferì:
non all’autunno pallido
261
262
Leopardi non parla di ‘guerra’, ma parla comunque di ‘armi’.
Il risorgimento, p. 25.
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L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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in solitaria villa,
la vespertina squilla,
il fuggitivo Sol.
Invan brillare il vespero
vidi per muto calle,
invan sonò la valle
del flebil usignol.
(vv. 45-54)
[…]
In altri casi, è ancora una sensazione sonora ad evocare la
rimembranza, c’è infatti un celebre passo, quasi in apertura dello
Zibaldone, in cui Leopardi dice
sento dal mio letto suonare (battere) l’orologio della torre.
Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in
letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva
battere un tale orologio […]263.
È un suono, dunque, il rintocco dell’orologio della torre, a
destare nel poeta la memoria della fanciullezza in questo abbozzo poetico
interrelato con il
contenuto delle Ricordanze 264 , e non è rilevante
stabilire se si tratti di un suono semplice e inarticolato oppure di un suono
che si avvia a diventare qualche cosa di più265, il dato importante è che,
263
Zib. 36, corsivi miei.
C. Galimberti nel suo saggio Leopardi: meditazione e canto, cit., p. LV, così
definisce il componimento: «Le ricordanze sono il canto non solo delle memorie
suscitate dal ritorno al borgo natìo, ma dell’eterno ritorno delle stagioni, del perenne
ricomparire della vita - non solo degli individui - in uno scenario familiare ed eterno».
265
A questo proposito A. Folin in L’enigma della memoria, cit., p. 55, sostiene: «il
battito è però, più che un semplice un rumore, un “suono” informale che si avvia a
essere un canto, come appare non solo dalla correzione leopardiana, che precisa
“battere” come più appropriato quasi avvedendosi di un lapsus, ma anche da altri luoghi,
primo fra tutti il famoso “canto” dell’artigiano che “riede a tarda notte” nella Sera del dì
di festa, il quale ha il potere di dischiudere le soglie del passato facendolo irrompere sul
presente e rivelandone tutta l’intrinseca vanità».
264
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L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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grazie alla sua ritmicità che ripropone il percorso ciclico del tempo,
questo suono è in grado di trasporre la sensazione del poeta dal piano del
presente a quello del passato, non a caso espresso nel componimento
dalla forma continuativa del verbo all’imperfetto (sento / sentiva), vale a
dire che, secondo il principio affermato nello Zibaldone266, il rintocco
attuale, e usuale, dell’orologio della torre rievoca nella memoria di
Leopardi le sensazioni provate in passato mentre, diffondendosi nell’aria,
giungeva al suo udito l’identico rumore.
Ed ecco i corrispondenti versi delle Ricordanze
Viene il vento recando il suon dell’ora
dalla torre del borgo. Era conforto
questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
quando fanciullo, nella buia stanza,
per assidui terrori io vigilava,
sospirando il mattin. Qui non è cosa
ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga267.
(vv. 50-57)
[…]
L’immagine della «camera oscura» in cui si consumano i timori
notturni del poeta fanciullo, è stata oggetto di un’interessante analisi da
parte di Neuro Bonifazi 268 che ha ripercorso tutti i luoghi dell’opera
leopardiana in cui essa compare, dal Saggio sopra gli errori popolari
degli antichi, ai Canti, agli accenni contenuti nell’Epistolario, ma ciò che
in questa sede ci sembra più opportuno evidenziare, a proposito del
‘suono’ che scandisce il silenzio della stanza buia del poeta, è
266
Cfr. il già citato Zib. 1454.
Le ricordanze, p. 27.
268
Cfr. N. Bonifazi , La «camera oscura», in Leopardi. L’immagine antica cit., pp. 6299.
267
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L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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l’interpretazione che Bonifazi fornisce nel suo saggio del passo di
apertura dello Zibaldone datato «Luglio o Agosto 1817»269.
All’esordio «Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar
del viandante»270, congiunto con alcuni versi che descrivono l’immagine
notturna del palazzo271, e la diffusione dei suoni provenienti dalla strada,
lo stridore delle ruote del carro e il tintinnio dei sonagli, segue a catena la
favoletta di Aviano, collegata ai versi precedenti, dalla congiunzione
«Onde» che «mette in rapporto la minaccia della donna con l’abbaiare
del cane, come se fosse la voce di un lupo, e col rumore stridulo del carro
[…]. La congiunzione non si riferisce ad Aviano, bensì alla donna, sia
pure all’interno di una frase in cui Aviano è il soggetto più vicino
all’“Onde”»272
Onde Aviano raccontando una favoletta dice che una donna di contado
piangendo un suo bambolo, minacciogli, se non taceva che l’avrebbe dato da
mangiare a un lupo. E che un lupo che a caso di là passava, udendo dir questo
alla donna credettele che dicesse vero, e messosi innanzi all’uscio di casa così
stette quivi tutto quel giorno ad aspettare che la donna gli portasse quella
vivanda. Come poi vi stesse tutto quel tempo e la donna non se n’accorgesse e
non avesse paura e non gli facesse moto con sasso o altro, Aviano lo saprà che
lo dice. E aggiunge che il lupo non ebbe niente perché il fanciullo s’addormentò,
e quando bene non l’avesse fatto non ci sarìa stato pericolo. E fatto tardi,
tornato alla moglie senza preda perché s’era bloccato ad aspettare fino a sera,
disse quello che nell’autore puoi vedere […]273.
Secondo Bonifazi, la camera oscura, dalla quale il poeta può
soltanto percepire suoni e rumori che alimentano le sue paure o la sua
269
Zib.1.
Ibidem.
271
Il palazzo è quello dove Giacomo vive, è il palazzo dei conti Leopardi.
272
N. Bonifazi, La «camera oscura» cit., p. 65.
273
Zib. 1.
270
101
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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immaginazione «è sentita come il luogo dell’esecuzione punitiva da parte
dei genitori, e in particolare del padre, motivata dalla solitudine e
dall’oscurità che impedisce di vedere (“lasciato solo” al buio), e dalla
minaccia di divoramento, che viene dai rumori esterni, in seguito ai
racconti della balia, o di chi per lei; è il luogo dove si è provocata, fin
dall’inizio, la colpevolizzazione nel bambino del suo desiderio di piacere,
che si è reso irrealizzabile per sempre […]»274.
I suoni provenienti dall’esterno descritti nella prima pagina dello
Zibaldone, assumono all’interno della camera oscura, la funzione di
stimoli per la rimembranza: l’abbaiare del cane che, assimilato all’ululare
minaccioso del lupo, rappresenta metaforicamente la paura della morte,
costituisce una chiave di accesso alla memoria delle numerose “angosce
infantili” del poeta, mentre l’immagine successiva, quella del rumore
delle ruote del carro del «passegger» e del «tintinnío de’mobili sonagli»
sarà riutilizzata da Leopardi nei vv. 22-24 della Quiete dopo la tempesta
(e, dalla via corrente, odi lontano / tintinnio di sonagli; il carro stride / del
passegger che il suo cammin ripiglia)275 con una variazione di significato,
infatti, nella Quiete, il suono proveniente dall’esterno non scandisce più
un pauroso quadro notturno, ma fa da sfondo alla dilettosa immagine
dello scampato pericolo della tempesta che consente al passeggero con il
carro di riprendere il suo cammino.
Anche i vv. 40-46 della Sera del dì di festa (Nella mia prima età,
quando s’aspetta / bramosamente il dì festivo, or poscia / ch’egli era
spento, io doloroso, in veglia, / premea le piume; ed alla tarda notte / un
canto che s’udia per li sentieri / lontanando morire a poco a poco, / già
similmente mi stringeva il core) sono caratterizzati da una cornice
pressoché identica a quella descritta nello Zibaldone dove il poeta si
trova sveglio nel suo letto, in piena notte, e sente un suono che non è un
274
275
N. Bonifazi, La «camera oscura» cit., p. 89.
La quiete dopo la tempesta, p. 30.
102
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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rumore inarticolato, bensì un ‘canto’ vero e proprio proveniente da una
voce umana, ma, esattamente come quel rumore, anche il canto
dell’artigiano evoca «un altro ricordo pauroso della fanciullezza, un
ricordo che stringe il cuore»276.
Nel Tramonto della luna ai vv. 15-22 (orba la notte resta, / e
cantando, con mesta melodia, / l’estremo albor della fuggente luce, / che
dianzi gli fu duce, / saluta il carrettier dalla sua via; tal si dilegua, e tale /
lascia l’età mortale / la giovinezza), il canto del carrettiere non scandisce,
come nei casi precedenti, il buio profondo, perché il momento qui
rappresentato è quello del crepuscolo, ed è un canto triste perché in esso
c’è la consapevolezza del «dileguarsi della giovinezza e della vita»277.
276
277
N. Bonifazi, La camera oscura cit., p. 66.
Ibidem.
103
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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§ II.3 BELLEZZA E MUSICA. LA CADUCITÀ DELLE COSE UMANE
Tutto noia si fa, l’amore e il suono
E i dolci canti e i graziosi balli
(dice Omero)
Nel discorso che segue non si guarderà alla bellezza nel senso
della ricerca estetica del ‘bello’ ideale278, ma si farà riferimento ad un
preciso genere di bellezza, che è quella femminile, associata da Leopardi,
come del resto da tutta la tradizione poetica occidentale, al desiderio
amoroso. L’amore inteso come «imperio della bellezza» 279 è, altresì,
collegato alla musica, per la sublimità delle sensazioni che entrambi sono
capaci di suscitare nell’animo umano, e per la consapevolezza che, come
la perfezione nella musica si regge su un delicatissimo equilibrio fra i
suoni, e se tale equilibrio viene meno anche in una sua minima parte,
l’intera musica si scompone, così la bellezza e l’amore, che sono
prerogative esclusive della giovinezza, si dissolvono insieme ad essa
dopo una brevissima fase dell’esistenza umana.
È molto amara per l’uomo la consapevolezza che la gioventù
finisce quando ci si affaccia ad una determinata soglia d’età, e più
drammatica è l’impotenza di fronte alla trasformazione del proprio corpo,
alla decadenza fisica, alla vecchiaia che conduce inesorabilmente alla
morte
passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una
sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell’appassimento del fiore
dei giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù
[…]280
278
Oltre a quanto si è già detto in I.2 del presente lavoro, si veda il saggio di B. Reizov,
L’estetica di Leopardi, in Leopardi, arte e verità, a cura di C. Ferrucci, Roma, Bonacci,
1990, pp. 103-125.
279
Diario del primo amore, p. 353.
280
Zib. 4287.
104
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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Al centro del discorso di Leopardi c’è, dunque, la «perdita» della
gioventù che assumerà nella sua opera, il doppio significato di ‘morte
della gioventù’, nel senso di dissoluzione della bellezza e di conclusione
di quel periodo della vita in cui si è più disposti alle illusioni e si mira, di
conseguenza, al raggiungimento della felicità, e di ‘morte nella gioventù’,
ovvero di giovani vite spezzate tragicamente.
In questa direzione si è mossa di recente la ricerca di Emilio
Giordano che, nel suo intervento al convegno su Leopardi e l’età
romantica281 , ha sostenuto il confronto fra il poeta recanatese e il suo
contemporaneo poeta inglese John Keats, in un modo piuttosto originale.
Infatti, laddove la critica precedente aveva voluto individuare, come
tratto comune tra i due poeti, il rimpianto per il mondo classico e la
nostalgia per le «favole antiche»282, che caratterizzano gli scritti giovanili
di Leopardi, e in particolare il Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica,
oppure
evidenziare
i
richiami
che
avvicinano
il
componimento leopardiano Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, alla
keatsiana Ode on a Grecian Urn283 , Giordano ripercorre tutti i luoghi
delle rispettive opere in cui è trattato il tema della «giovinezza spenta»,
puntando sul tema leopardiano della corrispondenza tra ‘disfacimento
della bellezza’ e ‘morte’, che assume toni analoghi anche in Keats,
dacché «la beauty keatsiana non vive come vuota immagine da cui tragga
281
Cfr. E. Giordano, La «giovinezza spenta» e altro: fra Keats e Leopardi, in Leopardi
e l’età romantica, a cura di M. A. Rigoni, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 359-369.
282
A proposito, Giordano indica i seguenti interventi: G. Hough, Tra Keats e Leopardi,
in «Il Veltro», 2, aprile 1971; F. Spera, Il canto delle favole antiche, in Leopardi e il
mondo antico cit., pp. 607-616; A. Prete, Leopardi e la favola antica, in Omaggio a
Leopardi, a cura di F. Foschi e R. Garbuglia, Abano Terme, Francisci, 1987, pp. 475488; L. Felici, Le «favole antiche» di Giacomo Leopardi, in Mito e letteratura
dall’Arcadia al Romanticismo, a cura di P. Gibellini, Roma, Tibergraph Editrice, 1993,
pp. 101-126.
283
Brevi notazioni sull’argomento si trovano in: G. Hough, Tra Keats e Leopardi cit.,
pp. 191-192; E. Cecchi, I grandi romantici inglesi, vol. II, Milano, Adelphi, 1981, p.
450; A. Ferraris, L’ultimo Leopardi. Pensiero e poetica 1830-1837, Torino, Einaudi,
1987, p. 74; G. Padovani, La prima canzone sepolcrale di Giacomo Leopardi, Enna,
Edizioni Papiro, 1989, pp. 17-18; M. Dell’Aquila, La linea d’ombra. Note sulla elegia
di Leopardi, Fasano, Schena, 1994, p. 204; L. Blasucci, I tempi dei «Canti» cit., p. 210.
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L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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linfa un freddo estetismo, per la chiara consapevolezza nel poeta delle
forze che la minacciano; anzi, sembra proprio che – nell’immaginario
poetico di Keats – il tema del disfacimento e della morte si imponga
come una sorta di polo contrapposto rispetto a quello della bellezza
[…]»284.
Riguardo la bellezza femminile, Leopardi si sofferma, in un
celebre passo dello Zibaldone, su due categorie di donne il cui tipo di
bellezza si diversifica in base a un criterio d’età:
una donna di venti, venticinque o trenta anni ha forse più d’attraits, più
d’illecebre, ed è più atta a ispirare, e maggiormente a mantenere, una passione
[…]. Ma veramente una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne’
suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può
agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica,
capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto,
freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel
viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria
d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure de’ patimenti; quel
fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza
innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva,
così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io
non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci
in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità.
Tutto questo ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di
posseder quell’oggetto […]285.
La prima categoria di donne di cui parla Leopardi, quelle di età
compresa tra i venticinque e i trent’anni, include figure femminili come
Saffo, condannata all’infelicità dalla sua bruttezza fisica, e l’Elvira del
284
285
E. Giordano, La «giovinezza spenta» e altro cit., p. 362.
Zib. 4310-4311.
106
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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Consalvo «per divina beltà famosa»286, la cui opposizione si manifesta
anche nella rappresentazione chiastica che il poeta fa dei loro destini,
Saffo è innamorata non corrisposta, mentre Elvira è oggetto dell’amore di
Consalvo senza saperlo, Saffo muore per amore, mentre Elvira assiste
alla morte del suo innamorato.
La seconda categoria è, invece, quella rappresentata dalle
giovinette tra i sedici e i diciotto anni, le cui espressioni, atteggiamenti,
movimenti, voci, e la cui ingenuità ispirano sensazioni sublimi,
inesprimibili
con
le
parole,
sentimenti
che
non
implicano
necessariamente l’innamoramento inteso come desiderio carnale, ma si
manifestano in una forma di desiderio-ammirazione verso la condizione
di persona di giovane età, piuttosto che verso la giovinetta in quanto
persona amata, e nello stesso tempo, di compassione al «pensiero dei
patimenti che l’aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a
spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze,
della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze
[…]»287.
La rappresentante per eccellenza di questa categoria è la figura
poetica di Silvia che, grazie all’«aggiustamento anagrafico»288 operato da
Leopardi, si presenta appunto nelle vesti di un’adolescente di età
compresa fra i sedici e i diciotto anni, e non già di una ventunenne come
era Teresa Fattorini, sulla cui identità reale si fonda l’identità poetica
della protagonista del celebre componimento, e che in quanto tale, ispira
nel poeta tutte le sensazioni descritte nel passo appena citato dello
Zibaldone, che costituisce la chiosa poetica di A Silvia.
286
Consalvo, p. 20.
Zib. 4311.
288
L. Blasucci, Genesi e costruzione di «A Silvia», in Lo stormire del vento tra le piante
cit., p. 137.
287
107
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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«Vagheggiare, bellissimo verbo»289, dice Leopardi, che significa
aspirare a un piacere indefinito, come è quello che la giovinetta Silvia
suscita in lui, a una tensione positiva verso le sue stesse speranze e
illusioni, ottenebrate e spente «all’apparir del vero»290.
Nel componimento, la fase del vagheggiamento, espressa
attraverso la rievocazione della fresca bellezza e del canto di Silvia, cui
fa da sfondo un rasserenante scenario primaverile (v. 14: Era il maggio
odoroso), culmina nell’affermazione dei vv. 26-27 (Lingua mortal non
dice / quel ch’io sentiva in seno), e nella doppia esclamazione dei vv. 2831 (Che pensieri soavi, / che speranze, che cori, o Silvia mia! / Quale
allora ci apparia / la vita umana e il fato!) che prelude ad una
interrogazione rivolta direttamente dal poeta alla natura, sul senso
dell’inganno perpetrato ai danni dell’umanità (vv. 36-39: O natura, o
natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto /
inganni i figli tuoi?).
Il momento della compassione, che coincide con i vv. 40-48 (Tu
pria che l’erbe inaridisse il verno, / da chiuso morbo combattuta e vinta, /
perivi, o tenerella. E non vedevi / il fior degli anni tuoi; / non ti molceva
il core / la dolce lode or delle negre chiome, / or degli sguardi innamorati
e schivi; / né teco le compagne ai dì festivi / ragionavan d’amore) si
svolge all’insegna del rammarico per la morte della «tenerella» che, in
uno scenario di autunno inoltrato, che coincide metaforicamente col
«limitare di gioventù», e in questo caso della vita stessa, perisce dopo
essere stata «combattuta e vinta» da un morbo che il poeta definisce
«chiuso», «occulto» nella variante autografa del testo, non tanto
nell’accezione di malattia che consuma lentamente e inesorabilmente la
vita della protagonista, quanto in quella di male «misterioso», perché
289
290
Zib. 4287.
A Silvia, p. 26.
108
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«comprende il fato, la natura contro cui la fanciulla combatte e
soccombe»291.
Nella strofa successiva, ai vv. 49-55 (Anche peria fra poco / la
speranza mia dolce: agli anni miei / anche negaro i fati / la giovanezza.
Ahi come / passata sei, / cara compagna dell’età mia nova, / mia
lacrimata speme!), si passa dalla compassione all’immedesimazione del
poeta nel destino di Silvia, sorretta dal doppio uso, al v. 49 e al v. 51,
della congiunzione «anche», a sottolineare che per entrambi si è conclusa
la fase della gioventù portando via con sé ogni illusione e ogni speranza
per il futuro, solo che per Silvia la fine della gioventù coincide con la
morte e con la conseguente cessazione di ogni dolore spirituale e fisico,
per il poeta equivale, invece, alla perdita della vitalità che lascia spazio
solo alla sofferenza, come lasciano intendere chiaramente l’interiezione
di dolore «ahi» del v. 52, e l’invocazione sconsolata rivolta alla speranza
«compagna» della gioventù, che lo ha abbandonato per sempre.
Rispetto al passo di riferimento dello Zibaldone, anche in A Silvia
si passa, secondo Blasucci «dal vagheggiamento […] alla “compassione”,
e da questa all’immedesimazione. [….] solo che qui alla previsione dei
patimenti che attendono la fanciulla si sostituisce la realtà della sua morte.
La vicenda di Silvia, con la sua parabola luminosa e fugace, diventa così
emblematica della stessa vicenda della giovinezza e delle sue speranze,
destinate a cadere “all’apparir del vero”»292 .
E si può aggiungere che, nella parte finale ai vv. 56-63 (Questo è
quel mondo? questi / i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi / onde cotanto
ragionammo insieme? / questa la sorte dell’umane genti? / All’apparir del
vero / tu, misera, cadesti: e con la mano / la fredda morte ed una tomba
ignuda / mostravi di lontano), all’immedesimazione subentra la
‘condivisione’ del poeta per la sorte che accomuna tutta l’umanità, la
291
292
W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973.
L Blasucci, Genesi e costruzione di «A Silvia», in Lo stormire del vento cit., p. 138.
109
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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consapevolezza della vanità del tutto, la dissoluzione della speranza, e
infine la morte.
Caratteristiche analoghe sono quelle che avvicinano a Silvia, Nerina, la
protagonista femminile delle Ricordanze: molto probabilmente anche
dietro la figura poetica di Nerina si cela la persona reale di Teresa
Fattorini, entrambe sono rappresentate come fanciulle di giovanissima età,
ed entrambe sono contrassegnate da un destino di morte prematura, ma
«Silvia è più propriamente un’immagine […], oggettivata della
giovinezza del poeta e del fato immaturo che a quella toccò; Nerina è più
specialmente la donzella che sorride all’adolescente, è l’amore, è la più
potente illusione di quei giorni vezzosi, inenarrabili, alla quale il poeta,
ridestato alla virtù degli affetti, torna a volgersi con anelito doloroso»293.
A partire dal v. 136, fino alla chiusa della poesia, Leopardi si
rivolge direttamente a Nerina in un crescendo di domande retoriche (vv.
136-140: O Nerina! e di te forse non odo / questi luoghi parlar? caduta
forse / dal mio pensier sei tu? / Dove sei gita, / che qui sola di te la
ricordanza / trovo, dolcezza mia?; e vv. 144-148: Ove sei, che più non
odo / la tua voce sonar, siccome un giorno, / quando soleva ogni lontano
accento / del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto / scolorarmi?)294 che
trovano risposta unicamente nella considerazione che i tempi
rammemorati sono necessariamente ‘altro’ rispetto al presente (v. 148:
Altro tempo), che lei è ‘passata’ come il tempo, senza possibilità di
ritorno (vv. 148-149: I giorni tuoi / furo, mio dolce amor. Passasti), ma è
passata prematuramente senza ‘trascorrere’ le varie fasi della vita.
E se di Silvia viene elogiata la bellezza fisica, attraverso la «dolce
lode delle negre chiome»295, di Nerina è messa in rilievo la grazia, che di
per sé ispira sensazioni sublimi e può accendere le più grandi passioni,
293
Cfr. il commento alle Ricordanze, in G. Leopardi, I Canti, a cura di A. Straccali cit.,
p. 190, nota n. 136.
294
Le ricordanze, p. 28.
295
A Silvia, p. 26.
110
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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attraverso la descrizione del suo procedere quasi a passo di danza (v. 153:
Ivi danzando), coerentemente con le considerazioni sul ballo espresse da
Leopardi nella già citata lettera al fratello Carlo del 5 febbraio 1823, e
con il passo dello Zibaldone datato 4-9 agosto 1820, in cui afferma che:
lo svelto, il leggero, parimente ha a che far colla grazia. E notate che i
movimenti molli e leggeri di una persona di taglio svelto, sono graziosi senza
sorpresa, giacché non è strano che i moti di una tal persona sieno facili e leggeri
[…]296.
La grazia e la bellezza, non solo per quanto riguarda la forma
umana, ma anche gli oggetti, le parole e l’arte, hanno in comune fra loro
la relatività, percui il modo di intendere entrambe varia da soggetto a
soggetto, ma, spiega Leopardi, la bellezza rispetto alla grazia crea
un’impressione immediata nel soggetto che la percepisce, il quale resta
appagato già al primo impatto e non desidera di poter scoprire altre
qualità nascoste in quell’oggetto, al contrario, la grazia ha il privilegio di
sorprendere chi la osserva perché mostra man mano di sé delle qualità
che a prima vista non appaiono. La grazia solletica la curiosità, ma solo
la bellezza scuote l’animo «fortemente come la scintilla elettrica»297, ed è
proprio in questo senso che la subitaneità dei suoi effetti può essere
paragonata alle sensazioni prodotte nella musica dal suono «il quale ci
elettrizza e scuote al primo tocco»298 , e «al primo istante […] basta ad
aprire e scuotere l’animo umano»299.
Bellezza e musica agiscono direttamente, non solo sulla sfera
generale dei sentimenti, ma incidono, più specificamente, sul sentimento
amoroso. La musica, aiuta la mente a produrre degli spazi immaginari
296
Zib. 202.
Zib. 198.
298
Zib. 155.
299
Zib. 1935.
297
111
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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entro i quali si alimenta l’illusione di felicità degli amanti: è cantando che
Silvia manifesta la contentezza per il «vago avvenir» che ha in mente,
mentre nel poeta che ascolta il suo canto si accendono «pensieri soavi» e
«speranze»; è il suono della voce di Nerina, che scuote così fortemente il
poeta da farlo addirittura impallidire (vv. 144-148: Ove sei, che più non
odo / la tua voce sonar, siccome un giorno, / quando soleva ogni lontano
accento / del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto / scolorarmi?); è il
canto dell’agricoltore che risuona per le valli a destare, nella canzone
Alla sua donna, il rimpianto per le illusioni, le speranze, e i desideri
giovanili che hanno ormai abbandonato il poeta, e il pensiero della donna
amata che fa riprendere a palpitare il suo cuore (vv. 34-41: Per le valli,
ove suona / del faticoso agricoltore il canto / ed io mi seggo e mi lagno /
del giovanile error che m’abbandona; / e per li poggi, ov’io rimembro e
piagno / i perduti desiri, e la perduta / speme de’ giorni miei; / di te
pensando, / a palpitar mi sveglio)300.
La bellezza crea, invece, una sensazione di «spavento» che
consiste nella prefigurazione dell’ipotesi di non riuscire mai a possedere
l’oggetto del proprio desiderio, o di perderlo dopo averlo posseduto, il
che significa, soprattutto per un giovane inesperto, smarrire il senso della
propria esistenza
è proprio dell’impressione che fa la bellezza […] su quelli d’altro sesso
che la veggono o l’ascoltano o l’avvicinano, lo spaventare […]. E lo spavento
viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento pare
impossibile di star mai più senza quel tale oggetto […]. Tutto questo accade
principalmente (e oggimai unicamente) ai giovani prima d’entrar nel mondo, o
sul lor primo ingresso (talvolta, e non di rado, ancora ai fanciulli). I quali e son
più suscettibili di vivezza d’impressione e di vivezza di desiderio ec., e sono
inesperti del quanto presto e facilmente l’amore o si dilegui o si soddisfaccia, e
300
Alla sua donna, p. 22.
112
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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del come; e che al mondo non v’ha cosa veramente amabile; e di quanto sia
facile ottenere ogni cosa ch’ei brama da quegli oggetti ch’ei stima inaccessibili
ec. ec. […]301.
Il passo appena citato dello Zibaldone, datato 16 settembre 1823,
è la chiosa poetica del componimento Il primo amore, dove il sostantivo
‘spavento’, nel contesto della descrizione degli effetti contrastanti
suscitati dalla passione amorosa nell’animo di un giovane amante, ovvero
il piacere intenso di provare un sentimento nuovo e, al contempo, la
perdita
della
propria
serenità,
è
utilizzato
come
oggetto
di
un’interrogazione, rivolta dal poeta al proprio cuore, e finalizzata a
comprendere la causa di tale doloroso contrasto (vv. 8-15: Perché seco
dovea sì dolce affetto / recar tanto desio, tanto dolore? / e non sereno, e
non intero e schietto, / anzi pien di travaglio e di lamento / al cor mi
discendea tanto diletto? / Dimmi, tenero core, or che spavento, / che
angoscia era la tua fra quel pensiero / presso al qual t’era noia ogni
contento?)302.
Talvolta, come si è visto, lo ‘spavento’ dipende dal pensiero di
non riuscire più a fare a meno di un oggetto che in realtà non si potrà mai
possedere, e in questo caso, l’angoscia e il dolore si trasformano in
desiderio di morte, come avviene nell’Ultimo canto di Saffo di cui è
protagonista la leggendaria poetessa greca che, respinta dal suo amato
Faone, si suicida precipitandosi dalla rupe di Leucade.
La bellezza si configura per Saffo come una doppia mancanza
che turba la sua esistenza, da una parte c’è, infatti, la bellezza
irraggiungibile di Faone, e dall’altra l’«infinita beltà»303 dell’universo di
cui il destino non le ha concesso neanche una parte ‘finita’, relegandola
al ruolo di sgradita ospite («vile […] e grave ospite») della natura, e di
301
Zib. 3443-3446, corsivi miei.
Il primo amore, p. 15.
303
L’ultimo canto di Saffo, p. 14.
302
113
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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amante non contraccambiata («dispregiata amante»), a cui è precluso
ogni diletto, e non perché, come troviamo espresso letteralmente nel testo,
le fonti di piacere della natura fuggano da lei (vv. 27-36: A me non ride /
l’aprico margo, e dell’eterea porta / il mattutino albor; me non il canto
de’ colorat augelli, e non de’ faggi / il murmure saluta: e dove all’ombra /
degli inchinati salici dispiega / candido rivo il puro seno, al mio / lubrico
piè le flessuose linfe / disdegnando sottragge, / e preme in fuga l’odorate
spiagge), ma perché manca in lei lo stato d’animo adeguato e la
predisposizione a godere dello spettacolo della natura che normalmente
dà sollievo ai sensi, pertanto, il male che affligge Saffo, è sofferenza
psicologica, è autoesclusione dal contesto esistenziale.
Nella visione leopardiana degli anni ’20, e il componimento in
questione è del ’22, la natura appare come un’entità creatrice e
distruttrice, indifferente nel bene e nel male, alla sorte delle proprie
creature, come risulta dal quasi coevo Dialogo della Natura e di un
Islandese (1824), in cui l’Islandese, rappresentante emblematico
dell’umanità, che dopo aver attraversato tutti i luoghi della terra per
sfuggire
alla
potenza
incontrastata
della
natura,
se
la
trova
improvvisamente davanti nelle vesti di una donna di «forma smisurata
[…]; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli
nerissimi»304, e avendole chiesto il perché di tanta sofferenza e di tanti
pericoli che insidiano continuamente l’uomo sulla terra, così si sente
rispondere:
Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?
Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie […] sempre ebbi
ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità […].
304
Dialogo della Natura e di un Islandese, p. 114.
114
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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Islandese. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli
uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per
tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? O
mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà,
e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva consentirlo né ripugnarlo, tu
stessa con le tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non
tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia
tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me,
dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.
Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è
un perpetuo circolo di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di
maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione
del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe
parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui
cosa alcuna libera da patimento305.
L’interrogativo dell’Islandese è analogo a quello di Saffo che, nel
tentativo di comprendere la causa del proprio dolore, ai vv. 37-44 si
chiede:
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
in che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita, onde poi scemo
di giovinezza, e disfiorato, al fuso
dell’indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? […]
305
Ibidem, pp. 116-117.
115
L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana
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La risposta che la protagonista si dà, esclude l’ipotesi di qualsiasi
responsabilità personale negli eventi che determinano i destini soggettivi,
e culmina nella duplice sentenza che «Arcano è tutto, fuor che il nostro
dolor», e che «per virili imprese, per dotta lira o canto, virtù non luce in
disadorno ammanto», onde risulta evidente che, se le azioni virtuose
degli uomini e l’esercizio stesso delle arti, sono così indissolubilmente
associati alle qualità esteriori del corpo, essendo queste estremamente
caduche, anche i valori sono destinati a dissolversi con esse. Nella
poetessa lirica Saffo, Leopardi vede incarnato l’ideale artistico,
caratteristico del mondo greco, in cui poesia e musica si fondono, da lui
propugnato fino al punto di attribuire il titolo di Canti ad una raccolta
completa di poesie, e di ricorrere, non a caso, al ‘canto’ di Saffo per
ribadire l’efficacia di tale connubio.
116
La musica nei «Canti»
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CAPITOLO TERZO
LA MUSICA NEI CANTI
Si è visto, nel capitolo precedente, come i principali temi della
riflessione sulla musica si intessono insieme ai capisaldi della poetica
leopardiana: cercheremo adesso, attraverso l’analisi di alcuni Canti, di
evidenziare come i concetti espressi da Leopardi a livello teorico, trovino
un’applicazione diretta nella sua poesia. A tal fine, prenderemo in esame
L’Infinito e La vita solitaria, per evidenziare le modalità attraverso cui le
sensazioni sonore producono gli effetti vago-indefiniti caratteristici della
poesia leopardiana, Alla Primavera o delle favole antiche e Il passero
solitario, per spiegare la funzione del suono nell’evocazione del passato e
del ricordo, e infine, Aspasia e Sopra il ritratto di una bella donna
scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, per sostenere il
legame che intercorre tra bellezza umana e musica.
§ III.1
L’Infinito e La vita solitaria
Attraverso la figura di Saffo, Leopardi, non soltanto esprime la
rievocazione nostalgica dell’antico nesso fra poesia e musica,
definitivamente scisso nella modernità, ma ribadisce ancora una volta
l’esigenza di un tipo di poesia che punti a quella naturalezza, semplicità e
immediatezza che sono effetti spontanei della musica, grazie alla
funzione del suono, e che, nella poesia degli antichi erano elementi
caratterizzanti, sostituiti poi dalle ricercatezze e dagli artifici propri della
poesia moderna, «Leopardi conduce il suo esercizio poetico nel segno
117
La musica nei «Canti»
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dell’immaginazione, rifacendosi al modello degli antichi, pur nella
consapevolezza che quel mondo è perduto per sempre»306.
Nella poetica leopardiana, ferma restando la consapevolezza che
l’autenticità della poesia antica, sia per quanto riguarda i contenuti che lo
stile, è ormai irrecuperabile sul piano storico, la riproduzione degli effetti
ad essa connessi, non si risolve in una mera imitazione dei classici 307, ma
consiste in ciò che potremmo definire un ‘paradosso leopardiano’ 308 ,
ovvero nella creazione di un artificio tutto moderno, basato sulla
negligenza e sull’innovazione metrica, che consente alla poesia antica di
rivivere su un piano squisitamente fittizio.
E così Leopardi, poeta moderno, professa la sua scelta:
perdòno dunque se il poeta moderno segue le cose antiche, se adopera il
linguaggio e lo stile e la maniera antica, se usa eziandio le antiche favole ec., se
mostra di accostarsi alle antiche opinioni, se preferisce gli antichi costumi, usi,
avvenimenti, se imprime alla sua poesia un carattere d’altro secolo, se cerca in
somma o di essere, quanto allo spirito e all’indole, o di parere antico […]309.
Se la finzione, è già di fatto mescolata al tessuto poetico delle
due Canzoni, All’Italia e L’ultimo canto di Saffo in cui, attraverso i
monologhi affidati direttamente ai protagonisti Simonide e Saffo, si
realizza l’attualizzazione del mito, nel primo idillio, L’Infinito, essa
scaturisce da un atto volontario del poeta, che al v. 7 dichiara
E. Gioanola, L’Infinito e dintorni, da Leopardi, la malinconia, Milano, Jaca Book,
1995, p. 253.
307
Si veda a proposito il paragrafo Uno stile ch’essendo classico e antico paia
moderno…, in Leopardi. La retorica e lo stile, a cura di M. Manotta, Firenze,
Accademia della Crusca, 1998, pp. 98-130.
308
Cfr. a proposito L. Felici, Un canto dal nulla, Introduzione ai Canti, Roma, Newton
& Compton, 1996, pp. VII-XXXVI: «constatato il nulla universale, abbandonate le
“favole antiche” perché irrevocabili, la poesia di Leopardi nasce sotto il segno della
precarietà, come paradosso, scommessa, tentazione: nasce quando il poeta ha decretato
la morte della poesia. Anche in ciò la cifra della sua straordinaria modernità» (p. XXII).
309
Zib. 2946.
306
118
La musica nei «Canti»
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esplicitamente: «io nel pensier mi fingo», e
risulta così tematizzata
all’interno del contenuto stesso del componimento:
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare 310.
Secondo la lettura proposta da Michel Orcel, volta più a cogliere,
come hanno fatto per primi Francesco De Sanctis311 e Adriano Tilgher312,
il
‘significato
religioso’
insito
nell’esperienza
dell’infinito,
il
componimento consta di quattro tempi: «il primo tempo (v.1-3) è
l’impostazione del soggetto in una situazione di esclusione, di isolamento;
il secondo (v. 4-7) è la formazione di uno spazio mentale infinito e
silenzioso; il terzo (v. 7-13) è la trasmutazione di questo spazio operata
dalla manifestazione del vento; il quarto (v. 13-15) l’abolizione felice del
pensiero»313.
L’Infinito, p. 17.
Cfr. F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, Roma, Editori Riuniti, 1983.
312
Cfr. A. Tilgher, La filosofia di Leopardi, Bologna, Boni, 1979.
313
M. Orcel, Il suono dell’Infinito, in Leopardi, arte e verità cit., p. 61.
310
311
119
La musica nei «Canti»
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Quattro tempi che corrispondono ad altrettanti stadi in cui si
consuma una vera e propria esperienza mistica del soggetto, prima
avvolto nel silenzio assoluto della meditazione, poi attirato dallo stormire
del vento che si manifesta come ‘voce’ della divinità, e infine estasiato
nella dolcezza del naufragio:
tutto L’infinto deve dunque essere decifrato a partire dall’esperienza
centrale, “numinosa”, della Voce e del vento. E così si spiegano l’ouverture
celatamente religiosa – che prepara l’epifania del vento tramite l’ascensione di
un monte deserto (“ermo”), dove il soggetto si trova isolato, escluso – e il finale
della poesia, dove l’annientamento del pensiero si manifesta nella tematica
mistica dell’immersione […]314.
Ma se il valore dell’Infinito si gioca tutto intorno al significato da
attribuire alla voce del vento, bisognerà forse evitare di ricercare questo
significato all’esterno dell’ambito prettamente poetico in cui si svolge
l’idillio.
La finzione dichiarata nel v. 7, non riguarda in maniera
circoscritta solo L’Infinito, ma è ‘programmatica’ nel senso che annuncia
gli itinerari della futura produzione poetica leopardiana, pertanto,
quell’«io mi fingo» può essere considerato equivalente ad un «io mi
immagino»315, affermazione che chiama in gioco proprio quella «facoltà
immaginativa» di cui Leopardi parla nella sua ‘teoria del piacere’, che
sopperisce alla perdita delle illusioni e genera sensazioni vago-indefinite.
Nello Zibaldone, come si è visto, il poeta teorizza l’esistenza di
due categorie di sensazioni vago-indefinite, una di natura visiva e l’altra
314
Ibidem, pp. 69-70.
Nell’edizione dei Canti curata da N. Gallo e C. Garboli, Torino, Einaudi, 1972, p.
105, nota n. 7, l’affermazione è spiegata con: «cerco di immaginare con la mia fantasia»;
nel commento ai Canti a cura di A. Straccali cit., p. 38, nota n. 7, «fingo» è spiegato
letteralmente con «immagino».
315
120
La musica nei «Canti»
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di natura uditiva, rintracciabili sul piano poetico, rispettivamente, ai vv.
1- 7½ e 7½ -15 dell’Infinito.
Nella prima parte del componimento è la siepe che, occultando
allo sguardo la linea dell’orizzonte, genera «le immaginazioni
dell’infinito […], per cui lo spazio vasto dal colle all’orizzonte si
trasforma (nella mente) in uno spazio illimitato, anzi per usare
l’espressione del ’19, “interminato”»316, e in questo senso, la siepe come
l’«ermo colle» che corrisponde geograficamente al Monte Tabor 317 ,
lungi da qualsiasi intento metaforico, sono impiegate nel senso concreto
di luoghi familiari al poeta che contribuiscono a rendere quell’idea di
quotidianità e di consuetudine che caratterizza gli idilli318, consuetudine
che nega alla rivelazione dell’infinito lo statuto di esperienza eccezionale
e irripetibile, additandola come risultato di un processo mentale il cui
ingranaggio si aziona quasi automaticamente ogni volta che il poeta si
trova si trova di fronte a quella veduta.
A riprova di questo interviene anche la posizione incipitale
dell’avverbio
«sempre» che
esprime
la
ripetizione nel
tempo
dell’esperienza descritta, e il verbo «fu» al passato remoto «l’unico in un
testo tutto costruito al presente» che «anziché puntualizzare il dato nel
tempo, lo discioglie nella prospettiva di una durata indefinita»319.
La rappresentazione del poeta che, ‘impedito’ rispetto alla realtà
circostante, travalica i limiti spazio-temporali grazie all’immaginazione,
è una situazione topica all’interno dei Canti, ma nell’Infinito può
Cfr. L. Blasucci, Paragrafi sull’«Infinito», in Leopardi e i segnali dell’infinito,
Bologna, Il Mulino, 1985, p. 102.
317
Cfr. G. Leopardi, I Canti, a cura di A. Straccali cit., p. 37, nota n. 1, a proposito del
monte Tabor che «oggidì […] ridotto a passeggio pubblico e frequentatissimo, ha
perduto la vaga rozzezza e in parte anche la forma natìa; ma a’ tempi del poeta, che
volentieri vi si recava a diporto, e vi si tratteneva fuor della vista della gente, era
veramente ermo [romito], folto di alberi e irto di sterpi a maniera di siepi».
318
Cfr. N. Merola, Leopardi e il sapere poetico, in Poesia italiana moderna cit., p. 155.
319
Cfr. L. Blasucci, Paragrafi sull’«Infinito», in Leopardi e i segnali dell’infinito cit., p.
97.
316
121
La musica nei «Canti»
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diventare ‘occasione’, per la particolare intensità con cui il pensiero si
compenetra
negli
«interminati
spazi»,
«sovrumani
silenzi»
e
«profondissima quiete», fino quasi a perdersi in quella sensazione di
infinito («ove per poco il cor non si spaura»). Nella seconda parte del
componimento la voce del vento richiama alla realtà il pensiero del poeta
che immediatamente formula il paragone (vo comparando) tra il dato
attuale e concreto che è lo stormire del vento, e il dato irreale che è il
silenzio, aggettivato prima con “sovrumano” poi con “infinito”, che lui
poco prima stava immaginando, un paragone che si impernia sulla
piacevolezza delle sensazioni destate da solitudine e silenzio, e
all’opposto, dal suono, come è descritto in due diversi passi dello
Zibaldone
a ciò che ho detto altrove delle voci ermo, eremo, romito, hermite,
hermitage, ghermita ec., tutte fatte dal greco έρημος , aggiungi lo spagnolo
ermo, ed ermar (con ermador ec.) che significa desolare, vastare, appunto
come il greco έρημοω […]. Queste voci e simili sono tutte poetiche per
l’infinità o vastità dell’idea ec. ec. Così la deserta notte, e tali immagini di
solitudine, silenzio ec. […]320
è piacevolissima ancora […], la vista di una moltitudine innumerabile
[…], un moto molteplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un
ondeggiamento vago ec., che l’animo non possa determinare, né concepire
definitamene e distintamente ec., come quello di una folla, o di un gran numero
di formiche o del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni
irregolarmente mescolati, e non distinguibili l’uno dall’altro ec. ec. ec. […]321.
Le due parti del componimento sono costruite in modo speculare
tra loro: nella prima parte, le sensazioni vago-indefinite traggono origine
320
321
Zib. 2629.
Zib. 1746-1747 corsivo mio.
122
La musica nei «Canti»
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dall’atto del “mirare”, da una determinata posizione, cioè «sedendo», il
confine fra la siepe e il cielo, all’opposto di quanto espresso nello
Zibaldone:
ponetevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato
dalla terra, voi proverete una sensazione molto meno piacevole che
considerando una campagna, o considerando il cielo nella sua corrispondenza e
relazione colla terra, ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista
[…]322;
nella seconda parte, il verbo “mirare” è sostituito dal verbo
“udire”, pertanto, alla fase visiva subentra quella acustica, in cui si
realizzano tutte «le condizioni essenziali per creare effetti d’infinito»323.
C’è la «vastità» spaziale, rappresentata attraverso l’uso dei polisillabi
«interminati», «sovrumani», «profondissima», «immensità», dove la
voce del vento si diffonde più facilmente e con maggior effetto, è
presente l’«impedimento» dato da «queste piante», che contribuiscono tra
l’altro ad oggettivare la presenza del vento, e la percezione confusa del
suono che ne deriva, mentre manca l’«ambientazione notturna» che
impedirebbe al poeta di scorgere l’orizzonte, ma l’«occultamento della
fonte di provenienza» del suono assicura gli effetti descritti nella pagina
dello Zibaldone datata 16 Ottobre 1821324.
Se nell’Infinito il conseguimento degli effetti vago-indefiniti è
perseguito a partire dall’ambientazione in uno spazio e in un tempo
illimitati, scanditi soltanto da un ostacolo visivo che è la siepe, e da una
sensazione acustica che è il vento, nella Vita solitaria, Leopardi segue un
percorso opposto che prende le mosse, appunto, dalla descrizione di
luoghi circoscritti, da una serie di habitat, per così dire, dove i soggetti
322
Zib. 1746.
Cfr. L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante cit., p. 41.
324
Ibidem, pp. 41-42.
323
123
La musica nei «Canti»
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nominati in apertura del componimento appaiono in una situazione di
intimità veramente idillica. La gallinella nella «chiusa stanza», il pollaio,
che col suo fendere le ali trasmette un senso di gioia, il contadino che ha
come dimora i campi («abitator de’ campi»), e infine, il poeta al chiuso
nella sua «capanna» 325 , risvegliato dal dolce rumore della «mattutina
pioggia» che si infrange contro i vetri, una tipica situazione in cui il
recupero dei sensi coincide con la percezione di stimoli visivi come la
luce incerta del sole che cerca di far penetrare i suoi raggi tra la pioggia
cadente, «i lievi nugoletti» e «le ridenti piagge» che godono dei benefici
del sole, e di stimoli acustici come il rumore della pioggia e il «primo
degli augelli susurro».
Un ambiente circoscritto, racchiuso dentro le «cittadine infauste
mura», è anche quello dove si consuma tra molte sofferenze la
giovinezza del poeta, è Recanati, la città natale da cui ancora nel 1821,
anno di composizione dell’idillio, lui non si è mai allontanato, e in cui
immagina di dover morire (vv. 13-14: e doloroso / io vivo, e tal morrò,
deh tosto!), eppure l’amarezza suscitata dall’idea di una natura del tutto
indifferente alla sorte degli uomini, ai quali non resta altro rimedio
all’infelicità che il suicidio (v. 22: non resta altro che il ferro), qui appare
leggermente attenuata dalla rievocazione delle illusioni nate in passato,
proprio sullo sfondo di quei luoghi (vv. 14-17: Alcuna / benché scarsa
pietà pur mi dimostra / natura in questi lochi, un giorno oh quanto / verso
me più cortese!), prima fra tutte l’illusione dell’amore.
I vv. 23-25 propongono una situazione analoga a quella
dell’Infinito, il poeta si trova nella stessa posizione, seduto in un luogo
solitario, da dove osserva la realtà circostante in una prospettiva molto
325
Si riferisce «alla casa rustica dove il poeta si trova o finge di trovarsi. A San
Leopardo, non molto lungi da Recanati, possedevano i Leopardi un rozzo villino; da
una lettera della zia Melchiorri del 15 luglio 1820 […] si può ricavare che il p. vi andò
nella estate del 1820, e forse nei successivi, o almeno nel seguente» (cfr. Straccali cit., p.
70, nota n. 6).
124
La musica nei «Canti»
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ridotta, da cui riesce a scorgere soltanto un lago circondato da piante
definite «taciturne», per l’assenza del vento e di qualsiasi altro elemento
sonoro, come viene dettagliatamente illustrato nel lungo elenco di ‘suoni
mancanti’, scandito da ben otto negazioni, ai vv. 26-32 ( Ivi, quando il
meriggio in ciel si volve, / la sua tranquilla imago il Sol dipinge, / ed erba
o foglia non si crolla al vento, / e non onda incresparsi, e non cicala /
strider, né batter penna augello in ramo, / né farfalla ronzar, né voce o
moto / da presso né da lunge odi né vedi).
Nell’Infinito, la situazione iniziale di quiete assoluta è interrotta
dalla voce del vento, qui è la totale assenza dell’elemento acustico che
favorisce l’«altissima quiete», senza provocare, tuttavia, sgomento nel
cuore del poeta, ma uno stato di apatia (vv. 34-35: ond’io quasi me stesso
e il mondo obblio / sedendo immoto) e di insensibilità (vv. 35-37: e già
mi par che sciolte / giaccian le membra mie, né spirto o senso / più le
commuova),successivamente smosso, anche in questo caso, da un suono,
un canto di fanciulla che si diffonde all’interno di una stanza, e per di più
di notte quando la percezione dei suoni, particolarmente gradita
all’orecchio del soggetto che la percepisce, è più adatta a determinare
sensazioni vago-indefinite (vv. 63-67: e di fanciulla / che all’opre di sua
man la notte aggiunge / odo sonar nelle romite stanze / l’arguto canto; a
palpitar si move / questo mio cor di sasso).
Le prime due strofe della Vita solitaria descrivono il passaggio da
una fase di partecipazione emotiva del poeta, mista tra la dolcezza e il
rammarico per le illusioni perdute, alla vita che si svolge intorno a lui, ad
un’altra fase, introdotta dall’avverbio «talor» in apertura della seconda
strofa, che evidenzia lo stacco tra l’iniziale partecipazione e il momento
in cui interviene il bisogno di solitudine che induce il poeta ad appartarsi
in un luogo solitario e in un’ora particolare del giorno ( v. 26: quando il
meriggio in ciel si volve), quando tutto tace e non c’è alcun suono che
determini distrazione.
125
La musica nei «Canti»
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In un passo coevo dello Zibaldone, generalizzando il discorso
che nel componimento risulta prettamente soggettivo, Leopardi, spiega
che i meccanismi che generano nell’uomo l’esigenza di ripiegare su se
stesso, non scaturiscono mai dall’interno, ma sono conseguenza di
situazioni e di avvenimenti esterni:
l’uomo sociale, finch’egli può, cerca la sua felicità e la ripone nelle cose
al di fuori e appartenenti alla società, e però dipendenti dagli altri. Questo è
inevitabile. Solamente o principalmente l’uomo sventurato, e massime quegli
che lo è senza speranza, si compiace della sua compagnia, e di riporre la sua
felicità nelle cose sue proprie, e indipendenti dagli altri; e insomma segregare la
sua felicità, dall’opinione e dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch’egli
non può conseguire, o sperare. Forse per questo, o anche per questo, si è detto
che l’uomo che non è mai stato sventurato non sa nulla. L’anima, i desideri, i
pensieri, i trattenimenti dell’uomo felice, sono tutti al di fuori, e la solitudine
non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del pensiero […]326.
Nella terza strofa, si condensa la presenza di situazioni tipiche e
di personaggi cari a Leopardi, anche con riferimenti autobiografici: c’è il
«garzoncello», simbolo della speranza intatta che riempiva il cuore del
poeta nella tenera età, c’è la «donzelletta», definita «vaga» per il
desiderio di felicità che traspare dall’espressione del suo volto, c’è la
fanciulla che canta in cui non possiamo che riconoscere Silvia, e poi c’è
l’amore, doppiamente invocato (v. 39: Amore, amore), come nei Ricordi
d’infanzia e di adolescenza (Amore, amore cantato dai fanciulli),
illusione vitale, la cui mancanza è sentita come causa principale di quella
«sventura» che fa allontanare l’uomo da ogni altro interesse per la realtà
che lo circonda, se è vero che solo esso «è la vita e il principio della
326
Zib. 634-635.
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La musica nei «Canti»
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natura»327. Nella metafora dei vv. 39-44, la vitalità ispirata dall’amore nel
cuore del poeta «che fu sì caldo un giorno, anzi rovente», è trasformata in
«ghiaccio» dalla «fredda mano» della «sciaura», che in questo caso
coincide con l’inevitabile sopraggiungere dell’età adulta e, di
conseguenza, della ragione che provoca la perdita definitiva delle
illusioni, mentre in casi come quello di A Silvia coincide addirittura con
la freddezza della morte (vv. 60-63: All’apparir del vero / tu, misera,
cadesti: e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi
di lontano).
La situazione di totale solitudine, in cui Leopardi si trova
immerso già nella strofa precedente, lo induce qui a ritornare col pensiero
alla gioventù definita tempo ‘irrevocabile’, nell’accezione indefinita che
descritta nel passo dello Zibaldone datato 20 agosto 1821
le parole irrevocabile, irremeabile e altre tali, produrranno sempre una
sensazione piacevole (se l’uomo non vi si avvezza troppo), perché destano
un’idea senza limiti, e non possibile a concepirsi interamente. E però saranno
sempre poeticissime: e di queste tali parole sa far uso, e giovarsi con
grandissimo effetto il vero poeta […]328.
La presenza dell’elemento vago-indefinito caratterizza anche le
varie situazioni introdotte dal «pur» avversativo di v. 56 che contrappone
all’infelicità del poeta, descritta nei versi precedenti, alcuni esempi di
sensazioni visive e sonore, capaci di risvegliare, per qualche breve attimo,
le sue emozioni di un tempo: la vista delle «piagge apriche» che, secondo
quanto è teorizzato nello Zibaldone, «è piacevole per la vastità della
sensazione»329; l’aggettivo «vaga», riferito alla donzelletta, che di per sé
è riconosciuto come termine poetico per eccellenza; il «vagabondo
327
Zib. 59.
Zib. 1534.
329
Zib. 1745.
328
127
La musica nei «Canti»
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passo» del poeta che, sebbene non risulti esplicitato nel testo, risuona nel
silenzio della notte; non è il caso di soffermarsi nuovamente sul
significato del ‘canto della fanciulla’, se non per riportare il
componimento del 1828 che porta proprio questo titolo e che racchiude,
nella sentenza finale, il significato profondo attribuito da Leopardi al
ricordo della speranza:
Canto di verginella, assiduo canto,
che chiuso ricetto errando vieni
per le quiete vie; come sì tristo
suoni agli orecchi miei? perché mi stringi
sì forte il cor, che a lagrimar m’induci?
e pur lieto sei tu; voce festiva
de la speranza: ogni tua nota il tempo
aspettato risuona. Or, così lieto,
al pensier mio sembri un lamento, e l’alma
mi pungi di pietà. Cagion d’affanno
torna il pensier de la speranza istessa
a chi per prova la conobbe330.
Nella strofa finale della Vita solitaria, alla creazione di effetti
vago-indefiniti, contribuisce anche l’ambientazione notturna che si
contrappone a quella diurna della prima strofa. E se il buio, interrotto qua
e là dalla luce incerta della luna, e dai rumori prodotti dai movimenti di
qualche malfattore che esplica la sua azione nella notte, «il fragor delle
rote e de’ cavalli», «il calpestio de’ piedi» e «il suon dell’armi», provoca
timore nella gente comune, per il poeta, al contrario, rappresenta lo
sfondo ideale per la solitudine.
330
Il canto della fanciulla, p. 350.
128
La musica nei «Canti»
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§ III.2
Alla Primavera o delle favole antiche e Il passero solitario
Il
nucleo ideologico
della canzone
Alla Primavera
va
indubbiamente collegato al contenuto della lettera scritta a Pietro
Giordani il 6 marzo 1820
sto anch’io sospirando caldamente la bella primavera come l’unica
speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell’animo mio; e poche sere
addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un
cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tiepida e certi cani che
abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve
di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato,
domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto
tempo […]331
dove, l’impedimento fisico dato dalla finestra, la sensazione
‘visiva’, data dal raggio di luna, e la sensazione ‘uditiva’, data
dall’abbaiare dei cani proveniente, non a caso, da lontano, richiamano nel
poeta, il ricordo di avvenimenti passati, ma soprattutto i sentimenti ad
essi collegati.
Il contenuto del componimento presenta due valenze, una
individuale, l’altra collettiva o storica, in base alle quali, le «immagini
antiche» rappresentano, sia il riflesso della memoria personale del poeta,
sia le ‘figure’ che nascevano dall’immaginazione degli antichi e che
popolavano le loro favole, considerando, dunque, «la primavera […],
come tramite verso un passato irripetibile, e pur giovevole, in quanto
pausa e momentanea alternativa al dolore»332.
331
Ep. 287.
E. Circeo, La querelle «antico-moderno» nella canzone leopardiana Alla Primavera,
in Leopardi e il mondo antico cit., p. 374.
332
129
La musica nei «Canti»
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Nella querelle tra antico e moderno, implicita nel significato della
canzone, si inserisce anche l’utilizzo, nel suo sottotitolo, di un termine
come ‘favola’, che non allude all’imitazione della mitologia antica,
aspramente criticata nello Zibaldone
gli scrittori italiani o moderni che usano le favole antiche alla maniera
degli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione. L’imitare non è
copiare, né ragionevolmente s’imita se non quando l’imitazione è adattata e
conformata alle circostanze del luogo, del tempo, delle persone ec. in cui e fra
cui si trova l’imitatore, e per li quali imita, e a’ quali è destinata e indirizzata
l’imitazione […]. Altrimenti l’imitazione è da scimmie […]333
ma mira a valorizzare una tendenza che accomuna i moderni con
gli antichi, che è quella di far rivivere, attraverso la memoria e
l’immaginazione, personaggi e avvenimenti appartenuti a luoghi ed
epoche lontane, adattandoli alle circostanze attuali.
In sostanza, rispetto alla mera imitazione, Leopardi predilige
questa inclinazione e quest’uso di applicare a luoghi e persone ben note
e prossime i racconti (veri o finti) appartenenti a persone e luoghi lontani, ed
anche di rimodernarli, cioè applicar de’ racconti vecchi, e talora vecchissimi, a
tempi e persone moderne […]. Altra conformità degli antichi coi moderni,
poiché anche gli antichi ebbero lo stesso vezzo […]334.
‘Favola’, dunque, nel senso di ‘racconto’ di avvenimenti reali o
immaginari, è il significato che Leopardi attribuisce al termine in
questione, con una motivazione che Blasucci così spiega: «Leopardi
preferisce dire Favole piuttosto che mito, con l’iniziale maiuscola che i
moderni editori tendono a eliminare, ma che va invece conservata e
333
334
Zib. 3463.
Zib. 4224.
130
La musica nei «Canti»
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rispettata, ponendosi in perfetta specularità con l’altra maiuscola di
Primavera, per una comune funzione di risalto emblematico e mitico
delle due parole. Favola anziché mito perché Leopardi riconduce
vichianamente la parola all’etimo di fabula: da for faris “parlare”, quindi
“comunicare”, “esprimere”»335.
Nel componimento, anche il motivo della primavera come
portatrice di effetti salutari e positivi, ha un valore che si estende ben
oltre la sfera soggettiva illustrata nella lettera a Giordani, infatti, alle
proposizioni concessive dei vv. 1-9 (Perché i celesti danni / ristori il sole,
e perché l’aure inferme / zefiro avvivi, onde fugata e sparta / delle nubi la
grave ombra s’avvalla; / credano il petto inerme / gli augelli al vento, e la
diurna luce / novo d’amor desio, nova speranza / né penetrati boschi e fra
le sciolte / pruine induca alle commosse belve) 336 che sembrano
decantare i benefici della primavera sulla natura e sugli animali, si
contrappone l’ironia di quel «forse» al v. 10, che introduce
un’interrogazione retorica di senso negativo, in cui il poeta commisera la
condizione dell’uomo che vede dileguarsi i privilegi della giovinezza,
della «bella età», non appena il vero mostra la sua «atra face».
Il privilegio della gioventù che Leopardi rimpiange è, in primo
luogo, quello di una maggiore sensibilità e vitalità, e così si esprime a
riguardo nel passo dello Zibaldone datato 4 giugno 1823:
in primavera non è dubbio che la vita nella natura è maggiore, o, se non
altro, è maggiore il sentimento della vita, a causa della diminuzione e torpore di
esso sentimento cagionato dal freddo, e del contrasto fra il nuovo sentimento, o
fra il ritorno di esso, e l’abitudine contratta nell’inverno. Questo accrescimento
di vita (chiamiamolo così) è comune in quella stagione, come alle piante, e agli
335
L. Blasucci, I titoli dei« Canti» e altri studi leopardiani, Napoli, Morano, 1989, p.
159.
336
Alla Primavera o delle favole antiche, p. 12.
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La musica nei «Canti»
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animali, così agli uomini, e massime agli individui giovani, sì della predette
specie come dell’umana […]337.
Da sempre, alla transitorietà dell’esistenza umana si contrappone
l’eterna ciclicità della natura, solo che, con il trascorrere delle
generazioni, e con il passaggio dall’antico al moderno, il rapporto tra
uomo e natura è cambiato, a discapito di quella ingenuità che faceva
contemplare con fiducia all’uomo i vari aspetti della realtà circostante,
senza il tormento di sapere che cosa si celasse effettivamente dietro ogni
parvenza.
Il tema dominante della canzone, che si inserisce nell’ambito
della polemica antiromantica di Leopardi, in coda al Discorso di un
italiano intorno alla poesia romantica e alle precedenti canzoni che
trattano lo stesso tema, è, sostanzialmente, il rimpianto per un passato
poetico in cui la natura parlava al poeta senza che questi la interrogasse, e
proprio la semplicità di questo rapporto era il fondamento delle mitologie
antiche che avevano un carattere completamente opposto rispetto a quelle
moderne, perché:
non cercavano l’oscuro per tutto, eziandio nel chiaro; anzi cercavano il
chiaro nell’oscuro; volevano spiegare e non mistificare, e scoprire; tendevano a
dichiarare colle cose sensibili quelle che non cadono sotto i nostri sensi, a
render ragione a lor modo e meglio che potevano, di quelle cose che l’uomo non
può comprendere, o che essi non comprendevano ancora. Gli inventori delle
ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi secoli della nostra
era, decisamente cercavano l’oscuro nel chiaro, volevano spiegare le cose
sensibili e intelligibili colle non intelligibili e non sensibili; si compiacevano
delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e manifeste, con dei misteri e
dei secreti […]338.
337
338
Zib. 2752-2753.
Zib. 4239.
132
La musica nei «Canti»
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Nella prima strofa, che si svolge al tempo presente, in accordo
con l’ultima, e in opposizione al passato remoto adoperato nelle tre strofe
centrali dedicate alla trattazione del mito, è possibile estrapolare alcune
immagini, come quella di zefiro che insinuandosi fra le nubi sparpaglia le
loro ombre, dei riflessi interrotti della luce che si infiltra nei «penetrati
boschi», del profumo caratteristico della primavera («primavera odorata»)
che «eccita» e «tocca»
339
un cuore, come quello del poeta,
prematuramente irrigidito dagli effetti della vecchiaia, che perseguono la
stessa atmosfera di indefinito, di cui si è argomentato nei precedenti
paragrafi.
L’interrogazione che Leopardi rivolge direttamente alla natura nei
vv. 20-21 (Vivi tu, vivi, o santa / natura?), non ha un senso letterale, in
quanto lui è perfettamente cosciente che la natura, incurante
dell’avvicendarsi delle generazioni degli uomini sulla terra, prosegue
ininterrottamente il suo corso, ma acquista il suo vero significato grazie
alla successiva espressione dei vv. 21-22 (vivi e il dissueto orecchio
/della materna voce il suono accoglie?) con cui la ‘vita’ della natura è
considerata in relazione al suo manifestarsi attraverso le parole suggerite
ai poeti, cosa che non si verifica più da quando l’attenzione è carpita da
numerose altre questioni che distolgono l’animo dall’ascolto del suono
della «materna voce».
In Alla Primavera, il ricordo del passato, introdotto dall’avverbio
«già» di v. 23 , consiste in una rievocazione dei più importanti miti
classici, di quando «i fiumi erano abitati da ninfe, le selve scosse da
misteriose danze “d’immortal piede” e il pastorello che nell’ora segreta
del meriggio conduceva sulla riva il gregge assetato poteva udire le
musiche dei fauni e avvertire stupito, nel tremolio della acque, la
339
Cfr. Straccali cit., nota al v. 17, p. 107.
133
La musica nei «Canti»
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presenza di Diana al bagno. Tutto allora – i fiori, le erbe, i boschi, gli
animali, i venti, le nuvole, gli astri – era in animato, personale accordo
con l’uomo»340, ma all’interno di questa descrizione non poteva mancare
la spiegazione della «personificazione dell’eco» che, per il poeta, è un
valido «esempio di quanto fosse naturale e piena di amabili e naturali
illusioni la mitologia greca»341.
Nei vv. 59-69 (Né dell’umano affanno, / rigide balze, i luttuosi
accenti / voi negletti ferìr mentre le vostre / paurose latebre Eco solinga,
/non vano error dei venti, / ma di ninfa abitò misero spirto, / cui grave
amor, cui duro fato escluse / dalle tenere membra. Ella per grotte, / per
nudi scogli e desolati alberghi, / le non ignote ambasce e l’alte e rotte /
nostre querele al curvo / etra insegnava), la figura di Eco può essere
paragonata a quella di Saffo, protagonista della canzone coeva, infatti,
entrambe simboleggiano il dolore umano per il fallimento della più bella
illusione che è quella dell’amore, e in entrambe il dolore si esprime
attraverso la ‘voce’, che in Eco, è ‘puro suono’, in Saffo è già canto.
La rappresentazione di Eco ha, tuttavia, un’altra funzione
importante per Leopardi, che è quella di giustificare l’origine di
un’immagine che, insieme ad altre sensazioni acustiche, come il fragore
del tuono o lo stormire del vento, sortisce un eccezionale effetto poetico,
infatti, in poesia
è piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il
calpestio de’ piedi o la voce ec. Perocché l’eco non si vede ec. E tanto più
quanto il luogo e l’eco è più vasto, quanto più l’eco vien da lontano, quanto più
si diffonde; e molto più ancora se vi si aggiunge l’oscurità del luogo che non
lasci determinare la vastità del suono, né i punti da cui esso parte ec. ec. […]342.
340
Cfr. G. Leopardi, Poesie a cura di M. A. Rigoni, cit., p. 931.
Zib. 52.
342
Zib. 1929.
341
134
La musica nei «Canti»
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Il triste canto dell’usignolo, del «musico augel» che viene «il
rinascente anno cantando», si diffonde nel primaverile silenzio notturno,
lamentando, secondo il racconto ovidiano 343 , il ricordo delle proprie
dolorose vicende, si fa anche portavoce delle sciagure umane. Ma questa
è la funzione consolatoria del mito, mentre nella realtà, a cui si ritorna
nell’ultima strofa, l’usignolo non è «cognato» al genere umano, non è
macchiato da nessuna colpa, e la sua espressione attraverso il canto è
autentica, e non nasconde altri sentimenti come fa, talvolta, il canto degli
uomini, per camuffare la paura
il cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per farci
compagnia da noi stessi come comunemente si dice, né per distrarci puramente,
ma […] per mostrare e dare ad intendere a noi stessi di non temere. La quale
osservazione potrebbe forse applicarsi a molte cose, e dare origine a parecchi
pensieri […]344.
Nel Passero solitario, invece, sia il canto dell’uccello che quello
del poeta rappresentano una sorta di rimedio alla solitudine in cui si
trovano immersi, l’uno, per volere della natura, l’altro, per le sue scelte di
vita che gli stessi familiari gli rimproverano 345, in un confronto che si
343
Cfr. G. Leopardi, Canti, a cura di A. Straccali cit., nota n. 71, p. 111: «Secondo la
favola, Tereo, re di Tracia, violò Filomela sua cognata; poi, perché essa minacciava
vendetta della offesa patita, le recise la lingua, e la rinchiuse. Ma Filomela riuscì, per
mezzo di una tela ricamata, a far conoscere la propria sventura a Progne, moglie di
Tereo. La quale per vendicar la sorella uccise il figlio Iti, e ne apprestò le carni in cibo
al marito. Tereo, ignaro, mangiò; ma, fatto esperto dell’orrendo delitto, si diè a
perseguitare le due sorelle. Nella fuga, Filomela fu convertita in usignolo, Progne in
rondine, e Tereo in upupa. – Il Leopardi, molto probabilmente, si attenne al racconto
ovidiano, secondo il quale (cfr. Met. VI, 642), Filomela prese parte alla scellerata
vendetta».
344
Zib. 43.
345
Cfr. Zib. 4421: «sempre mi desteranno dolore quelle parole che soleva dirmi
l’Olimpia Basvecchi riprendendomi del mio modo di passare i giorni della gioventù, in
casa, senza vedere alcuno: che gioventù! che maniera di passare cotesti anni! Ed io
concepiva intimamente e perfettamente anche allora tutta la ragionevolezza di queste
parole […]».
135
La musica nei «Canti»
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esplica, sul piano formale, attraverso la struttura simmetrica del
componimento che, nelle prime due strofe, descrive l’esclusione dei
rispettivi
protagonisti dall’armonia circostante, e nella terza strofa,
concentra il paragone finale sul destino di vecchiaia e di morte, alla cui
soglia, a differenza del passero, il poeta giungerà pieno di rimpianti per il
tempo passato (vv. 58-59: Ahi pentirommi, e spesso, / ma sconsolato,
volgerommi indietro).
Benché gli animali risultino tra le figure più presenti nei Canti346,
solo nel
Passero solitario, viene menzionata fin dal titolo questa
particolare specie di uccello, che si distingue per l’abitudine a vivere
appartato in luoghi alti, e per la melodiosità del suo canto, proprio come
il poeta, la cui esclusione dal contesto sociale è messa in evidenza, nella
sua opera, mediante l’abitudine di rappresentarsi in luoghi appartati, in
questo caso una «rimota parte della campagna», e il cui canto consiste nel
suo poetare.
La prima strofa è ricca di riferimenti alla sfera del suono: il
gerundio del verbo cantare, al v. 3, che esprime la continuità dell’azione,
diluisce la sensazione acustica nello spazio di un’intera giornata,
associando ai suoi effetti, l’armonia che permea tutta la valle (vv. 1-4:
D’in su la vetta della torre antica, / passero solitario, alla campagna /
cantando vai finchè non more il giorno; / ed erra l’armonia per questa
valle); l’«odi» di v. 8, ha una funzione complementare rispetto al «miri»
di v. 12, nel senso che, lo sguardo attento, il «mirare» del passero,
scaturisce dall’ascolto di alcuni suoni (il belare delle greggi, il muggire
degli armenti, il cinguettio degli altri uccelli).
Al coro di questi animali, che è quasi un inno di gioia alla vita, si
contrappongono l’isolamento e l’atteggiamento pensieroso del passero (v.
346
Per la presenza degli animali, non solo nei Canti, ma in numerosi altri luoghi
dell’opera leopardiana, si veda il saggio P. Paolini, Gli animali nell’opera leopardiana,
in Leopardi e lo spettacolo della natura cit., pp. 275-311.
136
La musica nei «Canti»
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12: tu pensoso in disparte il tutto miri), metafora dell’atteggiamento
meditativo di Leopardi di fronte alla presa di coscienza della vanità del
tutto che ci circonda. In questa chiave, anche quel «canti», posto in una
posizione di rilievo all’inizio del v. 15, dopo una serie di negazioni, «non
compagni» «non voli» «non ti cal d’allegria» «schivi gli spassi», può
essere letto, non solo nel suo significato letterale del canto come
prerogativa concessa dalla natura all’uccello, ma come scelta di vita del
poeta, il quale avendo compreso che ogni forma di felicità è puramente
illusoria e che non esiste alcun rimedio all’umana sofferenza, trova
rifugio esclusivamente nella solitudine e nella poesia
ma il fatto sta che il male, soggetto del dolore e delle passioni
dispiacevoli, è reale; il bene, soggetto della gioia, non è altro che immaginario:
e perché la gioia fosse tale da superare la capacità dell’animo nostro, si
richiederebbe, come ne’ fanciulli e ne’ primitivi, una forza e freschezza
d’immaginazione persuasiva e d’illusione, che non è più compatibile con la vita
d’oggidì […]347;
[…] oggidì colui che si trova in compagnia degli uomini, si trova in
compagnia del vero, (cioè del nulla, e quindi non c’è maggior solitudine), chi
lontano dagli uomini, in compagnia del falso. Laonde questo detto sebbene
antico e riferito al sapiente, conviene molto più molto più a’ nostri secoli, e non
al sapiente solo, ma all’universalità degli uomini, e massime agli sventurati
[…]348.
L’analogia tra il modo di vivere del poeta e quello del passero è
esplicitata mediante l’esclamazione dolorosa dei vv. 17-18 (Oimè, quanto
somiglia / al costume il mio), che aprono la seconda strofa.
347
348
Zib. 717.
Zib. 718.
137
La musica nei «Canti»
______________________________________________________________________
Accogliendo l’ipotesi di una datazione tarda del componimento,
probabilmente il 1829, la descrizione della gioventù del poeta nel suo
«loco natio», che si dilunga nei vv. 18-45, illustra «post factum» il
carattere del protagonista e la sua «vocazione alla solitudine per una
nativa incapacità di partecipazione alla vita dei coetanei, qui raffigurata
nel passeggio per le vie del borgo in un giorno di festa»
349
,
configurandosi, quindi, come una rievocazione del passato, all’interno
della quale, non potevano mancare i consueti richiami acustici, il «suon
di squilla» e il «tonar di ferree canne, che rimbomba lontan di villa in
villa», ai quali spetta il compito di agevolare la memoria del poeta.
349
L. Blasucci, I tempi dei «Canti» cit., p. 191.
138
La musica nei «Canti»
______________________________________________________________________
§ III.3
Aspasia e Sopra il ritratto di una bella donna
In Aspasia e in Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel
monumento sepolcrale della medesima, sono rappresentati due probabili
esiti del sentimento amoroso, nel primo caso, che rispecchia la vicenda
biografica dell’innamoramento di Leopardi per Fanny Torgioni Tozzetti,
c’è la delusione, e il conseguente desiderio di riscatto attraverso
«l’affermazione della propria personalità e del proprio mondo
interiore»350, nel secondo caso, ritorna l’esito doloroso della morte e della
dissoluzione della bellezza ispiratrice d’amore.
Il ricordo di Aspasia, figura di donna tanto bella quanto
insensibile, plasmata non a caso su modello dell’omonima etèra amata da
Pericle, si ripresenta davanti al poeta indipendentemente dalla sua
volontà, sia che si trovi tra la gente o in solitudine «quella superba vision
risorge», e anche qui, come in altri canti, sono gli ‘odori’ a risvegliare
nella memoria le sensazioni più piacevoli, quelle che nello Zibaldone
come si è visto, il poeta chiama ‘indefinite’, e che in questo caso
coincidono con il vagheggiamento per la bellezza della donna amata.
Riprendendo la distinzione fra le due categorie di ‘donne
leopardiane’, quelle dai sedici ai diciotto anni, che per la loro freschezza
e ingenuità suscitano un sentimento sincero di ammirazione, e quelle dai
venticinque ai trent’anni che, invece, hanno «più d’attraits», certamente
Aspasia appartiene alla seconda categoria, per la malizia che il poeta
ricorda nei suoi atteggiamenti, esasperandone certamente alcuni tratti,
come quando intravede un’«intenzione di civetteria» 351 perfino nelle
tenerezze che rivolge, con lui presente, alle sue figlie ( vv. 20-26: quando
tu, dotta / allettatrice, fervidi sonanti / baci scoccavi nelle curve labbra /
de’ tuoi bambini, il niveo collo intanto / porgendo, e lor di tue cagioni
350
351
W. Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1984, p. 64.
G. Leopardi, Canti, a cura di L. Felici cit., nota n. 25, p. 180.
139
La musica nei «Canti»
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ignari / con la man leggiadrissima stringevi / al seno ascoso e desiato)352,
ma è evidente, in questo, l’obiettivo del poeta di mettere in cattiva luce la
donna che lo ha deluso e di giustificare la propria debolezza nei
confronti di chi, stando a ciò che aveva precedentemente affermato nello
Zibaldone, nel passo datato 19 dicembre 1821, è per natura più debole
rispetto all’uomo e sopperisce alla sua inferiorità grazie all’arte della
seduzione e all’inganno:
per qual cagione le donne sono ordinariamente maliziose, furbe,
raggiratrici, ingannatrici, astute, impostore, e nella galanteria, e nella devozione,
e in tutto ciò che imprendono, e in qualunque carriera si mettono? Perché
acquistano così presto e l’inclinazione e l’arte d’ingannare, dissimulare, fingere,
cogliere le occasioni ec. ec.? […] Lo spirito naturale e primitivo delle donne
non ha né vestigio alcuno di tali facoltà, né disposizione ad acquistarle,
maggiore per nessun grado di quella che ne abbiano gli uomini. Ma la facilità e
la perfezione con cui esse le acquistano, non viene da altra cagione che dalla
loro natural debolezza […]353.
Secondo il motivo principale della lirica, tuttavia, il poeta è
rimasto intrappolato nell’inganno di Aspasia perché ha creduto
nell’amore ideale che lo ha indotto a trasfigurare le caratteristiche reali
della donna, e a vedere in lei un’«angelica forma» e un «raggio divino».
In particolare, l’epiteto di «raggio divino», usato in enjambement ai vv.
27-28 (e quasi un raggio / divino al pensier mio), per evidenziare,
mediante il distacco dell’aggettivo ‘divino’, che tale è stato quel ‘raggio’
solo nell’illusione di Leopardi, viene ripreso in apertura della seconda
strofa per ribadire il concetto espresso prima, mediante la similitudine
con la musica:
352
353
Aspasia, p. 35.
Zib. 2259-2260.
140
La musica nei «Canti»
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Raggio divin al mio pensiero apparve,
donna, la tua beltà. Simile effetto
fan la bellezza e i musicali accordi,
ch’alto mistero d’ignorati Elisi
paion sovente rivelar. […]
354
.
(vv. 33-37)
Il personaggio di Aspasia è come sdoppiato nella mente del poeta:
da una parte c’è la donna reale, falsa e voluttuosa, dall’altra, c’è la donna
spogliata dei suoi tratti autentici, e trasfigurata secondo i canoni
dell’amore ideale. Aspasia è «questa» e «quella», è com’è e come
dovrebbe essere, se rispondesse all’idea d’amore concepita da Leopardi,
ma le due immagini si fondono, e il poeta finisce per amare, in quel
corpo, una bellezza immaginaria. La donna diventa, così, lo strumento
attraverso cui la bellezza fa sentire i suoi effetti, proprio come fa il suono
nella musica, veicolando le sensazioni dal principio generatore al
soggetto che le percepisce:
di questi due effetti della musica, l’uno cioè quello dell’armonia, è
ordinario per se stesso, cioè qual è quello di tutte le altre convenienze. L’altro,
cioè del suono o canto per se stesso è straordinario, deriva da particolare e
innata disposizione della macchina umana ma non appartiene al bello. Questa
stessissima distinzione si dee fare nell’effetto che produce sull’uomo la beltà
umana o femminina ec. e la teoria di questa beltà può dare e ricevere vivissimo
lume dalla teoria della musica. L’armonia nella musica, come la convenienza
nelle forme umane, produce realmente un vivissimo e straordinario e
naturalissimo effetto, ma solo in virtù del mezzo per cui essa giunge a’ nostri
sensi (cioè suono o canto, e forma umana), o vogliamo dire del soggetto in cui
essa armonia si percepisce. Tolto questo soggetto, l’armonia e convenienza
354
Aspasia, p. 35.
141
La musica nei «Canti»
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isolata, o applicata a un qualunque altro oggetto, non fa più di gran lunga la
stessa impressione […]355.
Nei versi in questione, musica e bellezza umana sono viste anche
come chiave d’accesso verso «paradisi sconosciuti» 356 , luoghi dello
spirito, e a questo proposito, Alberto Caprioli 357 ha evidenziato la
singolare affinità tra il pensiero dello Zibaldone datato 24 settembre 1821,
e le parole di Beethoven riportate in una lettera del 1810 di Bettina
Brentano a Goethe.
Queste sono le parole con cui Leopardi descrive la sensazione
indefinita derivante dalla musica:
quella svariata molteplice, rapida e rapidamente mutabile sensazione,
che la musica produce, e che l’animo non arriva ad abbracciare […]358;
e queste le parole di Beethoven:
la musica è il vincolo che unisce la vita dello spirito alla vita dei sensi,
ed è l’unico accesso immateriale al mondo superiore della conoscenza, mondo
che abbraccia l’uomo ma che l’uomo non è in grado a sua volta di
abbracciare359.
La seconda immagine paradisiaca, quella dell’«amorosa idea, che
gran parte d’Olimpo in se racchiude» ai vv. 39-40, è compresa a sua volta
tra due versi, 37 e 43, in
cui compare il verbo «vagheggiare» che
355
Zib. 1784-1785, il corsivo è nel testo.
Cfr. G. Leopardi, Poesie, a cura di M. A. Rigoni, cit., p. 977.
357
Cfr. A. Caprioli, Giacomo Leopardi e la ‘nuova musica’ cit., p. 77.
358
Zib. 1781.
359
B. Brentano, Il carteggio di Goethe con una bimba, traduzione di G. Necco, MilanoRoma, 1932, vol. II, p. 110.
356
142
La musica nei «Canti»
______________________________________________________________________
contribuisce a rendere meglio l’idea di indefinito, di sensazione quasi
sovrannaturale in cui si trova coinvolto e «rapito» l’amante.
I vv. 44-45, a cui si è già accennato per il valore dei dimostrativi,
(Or questa egli non già, ma quella, ancora / nei corporali amplessi,
inchina ed ama), si collegano ai vv. 78-80 ( perch’io te non amai, ma
quella Diva / che già vita, or sepolcro, ha nel mio core. / Quella adorai
gran tempo) perché, come ha giustamente osservato Binni, sono proprio
questi i due punti in cui il poeta esprime con maggior pregnanza
«l’affermazione del valore e la negazione del disvalore» 360 , incarnati
rispettivamente dall’amore puro e dalla passione tutta umana provata per
Aspasia.
La persona innamorata non è più in grado di distinguere tra le due
cose, perché, spiega Leopardi, come gli effetti della bellezza non nascono
dalla convenienza ma dalla grazia che la donna possiede, così le grandi
passioni non nascono dalla ragione, ma hanno sempre dei moventi
irrazionali:
la pura bellezza risultante da un’esatta e regolare convenienza, desta di
rado le grandi passioni, per lo stesso motivo per cui la ragione è infinitamente
meno forte ed efficace della natura. Quella bellezza è come una ragione, perciò
non suppone vita né calore, sia in se medesima, sia in chi la riguarda. Al
contrario un volto o una persona difettosa ma viva, graziosa ec. o fornita di un
animo capriccioso, sensibile ec. sorprende, riscalda, affetta e tocca il capriccio
di chi la riguarda, senza regola, senza esattezza, senza ragione ec. ec. e così le
grandi passioni nascono per lo più dal capriccio, dallo straordinario, ec. e non
si ponno giustificare colla ragione […]361.
Con una punta di sarcasmo, talvolta interpretata come misoginia,
il poeta giustifica il comportamento della donna, attribuendo la causa
360
361
W. Binni, La nuova poetica leopardiana cit., p. 69.
Zib. 269, corsivo mio.
143
La musica nei «Canti»
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della sua insensibilità alla naturale inferiorità del genere femminile
rispetto a quello maschile, il cui animo è maggiormente predisposto alle
sensazioni sublimi. La figura di Aspasia, che ignora gli effetti suscitati
sull’amante (vv. 61-67: Né tu finor giammai quel che tu stessa / inspirasti
alcun tempo al mio pensiero, / potesti, Aspasia, immaginar. Non sai / che
smisurato amor, che affanni intensi, / che indicibili moti e che deliri /
movesti in me; né verrà tempo alcuno / che tu l’intenda), è paragonata nei
versi successivi, a quella dell’«esecutor di musici concenti», ignaro degli
effetti che la voce e il suono degli strumenti musicali producono
nell’ascoltatore,
[…] In simil guisa ignora
esecutor di musici concenti
quel ch’ei con man o con la voce adopra
in chi l’ascolta […]362.
(vv. 67-70)
e, ancora una volta, il nucleo ideologico di tale affermazione può
essere rintracciato nello Zibaldone:
si suol dire che i bravi compositori di musica non sanno cantare, perché
non sovente si combina la disposizione naturale e acquisita degli organi
intellettuali con quella degli organi materiali della voce. E così il più perfetto
conoscitore e fabbricatore di armonia e melodia pel canto, saprebbe bene
eseguire l’armonia e la melodia, ma non perciò recare alcun diletto musicale
[…]363.
La situazione centrale è, in definitiva, quella di un amore non
corrisposto in cui, la disposizione dei personaggi, ricalca la vicenda
dell’amore di Consalvo per Elvira, e si contrappone a quella di Saffo per
362
363
Aspasia, p. 35.
Zib. 1759.
144
La musica nei «Canti»
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Faone, ma con una sostanziale differenza nel finale, che è tragico negli
altri due componimenti, mentre in Aspasia la delusione del poeta trova
prima sfogo nell’invettiva contro la donna
per rifugiarsi, poi, nella
consueta solitudine (vv. 106-112: Che se d’affetti / orba la vita, e di
gentili errori, / è notte senza stelle a mezzo il verno, / già del fato mortale
a me bastante / e conforto e vendetta è che su l’erba / qui neghittoso
immobile giacendo, / il mar la terra e il ciel miro e sorrido).
A ridosso dell’esperienza biografica che costituisce la materia di
Aspasia, un altro episodio reale offre a Leopardi uno spunto di
«riflessione sulla precarietà materiale dell’uomo e dei suoi valori»364, è la
visita allo studio romano dello scultore neoclassico Pietro Tenerani dove,
con ogni probabilità, nel 1831, il poeta ebbe modo di vedere sia il
bassorilievo descritto nella prima sepolcrale, sia il bozzetto del ritratto,
ordinato per il monumento funebre della marchesa Margherita Canton,
completato solo nel 1833 365 , a cui si riferisce Sopra il ritratto di una
bella donna.
L’incipit della canzone, «Tal fosti» 366 , può essere riferito tanto
all’immagine della donna raffigurata in tutto il suo splendore nel ritratto,
quanto ad Aspasia, che è la trasposizione poetica di tale immagine, come
suggeriscono i fattori cronologici cui si è appena accennato, nonché le
affinità nella descrizione dei tratti fisici: le labbra della protagonista di
Sopra il ritratto (vv. 9-11: quel labbro, ond’alto / par, come d’urna piena,
/ traboccare il piacer), richiamano i «fervidi sonanti baci» di Aspasia; il
suo collo (vv. 11-12: quel collo, cinto / già di desio), è da riferirsi al
«niveo collo»367 del componimento precedente, così come la mano (vv.
364
L. Blasucci, Precisazioni sulla prima «sepolcrale», in Lo stormire del vento cit., p.
189.
365
Si vedano, a proposito, le testimonianze di A. Giuliano, Giacomo Leopardi, Carlotta
Lenzoni, Pietro Tenerani, in «Paragone-Arte», XVII, 193, 1966, pp. 87-94, e di A.
Vergelli, Genesi e linguaggio delle sepolcrali leopardiane, Roma, 1977, pp. 25-26.
366
Sopra il ritratto di una bella donna, p. 37.
367
Ibidem.
145
La musica nei «Canti»
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12-14: quell’amorosa mano, / che spesso, ove fu porta, / sentì gelida far
la man che strinse) e il seno (vv. 15-16: e il seno, onde la gente /
visibilmente di pallor si tinse)
ricalcano, rispettivamente, la «man
leggiadrissima» e il «seno ascoso e desiato»368.
Quel «Tal fosti», demarca il passaggio dal passato al presente e
segna il compimento materialistico del destino di disfacimento che
accomuna gli uomini, mentre il sostantivo «polve», nel verso seguente,
traduce perfettamente l’idea di effimero che il poeta intende
rappresentare. La sequenza di termini come «polve», «scheletro», «ossa»
e «fango», conferisce al v. 2, un «effetto di violenza» derivante «più dalla
gestione ritmica e retorica di quel lessico che dalla precisione
evocativa»369
Tutto
il
componimento
si
svolge
all’insegna
della
contrapposizione tra un ‘prima’e un ‘dopo’, così, nella prima strofa, lo
stesso oggetto, cioè il corpo della donna amata, che quando era in vita
suscitava tanta attrazione, dopo la morte, si trasforma in una figura
ripugnante, la cui vista è sbarrata da «un sasso», metafora della morte,
che censurando la visione del disfacimento di lineamenti e forme, lascia
intatto il ricordo della bellezza che serve, quantomeno, di conforto alla
tristezza dell’amante.
In questi termini si era espresso precedentemente Leopardi, nello
Zibaldone:
il veder morire una persona amata, è molto meno lacerante che il
vederla deperire e trasformarsi nel corpo e nell’animo da malattia (o anche da
altra cagione). Perché? Perché nel primo caso le illusioni restano, nel secondo
368
Sulle affinità fra le descrizioni dei tratti fisici in Aspasia e in Sopra il ritratto di una
bella donna, si è soffermato E. Peruzzi, Critica linguistica di un canto leopardiano, in
«La Cultura», XX, 1970, pp. 467-523.
369
Cfr. L. Blasucci, Sopra il ritratto di una bella donna, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1989, p. 24.
146
La musica nei «Canti»
______________________________________________________________________
svaniscono, e vi sono intieramente annullate e strappate a viva forza. La persona
amata, dopo la sua morte, sussiste ancora tal qual era, e così amabile come
prima, nella nostra immaginazione […]370.
Nella seconda strofa, l’opposizione non è più tra passato e
presente, ma tra «oggi» e «diman» che coincidono, rispettivamente, con
la costruzione delle illusioni che l’uomo fabbrica nel presente, mosso in
questo caso dagli effetti del sentimento amoroso, e con la distruzione di
tutto ciò che aveva immaginato, se nel futuro subentra un’imprevedibile
«lieve forza» paragonabile al «lieve moto» annichilante, nel v. 45 della
Ginestra.
La precarietà dell’equilibrio su cui si reggono la bellezza e
l’amore, che poi non sono altro che illusioni, richiama, in Leopardi, una
metafora musicale in cui «la dolcezza del “dotto concento”» si oppone
«alla lacerazione del “discorde accento” che ne distrugge gli effetti nella
mente rapita dell’ascoltante»371:
Desideri infiniti
E visioni altere
Crea nel vago pensiere,
per natural virtù, dotto concento;
onde per mar delizioso, arcano
erra lo spirto umano,
quasi come a diporto
ardito notator per l’Oceano:
ma se un discorde accento
fere l’orecchio, in nulla
torna quel paradiso in un momento
[…]
370
371
Zib. 479, corsivo mio.
L. Blasucci, Sopra il ritratto di una bella donna cit., p. 32.
147
(vv. 39-49)
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cura di), Epistolario, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 2 voll.;
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Testo
Concordanza
con
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ENRICO
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software TOMMASO BAVIERA, Firenze, Firenze University Press,
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(Recanati 1-4 ottobre 1967). Firenze, Olschki, 1970.
III. Leopardi e il Novecento
(Recanati 2-5 ottobre 1972). Firenze, Olschki, 1974.
IV. Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento
(Recanati 13-16 settembre 1972). Firenze, Olschki, 1978.
V. Leopardi e il mondo antico
(Recanati 22-25 settembre 1980). Firenze, Olschki, 1982.
VI. Il pensiero storico e politico di Giacomo Leopardi
(Recanati 9-11 settembre 1984). Firenze, Olschki, 1989.
VII. Le città di Giacomo Leopardi
(Recanati 16-19 novembre 1987). Firenze, Olschki, 1991.
VIII. Lingua e stile di Giacomo Leopardi
(Recanati 30 settembre - 5 ottobre 1991). Firenze, Olschki, 1994.
IX. Il riso leopardiano: comico, satira, parodia
(Recanati 18-22 settembre 1995). Firenze, Olschki, 1998.
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Bibliografia
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X. Lo Zibaldone cento anni dopo. Composizione, edizioni, temi
(Recanati-Porto Recanati 14-19 settembre 1998). Firenze, Olschki, 2001.
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agli anni 1815-1848, sono raccolti nel volume di NOVELLA
BELLUCCI, Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e
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Per la critica anteriore a Francesco De Sanctis, si veda MARIO MARTI,
La fortuna del Leopardi nella critica predesanctisiana, in «Antico e
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1831 [adesso in ANGIOLA FERRARIS (a cura di), Scritti letterari,
Torino, Einaudi, 1980, pp. 193-215]; CARLO TENCA, gli articoli
apparsi su «Il Crepuscolo» nel 1851, sono adesso raccolti in GIANLUIGI
BERARDI (a cura di), Saggi critici, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 108-125;
FRANCESCO DE SANCTIS, Alla sua donna. Poesia di Giacomo
Leopardi [1855], in Saggi critici, 3ª edizione, Napoli, Morano,1874
[questo e gli altri scritti di De Sanctis su Leopardi si possono leggere in
La letteratura italiana nel secolo XIX, vol. III: Giacomo Leopardi, a cura
di WALTER BINNI, Bari, Laterza, 1953, in La letteratura italiana nel
secolo decimonono, vol. IV: Leopardi, a cura di ANTONIO
MUSCETTA e ANTONIO PERNA, Torino, Einaudi, 1960, e in
ENRICO GHIDETTI (a cura di), Giacomo Leopardi, Roma, Editori
Riuniti, 1983]; ANTONIO GUSSALLI (a cura di), Scritti editi e postumi,
di PIETRO GIORDANI, Milano, Borroni e Scotti, 1856-1858 (tomo IV,
pp. 118-131, 151-178 e tomo VI, pp. 122 segg.); FRANCESCO
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letteratura italiana e straniera, Firenze, Barbèra, 1867; DOMENICO
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Giacomo Leopardi, Verona, Tedeschi, 1893; GIOVANNI NEGRI,
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