INDICE 3 INTRODUZIONE Capitolo primo SUPERIORITÀ DELLA MUSICA SU TUTTE LE ARTI 12 § I.1 Leopardi e la musica. Aspetti preliminari 41 § I.2 La musica nel sistema leopardiano delle Belle Arti Capitolo secondo L’IDEA DI MUSICA ATTRAVERSO ALCUNE LINEE FONDAMENTALI DELLA POETICA LEOPARDIANA 66 § II.1 Poetica del vago e indefinito. Gli effetti della musica 86 § II.2 Antichità e presente. Il potere evocativo della musica 104 § II.3 Musica e bellezza. Caducità delle cose umane Capitolo terzo LA MUSICA NEI CANTI 117 § III.1 L’Infinito e La vita solitaria 129 § III.2 Alla Primavera o delle favole antiche e Il passero solitario 139 § III.3 Sopra il ritratto di una bella donna e Aspasia 148 BIBLIOGRAFIA INTRODUZIONE Le celebrazioni per il bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi, hanno rappresentato un’importante occasione per la critica che ha avuto modo di ripercorrere i suoi sentieri usuali, ma anche di introdurre nuovi spunti di riflessione, o di riprendere e sviluppare temi, come quello trattato nel presente lavoro, la cui problematicità non è stata indagata fino in fondo, e che sono rimasti, per molti anni, in una posizione marginale rispetto all’interesse per i capisaldi del pensiero leopardiano, la natura, le illusioni, la ragione, il pessimismo, la politica, e via discorrendo. Dopo i primi accenni di interesse verso il rapporto che legò Leopardi alla musica, da parte di Arturo Graf, Romualdo Giani e Giuseppe Antonio Borgese, e dopo l’interessante saggio del 1910, dal titolo Per un Leopardi mal noto, in cui Clemente Rebora, oltre a rendere testimonianza dell’esperienza diretta che il poeta ebbe della musica, e ad elencare le fonti che ne hanno ispirato la riflessione teorica, compie un ulteriore passo in avanti, affermando che la musica, inquadrata nel complesso generale della meditazione leopardiana, rappresenta il punto nodale in cui, da un punto di vista filosofico, l’assoluto converge col relativo, dagli inizi del secolo scorso, perlomeno fino agli anni ’80, con i saggi di Monterosso e De Angelis, la critica non si è soffermata ad approfondire la proposta reboriana, ma ha puntato piuttosto il suo interesse sulla ‘musicalità’ dei Canti, data anche l’incontrastata affermazione dell’estetica crociana che, attribuendo un valore esclusivo alla poesia, ha scoraggiato ogni altro tentativo di lettura. 3 Introduzione ______________________________________________________________________ I saggi più recenti invertono la tendenza, e quasi sembrano non riuscire più a prescindere dall’impostazione reboriana, prediligendo chiavi di lettura filosofiche, esoteriche, o religiose, che appellandosi largamente al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, considerano il suono, componente principale della musica, come voce della divinità e manifestazione dell’Essere, entità trascendentale che si contrappone al nulla, coinvolgendo, a sostegno di queste ipotesi, numerosi altri aspetti della meditazione leopardiana. Dal momento che il poeta non conosceva le teorie musicali, e non ebbe quindi esperienza diretta di quest’arte, se non in qualità di spettatore [Zib. 3231: «io di me posso accertare che nel mio primo udir musiche (il che molto tardi cominciai) io trovava affatto sconvenienti, incongrue, dissonanti e discordevoli parecchie delle più usitate combinazioni successive di tuoni, che ora mi paiono armoniche, e nell’udirle formo il giudizio e percepisco il sentimento della melodia»], ‘Leopardi e la musica’, è un tema che può essere trattato solo in considerazione di valenze esterne, come quella che attribuisce a tale rapporto il significato filosofico a cui si è accennato sopra, o quella che si sofferma sulla sua funzione poetica, da cui il presente lavoro prende le mosse. Se l’interesse di Leopardi per la musica fosse stato svincolato da questi aspetti, e in particolare dalla creazione poetica, a cui ci riferiamo, probabilmente vi avrebbe dedicato uno scritto a parte, e invece, non a caso, i settantatré pensieri sulla musica si trovano disseminati tra le pagine dello Zibaldone, che costituisce notoriamente il laboratorio poetico dei Canti. Le pagine che seguono sono dedicate, in apertura del primo capitolo, a una breve ricognizione della presenza della sfera semantica della musica all’interno dell’opera leopardiana, dal Diario del primo amore ai Ricordi d’infanzia e di adolescenza, dalle Operette morali all’Epistolario, dallo Zibaldone ai Canti, che permette oltretutto di 4 Introduzione ______________________________________________________________________ ricostruire gli interessi musicali di Leopardi e della sua famiglia, la predilezione per le composizioni di Gioacchino Rossini, le vicende relative alla costruzione dell’attuale teatro Persiani di Recanati, che coinvolsero in prima persona Monaldo, e poi l’esperienza di spettatore di opere teatrali che il poeta ebbe modo di compiere, prima nella sua città, e poi durante i soggiorni a Roma, Bologna e Napoli. L’excursus che qui si propone tiene conto ovviamente degli apporti più recenti della critica, dai contributi biografici, ai ricchi cataloghi delle mostre su Leopardi a Roma e Leopardi e Bologna, soffermandosi su tutte quelle impressioni che il poeta ricavava stando a teatro, commentate attraverso gli scambi epistolari con il fratello Carlo, grande appassionato dell’Opera, a cui spesso capitava di invaghirsi di qualche cantante, come nel caso di Clorinda Corradi dedicataria addirittura di un sonetto, o interiorizzate fino al punto di diventare teoria, e ci riferiamo, ad esempio, all’ammirazione per Rossini che coincide sul piano teorico con l’affermazione della superiorità della musica vicina al genere popolare, contro quella tedesca, fatta apposta per essere compresa dai soli intenditori. È chiaro che la riflessione sulla musica non può essere interpretata soltanto alla luce delle sensazioni e delle emozioni suscitate dalle occasioni biografiche di ascolto, ma va inserita nel suo ambito più vasto di pertinenza, ovvero, quello che Leopardi stesso definisce nello Zibaldone, come il proprio «Sistema di Belle Arti», e, anche in questo caso, i tipi di approccio approntati dalla critica, di cui si cerca di dare atto, sono molteplici, ma tutti accomunati dal tentativo di riscattare l’interesse del poeta per l’arte dalle ipoteche poste a suo tempo da Graf e De Sanctis. Secondo Leopardi, tutte le opere d’arte utilizzano mezzi di espressione diversi per raggiungere lo stesso obiettivo che è il ‘diletto’. L’identica considerazione vale anche per la musica i cui effetti non appartengono alla sfera ‘del bello’, ma esclusivamente a quella ‘del 5 Introduzione ______________________________________________________________________ piacere’ derivante, a sua volta, dal suono che è capace di agire sull’animo umano in maniera immediata, e non dall’armonia che dipende dalla convenienza ed è pertanto influenzata da molteplici fattori di gusto. Per esemplificare il meccanismo di produzione del ‘diletto’ da parte del suono, Leopardi ricorre al confronto con ‘odori’ e ‘sapori’ che non è possibile definire belli né brutti, ma solo più o meno piacevoli, e sviluppa, nelle pagine dello Zibaldone, una vera e propria teoria che anticipa alcuni risultati degli attuali studi scientifici sui sensi. Una particolare attenzione è dedicata alla corrispondenza tra odori e suoni che, agendo direttamente sull’immaginazione e sul ricordo, suscitano quel desiderio infinito di cui il poeta discorre ampiamente nella sua ‘teoria del piacere’, spiegandolo come tendenza connaturata all’esistenza che spinge l’uomo verso il piacere inteso in senso assoluto. Un suono, un odore, un oggetto o un luogo sconosciuto, un ostacolo che restringe la vista, una veduta sconfinata, sono i principali fattori indicati da Leopardi come stimolatori di quella ‘facoltà immaginativa’ che compensa l’irraggiungibile conquista del piacere, e consente, sul piano poetico, di ricreare in modo fittizio, gli effetti propri della poesia degli antichi. In quest’ottica, e secondo quanto è teorizzato nel celebre passo dello Zibaldone datato 16 ottobre 1821, il suono, sia in versione tenue che cupa, è un fenomeno naturale capace di evocare immagini poetiche: così una musica dolce o il rumore del tuono, la furia della tempesta, lo stormire del vento, produrranno gli stessi effetti poetici poiché sia il bello che il brutto, in quanto aspetti della stessa realtà, possono diventare, secondo Leopardi, oggetto di imitazione nell’opera d’arte, e, nel caso specifico dei suoni, «immagini bellissime in poesia». Per dimostrare come il ‘diletto’ proveniente dalla musica appartenga al suono e non alla melodia, Leopardi ricorre all’esempio dell’attrazione esercitata sugli animali, i quali, estranei a qualsiasi 6 Introduzione ______________________________________________________________________ concetto umano di convenienza, sono attratti esclusivamente dal potere del suono, nella stessa maniera in cui un suono naturale qualunque, indipendentemente dalla melodia, suscita una vasta gamma di emozioni e di reazioni nell’animo umano: il piacere, il timore, il ricordo e, perché no, l’«impotenza» che esprime il canto dell’usignolo nel famoso episodio virgiliano di Orfeo, mitico poeta e musicista, riportato da Leopardi nella pagina dello Zibaldone datata 17 ottobre 1820. Gli effetti della bellezza umana sono simili a quelli del suono perché entrambi appartengono alla sfera ‘del piacere’, e sono alieni da ogni convenienza, così una «leggera stonazione» in musica, come un piccolo difetto nella fisionomia umana non interferisce sul loro grado di piacevolezza: ne sono prova i sentimenti che traspaiono da un’apparente sproporzione, qual è la grandezza degli occhi rispetto al volto. Nelle opere d’arte di ogni genere, compresa la poesia, sia il bello che il brutto, infondono nell’animo di chi le recepisce, un grado di piacevolezza direttamente proporzionale alla qualità dell’imitazione, emblematico in tal senso è il tema leopardiano, di derivazione ossianica, del ‘piacere della tempesta’, ma la musica si differenzia in questo perché «le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura» (Zib. 79). L’idea leopardiana di musica si sviluppa entro due principali direttive, la prima, basata sulla valutazione della musica in quanto arte che consta inseparabilmente di suoni musicali e armonie, l’altra, che considera il suono naturale come substrato della musica, generatore delle sensazioni vago-indefinite che sono alla base della poetica dell’Infinito. Sull’associazione fra gli effetti del suono naturale e la poetica del vago-indefinito, si apre il secondo capitolo del presente lavoro nel quale viene approfondita la distinzione fra suono e armonia, chiamando in causa il discorso sull’assuefazione che genera convenienze diverse a 7 Introduzione ______________________________________________________________________ seconda degli individui, delle nazioni e delle epoche. La musica moderna, per superare le limitazioni poste dalla convenienza, ricorre ad un utilizzo sempre più scrupoloso di regole universalmente riconosciute, quali sono quelle del contrappunto che, tuttavia, spiega Leopardi, come avviene con l’applicazione della grammatica in poesia, privano l’opera di quella naturalezza e immediatezza di sentimenti che erano proprie solo degli antichi. In virtù di questa naturalezza, poesia e musica erano una cosa sola al tempo dei greci prima, cioè, che la formulazione delle teorie musicali e l’irrigidimento delle regole grammaticali, ne decretassero la «funesta» separazione. La perdita della naturalezza è il risultato prodotto dall’incivilimento che, nel caso della poesia, ha svilito l’immaginazione rendendo il genere ‘sentimentale’, l’unico adatto ai moderni, nel caso della musica ha favorito una corruzione dei gusti e dei costumi tale da rendere indispensabile un riavvicinamento al genere popolare, rappresentato perfettamente dalla musica rossiniana. Se l’assuefazione incide sull’armonia, l’altro fattore di cui consta la musica, ovvero il suono, propaga i suoi effetti senza utilizzare altra intermediazione che l’udito, e questo spiega perché, per i poeti antichi, la musica aveva il potere di incantare perfino i serpenti. Convinto che la poesia antica, in quanto espressione spontanea della natura, sia ormai irrecuperabile sul piano storico, Leopardi considera il suono come unico legame residuo tra il poeta e la natura, perché prima di diventare suono articolato, esso è rumore, è la voce del vento, è il pianto di un bambino, è il canto degli uccelli, è un affascinante richiamo che risveglia l’immaginazione dei poeti. Le sensazioni ‘visive’, generano anch’esse «effetti d’infinito», ma quelle ‘uditive’ possiedono un ulteriore privilegio, oltre ad intervenire sull’immaginazione, infatti, esse agiscono anche sulla memoria azionando, oltre l’evocazione intenzionale del ricordo, il meccanismo 8 Introduzione ______________________________________________________________________ involontario della ‘ricordanza’ o ‘rimembranza’ su cui si incentra un altro caposaldo della poetica leopardiana. Di come, a nostro avviso, il poeta trasponga in poesia, la corrispondenza, stabilita teoricamente, tra suono e ricordanza, si dà atto nel paragrafo del presente lavoro intitolato, appunto, Antichità e presente. Il potere evocativo della musica. Il rapporto tra bellezza e musica, non si esaurisce tutto entro la comune appartenenza alla sfera del piacere, ma suggerisce un’altra importante prerogativa della musica che, in relazione al delicato equilibrio su cui si regge la successione dei suoni, simboleggia la transitorietà dell’esistenza umana. Il rapido declino della giovinezza coincide con la dissoluzione della bellezza e delle illusioni, valori caduchi, a cui subentra la presa di coscienza dell’«arido vero», e talora, come dimostrano i destini di alcune figure femminili presenti nei Canti, anche la morte. Individuato sul piano teorico, il collegamento tra l’idea di musica e le linee fondamentali della poetica leopardiana, alla trattazione critica dell’argomento, supportata dalla convinzione che esista in Leopardi un profondo legame tra musica e creazione poetica, nel capitolo finale di questo lavoro, intitolato La musica nei «Canti», segue l’analisi dei componimenti in cui le proposte ideologiche dello Zibaldone vengono tradotte in poesia. 9 a Giuseppe AVVERTENZA Le citazioni dallo Zibaldone rimandano al manoscritto leopardiano, secondo la lezione stabilita in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, edizione critica e annotata a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991, 3 voll., da cui cito con l’abbreviazione Zib. e il numero del passo (es. Zib. 3213). Le altre opere sono citate da G. Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969, 2 voll., e indicate con il titolo dell’opera e il numero della pagina (es. Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 360). Le lettere ‘di’ e ‘a’ Leopardi, sono citate da G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 2 voll., da cui cito con l’abbreviazione Ep. e il numero della lettera (es. Ep. 518). Tutti gli altri riferimenti bibliografici sono riportati in nota. CAPITOLO PRIMO SUPERIORITÀ DELLA MUSICA SU TUTTE LE ARTI § I.1 LEOPARDI E LA MUSICA. ASPETTI PRELIMINARI Indagare il rapporto complesso e profondo che legò Giacomo Leopardi alla musica, implica la necessità preliminare di distinguere l’esperienza pratica che il poeta ebbe della musica, i gusti, e le opinioni sulla musica del suo tempo, dall’idea di musica intesa come linguaggio universale, capace di penetrare in maniera diretta il sentimento umano, di evocare ricordi e di suscitare immagini poetiche, idea che si sviluppa attraverso le pagine dello Zibaldone dedicate alla riflessione sulle Belle Arti1 e alla formulazione delle teorie ‘del piacere’ e ‘del bello’. Nelle pagine dello Zibaldone in cui parla di musica, Leopardi ricorre alla definizione di ‘teoria musicale’ 2 soltanto per sottolineare come i popoli che la possiedono, o in generale, gli intenditori, abbiano un criterio di giudizio nei confronti delle melodie, opposto ai barbari e ai «non intendenti, i quali non hanno altra regola e canone che l’orecchio»3. Non adopera il termine ‘teoria’ quando si riferisce alle sue riflessioni sulla musica, come per esempio avviene per la ‘teoria del piacere’ e per 1 Tutti i pensieri sulle Belle Arti sono stati di recente raccolti in G. Leopardi, Teorica delle arti, lettere ec. Parte speculativa, Edizione tematica dello Zibaldone di pensieri stabilita sugli Indici leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, Prefazione di A. Prete, Roma, Donzelli, 2000 e, Idem, Teorica delle arti, lettere ec. Parte pratica, storica, Edizione tematica dello Zibaldone di pensieri stabilita sugli Indici leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, Prefazione di A. Prete, ibidem, 2002. 2 Zib. 3213. 3 Zib. 3211. 12 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ la ‘teoria del bello’ perché, come cercheremo di spiegare dettagliatamente più avanti, nonostante i risultati di certe sue intuizioni anticipino in alcuni punti le moderne teorie musicali4, Leopardi non si interessò volutamente della musica in quanto ‘scienza’, ma solo in quanto ‘natura’. L’intera opera leopardiana è attraversata da una fitta rete di riferimenti più o meno diretti alla musica, che non restano mai isolati o fine a se stessi, ma gravitano intorno al fulcro rappresentato dallo Zibaldone, offrendo sempre lo spunto per ulteriori approfondimenti. L’obiettivo del presente lavoro è di mettere in relazione la riflessione teorica sulla musica, con alcune linee fondamentali della poetica leopardiana, secondo la modalità di approccio ‘ideologico’ allo Zibaldone suggerita da Luigi Blasucci che considera, in questo caso, l’opera «come un complesso di svolgimenti concettuali costituenti la trama ideologica sottesa ai testi poetici»5. Nel Diario del primo amore, Leopardi rivela l’«incredibile potere della musica sopra di me»6, mentre nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, collega il ricordo di «un suono così dolce che tale non s’ode in questo mondo» e alcune figure di «vita pastorale», catturate attraverso l’immaginazione nella fanciullezza, con l’intima necessità di una trasposizione poetica perfetta di tali immagini che da sola basterebbe al poeta per definirsi «divino»7. Nel supplemento Alla Vita abbozzata di Silvio Sarno, il riferimento al «suono delle campanelle del pagode udito di notte o di sera dopo la cena stando in letto […]»8 , preannuncia lo F. Foschi nell’Introduzione all’antologia da lui curata, G. Leopardi, Sulla musica, Abano Terme, Francisci, 1987, pone a raffronto alcuni pensieri leopardiani sulla musica con le recenti teorie di J. R. Pierce, autore di Le son musical, Paris, 1987 e di I. Stravinskij, Poetica della musica, Pordenone, Studio tesi, 1984. 5 Cfr. L. Blasucci, Quattro modi di approccio allo «Zibaldone», in I tempi dei «Canti». Nuovi studi leopardiani, Torino, Einaudi, 1996, p. 233. 6 Diario del primo amore, p. 357. 7 Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, pp. 919-920. 8 Alla vita abbozzata di Silvio Sarno (di Ruggiero o Ranuccio Vanni da Belcolle), p. 365. 4 13 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ sviluppo futuro, in un passo dello Zibaldone datato 16 Ottobre 1821, di un pensiero centrale sulla musica in cui il poeta sostiene che la diffusione di qualsiasi suono o canto è molto più efficace di notte quando «si è più disposti a questi effetti, perché né l’udito né gli altri sensi non arrivano a determinare né a circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze […]»9. Tra i numerosi passaggi che alludono alla musica nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza, vale la pena menzionare il «canto mattutino di donna allo svegliarmi, canto delle figlie del cocchiere e in particolare di Teresa […]» 10 che, oltre a contenere il dato biografico della protagonista Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, anticipa la situazione dei vv. 7-9 ( Sonavan le quiete / stanze, e le vie dintorno, / al tuo perpetuo canto) del componimento A Silvia11. 9 Zib. 1928. Ricordi di infanzia e di adolescenza, p. 362. Per completezza, riportiamo qui di seguito tutti gli altri passaggi dei Ricordi in cui Leopardi parla di musica o descrive delle sensazioni uditive: «canto dopo le feste, Agnelli sul cielo della stanza, Suono delle navi […]»; «effetti della musica in me sentita nel giardino, aria cantata da qualche opera […]»; «Amore, amore cantato dai fanciulli (leggendo io l’Ariosto) come in Luciano ec., principio del mondo (ch’io avrei voluto porre in musica non potendo la poesia esprimere queste cose ec. ec.) immaginato in udir il canto di quel muratore mentr’io componeva ec. […]»; «mie considerazioni sulle pluralità dei mondi e il niente di noi e di questa terra e sulla grandezza e forza della natura che noi misuriamo coi torrenti ec. che sono un nulla in questo globo ch’è un nulla nel mondo e risvegliato da una voce chiamatemi a cena […]»; «mio giacere d’estate allo scuro a persiane chiuse colla luna annuvolata e caliginosa allo stridore delle ventarole consolato dall’orologio della torre […]»; «canti e arie quanto influiscano mirabilm. e dolcem. sulla mia memoria […]»; «prima gita in teatro miei pensieri alla vista di un popolo tumultuante […]»; «primo tocco di musica al teatro e mio buttarmi ec. e quindi domandato se avessi male […]»; «S. Agostino (cioè benedizione in quel giorno di primavera […] cantando gli uccelli allora tornati ai nidi sotto quei tetti, bel giorno, sereno, sole, suono delle campane vicine quivi, e al primo tocco mia commozione verso il Creatore) […]»; «sento una dolce voce di donna che non conoscea né vedea ec. […] sentivo un bambino che certo dovea essere in fasce e in braccio alla donna e suo figlio ciangottare con una voce di latte suoni inarticolati e ridenti […]»; «finalmente una voce di loro oh ecco che piove era una leggera pioggetta di primavera ec. e tutti si ritirarono e s’udiva il suono delle porte e dei catenacci ec. e questa scena mi rallegrò […]»; «palazzo bello contemplato il 21 Maggio sul vespro ec. gallina nel cortile ec. voci di fanciulli ec. […]». 11 A Silvia, p. 26. 10 14 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ Denso di significato è quel passaggio dei Ricordi dove il poeta esprime «vaghissimi concetti come quando sognai di Maria Antonietta e di una canzone da mettergli in bocca nella tragedia che allora ne concepii la qual canzone per esprimere quegli affetti ch’io aveva sentiti non si sarebbe potuta fare se non in musica senza parole […]» 12 , in cui è racchiuso il fondamento principale dell’idea leopardiana di musica, come viene sviluppata a livello teorico nello Zibaldone, e trasposta poeticamente nei Canti. La musica che è un linguaggio di per sé coinvolgente, ha un privilegio naturale che è quello di esprimere le passioni, talvolta contrastanti, i sentimenti, gli affetti dell’animo umano, nella maniera più diretta possibile, svincolandosi anche rispetto al potere espressivo della parola, senza perdere efficacia e autonomia di significato. Nello Zibaldone Leopardi afferma, infatti, che «la parola è un’arte imparata dagli uomini […]. Perciò negli accessi delle grandi passioni: […] come la forza della natura è straordinaria, quella della parola non arriva ad esprimerla […]. Il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni […]».13 E la musica contiene in sé i quattro elementi, del tempo, dello spazio, del suono, e del silenzio14 che si mescolano e trovano, nella poesia leopardiana, il loro massimo grado di espressione nell’idillio L’Infinito. Nelle Operette morali, e precisamente nella Storia del genere umano, la creazione dell’eco, insieme a quella del mare e dei sogni è considerata dal poeta come espediente posto in atto da Giove per dilatare i limiti della percezione uditiva e visiva e assottigliare i confini tra realtà Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 360, corsivo mio. Zib. 141-142, corsivi miei. 14 Si vedano a proposito B. Gallotta, Musica ed estetica in Leopardi, Milano, Ruggirenti, 1997 e F. Foschi, Note su Leopardi e la musica, in La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora, a cura di G. De Santi ed E. Grandesso, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 25-32. 12 13 15 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ e immaginazione 15 , in modo che l’inclinazione dell’uomo all’infinito potesse essere almeno illusoriamente soddisfatta, non potendo «né fare la materia infinita, né infinita la perfezione e la felicità delle cose e degli uomini […]»16. Ancora, insieme agli ordinamenti civili, alle leggi, e ai valori come la Giustizia, la Virtù, la Gloria e l’Amor patrio, che avrebbero dovuto guidare i popoli, furono mostrate agli uomini «il canto e quelle altre arti, che sì per la natura e sì per l’origine, furono chiamate, e ancora si chiamano divine […]»17. L’infelicità universale e l’eterno circolo di creazione e di distruzione della natura sono i temi centrali del Cantico del gallo silvestre. Qui l’elemento acustico, assimilato con la vita, riveste una grande importanza perché rompe la «profondissima quiete» 18 che renderebbe inutile l’universo, in un sistema che non contempla la felicità, ma la vita esclusivamente come tramite per la realizzazione del fine ultimo della natura che è la morte19. Nell’Elogio degli uccelli, il canto 15 Cfr. Storia del genere umano, p. 80: «e risolutosi di moltiplicare le apparenze di quell’infinito che gli uomini sommamente desideravano (dappoi che egli non li poteva compiacere della sostanza), e volendo favorire e pascere le coloro immaginazioni, dalla virtù delle quali principalmente comprendeva essere proceduta quella tanta beatitudine della loro fanciullezza; fra i molti espedienti che pose in opera (siccome fu quello del mare), creato l’eco, lo nascose nelle valli e nelle spelonche, e mise nelle selve uno strepito sordo e profondo, con un vasto ondeggiamento delle loro cime. Creò similmente il popolo de’ sogni, e commise loro che ingannando sotto più forme il pensiero degli uomini, figurassero loro quella pienezza di non intelligibile felicità, che egli non aveva modo di ridurre in atto […]». 16 Ibidem. 17 Ibidem, p. 82. 18 Cantico del gallo silvestre, p. 156. 19 Cfr. Ibidem: «se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né sussurro d’api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova? […]», e ibidem p. 157: «pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità […]». 16 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ perpetuo di queste «creature vocali e musiche»20 di cui è popolato il cielo, è visto come un dono della natura capace di trasmettere all’uomo un senso di «allegrezza», una distrazione provvidenziale dal pensiero martellante del dolore. Proprio perché è nell’aria che si diffondono massimamente i suoni, il magistero della natura ha fatto sì che gli uccelli, insieme al canto, possedessero anche il privilegio del volo. C’è un passo dell’Elogio che descrive come gli uccelli interrompono il loro canto quando si trovano di fronte alla tempesta o ad altri timori, ma appena scampato il pericolo ritornano all’aperto cantando e giocando tra loro, che richiama alla lettera un pensiero dello Zibaldone Sì come dopo la procella oscura Canticchiando gli augelli escon del loco Dove cacciogli il vento (nembo) e la paura; E il villanel che presso il patrio foco Sta sospirando il sol si riconforta [(si rasserena) Sentendo il dolce canto e il dolce gioco21. Nel capitolo quarto de Il Parini ovvero della gloria, Leopardi polemizza contro la concentrazione delle opere d’arte nelle grandi città, dove gli animi delle persone, assai più distratti e impegnati in numerose attività, oltre che sazi di contemplare tali bellezze, non sono disposti a goderle appieno. Insieme alle «opere riguardevoli di pittura, scultura ed architettura»22, il poeta parla anche della musica e nell’esprimere il suo giudizio, maturato sulla base dell’esperienza personale di spettatore di opere teatrali, sia in una piccola città di provincia come Recanati, sia in 20 Elogio degli uccelli, p. 153. Zib. 21. 22 Il Parini ovvero della gloria, p. 123. 21 17 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ una grande metropoli come Roma, sostiene, non senza una punta di ironia, che la musica «nelle altre città non si trova esercitata così perfettamente, e con tale apparato, come nelle grandi; dove gli animi sono meno disposti alle commozioni mirabili di quell’arte, e meno, per dir così, musicali, che in ogni altro luogo […]»23. L’Epistolario, attraverso gli accenni contenuti nella corrispondenza di Leopardi con familiari ed amici, costituisce una testimonianza rilevante dell’esperienza diretta, privata e pubblica, che il poeta ebbe della musica a Recanati, e poi, durante i suoi soggiorni nelle più importanti città d’Italia. Sebbene la bibliografia su Leopardi e la musica 24 sia ormai abbastanza ricca e aggiornata, un rapido excursus sulla sua esperienza di appassionato di musica e spettatore di opere teatrali, non ci sembra superfluo. Giacomo entra in contatto, fin da bambino, con il patrimonio di musiche e canti popolari recanatesi che menziona nello Zibaldone come «canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a Recanati»25, nelle quali non è difficile riconoscere l’antecedente di almeno due figure presenti nei Canti26 , «il zappatore» che «riede alla sua parca mensa»27 23 Ibidem. L’intera bibliografia su Leopardi e la musica si trova raccolta in G. Luppino, L’eredità musicale di Giacomo Leopardi, Recanati, Edizioni CNSL, 2002. 25 Zib. 29. La citazione completa del passo è: «fàcciate alla finestra, Luciola, / Decco che passa lo ragazzo tua, / E porta un canestrello pieno d’ova / Mantato colle pampane dell’uva. / I contadì fatica e mai non lenta, / E ’l miglior pasto sua è la polenta. / È già venuta l’ora di partire, / In santa pace vi voglio lasciare. / Nina, una goccia d’acqua se ce l’hai: / Se non me la vôi dà padrona sei», «Io benedico chi t’ha fatto l’occhi / Che te l’ha fatti tanto ’nnamorati», «Una volta mi voglio arrisicare / Nella camera tua voglio venire». 26 Un’ indagine sul canto come «espressione vocale» e «modulazione ritmica della voce umana volta a fermare una melodia», e in particolare sulle categorie dei personaggi, identificati prevalentemente nei lavoratori manuali e nelle fanciulle, a cui Leopardi affida il ‘canto’, è stata svolta da M. Dondero, nel saggio «Cantando con mesta melodia». Il canto nei Canti di Giacomo Leopardi, in “Campi immaginabili”, 1, 2000, pp. 91-103. 27 Il sabato del villaggio, p. 31. 24 18 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ nel Sabato del villaggio, e gli «sguardi innamorati e schivi»28 di A Silvia, nonché il «contadino dicente le ave Maria e ’l Requiem Aeternam sulla porta del suo tugurio […]»29 nei Ricordi d’ infanzia e di adolescenza. L’esecuzione di musiche e canti era generalmente legata alle feste celebrate dai recanatesi in occasione delle varie ricorrenze che erano sentite e vissute molto profondamente dal popolo, e su cui si sofferma la riflessione leopardiana che origina il tema della festa, centralissimo nei Canti. A partire dal 1821, anno in cui si intensifica la stesura dello Zibaldone, come già osservò Giovanni Crocioni30, Leopardi si preoccupa di annotare puntualmente, accanto alla datazione dei pensieri, le principali ricorrenze, sia canoniche che personali e familiari. Rintraccia31 l’origine antica dell’usanza di celebrare gli anniversari di nascita e di morte di persone insigni, o altri importanti eventi, citando fonti autorevoli come l’Eneide di Virgilio, la Vita Virgilii di Heyne, le Odi di Orazio. A proposito delle ricorrenze canoniche, in un passo dello Zibaldone datato 3 Agosto 1821, Leopardi distingue le feste popolari antiche da quelle moderne, sottolineando la preminenza di significato delle prime e spiega che, nonostante abbiano finito per identificarsi tra loro, individuando le proprie radici nel Cristianesimo, feste nazionali e feste religiose hanno, in realtà, origini indipendenti e anteriori al Cristianesimo che adesso ha, tuttavia, il merito di conservarle. Quanto al senso più profondo della festa secondo Leopardi, essa acquista vero valore, anzi diventa ‘sacra’, grazie al significato soggettivo che le si attribuisce, all’emozione e alle sensazioni che suscita nel ricordo ed io mi ricordo di aver con indicibile affetto aspettato e notato e scorso come sacro il giorno della settimana e poi del mese e poi dell’anno rispondente 28 A Silvia, p. 26. Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 363. 30 G. Crocioni, Il Leopardi e le tradizioni popolari, Milano, Corticelli, 1948. 31 Zib. 2255 e 2322. 29 19 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ a quello dov’io provai per la prima volta un tocco di una carissima passione. Ragionevolezza, benché illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec. […]32. Non vogliamo soffermarci in questa sede sui diversi risvolti della critica in merito al significato di ‘festa’ in Leopardi 33 , ma richiamare semplicemente l’attenzione sulla relazione tra la speranza dell’attesa del giorno festivo e il piacere del suo ricordo, che spesso sono sollecitati nei Canti, proprio da una sensazione uditiva. Si pensi, per esempio, al Sabato del villaggio dove i due momenti, quello dell’attesa e quello del ricordo della festa appena passata, sono sollecitati rispettivamente dal «suono della campana a festa»34, nei vv. 20-23 (Or la squilla dà segno / della festa che viene; / ed a quel suon diresti / che il cor si riconforta)35 e, nei vv. 31-37, dal rumore degli attrezzi dell’artigiano (Poi quando intorno è spenta ogni altra face, / e tutto l’altro tace, / odi il martel picchiare, odi la sega / del legnaiuol […])36 che si affretta a ultimare il suo lavoro per il giorno seguente. A Recanati, città ‘canora’, come attesta l’etimologia stessa del nome (dal latino ‘re-cano’ che significa, appunto, ‘cantare’), il cui tradizionale attaccamento al teatro era reso ancora più fervido dalla competizione instauratasi con la vicina città di Macerata, la stagione 32 Zib. 60. Una interessante indagine sullo «spazio metafisico del festivo» è quella compiuta da A. Folin, nel capitolo intitolato La notte chiara e l’attesa del giorno festivo, del suo Leopardi e la notte chiara, presentazione di C. Galimberti, Venezia, Marsilio, 1993, pp. 47-68. 34 Cfr. Il Passero solitario, in G. Leopardi, I Canti, a cura di A. Straccali, 3ª edizione corretta e accresciuta da O. Antognoni, nuova presentazione di E. Bigi, Firenze, Sansoni, 1962, nota 29, p. 178: «squilla può significare così campana, come il suono di essa […] Nel significato pur di campana l’usò il nostro in Amore e morte, 56; e nell’altro senso in più luoghi. Cfr. Il risorgimento, 51; Il sabato del villaggio, 20; Paralipomeni, I, 2 e III, 37». 35 Il sabato del villaggio, p. 31. 36 Ibidem. 33 20 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ teatrale, con le relative rappresentazioni, era considerata occasione solenne e motivo di festa, in modo particolare nel periodo di Carnevale. Il “nuovo teatro” di Recanati, costruito interamente in legno, e inaugurato nel gennaio del 1719 con il dramma La Partenope del compositore toscano Silvio Stampiglia, per tutto il XVIII secolo era stato sufficiente a soddisfare le esigenze di un pubblico numericamente contenuto, ma quando nel secolo successivo, la partecipazione della borghesia agli spettacoli determinò un notevole incremento del pubblico, si rese necessaria la costruzione di un teatro più moderno e capace di rispondere alle nuove esigenze. Fu il padre del poeta, Monaldo Leopardi, all’epoca Gonfaloniere della città, l’ideatore e il principale fautore del progetto di costruzione di un nuovo teatro a Recanati, e fu lui a redigere il programma-manifesto datato 8 febbraio 1823, firmato dall’architetto recanatese Tommaso Brandoni37. Lo scambio epistolare tra Giacomo e suo padre, nel periodo compreso tra il febbraio e il marzo del 1823, testimonia alcune vicende relative alla costruzione del teatro. La prima, riguarda le sottoscrizioni per l’acquisto dei palchetti, a cui partecipò anche Carlo Antici, lo zio materno presso cui il poeta era ospite a Roma, che avrebbero dovuto finanziare la costruzione del teatro ma che, in realtà, coprirono solo una piccola parte delle spese. Così Leopardi scriveva al padre nella lettera del 15 febbraio 1823 a proposito dello zio Carlo 37 Si vedano a proposito G. Radiciotti, Teatro, musica e musicisti in Recanati, Recanati, tipografia Simboli, 1904, e C. Benedettucci, Il teatro in Recanati, in «Il Casanostra. Strenna Recanatese», 1930, nonché la testimonianza tratta dall’Epistolario di Giacomo Leopardi. Nuova edizione ampliata con lettere dei corrispondenti e con note illustrative, a cura di F. Moroncini, Firenze, Le Monnier, 1934-41, 7 voll., e riportata a p. 2193 dell’Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 2 voll.: «dopo i fasti del vecchio Teatro recanatese, detto prima “de’ Nobili” poi “de’ Condomini” (inaugurato ai primi di gennaio 1719); e specialmente dopo l’ “Operona” in cui aveva trionfato la Corradi,venne in mente ad alcuni notabili della città, primo tra essi Monaldo, l’idea di far sorgere un nuovo teatro di maggiore capacità e decoro; per la cui costruzione lo stesso Monaldo scrisse il Manifesto-programma, con la data 8 febbraio ’23 ». 21 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ loda ancora il progetto del nuovo teatro; e si mostrò subito disposto a sottoscriversi, benché Donna Marianna borbottasse assai da principio. Ora pare che anch’essa ci si accomodi […]38. Ed ecco la lettera di risposta di Monaldo, datata 28 febbraio 1823 ero certo che il Cav. avrebbe approvata e secondata la erezione di un nuovo teatro, come ero certo della disapprovazione di D.ª Marianna […]. Se il Cav.re fosse quà potrebbe […] ottenere che il Teatro, come io vorrei, si fabbricasse in faccia alla sua casa, con risparmio grande di spesa e abbellimento della contrada, ma solo non prevalerò certamente alla predominante inclinazione dei Piazzaroli […]39. E ancora la replica di Giacomo a suo padre, datata 15 marzo 1823 il zio Carlo ed io siamo restati sorpresi del suo pensiero e desiderio circa la collocazione del nuovo teatro, giacché il zio Carlo aveva concepito questo medesimo progetto, e ce l’aveva esposto più volte, e desiderava ancor egli che fosse posto in opera […]40. Entrambe alludono alla disputa sorta per la collocazione del nuovo teatro che vedeva schierati, da una parte Monaldo che voleva che il teatro fosse eretto di fronte a Palazzo Antici, e dall’altra, la maggioranza di coloro che avevano sottoscritto il progetto, definiti da Monaldo «piazzaroli» perché si battevano affinché il teatro sorgesse nella piazza centrale della città. La disputa, che fece ritardare enormemente 38 Ep. 518. Ep. 522. 40 Ep. 534. 39 22 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ l’inizio dei lavori di costruzione, si risolse con la scelta di un luogo centrale della città su cui far sorgere il teatro, intitolato al musicista recanatese Giuseppe Persiani, che fu completato e inaugurato il 7 gennaio del 1840 con il dramma Beatrice di Tenda di Vincenzo Bellini41. Fin da giovane Monaldo aveva coltivato la passione per il teatro e si era cimentato anche nella composizione di qualche commedia in stile goldoniano. L’allestimento domestico di spettacoli teatrali, era l’unica alternativa allo studio che concedeva ai propri figli i quali recitavano sul piccolo palcoscenico di casa Leopardi, di cui resta tutt’ora traccia, i versi composti per loro dal padre. Giacomo si recò per la prima volta in un teatro vero e proprio solo nel 1817, in occasione della rappresentazione recanatese del Turco in Italia di Gioacchino Rossini 42 , spettacolo che incise sui suoi gusti musicali e provocò un effetto intenso sul suo animo, come testimoniano due passaggi dei Ricordi d’ infanzia e di adolescenza in cui il poeta rievoca la «prima gita in teatro miei pensieri alla vista di popolo tumultuante ec. […]» e il «primo tocco di musica al teatro e mio buttarmi ec. […] e quindi domandato se avessi male […]»43. In una lettera datata 22 aprile 1820, Pietro Brighenti così esprimeva a Leopardi il suo desiderio di conoscerlo personalmente oh! Quanto bramerei ch’Ella conoscesse Bologna […]. E io avrei la consolazione di conoscerla di persona, il che desidero con tutto L’ardore. Non so s’Ella ami La musica e il teatro. Avremo quì a momenti un grandioso spettacolo […] io la importuno con parole che saranno vane e gliene chiedo perdono […]. Ma Ella sa, che noi crediamo che tutti abbiano le nostre Il libretto dell’opera, importante documento storico, è attualmente conservato a Recanati, presso la Biblioteca Leopardi. 42 Oltre Il turco in Italia, di Rossini, Leopardi ascoltò a Recanati, nel ’24 il Torvaldo e Dorliska e nel ’29 Il Barbiere di Siviglia. 43 Ricordi d’ infanzia e di adolescenza, p. 361. G. Radiciotti nel suo Teatro musica e musicisti in Recanati cit., colloca la rappresentazione del Turco in Italia proprio nel 1817, perciò, essendo i Ricordi del ’19, è certo che nei passi citati Leopardi si riferisse proprio al recente ascolto del Turco in Italia. 41 23 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ inclinazioni, e La musica è per me la prima, e la più grande di tutte le piacevoli risorse […]44. Il poeta, nella lettera del 28 Aprile 1820, ringraziava Brighenti per l’invito a recarsi in visita da lui a Bologna «bella e dotta città» e, lamentandosi per essere costretto a vivere in una città «incolta e morta» come Recanati, dove né lui, né nessun altro uomo di genio, sarebbe mai riuscito ad ottenere i dovuti riconoscimenti, manifestava all’amico il bisogno di evadere dall’ambiente recanatese, e affermava una quasi totale condivisione della sua passione per la musica la musica se non è la mia prima, è certo una mia gran passione, e dev’esserlo di tutte le anime capaci di entusiasmo. I divertimenti e le distrazioni, se anche non fossero di mio genio, sono per sentimento di tutti quelli che mi conoscono il solo rimedio che resti alla mia salute distrutta, senza il quale io vo a perire e consumarmi inevitabilmente fra poco […]45. È ovvio che con una simile risposta, Leopardi cercasse in qualche modo di compiacere Brighenti che gli offriva la possibilità di evadere dalle «catene domestiche e estranee»46 e che, oltre ad essere padre di una cantante era anche impresario teatrale 47 , ma questa circostanza non influisce sull’affermazione del poeta tanto da indurci a credere che la sua passione per la musica non fosse autentica. È vero che Leopardi tollerava male la lunghezza degli spettacoli e lo sfarzo della occasioni mondane ad essi collegati, che a teatro soffriva il disagio provocatogli dalle precarie condizioni di salute e in più dall’aggravarsi dei problemi alla vista, ma è 44 Ep. 297. Ep. 299. 46 Ibidem. 47 P. Brighenti è stato inoltre autore di una monografia intitolata Della musica rossiniana e del suo autore. Discorso dell’avvocato Pietro Brighenti accademico filarmonico di Bologna, Bologna, E. Dall’Olmo, 1830. 45 24 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ altresì vero che la musica lo attraeva e il canto, in modo particolare, stimolava fortemente la sua sfera dei sentimenti. Nell’attuale dibattito critico c’è chi, come Sergio Martinotti, sostiene che l’attenzione del poeta fosse rivolta esclusivamente alla musica come fenomeno in generale e che egli non provasse particolare interesse per la musica del suo tempo né per l’esperienza teatrale 48, e c’è chi come Alberto Caprioli sostiene, all’opposto, che nelle pagine dello Zibaldone dedicate alla musica si possa ravvisare un interesse del poeta verso quest’arte abbastanza ampio da includere anche le rappresentazioni teatrali, e individua addirittura delle analogie che accomunano alcuni passi delle opere leopardiane con il romanticismo tedesco. Per fare qualche esempio, nel suo intervento al Convegno su Leopardi e Bologna49 , Caprioli rileva come il «suono così dolce che tale non s’ode a questo mondo» di cui Leopardi parla nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, può essere considerato antecedente dell’accezione hölderliniana del suono come «metafora di un sublime ultraterreno» 50, arriva inoltre a intravedere un rapporto di intertestualità tra «il principio del mondo» che nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza Leopardi avrebbe voluto «porre in musica non potendo la poesia esprimere queste cose»51 e la Schöpfung di Haydn, e ancora, partendo di nuovo dai Ricordi, e precisamente da quella ‘canzone’ che il poeta avrebbe voluto esprimere ‘in musica’ senza parole, e accostando questo concetto a quello di frühromantisch che emerge dal Don Juan di Hoffmann52, Caprioli vede 48 Cfr. S. Martinotti, La concezione musicale di Giacomo Leopardi, in Leopardi oggi. Incontri per il bicentenario della nascita del poeta, Milano, Vita e pensiero, 2000, pp. 171-184. 49 Cfr. A. Caprioli, Giacomo Leopardi e la ‘nuova musica’, in Leopardi e Bologna, Atti del Convegno di Studi per il Secondo Centenario Leopardiano (Bologna 18-19 maggio 1998), a cura di M. A. Bazzocchi, Firenze, Olschki, 1999, pp. 57-78. 50 Ibidem, p. 60. 51 Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 360. 52 Nel saggio di Caprioli è riportato anche quel passo del Don Juan in cui Donna Anna afferma: «ella mi disse che tutta la sua vita era musica, e che spesso, cantando, ella 25 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ in entrambi l’antecedente di un importantissimo genere musicale romantico che si identifica con il titolo mendelssohniano di Lied ohne Worte. Circa l’interesse di Leopardi per il teatro, la corrispondenza con il fratello Carlo permette di ricostruire con certezza a quali spettacoli egli abbia assistito durante il primo soggiorno a Roma, e di conoscere le sue impressioni e i suoi giudizi sulle varie rappresentazioni. Carlo Leopardi, frequentatore appassionato di teatro, nel 1823, in occasione della rappresentazione recanatese dell’Italiana in Algeri di Rossini, si innamorò del soprano Clotilde Corradi, di cui apprezzò le notevoli doti canore 53 , tanto da pensare di dedicarle un sonetto che sottopose all’attenzione del poeta nella lettera del 9 gennaio 1823. Il sonetto era il seguente: A Clorinda Corradi Dell’alto nome tuo ben degna sei Bella come Clorinda, e che l’ignori Sola, modesta e schiva, come lei Accendi più col disperarli i cuori. Se poi quel canto onde nostr’alme bei Udiva il Franco Eroe, più, credo, fuori Di senno tu che i forti lo traei Atti della viril donna, e i rigori. E tu pur sei guerriera: oh come bella credeva di comprendere mille cose nascoste misteriosamente nell’essere; cose che nessuna parola avrebbe potuto esprimere», citato da E. T. Amadeus Hoffmann, Scritti musicali, a cura di G. Pierotti e A. Ulm, Firenze, Rinascimento del Libro, 1931, pp. 4243. 53 Cfr. Ep. 507. Nella lettera inviata a Giacomo il 26 gennaio 1823, Carlo si esprime così a proposito della Corradi: «figurati che la Bandi, di cui raccontano che alcuni Inglesi comprarono il cadavere per esaminare la costruzione, da cui risultava la molteplicità prodigiosa delle sue corde, aveva due tuoni in meno di questa, che ha due ottave e due tuoni limpidi e più sforzandosi […]». 26 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ Allor che i freddi Itali petti avvampi Coll’ardir della fervida Isabella! Corri tua nobil via. Sol ti rammente Di lor fra cui la prima orma tua stampi, Che te rammenteranno eternamente54. È interessante notare come nella sua lettera di risposta, datata 18 gennaio 1823, Leopardi non si soffermi ad esprimere un giudizio vero e proprio sulla qualità del sonetto inviatogli da Carlo, ma cerchi piuttosto di esprimere le sensazioni suscitate dalla sua lettura, il senso di nostalgia per una dimensione di vita, di poesia, e di affetti all’insegna della semplicità, di gusto per le piccole cose, da cui si sente distolto e privato dall’ambiente della capitale. Dice, infatti, a proposito del sonetto è molto bello e affettuoso, e mi ridesta l’idea dell’animo tuo, e del sentimento, e della poesia, e del bello vero, tutte cose che bisogna dimenticare affatto in Roma, in questo letamaio di letteratura di opinioni e di costumi […]55. Il giudizio negativo di Leopardi su Roma che «mi ha fatto almeno questo vantaggio di perfezionare la mia insensibilità sopra me stesso»56, include anche l’organizzazione degli spettacoli e, in generale, dei divertimenti. Ecco cosa scrive il poeta a Carlo nella lettera del 16 dicembre 1822 io v’accerto che non solo non ho provato alcun piacere in Roma, ma sono stato sempre immerso in profondissima malinconia […]. V’accerto che gli spettacoli e divertimenti sono molto più noiosi qui che a Recanati, perché in essi nessuno brilla, fuori dello stesso spettacolo e divertimento. Questo è il solo che 54 Ep. 618. Ep. 630. 56 Ep. 504. 55 27 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ possa brillare, e non si va allo spettacolo se non puramente per veder lo spettacolo, (cosa noiosissima) […]57. Altrove, e precisamente nella lettera del 5 febbraio 1823 indirizzata ancora una volta a Carlo, Leopardi specifica che la noia degli spettacoli dipende principalmente dalla loro durata «intollerabile e mortale», sei ore senza interruzione, e dai fasti eccessivi con cui i romani si sforzano di rappresentare la loro città quasi a volerne riprodurre la grandiosità architettonica pare che questi fottuti romani che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura delle abitazioni de’ giganti, vogliano anche farsi i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento che fino a un certo segno […]58. A parte i giudizi personali del poeta sulle rappresentazioni, l’epistolario leopardiano non contiene testimonianze dirette sull’organizzazione degli spettacoli a Roma nei primi decenni dell’Ottocento: l’attenzione del poeta si sofferma, infatti, più sul contenuto che sulla forma degli spettacoli, più sulla musica, sul canto, sul ballo che non sugli aspetti propriamente ‘scenografici’. Un importante documento sui teatri romani e, in particolare, sulla stagione teatrale del 1822-’23, anni del primo soggiorno leopardiano nella capitale, è attualmente costituito dal catalogo della mostra Leopardi a Roma 59 , da cui apprendiamo che, accanto alle rappresentazioni ‘ufficiali’ che si svolgevano nei teatri e che avevano una finalità più 57 Ep. 474. Ep. 514. 59 Si veda in particolare il capitolo Leopardi all’Opera, in Leopardi a Roma, a cura di N. Bellucci e L. Trenti, Milano, Electa, 1998, pp. 83-93. 58 28 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ propriamente edonistica, grande rilevanza era attribuita alle rappresentazioni legate ai fastosi riti della comunità cattolica, e a quelle allestite all’interno dei palazzi privati su iniziativa di famiglie potenti, con un intento specificamente autocelebrativo. Molto diffusi erano inoltre gli ‘spettacoli popolari’ come le numerose manifestazioni che accompagnavano i festeggiamenti del Carnevale 60 e della tradizionale “Ottobrata”, la vendemmia «che si svolgeva come fulcro a Monte Testaccio e a Villa Borghese aperta annualmente al popolo dal principe […] caratterizzata dal ballo del Salterello e da sfilate di carri da cui venivano cantati gli stornelli»61. È verosimile che il poeta parlando di ‘divertimenti,’ nella citata lettera del 16 dicembre 1822, si riferisse proprio a questo tipo di intrattenimenti che per lui non rappresentavano occasione di svago anzi, in alcuni momenti, come quello descritto nella lettera a Carlo della “sera di Carnevale 1823”, diventavano addirittura motivo di fastidio sono assordato dal maledetto strepito del Carnevale, di cui non ti parlo, perché te lo puoi figurare. Spettacoli e poi spettacoli non sono mancati, non mancano e non mancheranno fino a sei ore e mezza. Poi il diavolo se li porterà in anima e in corpo, come tu sai. Domani farò il comodo mio: son dieci giorni che fo quello degli altri, e che ne debbo restare obbligato […]62. Le feste da ballo carnevalesche, dai primi dell’Ottocento fino al 1859, quando il nuovo proprietario Alessandro Torlonia ne avviò il restauro, si svolgevano nel teatro Alibert63, mentre i teatri Fiano e Ornani ospitavano un altro genere di spettacolo molto diffuso all’epoca, il teatro 60 Per una descrizione del carnevale romano del 1823 si veda il capitolo Scene di carnevale, ibidem, pp. 124-129. 61 Ibidem, nota 1, p. 87. 62 Ep. 517. 63 Notizie dettagliate sul teatro si trovano in A. De Angelis, Il teatro Alibert o delle Dame 1717- 1863, Tivoli, A. Chicca, 1951. 29 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ dei burattini e delle marionette a cui l’esperienza leopardiana non rimase estranea se è vero che il poeta conobbe personalmente in quegl’anni il famoso burattinaio Gaetano Santangelo (1782-1832), meglio noto come Ghetanaccio. Nel suo intervento al convegno su Leopardi e Roma 64 , Letizia Norci Cagiano de Azevedo sostiene che il poeta, avendo assistito a qualche spettacolo del teatrino delle marionette di palazzo Fiano diretto da Filippo Tedi, ne sia rimasto così favorevolmente impressionato da adoperare, nella quinta ottava del canto VIII dei Paralipomeni, il paragone tra la discesa nella grotta dei topi morti del “cavaliere di Topaia” e una scena del teatrino delle marionette avente come protagonista il famoso personaggio di Cassandrino «bellimbusto ma fifone»65: Io vidi in Roma sulle liete scene Che il nome appresso il volgo han di Fiano In una grotta ove sonar catene S’ode e un lamento pauroso e strano, Discender Cassandrin dalle serene Aure per forza con un lume in mano, Che con tremule note in senso audace Parlando, spegne per tremar la face66. I teatri Argentina e Valle 67 erano deputati rispettivamente alla messa in scena delle opere serie e dei balli e delle opere buffe. «Sono sul 64 L. Norci Cagiano de Azevedo, Leopardi e la stagione teatrale romana 1822-23, in Leopardi e Roma, Atti del Convegno (Roma 7-9 novembre 1988), a cura di L. Trenti e F. Roscetti, Roma, Colombo, 1991, pp. 315-329. 65 Ibidem, p. 319. 66 Paralipomeni della Batracomiomachia, p. 287. 67 Per approfondimenti sui teatri romani nell’Ottocento, si vedano G. Radiciotti, Il teatro e la cultura musicale in Roma nel secondo quarto del secolo XIX, Roma, Tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice, 1904 (estratto dal fascicolo di agosto 1904 della «Rivista d’Italia», pp. 1-2); A. Rava, I teatri di Roma, Roma, Palombi, 1953; G. Tiricanti, Il teatro Argentina, Roma, Palombi, 1972; L. Norci Cagiano de Azevedo, 30 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ punto di andare a teatro a sentir David […]»68, il poeta scriveva a Carlo il 26 dicembre 1822, poco prima di recarsi al Teatro Argentina per assistere alla prima dell’Eufemio di Messina, un’opera musicata dal maestro Michele Carafa su libretto di Jacopo Ferretti, in cui la parte di Eufemio era affidata al famoso tenore Giovanni David. Il melodramma, che riprendeva lo stesso soggetto della tragedia scritta nel ’20 da Silvio Pellico, non riscosse lo sperato successo, secondo la testimonianza di Agostino Chigi 69 , infatti «la musica ha pochissimo incontrato» e sono stati giudicati «non abbastanza nobili i motivi principali dei pezzi». Il giudizio di Leopardi non si discosta sostanzialmente da quello di Chigi poiché il poeta, oltre ad evidenziare la mancanza di originalità dell’opera di Carafa che sembra «quasi tutta rubata a Rossini», considera «nessun pezzo interessante, fuorché un’aria del Contralto nel prim’Atto, la quale però sembra cominciata e non finita […]»70. Il brano a cui Leopardi si riferisce e che apprezzò maggiormente forse è lo stesso che, sempre secondo la testimonianza di Chigi, convinse di più anche tutto il pubblico: Ma fra le lagrime Del mio dolore Vedrò mai splendere Raggio di amore? Ho più da piangere? Ho da sperar? Se il fato donami, Quel cor sì fido, Ho in pugno il fulmine Teatri romani, in Stendhal, Roma, l’Italia, Atti del Convegno Internazionale (Roma, 710 novembre 1983), a cura di M. Colesanti, A. Jeronimidis, L. Norci Cagiano de Azevedo, A. M. Scaiola, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1985, pp. 125-135. 68 Ep. 479. 69 Cfr. A. Chigi, Memoriabilia privata et publica (1801-1809; 1814-1855), Codice Vaticano Chigi 3966 bis, in data 6 novembre 1822. 70 Ep. 489. 31 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ L’Affrica sfido A me sorridere Vedrò Fortuna, L’Odrisia Luna Farò eclissar; Né più quest’anima Saprà bramar 71. Per quanto riguarda la qualità delle voci che, oltre al tenore Giovanni David, erano quelle del soprano Santina Ferlotti nella parte di Adele, del contralto Rosmunda Pisaroni nella parte di Lotario, di Gaetana Corini nel ruolo di Eloisa e di Carlo Diofebi nel ruolo di Abdul, il giudizio espresso da Leopardi nella lettera a Carlo del 6 gennaio 1823, è piuttosto severo e preciso: tutte le voci mediocri; eccetto il Tenore, cioè David, e il Contralto, cioè la Ferlotti. Il Basso è nulla, ed agisce anche poco nell’Opera. Il canto di David non mi ha fatto grande impressione perché ci si conosce evidentemente lo sforzo. E perciò il corpo della sua voce, secondo il gusto mio, non può molto dilettare. Quanto all’agilità e volubilità del suo canto, le mie rozze orecchie non ci trovano niente di straordinario. Ma, comunque sia, la più bella voce applicata a una melodia che non significa niente, non può far grande effetto […]72. Nell’esprimere il suo giudizio sostanzialmente negativo sulle voci che compongono il melodramma, Leopardi, da una parte invoca la questione del gusto e attribuisce alla ‘rozzezza’ delle sue orecchie l’incapacità di cogliere la straordinarietà della voce di David, dall’altra La citazione, tratta dal libretto dell’Eufemio di Messina, Roma, Boulzazer, 1827, è ripresa da Leopardi all’opera, in Leopardi a Roma cit., p. 88. 72 Ep. 489, corsivo mio. Da notare la ‘svista’ di Leopardi che scambia la Pisaroni, contralto, con la Ferlotti, oppure che, riferendosi esattamente alla Ferlotti ne confonde il ruolo. 71 32 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ evidenzia la banalità della melodia che non acquisterebbe valore neanche se eseguita da una grande voce. Forse è opportuno chiedersi se giudizi così fini come quelli pronunciati da Leopardi possano davvero provenire da «rozze orecchie», o se piuttosto il poeta non adoperi l’espressione con un senso di «falsa modestia»73 o di ironia. Circa la seconda affermazione si può notare, invece, come il condizionamento delle opinioni espresse da Chigi e da altri critici possa avere influenzato il giudizio di Leopardi tanto da indurlo a dichiarare qualcosa di opposto rispetto a ciò che aveva scritto in un pensiero dello Zibaldone di due anni prima. Mentre qui l’attenzione sembra appuntarsi tutta sulla qualità della melodia che costituirebbe il presupposto fondamentale per un buon esito dell’esecuzione, nella riflessione zibaldoniana del 17 settembre 1821 l’attenzione si concentra tutta sulla voce che, se brutta, guasta anche la migliore melodia, se bella, fa sì che anche la melodia più mediocre catturi il sentimento del pubblico, infatti: la più bella melodia non commuove eseguita da una vociaccia, per ottimamente eseguita che sia; e viceversa ti sentirai tocco straordinariamente al primo aprir bocca di un cantante di bella voce, soave ec., che eseguisca la melodia più frivola, la meno espressiva, o la più astrusa ec., e l’eseguisca anche male, e stuonando […]74. Sugli aspetti propriamente ‘spettacolari’ della rappresentazione, Leopardi non si sofferma se non per fare qualche osservazione negativa sul ballo di cui non apprezza la parte ‘pantomimica’ o ‘imitativa’, mentre riconosce un certo fascino alla parte ballabile che, però, non desta in lui alcun senso di meraviglia visto che «tutto quello ch’è puro spettacolo, Questo è ciò che sostiene anche F. Foschi nell’Introduzione all’antologia Sulla musica cit., p. 13. 74 Zib. 1722. 73 33 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ come il ballabile, dopo un quarto d’ora annoia»,75 e siccome la durata del ballo era almeno di un’ora e mezzo, è chiaro che nessuno spettatore si sarebbe potuto meravigliare così a lungo, infatti, puntualizza il poeta con una punta di ironia chi si può meravigliare per un’oretta e mezza, è molto ammirabile […]76. Un giudizio ben diverso sul ballo è quello espresso da Leopardi nella lettera a Carlo del 5 febbraio 1823 dove, in riferimento allo spettacolo del Corso «bello e degno d’essere veduto»77, afferma che «una donna né col canto né con qualunque altro mezzo può tanto innamorare un uomo quanto col ballo: il quale pare che comunichi alle sue forme un non so che di divino, ed al suo corpo una forza, una facoltà più che umana […]» 78 ; poiché Giacomo e Carlo erano soliti scambiarsi confidenze in fatto di amore e di donne, il poeta, per rendere meglio l’idea di ciò che ha visto dà per scontato che, se anche Carlo avesse visto esibirsi una di quelle ballerine, nonostante i suoi «propositi antierotici», si sarebbe sentito «cotto al primo momento»79. Sempre al teatro Argentina, il 23 gennaio 1823, Leopardi assistette alla prima della Donna del lago 80 di Gioacchino Rossini 81 , 75 Ep. 489. Ibidem. 77 Ep. 514. 78 Ibidem. 79 Ibidem. 80 La Donna del lago è stata composta nel 1819, lo stesso anno in cui Rossini ha composto anche Ermione, Edoardo e Cristina, Bianca e Faliero. 81 Stendhal apre la sua biografia su Rossini con una suggestiva descrizione della città di Pesaro, dove il celeberrimo compositore nacque il 29 febbraio del 1792: «Pesaro si alza in mezzo a colline coperte di boschi, ed i boschi si estendono proprio fino alla riva del mare. Non vi è niente di desolato, di sterile, di bruciato dal vento marino. Le rive del Mediterraneo, ed in particolare quelle del golfo di Venezia, non hanno nulla di quell’aspetto selvaggio e cupo che le onde immense e i venti potenti dell’Oceano danno alle sue rive. Qui, come sulla frontiera di un grande impero dispotico, tutto è potenza irresistibile e desolazione; tutto è dolce voluttà e bellezza commovente, invece, verso le 76 34 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ melodramma composto su libretto di Andrea Leone Tottola che si rifaceva alla trama del poema The lady of the lake di Walter Scott, nei confronti del quale il poeta, d’accordo con la critica, si espresse molto favorevolmente, fatte eccezione le lamentele per la lunghezza dello spettacolo. L’ “insensibilità sopra se stesso” che il soggiorno nella capitale aveva già perfezionato nel poeta, viene adesso intaccata dall’emozione suscitatagli dal melodramma. Queste sono le significative parole attraverso cui, ancora nella lettera del 5 febbraio 1823, il poeta descrive a Carlo le sensazioni provate a teatro abbiamo in Argentina La donna del lago, la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso, giacché m’avvedo pure di non averlo perduto affatto […]82. Le «voci sorprendenti» a cui Leopardi si riferisce, tranne il tenore Pietro Todran, sono le stesse che, nella rappresentazione dell’Eufemio di Messina, non lo avevano particolarmente affascinato, ma che adesso rivaluta grazie all’effetto positivo determinato dalla loro applicazione alla melodia rossiniana che scaturisce da una maniera di comporre la musica che si accosta fortemente al genere popolare, quello più apprezzato da Leopardi che così esprime a proposito di Rossini nello Zibaldone e non per altro riesce universalmente grata la musica di Rossini, se non perché le sue melodie o sono totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo; o più di quelle degli altri compositori, si accostano a quelle successioni di tuoni che il popolo generalmente conosce ed alle quali è rive ombrose del Mediterraneo, vi si riconosce senza fatica la culla della civiltà del mondo», cfr. Stendhal, Rossini, traduzione italiana di B. Revel, Milano, 1949, p. 1. 82 Ep. 514. 35 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ assuefatto, cioè al popolare; o hanno più parti popolari, o simili, ovver più simili che dagli altri compositori non s’usa, al popolare […]83. Al teatro Valle84, Leopardi assistette all’opera buffa Il corsaro, ovvero Il maestro di cappella in Marocco, musicata dal maestro Filippo Celli su libretto di Jacopo Ferretti, proprio come l’Eufemio di Messina. Nella stessa lettera a Carlo, datata 6 gennaio 1823, in cui Leopardi commenta lo spettacolo del maestro Carafa visto al teatro Argentina, parla anche dell’opera del maestro Celli che andava in scena al Valle senza fare menzione del titolo 85 , ma esprimendo una serie di giudizi negativi a partire dal confronto con la rappresentazione recanatese del Turco in Italia di Rossini che «non solamente per la musica, ma per ciascun cantante, a uno per uno, e tutti insieme, fu migliore senza nessunissimo paragone […]», e dà testimonianza dello scarso riscontro del pubblico nei confronti della rappresentazione se è vero che «il teatro è per lo più deserto, e ci fa un freddo che ammazza […]»86. Durante il suo primo soggiorno nella città di Bologna, che si protrasse dal 29 settembre 1825 all’11 novembre 1826, Leopardi, su suggerimento dell’amico Pietro Brighenti trovò alloggio, in qualità di subaffittuario, in un «appartamentino»87 contiguo ai locali del Teatro del Corso, come racconta lui stesso a Monaldo nella lettera del 3 ottobre 1825 qui ho tolto a pigione p[er] un mese un appartamentino in casa di un’ottima e amorevolissima famiglia […]88. 83 Zib. 3208-3209. Si veda la nota 68 a p. 15 del presente lavoro. 85 Il titolo si deduce facilmente dal fatto che l’opera in questione, dal 26 dicembre 1822, data di riapertura del teatro dopo i lavori di restauro avviati nel marzo 1821, andava ancora in scena nel gennaio del ’23, quando il poeta scrisse la lettera al fratello. 86 Ep. 489. 87 Ep. 737. 88 Ibidem. 84 36 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ In realtà, il poeta non si trattenne nella casa solo per un mese visto che, nella lettera del 18 gennaio 1826 indirizzata a Giuseppe Melchiorri, indica lo stesso domicilio, specificando inoltre il nome del padrone che è anche proprietario del Teatro del Corso89, e il nome della famiglia da cui ha preso l’alloggio in affitto io abito all’ingresso del Teatro del Corso, in casa Badini, presso il signor Aliprandi […]90. Vivere dentro il teatro significava stare ogni giorno a contatto, in maniera più o meno diretta, con le manifestazioni che si svolgevano al suo interno e che erano numerose e frequenti in un’epoca, come ai primi decenni dell’Ottocento, in cui c’era molto fervore artistico a Bologna e altrettanto entusiasmo e partecipazione da parte dei cittadini nei confronti della vita teatrale91. Leopardi che in precedenza, incoraggiato dalla sua passione per la musica, aveva frequentato sebbene saltuariamente i teatri, adesso rinuncia del tutto a questo tipo di esperienza, mostrando una certa insofferenza per gli spettacoli e dichiarando di annoiarsi a teatro. Ecco cosa scrive il poeta alla sorella Paolina nella lettera del 19 ottobre 1825: i teatri di Bologna io non so ancora come sieno fatti, p[er]ché gli spettacoli mi seccano mortalm.e; sicché ho preferito di ess.e gentilm.e messo in burla dalle Sigrẽ che mi hanno invit.º ai loro palchi, e dopo aver promesso di andare e mancato di parola, ho detto francam.e a tutte che il teatro non fa al caso mio. La bella è che il muro della mia camera è contiguo al teatro del Corso, Notizie sulla storia di questo teatro e sulla sua attività dagli inizi dell’Ottocento fino alla metà circa del secolo scorso, nonché sul soggiorno di Leopardi al suo interno, sono contenute in M. Calore, Il teatro del Corso 1805-1944. 150 anni di vita teatrale bolognese tra aneddoti e documenti, Bologna, Lo Scarabeo, 1992. 90 Ep. 822, i corsivi sono nel testo. 91 Sull’attività dei teatri Bolognesi nei primi decenni dell’Ottocento, e sulla stagione teatrale 1825-’26, un’importante testimonianza è resa nel capitolo Leopardi e il teatro a Bologna, in Leopardi a Bologna. Libri immagini documenti, a cura di C. Bersani e V. Roncuzzi Roversi-Monaco, Bologna, Pàtron Editore, 2001, pp. 217-241. 89 37 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ talmente che mi tocca sentir la Commedia distintam.e e szã muovermi di casa […]92. Ma la vera ragione di questa rinuncia probabilmente va ricercata nell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, che gli fa avvertire maggiormente il disagio derivante dall’obbligo di restare fermo per delle ore dietro il palchetto per assistere allo spettacolo. Ad ogni modo, durante il suo primo soggiorno a Bologna, città dove «cominciando dagli orbi tutti vogliono cantare o suonare, e c’è musica da per tutto […]»93, Leopardi non volle recarsi a teatro neanche per assistere a quella che lui stesso, nella lettera del 31 ottobre 1825 a Luca Mazzanti, definisce una «grande Opera» senza, tuttavia, specificarne il titolo abbiamo bensì una grande Opera, che io non ho sentita, e grandi cantanti che io non conosco […]94. Probabilmente l’opera in questione è la Semiramide di Rossini a cui Leopardi assisterà invece al suo ritorno a Bologna, nel 1827, quando le sue condizioni di salute saranno migliorate e il suo animo più predisposto alla compagnia e agli svaghi. La prima della Semiramide va in scena il 13 maggio95, e il 18 dello stesso mese, Leopardi così scrive a Paolina: la stagione anche qui è ottima, e io mi diverto veramente un poco più del solito, perché grazie a Dio mi sento bene, e perché quest’essere uscito dall’inverno non mi può parer vero, e non finisce di rallegrarmi; e perché gli 92 Ep. 798. Ep. 908. 94 Ep. 765. 95 Il successo della rappresentazione è testimoniato dalla «Gazzetta di Bologna», n. 40, sabato 19 maggio 1827. 93 38 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ amici mi tirano. Sono stato all’opera già due volte (l’opera si è avuta finora tre sere) […]96. A Firenze Leopardi non ebbe alcun contatto con il teatro. «Gl’incomodi che ho, sono degli occhi e dei denti […]. La malinconia che mi dà questa sciocchezza da un mese in qua, non è credibile […]»97, scrive il poeta alla sorella Paolina nella lettera del 7 luglio 1827, ed è proprio a causa di questi malesseri, e di questa malinconia che non vuole recarsi a teatro, neanche per assistere all’opera del suo concittadino Giuseppe Persiani, pur apprezzandolo come compositore e condividendo l’unanime giudizio positivo della critica, come conferma il prosieguo della lettera l’entusiasmo destato da Persiani è verissimo. Ho sentito parecchi intendenti o dilettanti dire che Persiani è un genio straordinario. Tutti ne dicon gran bene, anche per riguardo al suo carattere e alla sua gran probità. […] quando si impegnò a scrivere il Danao, il patto fu, che se l’Opera non piaceva al pubblico, l’impresario non lo avrebbe pagato. Io non sono stato a sentirla, perché i miei occhi in teatro patiscono troppo […]98. Del secondo soggiorno leopardiano a Roma, nel periodo compreso tra l’ottobre 1831 e il marzo 1832, non ci sono testimonianze epistolari, né d’altro genere, che attestino una frequentazione seppur minima dei teatri da parte del poeta, il solo elemento di contatto indiretto con il teatro si basa sul fatto che Leopardi era ritornato nella capitale insieme all’amico Antonio Ranieri innamorato dell’attrice Maddalena Pelzet che recitava con la sua compagnia al teatro Valle. 96 Ep. 1079. Ep. 1106. 98 Ibidem. 97 39 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ E proprio dalla testimonianza di Ranieri 99 apprendiamo che l’esperienza di Leopardi come spettatore di teatro si concluse nel 1833, al teatro del Fondo di Napoli, dove assistette con ammirazione, nonostante «il solecchio pe’ lumi che lo ferivano» 100 , alla rappresentazione del Socrate immaginario di Paisiello. § I.2 LA MUSICA NEL SISTEMA LEOPARDIANO DELLE BELLE ARTI 99 Cfr. A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Milano, Garzanti, 1979. 100 Ibidem, p. 64 40 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ I pensieri sulla musica presenti nello Zibaldone sono indicizzati da Leopardi, nelle due sezioni, Speculativa e Pratica Storica, della Teorica delle arti, lettere ec., e l’intera riflessione leopardiana sulla musica si inquadra, appunto, nell’ambito del discorso sulle arti e sul bello, corrispondente a quello che il poeta stesso definisce il proprio «Sistema di Belle Arti»101, e che già da alcuni decenni è oggetto di un notevole interesse da parte della critica. Gli stessi riferimenti alla musica presenti nei Canti, non si reggono in maniera autonoma ma vanno considerati alla luce di tale riflessione che è, a sua volta, strettamente connessa con la ‘teoria del piacere’. In riferimento alle opere leopardiane, si è già accennato al valore meditativo delle riflessioni sulla musica presenti nelle Operette Morali, alla testimonianza dell’esperienza musicale del poeta costituita dall’Epistolario, agli spunti presenti in altre opere quali il Diario del primo amore, i Ricordi d’infanzia e di adolescenza, il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, ma sarà opportuno analizzare di seguito le modalità attraverso cui l’idea leopardiana di musica si sviluppa nello Zibaldone, a partire proprio dal discorso sull’arte. Gli attuali giudizi circa la sensibilità leopardiana per l’arte, sono radicalmente mutati rispetto a quelli, precedenti alla pubblicazione dello Zibaldone, di Francesco De Sanctis e di Arturo Graf102, e tendono tutti, sebbene da angolature diverse, ad una rivalutazione dell’interesse di Leopardi per le arti. Dall’interesse per le arti figurative in generale, con 101 Zib. 6. I quali affermano rispettivamente che Leopardi «aveva il gusto poco educato alla scultura e alla pittura […]. Un chiaro di luna tra le frondi gli faceva più effetto che non una Venere Capitolina» (cfr. F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, a cura di E. Ghidetti, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 149), e che «sicuramente il Leopardi […] non fu un visuale, o, per lo meno, non fu un visuale poderoso. Luce e colori egli vide assai meno intensamente, non dirò di Dante […] ma anche dell’Ariosto, del Goethe, dello Chateaubriand, dello Shelley e di cent’altri» (cfr. A. Graf, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Torino, Chiantore, 1898, rist. 1945, pp. 398-399). 102 41 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ gli studi di Attilio Moroni e Alberto Frattini103, a quello più specifico per la pittura, trattato in maniera particolareggiata da Margherita Pieracci Harwell 104 , che ha isolato almeno trenta pensieri dello Zibaldone esplicitamente dedicati alla pittura, e, evidenziandone la netta inferiorità numerica rispetto a quelli sulla musica e sul canto, ha avallato la tesi di Giovanni Amoretti 105 , ripresa più recentemente da Alberto Folin 106 , secondo cui il motivo che impedisce alla riflessione leopardiana di soffermarsi più a lungo sulla pittura è legato alla componente ‘visiva’ di quest’ultima, o meglio, alla volontà del poeta di “non vedere” la luce che svela la verità delle cose. Nella stessa direzione, l’interpretazione filosofica di Folin 107 , Galimberti 108 , Prete 109 , Scalia 110 , Caracciolo 111 , Cacciari112, e altri ancora, sostiene che in Leopardi l’immagine abbia un senso diverso e ben più profondo di quello che appare esplicitamente, e Cfr. A. Moroni, L’arte figurativa nel pensiero di Giacomo Leopardi, in Omaggio a Leopardi, Abano Terme, Francisci, 1987, vol. II, pp. 431-444, e A. Frattini, Leopardi e le arti figurative e Il «sistema dei colori» nel tessuto espressivo dei «Canti», in Giacomo Leopardi, Roma, Studium, 1986, pp. 171-184 e pp. 185-198. 104 M. Pieracci Harwell, Leopardi: pittura e poesia, in Giacomo Leopardi. Estetica e poesia, a cura di E. Speciale, Ravenna, Longo Editore, 1992, pp. 79-97. 105 G. Amoretti, Poesia e psicanalisi: Foscolo e Leopardi, Milano, Garzanti, 1979. 106 A. Folin, La natura e lo sguardo. Filosofia e percezione visiva in Leopardi, in Da Leopardi all’eresia. Saggi sulla poesia e sul potere, Napoli, Dick Peerson, 1987. Sul tema della “verità” in Leopardi, si veda anche, idem, La verità come svelamento, come rivelazione e come destino, in Leopardi e l’imperfetto nulla, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 29-45. 107 Cfr. Idem, Dall’immagine all’«idea», in Pensare per affetti. Leopardi, la natura, l’immagine, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 71-110, in cui l’autore sostiene che «la meditazione leopardiana, proprio in virtù del suo carattere teoretico e al tempo stesso evocativo, vada interrogata non solo per ciò che essa dice esplicitamente sulle arti figurative, ma anche per ciò che è presupposto nell’immagine che quella scrittura mette in scena poeticamente […] » (p. 72). 108 Cfr. C. Galimberti, Linguaggio del vero in Leopardi, Firenze, Olschki, 1959; idem, Leopardi, meditazione e canto, Introduzione alle Opere di G. Leopardi, a cura di M. A. Rigoni e R. Damiani, Milano, Mondadori, 2 vol1., 1987-’88, pp. XIII-LXXIX; idem, Fanciulli e più che uomini, in Cose che non son cose, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 209217. 109 Cfr. A. Prete, Il pensiero poetante, Milano, Feltrinelli, 1980. 110 Cfr. G. Scalia, Etimologie della «Ginestra», in «Con-tratto», I, n. 1, dicembre 1992. 111 Cfr. A. Caracciolo, Leopardi e il nichilismo, Milano, Bompiani, 1994. 112 Cfr. M. Cacciari, Leopardi platonicus?, in «Con-tratto», I, n. 1, Dicembre 1992, pp. 143-153. 103 42 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ che da essa prenda avvio il percorso che conduce all’idea. Folin sostiene, infatti, che «Leopardi, nel mentre rifiuta l’innatismo e afferma l’inesistenza di un bello ideale in natura, non rinuncia […] ad affermare il carattere universale dell’eidos, dell’idea. Il luogo di questa idea, tuttavia, non sta nel soggetto - il quale è condizionato dalla storia e dall’assuefazione mutevole e relativa - : esso sta nel sensus communis, cioè in quell’essere in comune che costituisce il fondamento di ogni esserci»113. Tra i pensieri zibaldoniani sulla pittura indicati, nel saggio sopra citato, dalla Pieracci Harwell, ce n’è uno in cui Leopardi accosta la luce al suono spiegando perché entrambi, attraverso meccanismi differenti, siano in grado di procurare il ‘diletto’. Il passaggio è il seguente: la luce il suono ricreano e dilettano per natura. Ma il diletto dell’una e dell’altro non è né grande né durevole, se non sono applicati, questo all’armonia, quella, non solo ai colori (chè i colori son come i tuoni, e di poco durevole diletto, sebbene più durevole di quello della luce semplice o del bianco), ma agli oggetti visibili o naturali o artefatti, come nella pittura, che applica, distribuisce ed ordina al miglior effetto i tuoni della luce, come l’armonia quelli del suono. I colori non hanno a che fare coll’armonia, ma hanno un altro modo di dilettare. I tuoni del suono non hanno se non l’armonia, a cui possono essere dilettevolmente applicati114. Questi meccanismi differenti sono legati, dunque, alla combinazione della materia di cui è composta l’opera d’arte, i suoni per la musica, i colori per la pittura, i marmi per la scultura, le parole per la poesia, e nel caso specifico della musica, il ‘diletto’ non dipenderà dalla ‘bellezza’ di una determinata composizione, vocale o strumentale che sia, visto che il giudizio sul bello, e parimenti il gusto, è soggettivo e 113 114 A. Folin, Dall’immagine all’«idea», in Pensare per affetti cit., p. 98. Zib. 1935-36. 43 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ variabile, diverso da persona a persona, da uomo a donna, e così via, ma dipenderà solo dal senso di piacevolezza che il suono è in grado di produrre indipendentemente da tutti questi fattori, e quindi in maniera naturale, immediata, istintiva. Infatti, tali differenze non hanno a far nulla colla convenienza, nulla col bello proprio, sono indipendenti dalla qualità delle melodie, che sole spettano nella musica al discorso sul bello; appartengono alle qualità sole de’ suoni ec.; sono della stessa categoria che le differenze degli odori e sapori ec. che niuno s’avvisò di chiamare belli né brutti, bensì più o meno piacevoli o dispiacevoli […]115. Il ricorso al confronto con «odori» e «sapori» che Leopardi adopera per ribadire come il diletto nella musica provenga dal suono e non dalla melodia, e che, pertanto, può essere considerato ‘piacevole’ e non ‘bello’, non è un confronto casuale ma fa parte di quella che è stata definita una vera e propria leopardiana «teoria degli organi di senso, nell’uomo e negli animali», che si basa sull’individuazione di motivi e intuizioni presenti nello Zibaldone, che si spingono ben oltre l’interesse poetico ed estetico, fino ad anticipare alcuni punti dei più moderni studi scientifici sui sensi 116 . Leopardi associa gli effetti del suono a quelli 115 Zib. 3426. F. Foschi, nell’Introduzione all’antologia G. Leopardi, Sulla musica cit., pp. 16-17, a proposito di questa teoria afferma che «vi sono […] delle interessanti intuizioni di psicologia animale e comparata, che meriterebbero ulteriore analisi critica, alla luce ad esempio delle recenti ricerche di Géza Rèvèsz o di quelle di Schneider» (cfr. G. Révész, Psicologia della musica, Firenze, Giunti-Barbera, 1954, e M. Schneider, Il significato della musica, Milano, Rusconi, 1981); e che «certe osservazioni sui sapori, sugli odori e sul gusto anticipano certamente alcune modernissime conoscenze sulla biologia delle passioni e sui meccanismi neurochimici della fame e della partecipazione dei cinque sensi alla formazione di quel piacere del gusto, di cui la mimica e il linguaggio a loro volta sono espressione. Conclude ad esempio Jan Didier Vincent (J. Didier Vincent, Biologie des passions, Paris, Seuil, 1986), che “l’odorato è certamente il partner più necessario del gusto” e anzi, condividendo l’opinione di Brillat-Savarin (Brillat-Savarin, Physiologie du goût, Paris, Flammarion, 1982), l’odorato e il gusto non formano che un solo senso. Gli alimenti e la loro preparazione sono l’espressione dei nostri modi di vita 116 44 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ provenienti dai sensi, individuando una corrispondenza particolare tra il tra il piacere che proviene dal suono e quello che proviene dagli odori: il piacere che ci dà il suono non va sotto la categoria del bello, ma è come quello del gusto, dell’odorato ec. La natura ha dato i suoi piaceri a tutti i sensi. Ma la particolarità del suono è di produrre per se stesso un effetto più spirituale dei cibi dei colori degli oggetti tastabili ec. E tuttavia osservate che gli odori, in grado bensì molto più piccolo, ma pure hanno una simile proprietà, risvegliando l’immaginazione ec. […]117. In un altro passo, datato 24 settembre 1821, Leopardi torna a sottolineare la differenza tra ‘piacevole’ e ‘bello’, e continuando ad associare alla sfera dei sensi, in modo particolare all’olfatto, il piacere proveniente dal suono, afferma che esso deriva dal legame che la natura arbitrariamente ha posto tra le sensazioni del suono o canto e l’immaginazione, dalla facoltà che ha dato loro di afficere piacevolmente l’orecchio […], ovvero l’animo, […] come l’ha data, sebbene in minor grado, agli odori, che nessuno chiama belli, ma piacevoli118. La corrispondenza tra odori e suoni, rilevata già da M.me de Staël, la quale a proposito della musica afferma, tra l’altro, che «De tous le beaux arts c’est […] celui qui agit le plus immédiatement sur l’âme»119, per Leopardi equivale alla capacità che entrambi hanno di risvegliare l’immaginazione e il ricordo, di sollecitare sensazioni che destano quel e delle nostre culture. I nostri gusti sono il riflesso della nostra educazione e delle abitudini che ci sono state trasmesse. Vi è quindi una dimensione supplementare dei sensi: accanto a quella derivante dallo “stato centrale fluttuante” fatto di mutevoli equilibri neurochimici, vi è la dimensione interindividuale e sociale. Ma sono all’incirca le cose intuite da Leopardi nello Zibaldone a proposito degli odori e del potere dell’assuefazione a proposito dei sapori (agosto-settembre 1821)». 117 Zib. 157-158. 118 Zib. 1782-1783. 119 Cfr. Zib. 79. 45 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ desiderio di infinito che è destinato a rimanere perennemente insoddisfatto. E queste osservazioni rinviano direttamente alla ‘teoria del piacere’ , dove il poeta attribuisce l’infinità del desiderio ad una causa materiale connaturata alla stessa esistenza, ad un meccanismo che induce l’uomo a desiderare continuamente, non un piacere particolare, ma il piacere in senso assoluto, di cui ha appena una vaga percezione, senza possedere per natura i mezzi per ottenerlo il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perché non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere […], perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato […]120. C’è un altro passaggio molto interessante dello Zibaldone in cui si parla degli odori come stimolatori del desiderio verso oggetti che richiamano in noi la speranza o il ricordo di una particolare sensazione, il desiderio di un piacere, anche in questo caso, inappagabile. Il pensiero, datato 21 agosto 1821, può essere considerato un altro importante corollario della ‘teoria del piacere’ gli odori sono quasi un’immagine de’ piaceri umani. Un odore assai grato lascia sempre un certo desiderio forse maggiore che qualunqu’altra sensazione. Voglio dire che l’odorato non resta mai soddisfatto seppur mediocremente: e bene spesso ci accade di fiutar con forza, quasi per appagarci, 120 Zib. 166-167, il corsivo è nel testo. 46 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ e per render completo il piacere senza potervi riuscire. Essi sono anche un’immagine delle speranze […]121. All’inafferrabilità del piacere, e quindi della felicità, sopperisce la «facoltà immaginativa»122 che, sollecitata da un suono, da un odore, da un oggetto o da un luogo ignoto, da un ostacolo materiale che restringe la vista, o viceversa, da una veduta senza confini, permette alla mente di procurarsi, in modo fittizio, il piacere, proiettando se stessa verso mète che non esistono nella realtà e che perciò possiedono il fascino dell’infinito, e facendo sì che si immerga in un piacevole stato di trasporto, di estasi, atto a favorire le condizioni interiori del sentimento e le immagini da cui nasce la poesia123. Se è vero, dunque, che «il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova […] nell’immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec.»124 è evidente la ragione percui, secondo Leopardi, solo gli antichi possono essere considerati grandi poeti, per l’autenticità dei loro sentimenti e per 121 Zib. 1537. Zib. 167. 123 Sulla finzione programmatica nell’Infinito, si è soffermato di recente N. Merola nel capitolo Leopardi e il sapere poetico, in Poesia italiana moderna. Da Parini a D’Annunzio, Roma, Carocci, 2004, pp. 135-170, evidenziando come «a un’immaginazione dichiarata (“io nel pensier mi fingo”), che ha sempre costituito per la critica il centro del componimento, vanno riferiti il “vo comparando” e il “mi sovvien” del v. 11. Qui la posizione attiva del soggetto, colto nella flagranza di una creazione letteraria indistinguibile dalla abilità connettiva tipica dell’esercizio dell’intelligenza (comparando), sfuma nell’involontarietà delle associazioni […], confermando il carattere quasi automatico della reazione innescata dai dimostrativi […]. È la deissi che sostiene infatti il peso maggiore della logica differenziale (o comparativa) cara a Leopardi, permettendogli sia di raddoppiare la decisiva interferenza degli accidenti reali sulla situazione inscenata e sulla presunta autosufficienza della rappresentazione linguistica (“il suon di lei” ci induce a risalire lungo il pur breve testo, ritrovando “questa voce” e lo “stormir”), sia soprattutto la contrapposizione, che è poi un andirivieni e un gioco di smarrimento (donde la dolcezza del naufragio), tra “questo” e “quello”, ovvero tra ciò che, per offrirsi direttamente all’esperienza sensibile (sempre beninteso nella finzione), meno si affida alla verbalizzazione della poesia, e quanto invece è di esclusiva pertinenza poetica […]» (pp. 153-154). Per quanto riguarda il “gioco di smarrimento” e la dolcezza del naufragio si veda, R. Callois, I giochi e gli uomini, Prefazione di P. A. Rovatti; note all’edizione italiana di G. Dossena; traduzione di L. Guarino, 3ª edizione, Milano, Bompiani, 2004. 124 Zib. 167. 122 47 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ l’ingenuità dello sguardo con cui contemplavano la natura, senza cercare di penetrarne a fondo i meccanismi, condizioni, queste, entrambe indispensabili alla vera poesia. L’intervento della ragione e la corruzione dei tempi hanno compromesso in modo graduale e irreversibile la maniera di fare poesia, pertanto, il recupero del passato, nella prospettiva letteraria indicata da Leopardi, può avvenire solo a patto che si ricreino queste condizioni, che il poeta moderno sappia, cioè, guardare il mondo con gli occhi degli antichi: l’anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli, veramente Omerici in questo […], gl’ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne125. Nei suoi Ricordi d’ infanzia e di adolescenza, Leopardi si ritrae più volte affacciato ad una finestra del «paterno ostello» 126 , da dove osserva il cielo, la luna, la piazzetta, la casa di Silvia, e il giardino, da cui spesso sente provenire l’eco di qualche musica che gli suscita particolari sensazioni ed emozioni scena dopo il pranzo affacciandomi alla finestra, coll’ombra delle tettoie il cane il pratello i fanciulli la porta del cocchiere socchiusa le botteghe ec., effetti della musica in me sentita nel giardino, aria cantata da qualche opera […]127. 125 Zib. 171. A Silvia, p. 26. 127 Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 360. Gli altri passi a cui mi riferisco sono: « si ricordi quella finestrella sopra la scaletta ec. onde io dal giardino mirava la luna o il sereno ec. […]» (ibidem p. 362); e «giardino presso la casa del guardiano, io era malinconichiss. e mi posi a una finestra che metteva sulla piazzetta ec. […]» (ibidem p. 363). 126 48 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ Questa immagine di Leopardi ‘spettatore’ alla finestra, è anche la spia di ciò che accade nei Canti, dove c’è la presenza pressoché costante di un ostacolo fisico, la ‘finestra’ nelle Ricordanze, la ‘siepe’ nell’Infinito, la ‘torre’ nel Passero solitario128, i ‘veroni’ in A Silvia, che demarca il confine tra poeta e mondo esterno. La finestra è il punto da cui il poeta, fin da bambino, scruta la realtà in un orizzonte che tanto più si restringe quanto più aumenta il suo inappagabile desiderio di conoscenza che lo induce a cercare di apprendere tutto il sapere contenuto nei libri della biblioteca paterna, dove trascorre i famosi «sette anni di studio matto e disperatissimo» che compromettono per sempre la sua salute e condizionano in modo irreversibile la sua visione del mondo, un orizzonte che può essere esplorato solo grazie all’immaginazione l’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli asconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario […]129. 128 Sulla descrizione del punto geografico della torre nel Passero solitario, cfr. G. Leopardi, I Canti, a cura di A. Straccali, (3ª ed. corretta e accresciuta da O. Antognoni), Nuova Presentazione di E. Bigi, Firenze, Sansoni, 1962, p. 176, nota n. 1: «la torre o campanile di una delle chiese di Recanati, la chiesa di S. Agostino. Questa torre, che, se non la principale (principale è quella di piazza, detta nelle Ricordanze la torre del borgo), è però la più antica, si leva su nel lato posteriore del fabbricato, già convento degli Agostiniani a ponente, verso il di fuori della città, che da quella parte, propriamente non è cinta di mura; domina la Marca occidentale e, più da vicino, la valle sottoposta; maggiormente poi la dominava a’ tempi di Giacomo per l’alto suo cono, che quindi, a causa dei fulmini che attirava, è stato abbattuto. In cima a quel cono v’era una croce, dove spesso vedevasi posato un passero solitario; e a Recanati vivono anc’oggi alcuni che si ricordano di avervelo veduto…Uscendo dalla città per la porta di Monte Morello (la più vicina al palazzo Leopardi), Giacomo, quando faceva la passeggiata a ponente, solea recarsi per un piccolo sentiero, fuori della città sul colle detto popolarmente Monte Tabor, che signoreggia anch’esso la valle sottoposta e tutta la Marca occidentale fino agli Appennini, e donde si scopre benissimo il campanile suddetto […]». 129 Zib.171. 49 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ L’immaginazione era la componente principale della poesia degli antichi, ma da quando la ‘scoperta del vero’ ha dissolto le illusioni, la fantasia, le ingenue credenze popolari, e quant’altro poteva favorire l’immaginazione, che cosa tocca rappresentare, secondo Leopardi, al poeta o all’artista moderno nelle proprie opere d’arte? Nel formulare la propria definizione di Belle Arti, il poeta parte dall’affermazione del principio che tutte le opere d’arte devono avere come oggetto il «Vero» che si trae esclusivamente dall’imitazione della natura Non il Bello ma il Vero o sia l’imitazione della natura qualunque, si è l’oggetto delle Belle Arti […]130. Può apparire contraddittorio il fatto che Leopardi, da una parte, riconosca come vera poesia solo quella nata all’insegna dell’immaginazione, dall’altra parte, indichi come oggetto delle opere d’arte il «Vero» che rappresenta l’opposto, ma ciò a cui lui si riferisce non è il ‘vero’ esplorato fino in fondo e reso arido dalla ragione, e non è nemmeno la Verità superiore che Winckelmann contrappone al Vero scientifico attraverso il concetto di Bello ideale, il Vero a cui il poeta si riferisce è il reale, così come appare sotto ai nostri occhi, comprendente il bello e il brutto, poiché ogni distinzione a proposito è artificiale, creata su misura dall’uomo, e non dalla natura, e perciò ha un valore soggettivo, mutevole, relativo. L’effetto del suono è uno degli espedienti che il poeta utilizza nelle sue rappresentazioni poetiche, per conciliare, appunto, la realtà con l’immaginazione. Senza attribuire la provenienza del suono a cause misteriose e metafisiche, e considerandolo, al contrario, un fenomeno 130 Zib. 2. 50 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ naturale e fisico che ha tuttavia il potere di evocare immagini poetiche 131, Leopardi associa gli effetti prodotti dal suono, che funziona, in questo caso, come una sorta di catalizzatore nel rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione poetica, alla sua idea di infinito: quello che altrove ho detto sugli effetti della luce o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile o anche viceversa (ma meno) o che sia così lontano […], che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec. […]. È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si diffonda, […], massime se non si vede l’oggetto da cui parte […]132. E più avanti, in questo stesso passo dello Zibaldone datato 16 ottobre 1821, in cui, come ha evidenziato Blasucci, Leopardi che «ha lungamente teorizzato sulle condizioni di un’ “ottica idillica”, passa 131 La «matrice naturale del fenomeno» è difesa da L. Blasucci che nel saggio Lo stormire del vento tra le piante, che dà il titolo al suo volume edito da Marsilio (Venezia, 2003), nota n. 15, p. 39, in risposta al saggio di M. Orcel, Il suono dell’infinito. Saggi sulla poetica del primo Romanticismo italiano da Alfieri a Leopardi, Napoli, Liguori, 1993 (già apparso in «Esperienze letterarie» anno XIII, n. 1988, pp. 2552, in Leopardi, arte e verità, a cura di C. Ferrucci, Roma, Bonacci Editore, 1990, pp. 59-88), in cui è attribuito un «rilievo eccessivo […] agli aspetti mitico-archetipici del tema», sostiene che «la tendenza dell’Orcel, tutt’altro che isolata nella recente critica leopardiana, è quella di recuperare alcune motivazioni esoteriche e religiose a monte, compiendo un cammino a ritroso rispetto alla coscienza leopardiana adulta, quella che va dal Saggio sugli errori popolari allo Zibaldone, orientata in una direzione decisamente psico-sensistica». 132 Zib. 1927-1928. 51 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ all’individuazione di un’ “acustica idillica”, fondata sulla percezione dei suoni e dei canti come produttori di sensazioni vago-indefinite» 133 , si giunge alla conclusione che il fragore del tuono, lo stormire del vento, l’echeggiare di tutti gli altri suoni di cui non si vede la fonte, diventano immagini bellissime in poesia «e tanto più quanto più negligentemente son messe, e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre […]. La notte o l’immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a cagionare, i detti effetti del suono […]» 134 . E la negligenza in poesia, per Leopardi, non è altro che una strategia artistica tesa ad ottenere un effetto di naturalezza che non è assolutamente da confondersi con la rozzezza o la fanciullaggine di chi vorrebbe ottenere lo stesso effetto senza adoperare alcun artificio, cioè i poeti dilettanti e i fanciulli, ma è una semplicità che ricorda quella degli antichi, e che deriva, quasi paradossalmente, da uno studio dell’arte talmente attento da riuscire a nascondere se stesso dietro la rappresentazione della natura imitata con «quella celeste naturalezza»135 che era propria degli antichi la diligenza nei poeti è contraria alla naturalezza. Quello che nei poeti dee parer di vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella negligenza, e questa è quella che vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima e sostanziale arte […]136. Ancora, in merito al discorso sull’imitazione nell’arte, è impossibile pervenire ad un giudizio universalmente valido su ciò che si 133 L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante cit., p. 40. Zib. 1929-1930. 135 «Quella celeste naturalezza» è l’espressione con cui Leopardi, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, p. 938, definisce il modo di esprimere il patetico proprio degli antichi, e da cui M. Santagata ha ricavato il titolo del suo libro, Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, Bologna, Il Mulino, 1994. 136 Zib. 21. 134 52 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ deve considerare bello, o viceversa, brutto in natura, proprio perché manca un modello di riferimento assoluto, non ci sono canoni ideali prestabiliti a cui la bellezza debba corrispondere, né la bellezza può essere concepita come un’idea riconducibile alla sfera metafisica, ma piuttosto, come un concetto che si forma nell’uomo durante il processo conoscitivo che accompagna la sua esistenza e che, pertanto, è continuamente suscettibile di cambiamenti e di modifiche. L’unico criterio di giudizio sul bello che Leopardi riconosce è, dunque, la relatività del gusto, delle opinioni, e di tutto ciò che definisce conveniente. E così si esprime a proposito nello Zibaldone a noi par conveniente a un soggetto (e la bellezza sta tutta si può dire nella convenienza) quello che siamo assuefatti a vederci, e viceversa sconveniente ec. e però ci par bello quello che ha queste tali cose e brutto o difettoso quello che non le ha: benché in natura non debba averle o viceversa […]137. Sulla diversità delle opinioni tra gli uomini e, in generale, tra i popoli, per ciò che riguarda, da una parte il giudizio sul bello in natura, dall’altra il bello nell’arte, Leopardi formula una serie di esempi che, nel primo caso, interessano sia alcuni tratti della bellezza umana, come il colore di occhi e capelli, sottolineando la diversità di gusti tra i popoli, o nello stesso popolo in epoche diverse, sia alcune caratteristiche di animali come «cavalli scodati» e «cani colle orecchie tagliate», per poi concludere che «il bello ideale non è altro che l’idea della convenienza che un artista si forma secondo le opinioni e gli usi del suo tempo, e della sua nazione. Barba e capelli tagliati o no»138. Nel caso delle Belle Arti il poeta, invece, per le osservazioni che riguardano la pittura e la musica, 137 138 Zib. 8, corsivo mio. Zib. 8-9. 53 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ rinvia a «MARTIGNONI, Annal. Di Scienze e lett. N. 8 p. 245», mentre si sofferma sul colore delle facciate delle fabbriche che «presso di noi non disdicono […] a mattoni nudi, anzi son ridicole imbiancate e colorite. Il contrario de’ Cinesi ai quali le nostre facciate parrebbero cosa affatto greggia e rozza»139. Si è già visto come il diletto nella musica non appartenga alla sfera del bello ma esclusivamente a quella del piacere, a questo punto, però, è opportuno fare riferimento ad un passaggio dello Zibaldone che è nodale perché introduce una distinzione fondamentale riguardo l’idea leopardiana di musica. Il passaggio è il seguente il diletto della musica, quanto alla principale e più essenziale sua parte, non risulta dalla convenienza […]140. Leopardi distingue nella musica due componenti: il suono, che rappresenta la parte «principale e più essenziale» della musica, e l’armonia, alla quale appartengono la melodia, il canto e i suoni strumentali. Anche gli effetti sono differenti, perché mentre l’armonia che esprime il relativo, produce un effetto subordinato alla convenienza, condizionato, cioè, dal gusto e dai tempi, il suono, che esprime in questo senso l’assoluto, produce un effetto immediato, non solo sull’animo umano ma anche su alcuni animali distinguete suono […] e armonia. Il suono è la materia della musica, come i colori della pittura, i marmi della scoltura ec. L’effetto naturale e generico della musica in noi, non deriva dall’armonia, ma dal suono, il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco quando anche sia monotono. Questo è quello che la musica ha di speciale sopra le altre arti, sebbene anche un color bello e 139 140 Zib. 9. Zib. 3422. 54 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ vivo ci fa effetto, ma molto minore. Questi sono effetti e influssi naturali, e non bellezza. […] Ma l’armonia è bellezza. La bellezza non è assoluta, dipendendo dalle idee che ciascuno si forma della convenienza di una cosa con un’altra […] non è la musica come arte, ma la sua materia cioè il suono che farà effetto su certe bestie […]141. Ora, il fatto che la musica possa produrre un certo effetto anche sugli animali, è di per sé prova che il diletto proviene dal suono, che agisce in maniera immediata sul loro animo, senza che questi animali abbiano percezione della convenienza o del bello. E non c’è da meravigliarsi che anche gli animali sieno tanto dilettati dalla nostra musica, benché non assuefatti alle nostre melodie, e quindi non capaci di conoscere né di sentire quello che noi chiamiamo il bello musicale […]142. Al contrario, un suono qualunque, per esempio il canto degli uccelli, indipendentemente dalla melodia, è in grado di esprimere sentimenti e stati d’animo, e di suscitare effetti di profonda commozione nell’animo umano, come dimostra il canto dell’usignolo nell’episodio di Orfeo143, citato nella pagina dello Zibaldone datata 17 ottobre 1820 quell’usignolo di cui dice Virgilio nell’episodio di Orfeo, che accovacciato su d’un ramo, va piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla miserabile sua canzone, esprime un dolor profondo, continuo, ed acerbissimo, senza moti di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza proccurar di 141 Zib. 155-156, corsivo mio. Zib. 3423. 143 «Orfeo, figlio del re tracio Eagro e della Musa Calliope, fu il più famoso poeta e musicista mai esistito. Apollo gli donò la lira e le Muse gli insegnarono a usarla, e non soltanto egli ammansì le belve, ma anche gli alberi e i massi si mossero e lo seguirono, incantati dal suono della musica […]» (cfr. R. Graves, I miti greci, traduzione di E. Morpurgo, Presentazione di U. Albini, Milano, Longanesi, 1983, p. 99). 142 55 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ ritrovare il perduto ec. è compassionevolissimo, a cagione di quell’impotenza che esprime […]144. Il suono è alieno da ogni convenienza, e in questo è paragonabile con la bellezza umana i cui effetti, esattamente come quelli del suono, appartengono alla sfera del piacere e non quella del bello. Infatti, come una «leggera stonazione» 145 in musica non renderà meno piacevole l’effetto all’orecchio del volgo, disposto a percepire i suoni nella maniera naturale in cui gli pervengono, a differenza degli intenditori che giudicano esclusivamente secondo le regole del contrappunto146, così una sproporzione nella forma umana non basterà a determinare la bruttezza della persona. Per essere più persuasivo a proposito, il poeta, utilizza come esempio la parte del corpo che ritiene più importante e significativa, sia dal punto di vista dell’espressione che della bellezza vera e propria, cioè gli occhi, per dimostrare come una sproporzione delle loro dimensioni rispetto al volto, pur rappresentando una sconvenienza, non determina la sua bruttezza, al contrario, tanto più gli occhi sono belli quanto più sono grandi e per quanto da essi traspaiono le qualità dell’animo: 144 Zib. 281, i corsivi sono nel testo. Zib. 1663: «una leggera stonazione in una musica non è capita dal volgo, come il fanciullo non capisce i piccoli difetti della forma umana, e talvolta nemmeno i gravi. In una musica alquanto astrusa, cioè per poco che gli accordi sieno inusitati, egli non capisce neppure le grandi stonazioni, e così proporzionatamente accade alle persone polite, e talvolta anche alle intendenti […]». Da questo passo dello Zibaldone ha tratto spunto A. Colasanti del suo intervento al convegno di studi Leopardi e la musica nel saggio di Clemente Rebora, (17-18 dicembre 1999) svoltosi a Recanati nella sede del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, intitolato, appunto, Clemente Rebora: una leggera stonazione, pubblicato in La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit., pp. 67-85, che così commenta il passo: «già in quel non capire […] scorgiamo la grande arcata leopardiana – l’origine del suo pensiero poetico – quella profonda delusione, il troppo dolore che fa precipitare la mente dentro una pena ammutolita, forse persino demente come per troppa luce di fronte al nonsenso del mondo […]» (p. 67). 146 Cfr. Zib. 3217. 145 56 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ le Dee e specialmente Giunone, è chiamata spesso da Omero βοωπις (βοώπιδος) cioè ch’ha gli occhi di bue. La grandezza degli occhi del bue, alla quale Omero ha riguardo, è certo sproporzionata al viso dell’uomo. Nondimeno i greci, intendentissimi del bello, non temevano di usar questa esagerazione in lode delle bellezze donnesche, e di attribuire e appropriar questo titolo, come titolo di bellezza […] contuttoché contenga una sproporzione. E infatti non solo è bellezza per tutti gli uomini e per tutte le donne […] la grandezza degli occhi, ma anche un certo eccesso di questa grandezza, se anche si nota come straordinario, e colpisce, e desta il senso della sconvenienza, non lascia perciò di piacere, e non si chiama bruttezza […]. Dalle quali cose deducete: 1. Quanto sia vero che gli occhi sono la principal parte della sembianza umana, e tanto più belli quanto più notabili, e quindi quanto più vivi. E che in essi veramente si dipinge la vita e l’anima dell’uomo […]. 2. Quanta parte di quella che si chiama bellezza e bruttezza umana sia indipendente ed aliena dalla convenienza, e quindi dalla teoria del bello […]147. Se si applica quanto detto ai criteri di giudizio sulle opere d’arte, di ogni genere, ne deriva che esso non dipenderà dalla valutazione dell’oggetto, bello o brutto che sia, ma dal grado di perfezione che l’artista riuscirà a raggiungere nell’imitazione della natura. Così, ad esempio, nel caso della poesia, il brutto se ben imitato, può procurare lo stesso piacere del bello, realizzando il suo «ufficio naturale» 148 che, secondo Leopardi, consiste principalmente nel procurare il ‘diletto’, e che, solo indirettamente, può assumere un valore etico l’utile non è il fine della poesia benché questa possa giovare. E può anche il poeta mirare espressamente all’utile e ottenerlo (come forse avrà fatto Omero) senza che però l’utile sia il fine della poesia […]149. 147 Zib. 2547-2549. Zib. 3. 149 Ibidem. 148 57 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ È significativo rilevare come questo passaggio dello Zibaldone, in cui il poeta distingue il fine primario della poesia da quello secondario, utilizzando la metafora dell’agricoltore che può «servirsi della scure a segar biade o altro senza che il segare sia il fine della scure», per dimostrare che anche «la poesia può esser utile indirettamente, come la scure può segare», e il passaggio successivo, in cui spiega come il diletto, non solo in poesia, ma in generale nell’arte, derivi sostanzialmente dall’imitazione, siano inframmezzati da un abbozzo poetico come questo: Sentìa del canto risuonar le valli D’agricoltori ec.150 in cui, il verbo ‘sentire’, usato all’imperfetto, esprime il permanere nel presente dell’effetto della sensazione provocata sul poeta dal canto, e dove gli agricoltori che cantano possono essere paragonati ad artisti che non imitano, in questo caso, paesaggi, forme umane o animali, ma imitano i ‘suoni’ della natura dando quasi l’impressione che le valli risuonino di un suono proprio. L’inserimento dell’immagine poetica riveste, dunque, uno scopo prevalentemente pratico che è quello di esemplificare la sostanza delle affermazioni in prosa, essendo il canto fonte di diletto per antonomasia, e non già imitazione, ma perfetta espressione del sentimento umano. Non necessariamente il Bello, ma la «natura qualunque» e quindi anche il brutto, può diventare oggetto di rappresentazione nelle opere d’arte151, in alcuni generi letterari come la commedia e la satira, e perfino in poesia dove 150 Ibidem. Circa l’opinione di Leopardi su questo punto si veda la lettera a Pietro Giordani del 30 maggio 1817, in cui a proposito di una prosa scritta da quest’ultimo «sopra un dipinto del Camuccini e uno del Landi», il poeta si dilunga così: «in questa squisita prosa ho trovato un’opinione sopra la quale avrei qualcosa che dire. Ella ricorda in 151 58 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ passioni morti tempeste ec. piacciono egregiamente benché sian brutte per questo solo che son ben imitate […], perché l’uomo niente tanto odia quanto la noia, e però gli piace di veder qualche novità ancorché brutta. Tragedia, Commedia, Satira han per oggetto il brutto ed è una mera quistion di nome il contrastar se questa sia poesia […]152. Con questo passaggio, già in apertura dello Zibaldone, Leopardi introduce il tema del ‘piacere della tempesta’, ricorrente nelle sue opere, e presente nella sua memoria come ricordo di sensazioni provate nella fanciullezza e nell’adolescenza che di tanto in tanto si riaffacciano e tornano a far sentire i propri effetti153. Al recente convegno su Leopardi e lo spettacolo della natura154 , Elio Gionanola si è soffermato su questo tema con il suo intervento, Il topos della tempesta nell’opera generale ai giovani pittori che senza stringente necessità della storia (e anche allora con buon giudizio e garbo) non si dee mai figurare il brutto. Poiché, soggiunge l’ufficio delle belle arti è pur di moltiplicare e perpetuare le imagini di quelle cose o di quelle azioni cui la natura o gli uomini producono più vaghe e desiderabili: e quale consiglio o qual diletto crescere il numero o la durata delle cose moleste di che già troppo abbonda la terra? A me parrebbe che l’ufficio delle belle arti sia d’imitare la natura nel verisimile. E come le massime astratte e generali che vagliono per la pittura denno anche valere per la poesia, così secondo la sua sentenza, Omero Virgilio e gli altri grandi avrebbero errato infinite volte, e Dante sopra tutti che ha figurato il brutto così sovente. Perocchè le tempeste le morti e cento e mille calamità che sono altro se non cose moleste anzi dolorosissime? E queste così innumerevoli pitture hanno moltiplicato e perpetuato i sommi poeti. E la tragedia sarebbe condannabile quasi intieramente di natura sua. Certamente le arti hanno da dilettare, ma chi può negare che il piangere il palpitare l’inorridire alla lettura di un poeta non sia dilettoso? anzi chi non sa che è dilettosissimo? Perché il diletto nasce appunto dalla maraviglia di vedere così bene imitata la natura, che ci paia vivo e presente quello che è o nulla o morto o lontano. Ond’è che il bello veduto nella natura, vale a dire nella realtà, non ci diletta più che tanto, veduto in poesia o in pittura vale a dire in imagine, ci reca piacere infinito. E così il brutto imitato dall’arte, da questa imitazione piglia facoltà di dilettare […]». (Ep 66, corsivi miei). 152 Zib. 2. 153 M. Corti, in «Entro dipinta gabbia». Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di Giacomo Leopardi, Milano, Bompiani, 1972, pp. XXVI-XXVII, evidenzia come fosse «prediletto del primo Leopardi il motivo della tempesta, in cui si riflettono non solo consuetudini letterarie dell’epoca […], ma intricati processi interiori localizzabili tra il suo ben noto terrore infantile per i temporali e il tardo pensiero dello Zibaldone (7 agosto 1822, nn. 2601-2) sulla fecondità delle “convulsioni degli elementi” e sul piacere che dà la “la calma dopo la tempesta”». 154 Leopardi e lo spettacolo della natura, Atti del Convegno Internazionale (Napoli 1719 dicembre 1998), a cura di V. Placella, Napoli, IUO e CNSL, 2000. 59 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ leopardiana 155 , in cui, senza prescindere dall’importanza dei processi psicologici e interiori del poeta, l’immagine della tempesta viene analizzata oltre che nella prospettiva letteraria, anche in quella religiosa, della tempesta come simbolo della punizione divina «secondo un concetto di divinità che qui, come in tanti altri luoghi, risente della tipica religiosità di casa Leopardi, conformata molto più alla terribilità veterotestamentaria del Dio punitore che alla misericordia del Padre celeste evangelico»156. Questo triplo nesso tra psicologia, letteratura, e religione, che percorre l’immagine della tempesta, è delineato da Gioanola attraverso numerosi luoghi dell’opera leopardiana: nei Canti (La quiete dopo la tempesta e L’ultimo canto di Saffo); nell’Argomento di elegia «di un innamorato in mezzo a una tempesta che si getta in mezzo ai venti e prende piacere dei pericoli che gli crea il temporale […]» e afferma «oh s’io potessi morire! Oh turbini ec. Ecco comincia a tonare: venite qua, spingetelo o venti il temporale su di me. Voglio andare su quella montagna dove vedo che le querce si movono e agitano assai. Poi giungendo il nembo sguazzi fra l’acqua e i lampi e il vento ec. e partendo lo richiami»157, nell’abbozzo del Primo delitto, o la vergine guasta, dove la tristezza di una fanciulla per la perdita della verginità arriva a sfiorare il «desiderio di morte»158, nel capitolo Del tuono del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi dove leggiamo che «si teme generalmente il tuono. Questo timore non è irragionevole come quello degli spiriti […]. Ho veduto dei fanciulli, che sapevano appena balbettare, darsi a piangere di botto allo scoppiar violento di qualche tuono […]. Il fragore cessa di essere un oggetto di spavento per il fanciullo cresciuto e capace di qualche riflessione, il quale comincia a conoscere la causa dello strepito E. Gioanola, Il topos della tempesta nell’opera leopardiana, ibidem, pp. 463-472. Ibidem, p. 467. 157 Argomento di elegia, p. 336. 158 Il primo delitto o la vergine guasta, p. 349. 155 156 60 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ che ode» 159 e ancora «era naturale che i primi uomini, atterriti dalla folgore, e vedendola accompagnata da uno strepito maestoso e da un imponente apparato di tutto il cielo, la credessero cosa soprannaturale e derivata immediatamente dall’Essere supremo» 160 , nell’Appressamento della morte, dove, come ha osservato Neuro Bonifazi, l’immagine della tempesta è associata alla figura del tiranno attraverso l’identificazione tra il ‘punitore’ Padre divino e il padre terreno di Leopardi161; nei passi dello Zibaldone, in cui il poeta descrive il suo timore infantile per i tuoni, affermando che tuttavia esso «aveva un non so che di sì formidabile e smanioso, che non può essere paragonato con verun altro sentimento dispiacevole nell’uomo»162. Ma al di là dell’origine e del significato profondo del topos della tempesta, ciò che si vuole evidenziare in questa sede è soprattutto l’uso artistico che ne fa Leopardi, teso a dimostrare come l’effetto finale dell’opera d’arte dipenda esclusivamente dal livello di intensità della sensazione che l’oggetto rappresentato è in grado di trasmettere a chi la osserva, la legge o l’ascolta, che non si può discernere a priori il bello dal brutto, poiché il giudizio sulla rappresentazione è subordinato, oltre che alla qualità dell’imitazione, anche a numerosi fattori esterni quali il gusto, la moda, l’epoca, percui non c’è da sorprendersi, ad esempio, se nel clima romantico di primo Ottocento, ricco di echi ossianici, Leopardi si trova ad affermare che piace l’essere spettatore di cose vigorose ec. ec. non solo relative agli uomini, ma comunque. Il tuono, la tempesta, la grandine, il vento gagliardo, veduto o udito, e i suoi effetti ec. Ogni sensazione viva porta seco nell’uomo 159 Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, pp. 837-838. Ibidem, p. 838. 161 Il riferimento di Gioanola è a N. Bonifazi, Leopardi. L’immagine antica, Firenze, Editrice La Ginestra, 1981, pp. 52-54. 162 Zib. 531. 160 61 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ una vena di piacere, quantunque ella sia per se stessa dispiacevole, o come formidabile, o come dolorosa ec. Io sentiva un contadino, al quale un fiume vicino soleva recare molti danni, dire che nondimeno era un piacere la vista della piena, quando s’avanzava e correva velocemente verso i suoi campi, con grandissimo strepito, e menandosi davanti gran quantità di sassi, mota ec. E tali immagini, benché brutte in se stesse, riescono infatti sempre belle nella poesia, nella pittura, nell’eloquenza ec. […]163. Il tema della tempesta, insieme a quello della rimembranza, dell’ubi sunt?, del piacere come cessazione del dolore, del “canto lontanante”, della caducità delle cose umane, è un tema tipicamente ossianico che ricorre abbastanza frequentemente nei Canti leopardiani, non come effetto di una semplice suggestione, ma come risultato della riflessione critica di Leopardi, che evolve da una fase di rifiuto, o a malapena di tolleranza nei confronti di Ossian, fino ad un atteggiamento opposto di assimilazione con i sommi modelli del passato, percui la diffidenza iniziale si trasforma in una sostanziale ammirazione, oltre al fatto che Leopardi avverte certamente una forte congenialità rispetto ad Ossian. Le varie fasi del rapporto Leopardi-Ossian, e le considerazioni della critica a riguardo, sono state dettagliatamente ripercorse da Luigi Blasucci nel suo saggio Sull’ossianismo leopardiano 164 , in cui sono analizzate «alcune tipiche presenze ossianiche, sia di situazioni che linguaggio» 165 disseminate nella lirica leopardiana. Il riferimento ossianico al piacere nella tempesta è indicato, ad esempio, in rapporto al Frammento XXXVIII, estrapolato dall’Elegia II, dove Leopardi descrive la disperazione di un uomo innamorato costretto a separarsi dalla donna 163 Zib. 2118, il corsivo è nel testo. Il testo è quello dell’intervento tenuto al Convegno su Aspetti dell’opera e della fortuna di Melchiorre Cesarotti (Gargnano del Garda 4-6 ottobre 2001), pubblicato a cura di G. Barbarisi e G. Carnazzi, Milano, Cisalpino, 2002, tomo II, pp. 785-816, ora anche in L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 199-235. 165 Ibidem, p. 210. 164 62 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ amata che si accinge a partire, e che in preda a questo dolore si compiace al pensiero di poter essere sommerso dalla tempesta; in Sopra il monumento di Dante, dove «l’immagine delle “selve sibilanti” nella descrizione dei caduti italiani nella campagna di Russia» può essere considerato «un breve squarcio di ossianismo tempestoso (il vento che fischia tra i rami di una selva) in un contesto esotico non propriamente ossianico» e «quella del vento che soffia tra le piante […], è una delle immagini predilette della fantasia leopardiana; ma è anche un’immagine ricorrente nei poemi ossianici, soprattutto nella sua versione tempestosa […]»; in Nelle nozze della sorella Paolina dove il motivo ossianico della tempesta si intreccia con il motivo virgiliano, soprattutto georgico, dei venti e dei nembi; nell’Inno ai Patriarchi e in Alla Primavera o delle favole antiche, dove «nell’evocazione “primaverile” s’insinua, a variarla e a darle rilievo, qualche nota “tempestosa”». Meno frequenti sono, invece, gli echi ossianici negli “idilli” composti tra il 1819 e il ’21, reperibili nella Sera del dì di festa, attraverso il tema dell’ubi sunt?, e nell’invocazione iniziale di Alla luna, nonché nell’utilizzo di espressioni ossianiche presenti nell’Infinito. Se tutte le altre arti per dilettare o per commuovere devono riuscire ad imitare la natura, il più perfettamente possibile, solo la musica, per magistero della natura, ha un potere di presa diretta sull’animo umano e su quello degli animali, come si è già visto, perché il suo privilegio legato al suono, che è un elemento naturale e primitivo, e che la rende l’arte per eccellenza, superiore a tutte le altre arti, è proprio quello di toccare le corde del sentimento umano in maniera immediata e al di là di qualsiasi contingenza 63 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura, e così l’uditore […]166. In modo più o meno analogo ebbe a esprimersi Gioacchino Rossini, in una conversazione del 1836 con il suo amico e biografo bolognese Antonio Zanolini che così ne riferisce il contenuto l’espressione della musica non è quella della pittura e non consiste nel rappresentare al vivo gli effetti esteriori delle affezioni dell’animo, ma nell’eccitarle in chi ascolta. E questa è la possanza del linguaggio il quale esprime e non imita […]167. Nello stesso passo dello Zibaldone, Leopardi afferma la superiorità della musica anche sulla poesia, perché la parola in poesia, dovendosi applicare a degli oggetti non ha la stessa forza del suono nella musica che, utilizzando solo se stesso come materia della propria arte, produce un’impressione immediata e non secondaria, uguagliata, in questo senso, solo dall’architettura. La ‘parola’, che il poeta distingue nettamente dal ‘termine’, che serve solo per definire l’oggetto, è in grado di arricchire la definizione anche con l’aggiunta di immagini, e tanto più, la parola poetica, inserita negli espedienti artistici come la negligenza e la sprezzatura, può darsi addirittura come artificio. La naturalezza, che Leopardi ritiene indispensabile, e che ostinatamente ricerca come effetto nella sua poesia, è una proprietà che appartiene alla musica, grazie alla preminenza del suono che, per il poeta, significa anche preminenza della semplicità e del modo di sentire e di poetare degli antichi: da qui il rimpianto per i tempi in cui poesia e musica, poeti e musicisti erano la stessa cosa prima «della funesta separazione della musica dalla poesia e 166 167 Zib. 79. A. Zanolini, Biografia di G. Rossini, Bologna 1875, p. 287. 64 Superiorità della musica su tutte le arti ______________________________________________________________________ della persona di musico da quello di poeta, attributi anticamente, e secondo la primitiva natura di tali, indivise e indivisibili»168. 168 Zib. 3229. 65 CAPITOLO SECONDO L’IDEA DI MUSICA ATTRAVERSO ALCUNE LINEE FONDAMENTALI DELLA POETICA LEOPARDIANA § II.1 POETICA DEL VAGO E INDEFINITO. GLI EFFETTI DELLA MUSICA Si è già visto come, nella musica, Leopardi distingua l’armonia dal suono, attribuendo a quest’ultimo l’effetto di presa immediata che essa esercita sull’animo umano, si aggiunga che il privilegio del suono, come elemento costitutivo della musica deriva, a sua volta, dall’efficacia sensoriale posseduta dal suono in quanto elemento naturale e fisico preesistente alla musica, il che porta all’individuazione di due livelli di riflessione su cui si fonda l’idea leopardiana di musica: la musica in quanto arte, formata dall’armonia e dal suono musicale che sono tra loro inseparabili, e il suono naturale, ispiratore di sensazioni vago-indefinite analoghe a quelle prodotte dalla vista, che agisce in maniera autonoma e funziona come una sorta di substrato rispetto agli effetti che derivano dalla musica. L’armonia, o melodia, in musica, secondo Leopardi, dipende dall’assuefazione, cioè dall’abitudine e dal gusto, conformati ad una determinata successione dei suoni che viene percepita dall’orecchio del popolo, ovvero dell’uditore inesperto, in maniera gradevole ma anche abbastanza generica. Si tratta, infatti, di un piacere derivante da una percezione sensoriale della musica ed estranea alla valutazione del rispetto delle regole del contrappunto, le quali, proprio perché appartengono ad una scienza o arte ben specifica e basata su leggi 66 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ universalmente valide, sono condivise da tutti gli intenditori nella stessa maniera, indipendentemente dalla nazionalità o dall’epoca, al contrario della musica popolare, la cui ricezione è fortemente influenzata dalle variazioni di luogo e di tempo e siccome le assuefazioni del popolo e dei non intendenti di musica, circa le varie successioni de’ tuoni, non hanno regola determinata e sono diverse in diversi luoghi e tempi, quindi accade che tali melodie popolari o simili al popolare, altrove piacciano di più, altrove meno, ad altri più, ad altri meno, secondo ch’elle agli uditori riescono o troppo note e usitate; o troppo poco; o quanto conviene […]. Onde una medesima melodia musicale piacerà più ad uno che ad altro individuo, più in una che in altra città, piacerà universalmente in Italia, o piacerà al popolo e non agl’intendenti, e trasportata in Francia o in Germania, non piacerà punto ad alcuno, o piacerà agl’intendenti e non al popolo […]169. Ma, la stretta osservanza delle regole del «contrappunto che è al musico quel che al poeta la grammatica» 170 , dice Leopardi, fissa la composizione entro determinati schemi che privano la musica, come la poesia, della naturalezza che da sola è capace di stimolare gli impulsi più spontanei e vitali dell’animo umano, e di provocare quelle spinte del cuore che commuovono e, in tal senso, accomunano gli tutti uomini. Questo era l’effetto della poesia e della musica antiche171, che al tempo 169 Zib. 3209-3210. Zib. 3217. 171 Nella formulazione dei suoi giudizi sulla musica, Leopardi tiene presente, come fonte per le informazioni che riguardano la musica greca, il Voyage du jeune Anacharsis en Grèce dell’abate settecentesco J. J. Barhtélemy. Altre fonti utilizzate dal poeta sono: la rubrica «Belle Arti-Musica» dell’Antologia fiorentina che ospitò, nel tomo III, lugliosettembre 1821, p. 192, e tomo IV, p. 21, la recensione alla Storia generale della musica di T. Busby e nel tomo IV, ottobre 1821, p. 40, le Opinioni intorno alla musica di Gioacchino Rossini, che secondo la testimonianza di C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, in Omaggio a Clemente Rebora cit., pp. 71-72 «offriva notizie di fatto o meglio delle idee di quel Rousseau musicista che forse - in quel tempo almeno - non fu dal 170 67 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ dei greci erano una cosa sola e che, nei primi decenni dell’Ottocento, il poeta considera accomunate ormai soltanto in senso negativo, dalla perdita della matrice iniziale e dallo sviamento dal fine principale che era quello di «dilettare e muovere l’universale degli uditori e del popolo»172, rispetto al quale, il passaggio dalla natura all’arte, nel caso della musica, con la formulazione di vere e proprie teorie musicali, nel caso della poesia, con l’irrigidimento delle proprie regole, ha prodotto una severa selezione del pubblico, ridotto ad una cerchia strettissima di esperti, ed un passaggio di appartenenza dalla ‘sfera del piacere’ a quella ‘del bello’, inteso come ricerca della perfezione. Ecco in che modo Leopardi illustra il processo di trasformazione che ha interessato la poesia la poesia bene spesso, lasciata la natura si rivolse per amore di novità e per isfoggio di fantasia e di facoltà creatrice, a sue proprie e stravaganti e inaudite invenzioni, e mirò più alle regole e a’ principi che l’erano stati assegnati, di quello che al suo fondamento ed anima, ch’è la natura; anzi lasciata affatto questa, che aveva ad essere l’unico suo modello, non altro modello riconobbe e adoperò che le sue proprie regole, e su d’esso modello gittò mille assurde e mostruose o misere e grette opere; laonde abbandonato l’officio suo, ch’è il sopraddetto, sommamente stravolse e perdè, o per una per altra parte, di quell’effetto che a lei propriamente ed essenzialmente si convenia di produrre e di proccurare […]173; e la musica, dall’origine ai suoi giorni così l’arte musica nata per abbellire, innovare decentemente e variare e per tal modo moltiplicare; ordinare, regolare, simmetrizzare o proporzionare, Leopardi conosciuto altrimenti»; nonchè il romanzo Corinne ou l’Italie di M.me de Staël. 172 Zib. 3226. 173 Zib. 3223. 68 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ adornare, nobilitare, perfezionare insomma le melodie popolari e generalmente note e a tutti gli orecchi domestiche; com’ella ebbe assai regole e principii, e d’altronde s’invaghì soverchiamente della novità, e dell’ambiziosa creazione e invenzione, non mirò più che a se stessa, e lasciando di pigliare in mano le melodie popolari per su di esse esercitarsi, e farne sua materia, come doveva per proprio istituto; si rivolse alle sue regole, e su questo modello, senz’altro, gittò le sue composizioni nuove veramente e strane: con che ella venne a perdere quell’effetto che a lei essenzialmente appartiene, ch’ella doveva proporsi per suo proprio fine, e ch’ella da principio otteneva, quando cioè lo cercava, o quando coi debiti e appropriati mezzi lo proccurava […]174. L’assuefazione particolare, per ciò che riguarda l’armonia e la melodia nella musica, come nella poesia e nella prosa, respinge di solito le novità che l’orecchio non è disposto ad accogliere perché non è assuefatto; esiste, però, secondo Leopardi, un altro tipo di assuefazione, l’assuefazione generale, la quale fa sì che l’udito possa introdurre gradualmente, nel meccanismo della memoria sensoriale, nuove sequenze di suoni producendo un nuovo adattamento. Se i principi su cui si fonda la scienza musicale sono invariabili, tutto ciò che appartiene alla sfera sensoriale è invece soggetto al potere dell’assuefazione che non si limita soltanto ad accogliere gli stimoli provenienti dall’esterno e a stratificarli dentro un ordine immutabile di concetti, ma è anche capacità di riadattare la mente e i sensi a nuovi stimoli, come ha evidenziato Franco Brioschi, essa «è anche disposizione attiva a sospendere le categorie abituali e meccaniche per lasciare emergere nuove categorie, “contrarre” nuove assuefazioni e abilità che diano nuova forma all’esperienza»175. Leopardi esalta questa particolare facoltà dell’uomo, che si sviluppa in maniera differente da individuo a individuo, conformandosi 174 Zib. 3223-3224. F. Brioschi, La forza dell’assuefazione, in Lo Zibaldone cento anni dopo. Composizione, edizioni, temi, Atti del X Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati-Portorecanati 14-19 settembre 1998), Firenze, Olschki, 2001, p. 745. 175 69 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ sia ai fattori esterni contingenti, quali il gusto, le mode o le consuetudini legate a una determinata tradizione, sia alle singolari caratteristiche o limitazioni del soggetto che, grazie alla propria «conformabilità», è capace di perfezionare le naturali attitudini e superare le proprie inadeguatezze. Così il poeta si esprime in proposito nello Zibaldone somma conformabilità dell’uomo ec. Tutto in natura, e massime nell’uomo, è disposizione ec. Straordinaria, ed, apparentemente, più che umana facoltà e potenza che i ciechi, o nati o divenuti, hanno negli orecchi, nella ritentiva, nell’inventiva, nell’attendere nella profondità del pensare, nell’apprender la musica ed esercitarla e comporne ec. ec. […]176. La polemica leopardiana, inaugurata con la Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella della baronessa di Staël Holstein ai medesimi e con il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica 177 , contro la “spiritualizzazione” 178 che ha reso la poesia moderna «arida, astratta, ostentatamente psicologica, solo in apparenza 176 Zib. 3824, corsivi miei. I due scritti con cui il giovane Leopardi partecipò alla polemica italiana tra classicisti e romantici, composti rispettivamente nel 1816 e nel 1818, non furono, in realtà, pubblicati dalle riviste a cui erano stati mandati, la «Biblioteca italiana» e «Lo Spettatore italiano». Delle ragioni di questo rifiuto, «sistematico boicottaggio» nel primo caso, motivi incerti, nel secondo, è resa testimonianza in S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1969, p. 18, nell’Introduzione a G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, a cura di O. Besomi, D. Continati, P. De Marchi, G. Giambonini R. Martinoni, B. Moser, P. Parachini, L. Pedroia, G. Pedrojetta, Bellinzoni, Edizioni Casagrande, 1988, pp. XIXVIII, e in L. Blasucci, Dall’imitazione al rimpianto. Leopardi tra «Il discorso di un italiano intorno alla poesia romantica» e l’«Inno ai patriarchi», in Lo stormire del vento tra le piante cit., p. 15, e nota 1. 178 G. Guglielmi, nel saggio Il Leopardi «mal noto» e la nuova poesia, in La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit., p. 17, a proposito del concetto di spiritualizzazione, così sottolinea il doppio significato che essa avrebbe avuto per il poeta recanatese secondo l’interpretazione di Rebora: «da una parte significa impoverimento dell’esperienza portato dalla civiltà, uniformazione dei costumi, geometrizzazione della vita; dall’altra rimanda alla più acuta sensibilità dei moderni, a una sensibilità cioè disincarnata, priva di “ogni acquisto di pienezza felice”». 177 70 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ popolare»179, si estende indirettamente, ma con la stessa intensità, anche alla musica e ai musicisti moderni che «stante le circostanze della loro vita, e delle moderne costumanze a loro riguardo, sono per corruzione, per delizie, per mollezza e bassezza d’animo il peggio del peggior secolo che nelle storie si conti […] la feccia della feccia delle generazioni […]»180. In sostanza, alla distinzione shilleriana fatta propria da Leopardi, fra la poesia ingenua degli antichi e la poesia sentimentale dei moderni, corrisponde, per analogia, la distinzione fra la musica popolare dei greci che, grazie ai suoi ritmi naturali e mai appiattiti, era in grado di produrre molteplici effetti su personalità diverse, basti come esempio il caso di Alessandro Magno che «tutto il dì occupato nelle cose militari, era a tavola mirabilmente affetto e dominato dalla musica […] di Timoteo»181, e la musica tedesca «inutile a tutti fuori che agl’intendenti»182. La denuncia di Leopardi riguarda la decadenza causata dall’incivilimento: nel caso della poesia, che ha il suo fondamento in natura, dal trionfo della ragione che ha svelato l’alone di mistero che avvolgeva la natura e che, grazie al suo fascino, stimolava l’immaginazione dei poeti antichi tanto da fargli attribuire un’anima agli oggetti inanimati, dar voce agli animali, divinizzare i fenomeni naturali, come il tuono, il lampo, il vento, l’eco, di cui avvertivano gli effetti senza conoscere la causa; nel caso della musica, che ha il suo fondamento nell’assuefazione, o ‘seconda natura’, dallo stile di vita moderno e dalla corruzione dei gusti e dei costumi. Se la speranza di un recupero della poesia antica, contemplata da Leopardi all’altezza del Discorso, è destinata a dissolversi nel poeta maturo che vede nella poesia 179 G. Tellini, Leopardi, Roma, Salerno, 2001, p. 78. Zib. 3228. 181 Zib. 3425. 182 Zib. 3226. 180 71 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ sentimentale la sola poesia adatta ai moderni183, per quanto riguarda la musica, invece, l’auspicato «ravvicinamento al popolare» che «non solo è buono, ma necessario, e primo debito della moderna musica» 184 , si concretizza nella musica di un compositore come Rossini, le cui melodie «totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo»185 riscuotono grande successo presso un pubblico che oggi potremmo definire ‘di massa’, ma non restano immuni neanche alle critiche «degl’intendenti circa il comporre di Rossini, e generalmente circa il modo della moderna composizione, la quale da tutti è sentita essere piena di melodia più che le antiche e classiche, e da chiunque sa è giudicata non reggere in grammatica ed essere scorrettissima e irregolare. Tutto ciò non per altro accade se non perché gl’intendenti giudicano, e giudicando sentono [….] secondo i principi e le norme della loro scienza; e i non intendenti sentono e sentendo giudicano secondo le loro assuefazioni relative al proposito»186. In una lettera del 26 gennaio 1823, così scrive al poeta il fratello Carlo, dopo aver assistito alla rappresentazione della Cenerentola di Rossini187 adesso ho conosciuto Rossini: già fra noi un’impressione forma epoca più di un avvenimento: sicchè non mi vergogno di parlarti del gran piacere che mi ha dato questa Musica, che è arrivata a carpirmi le lagrime […]188. 183 Sulla maturazione della coscienza leopardiana circa la possibilità di un recupero della poesia antica, dalla fiduciosa speranza del giovane poeta esperto nella traduzione dei classici, che ritiene possano essere imitati dai moderni attraverso l’esercizio dell’immaginazione, alla sostanziale negazione, nel pensiero zibaldoniano dell’ 8 marzo 1821, di quanto ritenuto possibile in precedenza, si veda il saggio di L. Blasucci, Dall’imitazione al rimpianto cit., pp. 15-30. 184 Zib. 3226. 185 Zib. 3209. 186 Zib. 3218, corsivi miei. 187 L’opera, composta su libretto di Jacopo Ferretti e ispirata all’omonima fiaba di Charles Perrault, fu rappresentata per la prima volta a Roma, nel Teatro Valle, il 25 gennaio 1817. 188 Ep. 507. 72 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ Il commento di Carlo sembra non lasciare dubbi circa il livello di popolarità raggiunto da Rossini, ma, come generalmente accade ai personaggi che fanno epoca, il successo attira anche dure critiche, che non si limitano all’attività professionale ma investono gli aspetti più intimi della persona, così, secondo la testimonianza di Radiciotti «tra la numerosa schiera dei grandi musicisti di ogni tempo è ben difficile trovarne uno che, come uomo, sia stato dai biografi e giornalisti più calunniato di Gioacchino Rossini. Non c’è vizio, di cui non l’abbia gratificato la malignità umana, incoraggiata dal silenzio di quel Grande che, per amore della propria tranquillità, o per naturale riservatezza, rifuggendo dalle polemiche, non si decise mai a smentire pubblicamente le fiabe che si propalavano, e non sempre in buona fede, sul suo conto»189. Si spendono troppe parole sui grandi uomini, oppure, su di loro scende il silenzio, quell’«obblio» che, secondo Leopardi della Ginestra, «preme chi troppo all’età propria increbbe»190. Cenerentola, l’opera di Rossini che aveva strappato le lacrime a Carlo, era in realtà un’opera comica, e come tale, avrebbe dovuto destare allegria, ilarità e altre sensazioni diverse dalla commozione, tuttavia, se Carlo afferma di non vergognarsi delle lacrime suscitategli dall’opera, la sua esperienza personale non ha niente di anomalo, anzi, è comunissima fra i moderni uditori e trova riscontro in un passo dello Zibaldone, dove Leopardi attribuisce la causa alla generale tendenza al malinconico propria del suo secolo qual uomo civile udendo, eziandio la più allegra melodia, si sente mai commuovere ad allegrezza? Non dico a darne segno di fuori, ma si sente pure internamente rallegrato, cioè concepisce quella passione che si chiama veramente gioia? Anzi ella è cosa osservata che oggidì qualunque musica 189 G. Rossini, Il barbiere di Siviglia: guida attraverso la commedia e la musica, a cura di G. Radiciotti, Milano, Bottega di poesia, 1923, pp. 20-21. 190 La ginestra, p. 42. 73 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ generalmente, anche non di rado le allegre, sogliono ispirare e muovere una malinconia, bensì dolce, ma ben diversa dalla gioia; una malinconia ed una passion d’animo che piuttosto che versarsi al di fuori ama anzi per lo contrario di rannicchiarsi, concentrarsi, e restringe, per così dire, l’animo in se stesso quanto più può, e tanto più quanto ella è più forte, e maggiore l’effetto della musica; un sentimento che serve anche di consolazione delle proprie sventure, anzi n’è il più efficace e soave medicamento, ma non in altra guisa le consola, che col promuovere le lagrime, e col persuadere e tirare dolcemente ma imperiosamente a piangere i propri mali anche, talvolta, gli uomini i più indurati sopra se stessi e sopra le lor proprie calamità. In somma, generalmente parlando, oggidì, fra le nazioni civili, l’effetto della musica è il pianto, o tende al pianto […]191. «La musica […] consta inseparabilmente di suoni e di armonia, e l’uno senza l’altro non è musica»192, ma l’armonia, rispetto al suono che è l’elemento primitivo, ovvero la materia su cui la musica si fonda, è un’arte e, in quanto tale, elabora e compone i suoni secondo l’idea che intende rappresentare o il sentimento che desidera esprimere, tenendo naturalmente conto delle assuefazioni, da questo deriva, all’interno della musica, la distinzione fondamentale tra le due entità che la compongono, una distinzione che si manifesta attraverso gli effetti differenti prodotti dal suono e dall’armonia l’effetto naturale e generico della musica in noi, non deriva dall’armonia, ma dal suono, il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco […]193. In sostanza, l’effetto prodotto dal suono sull’animo umano non ha altra intermediazione che l’udito, laddove l’efficacia dell’armonia 191 Zib. 3310-3311, i corsivi sono nel testo. Zib. 1934. 193 Ibidem. 192 74 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ dipende dall’imitazione, perché, mentre il suono agisce come elemento naturale, vale a dire nella stessa maniera in cui agisce un paesaggio sulla vista e, quindi, immediatamente sull’animo, l’armonia agisce come agirebbe lo stesso paesaggio rappresentato su un quadro, producendo effetti secondari e ascrivibili alla sfera del bello, non a quella del piacere, esattamente come avviene per tutte le altre arti. Il rapporto tra armonia e suono è stato interpretato in chiave filosofica, com’è noto, agli inizi del secolo scorso, da Clemente Rebora nel suo saggio Per un Leopardi mal noto194, dove l’autore, riprendendo le intuizioni a cui era pervenuto Arturo Graf, attraverso l’analisi di alcune liriche, nel suo saggio Foscolo, Manzoni, Leopardi 195 , sull’idea leopardiana di musica, in particolare, per ciò che concerne il legame tra la poesia dei Canti e alcuni nuclei meditativi dello Zibaldone (prima ancora che fosse pubblicato), estende il significato di questo legame al rapporto tra filosofia e poesia in Leopardi, tra «meditazione» e «canto», per dirla con un titolo abbastanza recente di Cesare Galimberti 196 . L’aspetto ‘mal noto’ a cui si riferisce Rebora nel titolo del suo saggio, nato come tesina che doveva accompagnare, secondo l’usanza del tempo, la tesi principale di laurea all’Accademia scientifico letteraria di Milano, intitolata Gian Domenico Romagnosi nel pensiero del Risorgimento197, è rappresentato dai pensieri sulla musica espressi da Leopardi nello C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, in «Rivista d’Italia», anno XIII, fasc. IX, settembre 1910, pp. 373-449, poi nell’opera collettiva Omaggio a Clemente Rebora, Bologna, M. Boni Editore, 1971, pp. 69-165, ora in C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, a cura di L. Barile, Milano, Libri Scheiwiller, 1992, e in Idem, Arche di Noè, a cura di C. Giovannini, Milano, Jaca Book, 1994, pp. 63-124. 195 A. Graf, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Torino, Loescher, 1898. Nuova edizione, Torino, Chiantore, 1945, pp. 185-442. Le liriche leopardiane prese in esame da Graf sono: Aspasia, Sopra il ritratto di una bella donna, A Silvia, La vita solitaria, La sera del dì di festa, Le ricordanze, Alla sua donna e Il tramonto della luna. 196 C. Galimberti, Leopardi: meditazione e canto, in G. Leopardi, Poesie e prose, a cura di R. Damiani e M. A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1987, pp. XIII-LXXIX. 197 C. Rebora, G. D. Romagnosi nel pensiero del Risorgimento, «Rivista d’Italia», XIV, novembre 1911. 194 75 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ Zibaldone 198 . Dei sei capitoli che formano il saggio, il primo, oltre a indicare le fonti teoriche che sono alla base della meditazione leopardiana sulla musica, passa in rassegna le occasioni d’ascolto e i titoli delle opere a cui il poeta ha assistito a Recanati, a Roma, a Bologna e infine a Napoli; mentre il secondo, che contiene già le tracce su cui si muoverà lo sviluppo dei capitoli successivi del lavoro, è imperniato principalmente sulla distinzione tra armonia e suono, e non c’è da stupirsi se, nel riconoscimento leopardiano di una «seconda natura», prodotta dall’assuefazione, che si affianca alla «natura» principale e autentica, Rebora, «malato d’assoluto», veda incarnati i due estremi filosofici, il relativo e l’assoluto che convergono nella musica, l’unica «forma artistica che sia in grado di comporre la frattura fra il particolare e l’universale, fra corpo e pensiero e di sanare il divorzio fra le parole e le cose, del quale la prima generazione del Novecento prese coscienza in modo drammatico»199. Il primato della musica su tutte le arti è basato interamente sull’effetto del suono, ma Leopardi tiene a specificare che Per l’interpretazione reboriana dei pensieri di Leopardi sulla musica si vedano: R. Pistellato, Scheda sul Leopardi del primo Rebora, in «Primo Quaderno di filologia, lingua e letteratura italiana», Padova, 1979, pp. 143-165; D. Rondoni, Rebora e Leopardi, in “Avvenire”, Milano, 8 marzo 1986; F. Centofanti, Leopardi in Rebora, in Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di A. Frattini, G. Galeazzi, S. Sconocchia, Roma, Studium, 1990, pp. 439-451; Introduzione a C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, a cura di L. Barile cit., 1992, pp. 9-30; S. Magherini, Per la memoria leopardiana di Rebora, in «Studi Italiani», 8, 1992, pp. 77-88, L. Barile, Il Leopardi di un Rebora “malato d’assoluto”, in Poesia e spiritualità in Clemente Rebora, a cura di R. Cicala e A. Muratore, Novara, Interlinea, 1993, pp. 131-134; T. Salari, Leopardi, Rebora e la musica, in «Microprovincia», 34, gennaio-dicembre 1996, pp. 349-365; A. Girardi, Rebora, Leopardi e la musica, in Stilistica, metrica e storia della lingua. Studi offerti dagli allievi a Pier Vincenzo Mengaldo, a cura di T. Matarrese, M. Praloran, P. Trovato, Padova, Antenore, 1997 (ora anche in A. Girardi, Lingua e pensiero nei Canti di Leopardi, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 101-122); A. Folin, Il Leopardi di Rebora tra contingente ed eterno, in Leopardi e l’imperfetto nulla, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 115-124; G. De Santi - E. Grandesso (a cura di), La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit.; si veda, inoltre, R. Cicala e V. Rossi, Bibliografia reboriana, con Presentazione di M. Guglielminetti, Firenze, Olschki, 2002. 199 L. Barile, Il Leopardi di un Rebora “malato d’assoluto” cit., p. 133. 198 76 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ non è [….] propriamente neppure il suono o la voce, cioè la sensazione dell’orecchio, che la natura ha fatto capace d’influire piacevolmente sull’udito umano, ma solo certi particolari suoni, ed oscillazioni di corpi sonori […]200. È chiaro che il suono a cui il poeta fa riferimento è il suono musicale, un suono articolato che si avvia a diventare melodia, sono praticamente le note da cui nasce la musica, ed è un suono differente da quello naturale e inarticolato rappresentato dal tuono o dal vento, ma anche dalla voce di un bambino che non è ancora in grado di modulare i suoni secondo il codice del linguaggio, come quella descritta nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza sento una voce di donna che non conoscea né vedea ec. […] sentivo un bambino che certo dovea essere in fasce e in braccio alla donna e suo figlio ciangottare con una voce di latte suoni inarticolati e ridenti […]201. Basandosi sul privilegio legato all’immediatezza del suono, Leopardi ammette che anche gli animali possano essere in qualche modo attratti dalla musica, ovvero dalle stesse successioni di suoni che attirano gli uomini, ma tale possibilità non può essere avvalorata dal paragone con gli effetti prodotti dal suono sull’uomo, perché si tratta di due specie distinte e dotate di organi e modi di sentire differenti tra loro. Già fra gli uomini, infatti, la disposizione ad accogliere i suoni è molto differente e soggettiva, dunque è difficile ipotizzare che le stesse successioni di suoni che dilettano gli uomini possano dilettare nella stessa maniera tutti gli animali indistintamente202, tutt’al più, riconosce il poeta, se la distinzione 200 Zib. 1748. Ricordi d’infanzia e di adolescenza, p. 363, corsivi miei. 202 Cfr. Zib. 1786: «io credo ancora che molti uomini o per infermità o per natura ec. ec. non solo non sieno dilettati, ma decisamente disgustati o da tutti o da alcuni de’ suoni o voci piacevoli al comune degli uomini. Ciò accade appunto in molte specie di animali organizzate altrimenti che la nostra, sebbene altre specie organizzate analogamente alla 201 77 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ «non sarà molto grande o almeno avrà qualche rapporto con noi in questo punto, il suono farà colpo in quei tali animali, come leggiamo dei delfini e dei serpenti (vedi Chateubriand)»203. A “fare colpo” su questi animali è il suono musicale che in potenza è melodia, ma contiene in parte la naturalezza del puro suono che agisce in maniera incondizionata, mentre l’idea di armonia che è relativa, ammesso che possa essere compresa dagli animali, certamente non può essere intesa secondo i nostri canoni, così: non è la musica come arte, ma la sua materia cioè il suono che farà effetto in certe bestie. E infatti come vogliamo pretendere che le bestie gustino la nostra armonia, se tanti uomini si trovano che non la gustano? Parlo di molti individui che sono tra noi, e parlo di nazioni, come dei turchi che hanno una musica che a noi par dissonantissima e disarmonica. Eccetto il caso che qualche animale si trovasse in disposizione così somigliante alla nostra, che nella musica potesse sentire se non tutta almeno in parte l’armonia che noi ci sentiamo, vale a dire giudicare armonico quel che noi giudichiamo […]204. Un discorso analogo a quello sull’armonia può essere applicato anche al canto che, per i poeti antichi, possedeva il potere e il privilegio di ammaliare perfino i serpenti, infatti, ricorda Leopardi anticamente si diceva excantare, ora incantare i serpenti e frigidus in pratis CANTANDO rumpitur anguis dice Virgilio, ma son favole che non hanno esperienze moderne a favore. D’Arione si legge che innamorò i delfini col suono. Chateaubriand racconta di quel serpente ammansato dal suono ec. ec. nostra gradiscano detti suoni ec. Molto più credo, anzi son quasi certo di questo, rispetto alle diverse armonie, ed al deciso disgusto ed effetto disarmonico ch’elle producono in certi uomini e in certe specie di animali […]». 203 Zib. 156. 204 Ibidem. 78 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ Del resto i poeti dicevano favolosamente che le bestie si fermassero a udire il canto di questo o di quello […]205. Ma i poeti antichi generalizzavano un fenomeno osservato magari sporadicamente, e creavano le loro favole, enfatizzando l’effetto che il canto umano poteva avere su alcuni animali, senza interrogarsi sulle differenti modalità di ricezione dei loro organi rispetto ai nostri e, quindi, sulla relatività del piacere nei confronti del canto, basti pensare al canto degli uccelli di cui, certamente, l’uomo non può intendere l’intrinseca armonia, per comprendere come, a loro volta, gli uccelli e gli altri animali non siano in grado gustare l’armonia né il canto umano. Se «la natura […] è composta, conformata e ordinata ad un effetto poetico»206, che i poeti antichi esprimevano grazie all’uso della fantasia e dell’immaginazione, con una semplicità concettuale e stilistica, che si è tradotta in ricercatezza e astruseria nella poesia moderna, Leopardi considera il suono come legame autentico tra il poeta e la natura, suscitatore di immagini e di effetti poetici, perché, prima ancora di essere musica, e quindi arte, il suono è rumore «sussurro indistinto o stridore immodulato delle cose»207, è voce che conserva il fascino dell’arcano e 205 Zib. 158. Zib. 3241. 207 Questa è la formula adoperata da C. Rebora, Per un Leopardi mal noto, in Arche di Noè cit., p. 72, per distinguere il rumore inteso come forma primitiva del suono, dall’armonia. E. Capodoglio, nel suo saggio dal titolo Il puro suono, in La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit., pp. 91-104, si sofferma sul rapporto tra suono e rumore, sulla “dissonanza”, ovvero «un rumore che col tempo diventa musica» e, citando gli studi di Chailley, Les passions de J. S. Bach, 1963, e di M. Imberty, Suoni Emozioni Significati, a cura di L. Callegari e J. Tafuri, Bologna, Clueb, 1986, pp. 38-39, conclude che «la musica ci dà senso di naturalezza, e quindi di bello, in sintonia con l’epoca acustica che viviamo mentre il rumore immediato ha esso paradossalmente dell’artificioso. Il puro suono di cui parla Leopardi esprime perciò ancora, fino al 1823, una fiducia nella consonanza vocale degli uomini, e nell’attrattiva naturale umana, nell’armonia implicita delle voci umane e dei suoni sociali, più resistente al giudizio che nelle sue riflessioni sulla lingua letteraria. Erano i tempi in cui non esisteva l’inquinamento acustico, anche se Schopenhauer perdeva ogni concentrazione al crudele schiocco di frusta del vetturino sul cavallo. Mentre nella Milano del decollo industriale, Rebora si misura proprio sul confine tra suono e rumore, nella dissonanza tra vita 206 79 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ continua ad alimentare l’immaginazione dei poeti, nonostante la ragione e la scienza ce ne abbiano consegnato un’origine del tutto fisica. E di questa origine, il poeta è ben consapevole fin dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, dove la «segreta simpatia per il fascino di quelle fantasie primitive»208, come la definisce Blasucci, non implica certo la condivisione dei principi mitici e esoterici che le ispiravano, ma è semplicemente frutto della generale ammirazione leopardiana nei confronti del mondo antico e della capacità, propria solo degli antichi, di guardare la natura così come si mostrava ai loro occhi e di rappresentare gli effetti delle cose nella loro globalità senza sezionarle in varie parti per analizzarne le cause. Leopardi sa che quei suoni, il tuono, la folgore, il vento, che negli antichi destavano un timore reverenziale, non rappresentano affatto la voce della divinità, esattamente come tutti gli altri enti della natura che essi consideravano animati e che, in realtà, non lo sono, ma non vuole rinunciare ugualmente al piacere di credere in quelle ‘favole antiche’ senza le quali la poesia non sarebbe mai nata, così come il suo pensiero maturo non rinuncerà alla perenne difesa di una poeticità fondata sull’uso dell’immaginazione. Così si esprimerà, infatti, il poeta in un passo dello Zibaldone datato 22 agosto 1823 e siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi conoscere ciò che è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni sì generali, sì anche particolari, della natura. Essi soli possono meno imperfettamente contemplare, conoscere, abbracciare, comprendere il tutto della quotidiana, cittadina e utopia cosicché, armonizzandole poi nei suoi metri e ritmi, diventa testimone essenziale di una storia della musica poetante, proprio perché ricerca una natura perenne per via di civiltà attuale […]» (pp. 95-96). 208 L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante. Parabola di un’immagine, in Lo stormire del vento cit., p. 39. 80 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ natura, il suo modo di essere, di operare, di vivere, i suoi generali e grandi effetti, i suoi fini […]209. Nella prospettiva di una poesia che attraverso l’uso dell’immaginazione sappia recuperare i grandi modelli del passato e riproporne la naturalezza e la grazia, gli “errori popolari” che riguardano, in questo caso, i fenomeni acustici, diventano espedienti poetici finalizzati alla creazione dell’effetto vago-indefinito tipico della maggiore poesia leopardiana. Il vento, ad esempio, che veniva considerato dagli antichi come «percezione di una voce del Lontano»210, come segno tangibile della presenza divina, poiché essi osservavano gli effetti, gli «alberi agitarsi e crollare, mentre per l’aria udivasi un soffiar veemente e un romor forte», senza comprendere le cause, per Leopardi, senza voler attribuire un sovrassenso a certi suoi versi o porre eccessiva enfasi su annotazioni come «voce e canto dell’erbe rugiadose in sul mattino ringrazianti e lodanti Iddio» 211 , non ha valenza religiosa o metafisica, come non ce l’hanno il suono, la voce, il canto, ma rappresenta semplicemente un’immagine poetica che compare nei Canti in due versioni, una «lene» e una «tempestosa». All’immagine lene del vento che stormisce o mormora o sussurra, secondo l’analisi di Blasucci212, appartengono i vv. 45-46 (e l’atro / bosco mormorerà fra le alte mura) di A un vincitore nel pallone, i vv. 30-31 (e non de’ faggi / il murmure saluta) dell’Ultimo canto di Saffo, i vv. 25-26 (l’errante / per li giovani prati aura contempli) dell’Inno ai Patriarchi; all’immagine tempestosa del vento che muggisce o fischia, appartengono il v. 25 (il vento muggia nella foresta) del 209 Frammento XXXVIII incluso Zib. 3242-3243. M. Orcel, Il suono dell’infinito. Saggi sulla poetica del primo Romanticismo italiano da Alfieri a Leopardi, Napoli, Liguori, 1993, p. 96. 211 Zib. 55. 212 Cfr. L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante. Parabola di un’immagine, in Lo stormire del vento cit., pp. 34-37. 210 81 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ nell’appendice dei Canti, i vv. 154-155 (Di lor querela il boreal deserto / e consce fur le sibilanti selve) di Sopra il monumento di Dante, i vv. 4445 (la secreta / nelle profonde selve ira de’ venti) dell’Inno ai Patriarchi. Nei paragrafi dedicati alla ‘teoria del piacere’, Leopardi afferma che la «facoltà immaginativa» che «può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono» 213 , sopperisce al vuoto lasciato nell’uomo dal desiderio del piacere a cui l’anima tende incessantemente e, non potendolo mai abbracciare, perché la sua estensione e la sua durata sono infinite, si abbandona alle sensazioni vago-indefinite che, in qualche modo, la appagano. In un passo dello Zibaldone datato 4 gennaio 1821, il poeta così illustra il rapporto che intercorre tra infinito e indefinito: non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l’immaginativa è capace dell’infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perché l’anima non vedendo i confini, riceve l’impressione di una specie d’infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito, non però comprende né concepisce effettivamente nessuna infinità […]214. Le sensazioni vago-indefinite che generano gli “effetti di infinito” nella poesia leopardiana, appartengono a due categorie, quella ‘visiva’ e quella ‘uditiva’, descritte dettagliatamente nello Zibaldone, dove a partire dal principio ispiratore della ‘teoria del piacere’, il poeta sostiene che il desiderio di infinito connaturato all’uomo, trova la sua espressione e dimensione ideale in ciò che non ha confini e lascia spazio all’immaginazione, o viceversa, di fronte ad un impedimento che sollecita la curiosità verso ciò che può esserci ‘oltre’ 213 214 Zib. 167. Zib. 472. 82 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ qualunque cosa ci richiama l’idea dell’infinito è piacevole per questo, quando anche non per altro. Così un filare o un viale d’alberi di cui non arriviamo a scoprire il fine. Questo effetto è come quello della grandezza, ma tanto maggiore quanto questa è determinata, e quella si può considerare come una grandezza incircoscritta. Ci piacerà anche più quel viale quanto sarà più spazioso più se sarà scoperto, arieggiato e illuminato, che se sarà chiuso al di sopra, o poco arieggiato, ed oscuro, almeno quando l’idea di una grandezza infinita che ci deve presentare deriva da quella grandezza che cade sotto i nostri sensi, e non è opera totalmente dell’immaginazione, la quale come ho detto, si compiace alcune volte del circoscritto, e di non vedere più che tanto per poter immaginare ec. […]215. Qualsiasi situazione dalla quale trapeli una visione indistinta delle cose, è direttamente proporzionale allo sviluppo dell’immaginazione, dunque, e delle sensazioni indefinite che derivano dal suo uso: una torre antica, sebbene occupi uno spazio circoscritto, produce l’idea di infinito perché «il concepire che fa l’anima di uno spazio di molti secoli, produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde» 216 ; «le parole lontano, antico e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse»217; l’immagine di una campagna «arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle» o «di un filare d’alberi, la cui fine si perda di vista»218; «la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce»219. La stessa cosa vale per le sensazioni pertinenti all’udito: 215 Zib. 185. Zib. 1429. 217 Zib. 1789. 218 Zib. 1431. 219 Zib. 1744. 216 83 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ quello che altrove ho detto sugli effetti della luce degli oggetti visibili, in riguardo all’idea di infinto, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito […]220 . Il suono produttore di effetti vago-indefiniti nella poesia leopardiana, prima di diventare suono musicale e canto, è suono naturale, è lo «stridore notturno delle banderuole traendo il vento»221, è l’abbaiare del cane di notte, il rumore delle ruote del carro, il tintinnio dei sonagli, che compaiono fin dal primo pensiero dello Zibaldone palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante. Era la luna nel cortile, un lato Tutto ne illuminava, e discendea Sopra il contiguo lato obliquo un raggio… Nella (dalla) maestra via s’udiva il carro Del passegger, che stritolando i sassi Mandava un suon, cui precedea da lungi Il tintinnìo de’ mobili sonagli […]222. È il «suono della natura» e delle «opere umane», è il «suono della voce della donna amata», ma anche «suono delle armi e del tempo»223, è il «puro suono» che per Leopardi, secondo l’analisi di Enrico Capodaglio, «consente […] l’incontro tra gli uomini e la natura» e «già l’ascolto dei suoni, sia pure non armonizzati e non messi in melodia, accende fortemente l’immaginazione: il verso della rana rimota alla campagna ma 220 Zib. 1927-1928. Zib. 47. 222 Zib. 1. 223 Cfr. E. Capodaglio, Il puro suono, in La musica in Leopardi nella lettura di Clemente Rebora cit., pp. 93-94. 221 84 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ anche la “voce dei cani” (Appressamento canto I, 5) già possono agire, al di fuori del bello civile e convenzionale»224. Le onde del suono che si allontana «appoco appoco» dal punto in cui nasce, come una serie di sfere concentriche che si allontanano dal centro, giungendo all’udito in modo via via più confuso e indistinto fanno sì che anche l’attenzione di ascolta si allenti, lasciando spazio all’immaginazione o al ricordo. E nella stessa maniera in cui «il suono, gli odori, i raggi luminosi si estinguono a una certa distanza dal centro della sfera»225, se il centro è rappresentato dal tempo, si perdono anche i contorni reali degli oggetti e degli avvenimenti ai quali subentra la rimembranza un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può essere poetico, in uno o in un altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago […]226. 224 Ibidem, p. 95. Zib. 150. 226 Zib. 4426. 225 85 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ § II.2 ANTICHITÀ E PRESENTE. IL POTERE EVOCATIVO DELLA MUSICA La speme che rinasce in un col giorno. Dolor mi preme del passato, e noia Del presente, e terror de l’avvenire (Zib. 80) Secondo ciò che si è appena affermato, nel pensiero di Leopardi, la lontananza appare come una dimensione ideale da cui fluiscono tutte le sensazioni vago-indefinite che sono alla base della sua poesia, sia che si tratti di lontananza fisica, una campagna vista da lontano o un filare d’alberi di cui per la lontananza non si scorge più l’origine, di un rumore, di un suono, di un canto che per la lontananza giunge debole all’orecchio o si diffonde nell’aria favorito dal silenzio della notte, sia che si tratti di lontananza temporale, nel passato o nel futuro, di oggetti e luoghi veduti 227 o esperienze vissute che riaffiorano nel ricordo, oppure, di attese, eventi, immagini di persone, luoghi e cose sconosciute, che si incorporano nella speranza il passato, a ricordarsene, è più bello del presente, come il futuro a immaginarlo. Perché? Perché il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana; è la sola immagine del vero; e tutto il vero è brutto […]228. 227 Per effetto di «un ingannevole gioco prospettico», come è stato definito da C. Galimberti, Fanciulli e più che uomini, in Cose che non son cose, Venezia, Marsilio, 2001, p. 213, il ricordo dei luoghi visti, torna alla memoria sempre deformato, secondo la descrizione leopardiana, nel Pensiero XXX: «come suole il genere umano, biasimando le cose presenti, lodare le passate, così la più parte de’ viaggiatori, mentre viaggiano, sono amanti del loro soggiorno nativo, e lo preferiscono con una specie d’ira a quelli dove si trovano. Tornati al luogo nativo, colla stessa ira lo pospongono a tutti i luoghi dove sono stati» (Pensieri, p. 224). 228 Zib. 1521-1522. 86 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ Al lontano si contrappone il vicino, dunque il presente, che è un tempo pragmatico e, in quanto tale, implica il prevalere della ragione nell’individuo che affronta quotidianamente i suoi problemi personali, riflette o interviene sulle problematiche sociali e sugli avvenimenti che determinano il corso della storia, medita sul motivo del male e del dolore che affliggono incessantemente l’umanità. Il presente è tempo dell’analisi e dell’esperienza concreta nel suo farsi che è quasi sempre dolore, è un tempo impoetico229 e assolutamente inadatto all’immaginazione che spinge sempre verso ciò che non cade sotto i sensi. Quindi verso il futuro e la posterità, perocché il presente è limitato e non può contentarla, è misero ed arido, ed ella si pasce di speranza, e vive promettendo sempre a se stessa […]230. Nello stesso passo dello Zibaldone, Leopardi si sofferma polemicamente ad osservare come nel passaggio dall’antico al moderno, insieme all’immaginazione, anche l’intensità della speranza si sia affievolita negli uomini, così come le grandi passioni, primo fra tutte «l’amor della gloria» istigatore delle grandi azioni che sarebbero servite a mantenere vivo il loro ricordo presso i posteri. Gli antichi, a differenza dei moderni, erano molto lungimiranti, come dimostrano le loro grandi Così si esprime in proposito A. Folin nel saggio L’enigma della memoria, in Leopardi e l’imperfetto nulla cit., pp. 53-54: «il presente è per sua essenza impoetico in quanto anestetizza gli “affetti”, invitandoci ad un atteggiamento di utilizzabilità nei confronti del reale. Il tempo dell’analisi può essere soltanto presente, perché si applica a ciò che abbiamo a portata di sguardo, con quel tratto tipico della ragione calcolante che separa, disunisce le cose al fine di appropriarsene per sempre, facendone quindi morire la bellezza […]. Solo futuro e passato sono le due dimensioni del tempo veramente poetiche, perché in esse noi già da sempre viviamo e abitiamo, protesi nella speranza o ripiegati nella ricordanza […]. La speranza implica occhi “fuggitivi”, incapaci di soffermarsi sulle cose con “attenzione”. Ecco perché, se ben si guarda, in Leopardi la speranza appare sempre nell’incanto del ricordo, mai nella progettualità del presente. Si potrebbe parlare, perciò, a rigore, di un’unica dimensione, quella del passato: è in essa che appare la speranza, così come il suo disinganno, solo in essa si manifesta la cosa nel suo illusorio permanere […]». 230 Zib. 3437. 229 87 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ opere d’arte, la cui maestosità e solidità erano evidentemente destinate a mantenere intatta nel tempo la fama degli artisti, ma non solo, «qualunque fine si proponessero, qualunque effetto dovesse seguitare a quell’opera, esso aveva ad essere eterno, s’aveva a stendere in tutto l’avvenire, non aveva a cessar mai»231. Le stesse considerazioni vanno estese naturalmente anche alla letteratura, a partire da alcuni aspetti meramente pratici, come i moderni metodi di divulgazione degli scritti, affidati a volantini, opuscoli e brochures, tutti mezzi inaffidabili per assicurare una corretta conservazione e trasmissione dei testi nel tempo, laddove presso i greci e presso i latini anche gli scritti destinati a una finalità pratica e immediata erano custoditi come vere e proprie opere d’arte. Sebbene le opere degli antichi contenessero l’aspirazione all’eternità, dire ‘antico’, per Leopardi, non equivale a dire ‘eterno’, e nemmeno ‘infinito’, ma certo è che vedere un determinato monumento, o anche una semplice torre antica, in un luogo, e pensare che resiste lì da chissà quanti secoli, produce un effetto indefinito e sublime che, come ha osservato Francesco Tateo, fa dell’antico «una sensazione, non un modello […] un mito ma nel senso specifico del termine, una parola che vive nella realtà immediata di chi la pronuncia, non per la sua concretizzazione in un modello, è immaginazione […] eco di qualcosa che non c’è più, ma che c’è stato soltanto perché ce n’è il ricordo, un ricordo alimentato dal senso, insito in noi, della distanza, ossia del tempo come spazio indefinito»232. Nel ricordo, le sensazioni fisiche o spirituali, le grandi passioni che animano l’uomo, i valori, le sue lotte e le sue delusioni, si dissolvono lasciando al loro posto solo delle immagini che non hanno la forza di risvegliare sentimenti tali e quali a quelli del passato, ma hanno in 231 Zib. 3436-3437. F. Tateo, Leopardi e gli antichi, in Ripensare Leopardi, a cura di M. Dell’Aquila, Fasano, Schena, 1999, p. 12. 232 88 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ alternativa, il potere di destare la malinconia come una parentesi di piacere a cui l’anima è desiderosa di abbandonarsi, e solo da questi momenti di trasporto assoluto può nascere la poesia sentimentale che ricordiamo, secondo Leopardi, è l’unica forma di poesia possibile per i moderni la rimembranza quanto più è lontana, e meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora dolcemente, diletta l’anima, e fa più viva, energica, profonda, sensibile, e fruttuosa impressione […]. Certo è però che tali lontane rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e di genere contrario a quello delle sensazioni abituali, ispirando nella poesia ec. non ponno ispirare che poesia malinconica, come è naturale, trattandosi di ciò che si è perduto; all’opposto degli antichi a cui tali immagini, poteano ben far minore effetto a causa dell’abitudine, ma erano sempre proprie, presenti, si rinnovavano tuttogiorno, né mai si consideravano come cose perdute, o riconosciute per vane […]233. Ha detto Singh, nel suo intervento al convegno su Leopardi e il mondo antico, che per il poeta «perfino l’espressione del dolore antico […], era per necessità differente da quella del dolor moderno, e questo perché il dolore degli antichi era “senza il conforto della sensibilità” e non mescolato “di nessuna amara e dolce tenerezza di se stesso ec. ma intieramente disperato”. Questo fatto conferisce alla loro tragedia non solo quel senso di ineluttabilità e di stoicismo che il Cristianesimo ha tolto all’uomo moderno, ma anche quella nobiltà e quella dignità che è tutt’uno colla naturalezza e colla semplicità – qualità che sono state sostituite dalla sottigliezza e dall’affettazione presso i moderni»234. 233 Zib. 1860-1861, il corsivo è nel testo. G. Singh, Il concetto dell’antichità nella poetica di Leopardi, in Leopardi e il mondo antico, Atti del V Convegno Internazionale di Studi Leopardiani (Recanati 22-25 settembre 1980), Firenze, Olschki, 1982, pp. 573-589 (la citazione è a p. 578). 234 89 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ Il ricordo delle sensazioni passate è efficacissimo nella creazione artistica dove, afferma Leopardi, al contrario di ciò che comunemente si crede, la sensazione presente, ovvero l’entusiasmo immediato che si prova nell’udire una musica o di fronte allo «spettacolo della natura»235, non è affatto favorevole all’invenzione del soggetto artistico, soprattutto se è animato da una grande passione, perché l’intenso coinvolgimento impedisce di mettere a fuoco e ordinare le immagini e le sensazioni che l’artista prova in quel momento e che dovrebbero costituire la materia dell’opera d’arte. Dunque, l’entusiasmo, in tempo reale, nuoce addirittura alla creazione artistica, laddove il ricordo dell’entusiasmo che si è provato in un momento passato, oppure l’attesa e la speranza di provare delle sensazioni entusiasmanti in futuro, possiedono una intrinseca razionalità che li rende governabili nella creatività dell’artista, infatti, sarà utile un influsso dell’entusiasmo passato o futuro o abituale, piuttosto che la sua presenza, e possiamo dire il suo crepuscolo, piuttosto che il mezzogiorno. Spesso è adattissimo un momento in cui dopo un entusiasmo, o un sentimento provato, l’anima sebbene in calma, pure ritorna come a mareggiare dopo la tempesta, e richiama con piacere la sensazione passata […]. E generalmente si può dire che nelle belle arti e poesia, le dimostrazioni di entusiasmo d’immaginazione e di sensibilità, sono il frutto immediato piuttosto della memoria dell’entusiasmo, che dello stesso entusiasmo, riguardo all’autore […]236. Stando a ciò che si è appena a detto, e quanto si è avuto modo di osservare già nel paragrafo precedente a proposito del canto udito in lontananza che, dileguandosi man mano, lascia spazio all’immaginazione nella mente di chi ascolta perché, a un certo punto, non si sente più 235 236 Zib. 257. Zib. 258-259, corsivo mio. 90 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ totalmente rapito dalla musica, si deduce che, secondo Leopardi, attenzione e immaginazione sono due facoltà inversamente proporzionali tra loro, percui quanto maggiore sarà l’una, tanto minore sarà l’altra, e viceversa. ‘Ad-tendere’, nel significato latino di ‘rivolgere la propria attenzione verso un determinato oggetto’, è un’operazione mentale volontaria che richiede un forte grado di concentrazione a cui può pervenire soltanto il soggetto che abbia maturato una certa capacità di discernimento tra le varie impressioni che gli cadono incessantemente sotto i sensi, per dirla altri termini, il soggetto adulto che sappia fare uso della ‘ragione’. I fanciulli non sono in grado di prestare la propria attenzione verso un determinato oggetto da indagare fino in fondo perché la loro curiosità, e il desiderio di scoprire la realtà che li circonda, fa sì che il loro sguardo sia rivolto verso una moltitudine di oggetti e i loro sensi attratti da una grande quantità di sensazioni il cui aspetto è sempre positivo perché non passano al vaglio della ragione, infatti: la natura ha provveduto in modo, che fin che l’uomo è nello stato naturale, come sono i fanciulli, poco e insufficientemente attende, essendo l’attenzione nutrice della ragione, e la prima ed ultima causa della corruzione ed infelicità umana […]237. Alla condizione dei fanciulli è paragonabile, in tal senso, quella degli antichi che, avendo alle spalle un trascorso storico relativamente breve, per forza di cose, ignoravano ancora tanti aspetti della realtà, percui la loro ingenuità e inesperienza, esattamente come quella dei fanciulli, li induceva alla continua ricerca di impressioni e sensazioni a cui affidarsi senza mai porsi il problema del ‘vero’, della spiegazione razionale di ciò che vedevano o percepivano e dell’esistenza delle cose. E, siccome il ‘non conoscere’ lascia lo spazio e la possibilità per 237 Zib. 2390. 91 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ ‘immaginare’, nell’antichità, tempo «nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri uguali a noi!», le illusioni trovavano un terreno fertile che si è poi isterilito con l’avanzare del tempo e della storia e con il trionfo incontrastato della ragione, quelle stesse illusioni che sopravvivono solo per un breve periodo della vita umana, destinate a dissolversi nella delusione che contrassegna l’età matura, e che, per il poeta moderno, è necessario mantenere vive nella finzione per aspirare ai grandi modelli del passato. E questo è ciò che Leopardi realizza con la sua poetica, per citare nuovamente Singh, «le qualità che egli analizza e loda nell’arte e nel genio degli antichi, non poteva non cercare di realizzarle nel contesto della propria poesia, anche se queste qualità – per esempio, semplicità e naturalezza di dizione – dovevano ovviamente caricarsi di altre qualità tipiche di un’arte essenzialmente moderna e venire utilizzate per fini alquanto diversi da quelli di un poeta antico»238. Sarebbe erroneo considerare le varie facoltà della mente umana separate e indipendenti l’una dall’altra, poiché, spiega Leopardi, ciò che le fa apparire tali non è la loro origine, ma gli effetti che esse producono a seconda delle diverse e innumerevoli combinazioni possibili e attuabili, così non deve sorprendere che facoltà apparentemente opposte come immaginazione e ragione abbiano, in realtà, un’origine comune, anzi di più, esiste tra loro un vero e proprio legame di dipendenza che il poeta illustra dettagliatamente nel passo dello Zibaldone datato 20 novembre 1821 l’immaginazione pertanto è la sorgente della ragione, come del sentimento, delle passioni, della poesia; ed essa facoltà che noi supponiamo essere un principio, una qualità distinta e determinata dell’animo umano, o non esiste, o non è che una cosa stessa, una stessa disposizione con cento altre che 238 G. Singh, Il concetto dell’antichità nella poetica di Leopardi cit., p. 576. 92 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ noi ne distinguiamo assolutamente, e con quella stessa che si chiama riflessione o facoltà di riflettere, con quella che si chiama intelletto ec. Immaginazione e intelletto è tutt’uno. L’intelletto acquista ciò che si chiama immaginazione, mediante gli abiti e le circostanze, e le disposizioni naturali analoghe; acquista nello stesso modo, ciò che si chiama riflessione ec. ec. […]239. Lo stesso discorso si deve applicare alla distinzione tanto comune quanto erronea tra intelletto e memoria che sono, in realtà, due facoltà interdipendenti tra loro, nel senso che la memoria è all’inizio come una tabula rasa che man mano si riempie, proprio perché l’intelletto le imprime continuamente i risultati della sua esperienza e, nello stesso tempo, la memoria a sua volta rinforza, l’intelletto perché gli consente di assuefarsi con maggiore facilità e perché, si sa, non può esserci «ingegno senza memoria»240. I dati, le sensazioni, i ricordi, immagazzinati nella memoria possono riaffiorare in qualsiasi momento della vita, senza un volontario atto di richiamo, così accade che spessissimo una sensazione provata presentemente, ce ne richiama alla memoria un’altra provata per l’addietro, senza che la volontà contribuisca, o abbia pure il tempo di contribuire a richiamarla. Così un canto ci richiama, per esempio, quello che noi facevamo altra volta udendo quello stesso canto ec. [...]241. E nell’opera leopardiana, la casistica di questo ‘ritorno’ involontario dei dati contenuti nella memoria, ovvero, di quella che il poeta chiama ‘rimembranza’ o ‘ricordanza’, e che va distinta dal semplice ricordo che, al contrario, può essere evocato volontariamente con un imput, è frequentemente legata ad una sensazione sonora. 239 Zib. 2133-2134. Zib. 1454. 241 Zib. 1455. 240 93 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ Proviamo a illustrarne qualche esempio. Nel Diario del primo amore e nel componimento Il primo amore, nati contemporaneamente, il poeta descrive in prima persona, rispettivamente in prosa e in versi, la vicenda interiore del suo innamoramento per Geltrude Cassi Lazzari, graziosa ventiseienne sposata con un uomo di oltre cinquant’anni, cugina di Monaldo, abitante a Pesaro, e ospite in casa Leopardi nel dicembre del 1817. Alla partenza della donna, immediatamente si scatena nel poeta la «ricordanza malinconica»242 dei giorni appena trascorsi, e nel suo cuore si agitano sentimenti contrastanti che gli è impossibile governare, la malinconia fa sentire forti i suoi effetti «quando il ritorno delle stesse ore e circostanze della vita, mi richiama alla memoria quelle di que’ giorni»243. Tanto nel Diario quanto nel Primo amore, l’automatismo della ricordanza prende avvio dall’ascolto della voce della donna amata, proprio nell’istante della sua partenza. Così Leopardi si esprime nel Diario del primo amore: «ho aspettato un buon pezzo coll’orecchio avidissimamente teso, credendo a ogni momento che discendesse la Signora, per sentirne la voce l’ultima volta, e l’ho sentita»244, analogamente nel Primo amore ai vv. 43-48 (Ed io timido e cheto ed inesperto, / ver lo balcone al buio protendea / l’orecchio avido e l’occhio indarno aperto, / la voce ad ascoltar, se ne dovea / di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse; / la voce, ch’altro il cielo, ahi, mi togliea) 245 , e nelle terzine successive, dove la potenza del desiderio di sentire quella voce abbaglia il poeta, e lo trae in inganno, fino a fargli credere di poterla riconoscere tra quelle che, in realtà, erano 242 Il diario del primo amore, p. 354. Ibidem. Il senso della citazione è analogo a quello espresso in Zib. 1455. 244 Ibidem. 245 Il primo amore, pp. 15-16. 243 94 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ le voci dei servi 246 , e poi, quando finalmente riesce a sentire il tanto sospirato suono della voce della donna amata, l’evento gli procura tutta una serie di reazioni fisiche descritte nei vv. 52-57 (orbo rimaso allor, mi rannicchiai / palpitando nel letto e, chiusi gli occhi, / strinsi il cor con la mano, e sospirai. / Poscia traendo i tremuli ginocchi / stupidamente per la muta stanza, / ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?)247. Ma la donna sta per partire, e in un attimo il presente è già passato, i giorni trascorsi sono già un ricordo e la voce della donna amata si è dissolta nell’aria, non prima però di avere azionato nell’animo del poeta il meccanismo della ricordanza (vv. 61-63: Amarissima allor la ricordanza / locommisi nel petto, e mi serrava / ad ogni voce il core, a ogni sembianza)248, che torna a far sentire i suoi effetti ogni qualvolta nell’arco della giornata si presentano circostanze simili a quelle vissute nei giorni dell’innamoramento, rendendo particolarmente sensibile l’animo del poeta, che dichiara: e durando il cuor mio più sensitivo assai dell’ordinario, e sempre sulle mosse, e voglioso di slanciarsi, non è dubbio che la musica, s’io ne sentissi in questi giorni, mi farebbe dare in ismanie e furori, e ch’io n’impazzirei dagli affetti; e l’argomento così dal consueto incredibile potere della musica sopra di me, come dalle spinte che mi davano al cuore certi vilissimi cantarellacci uditi a caso in questo tempo […]249. Nel componimento Il sogno, la lontananza della donna amata ha un motivo tragico, perché lei è morta; la sua immagine appare al poeta alle prime luci dell’alba tra il chiaroscuro delle persiane chiuse, e la sua Così nel commento di F. Flora: «il primo risuonar d’una voce poteva sembrare, ancora indistinto, il suono della voce attesa; ma l’animo del poeta era incerto, e poi subito deluso, quando s’accorgeva che la voce udita non era della sua donna». 247 Il primo amore, p. 16. 248 Ibidem. 249 Ibidem, p. 357. 246 95 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ voce, che ormai è solo un’eco dell’aldilà, gli domanda sospirando se conserva ancora la ricordanza del tempo passato insieme (vv. 10-13: Al capo / appressommi la destra, e sospirando, / vivi, mi disse, e ricordanza alcuna / serbi di noi?)250, dopo una serie di domande rivolte alla donna morta, e di sue risposte, di considerazioni e riflessioni sugli inganni della gioventù, Leopardi rifugge ancora una volta il presente, il doloroso presente, cercando conforto nella ricordanza (vv. 69-71: e mi soccorra / la rimembranza or che il futuro è tolto / ai nostri giorni)251. La protagonista del Sogno, identificata con Teresa Fattorini, è la stessa di A Silvia, e anche la modalità in cui si svolge il componimento è pressappoco analoga, con il poeta che, attraverso interrogativi e riflessioni sulle speranze della giovinezza prontamente deluse dall’avanzare dell’età, immagina di discorrere con la donna amata che, in entrambi i casi è morta, ma, nella prima situazione, appare al poeta nel sonno sotto forma di larva, nella seconda, è una presenza astratta da lui evocata con un atto volontario nel ricordo. Nella canzone A Silvia il concetto di ‘rimembranza’ si trova esplicitato in due luoghi, nell’incipit, dove compare il verbo al presente «rimembri» 252 inserito in un’interrogazione retorica con cui il poeta domanda alla donna se conserva ancora il ricordo della sua «vita mortale» 253 , della bellezza che splendeva nei suoi occhi «ridenti e fuggitivi»254 mentre percorreva il cammino che avrebbe dovuto condurla all’età adulta, e più avanti, con il verbo «sovviemi» inserito nell’asserzione dei vv. 32-35 (Quando sovviemmi di cotanta speme, / un affetto mi preme / acerbo e sconsolato, / e tornami a doler di mia 250 Il sogno, p. 18. Ibidem, pp. 18-19. 252 A Silvia, p. 26. 253 Ibidem. 254 Ibidem. 251 96 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ sventura) 255 . I versi che intercorrono tra un luogo e l’altro sono prevalentemente scanditi dalla voce di Silvia, il suo «perpetuo canto»256 che risuona per le stanze della casa, al contrario della «mesta melodia»257 del carrettiere nel Tramonto della luna, è un gioioso canto di gioventù che si alimenta di speranze e di illusioni sull’avvenire, ma è anche un canto soffocato, perché la giovinezza della protagonista, inconsapevole del triste destino che l’attende, non si avvia verso la delusione dell’età adulta, come avviene per il poeta, ma è preludio della morte (vv. 60-61: All’apparir del vero / tu, misera, cadesti) che, nella concezione leopardiana, significa annullamento totale della persona, con possibilità di sopravvivenza solo nel ricordo di quanti la conobbero. Un «solitario canto»258 è quello dell’artigiano nella Sera del dì di festa che ritorna a casa «dopo i sollazzi»259 della festa, e il suo risuonare nel cuore della notte è tutto ciò che sopravvive del frastuono della giornata festiva appena trascorsa, ed è, in questo senso, l’unico elemento che accomuna il ‘prima’ con il ‘dopo’. La sensazione sonora che giunge al poeta rappresenta lo stimolo per un passo indietro nella memoria individuale, ma soprattutto in quella storica, il silenzio della notte è paragonato all’inerzia del presente e in esso si consuma l’interrogativo del poeta, l’ ubi sunt? espresso ai vv. 3337 (Or dov’è il suono / di que’ popoli antichi? or dov’è il grido / de’ nostri avi famosi, e il grande impero / di quella Roma, e l’armi, e il fragorio / che n’andò per la terra e l’oceano?)260. Il rimpianto principale espresso da Leopardi, è dunque, quello dell’ ‘azione’ motivata negli antichi dal desiderio della gloria, nei versi citati non compare, tuttavia, il 255 Ibidem. Ibidem. 257 Il tramonto della luna, p. 16. 258 La sera del dì di festa, p. 17. 259 Ibidem. 260 Ibidem. 256 97 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ termine ‘guerra’, sebbene il poeta alluda esplicitamente ad essa 261, ma il senso è reso da perifrasi costruite con termini appartenenti alla sfera acustica, «suono», «grido», «fragorio», che sorreggono la similitudine tra la fine della festa di cui sopravvive una traccia nel canto dell’artigiano, e la fine dei tempi antichi di cui rimane solo un debole eco. La memoria, è il filo che congiunge le due parti di cui consta Il risorgimento, corrispondenti rispettivamente a due fasi dell’esistenza del poeta, una di totale aridità in cui sente che i suoi sentimenti, perfino il dolore, si sono raffreddati per sempre, e l’altra in cui le illusioni, i ‘beati errori’ si fanno di nuovo spazio nel suo cuore, scandite ai vv. 81-82, da una domanda che Leopardi rivolge a se stesso (Chi dalla grave, immemore / quiete or mi ridesta?)262. Il prima e il poi sono distinti, sul piano temporale, dall’avverbio «or» di v. 82, mentre, dal punto di vista del significato, l’attenzione va puntata sull’aggettivo «immemore» riferito a «quiete». La quiete di cui il poeta parla non è semplicemente calma, tranquillità, ma è sopore dei sentimenti durante il quale anche la memoria è spenta: la memoria della fanciullezza (vv. 3-4: i dolci affanni / della mia prima età), dell’amore (v. 13: Mancàr gli usati palpiti), dell’immaginazione (vv. 29-30: l’usate immagini / la stanca fantasia), del dolore (vv. 33-34: Fra poco in me quell’ultimo /dolore anco fu spento), del canto e del suono La rondinella vigile, alle finestre intorno cantando al novo giorno, il cor non mi ferì: non all’autunno pallido 261 262 Leopardi non parla di ‘guerra’, ma parla comunque di ‘armi’. Il risorgimento, p. 25. 98 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ in solitaria villa, la vespertina squilla, il fuggitivo Sol. Invan brillare il vespero vidi per muto calle, invan sonò la valle del flebil usignol. (vv. 45-54) […] In altri casi, è ancora una sensazione sonora ad evocare la rimembranza, c’è infatti un celebre passo, quasi in apertura dello Zibaldone, in cui Leopardi dice sento dal mio letto suonare (battere) l’orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio […]263. È un suono, dunque, il rintocco dell’orologio della torre, a destare nel poeta la memoria della fanciullezza in questo abbozzo poetico interrelato con il contenuto delle Ricordanze 264 , e non è rilevante stabilire se si tratti di un suono semplice e inarticolato oppure di un suono che si avvia a diventare qualche cosa di più265, il dato importante è che, 263 Zib. 36, corsivi miei. C. Galimberti nel suo saggio Leopardi: meditazione e canto, cit., p. LV, così definisce il componimento: «Le ricordanze sono il canto non solo delle memorie suscitate dal ritorno al borgo natìo, ma dell’eterno ritorno delle stagioni, del perenne ricomparire della vita - non solo degli individui - in uno scenario familiare ed eterno». 265 A questo proposito A. Folin in L’enigma della memoria, cit., p. 55, sostiene: «il battito è però, più che un semplice un rumore, un “suono” informale che si avvia a essere un canto, come appare non solo dalla correzione leopardiana, che precisa “battere” come più appropriato quasi avvedendosi di un lapsus, ma anche da altri luoghi, primo fra tutti il famoso “canto” dell’artigiano che “riede a tarda notte” nella Sera del dì di festa, il quale ha il potere di dischiudere le soglie del passato facendolo irrompere sul presente e rivelandone tutta l’intrinseca vanità». 264 99 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ grazie alla sua ritmicità che ripropone il percorso ciclico del tempo, questo suono è in grado di trasporre la sensazione del poeta dal piano del presente a quello del passato, non a caso espresso nel componimento dalla forma continuativa del verbo all’imperfetto (sento / sentiva), vale a dire che, secondo il principio affermato nello Zibaldone266, il rintocco attuale, e usuale, dell’orologio della torre rievoca nella memoria di Leopardi le sensazioni provate in passato mentre, diffondendosi nell’aria, giungeva al suo udito l’identico rumore. Ed ecco i corrispondenti versi delle Ricordanze Viene il vento recando il suon dell’ora dalla torre del borgo. Era conforto questo suon, mi rimembra, alle mie notti, quando fanciullo, nella buia stanza, per assidui terrori io vigilava, sospirando il mattin. Qui non è cosa ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro non torni, e un dolce rimembrar non sorga267. (vv. 50-57) […] L’immagine della «camera oscura» in cui si consumano i timori notturni del poeta fanciullo, è stata oggetto di un’interessante analisi da parte di Neuro Bonifazi 268 che ha ripercorso tutti i luoghi dell’opera leopardiana in cui essa compare, dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, ai Canti, agli accenni contenuti nell’Epistolario, ma ciò che in questa sede ci sembra più opportuno evidenziare, a proposito del ‘suono’ che scandisce il silenzio della stanza buia del poeta, è 266 Cfr. il già citato Zib. 1454. Le ricordanze, p. 27. 268 Cfr. N. Bonifazi , La «camera oscura», in Leopardi. L’immagine antica cit., pp. 6299. 267 100 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ l’interpretazione che Bonifazi fornisce nel suo saggio del passo di apertura dello Zibaldone datato «Luglio o Agosto 1817»269. All’esordio «Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante»270, congiunto con alcuni versi che descrivono l’immagine notturna del palazzo271, e la diffusione dei suoni provenienti dalla strada, lo stridore delle ruote del carro e il tintinnio dei sonagli, segue a catena la favoletta di Aviano, collegata ai versi precedenti, dalla congiunzione «Onde» che «mette in rapporto la minaccia della donna con l’abbaiare del cane, come se fosse la voce di un lupo, e col rumore stridulo del carro […]. La congiunzione non si riferisce ad Aviano, bensì alla donna, sia pure all’interno di una frase in cui Aviano è il soggetto più vicino all’“Onde”»272 Onde Aviano raccontando una favoletta dice che una donna di contado piangendo un suo bambolo, minacciogli, se non taceva che l’avrebbe dato da mangiare a un lupo. E che un lupo che a caso di là passava, udendo dir questo alla donna credettele che dicesse vero, e messosi innanzi all’uscio di casa così stette quivi tutto quel giorno ad aspettare che la donna gli portasse quella vivanda. Come poi vi stesse tutto quel tempo e la donna non se n’accorgesse e non avesse paura e non gli facesse moto con sasso o altro, Aviano lo saprà che lo dice. E aggiunge che il lupo non ebbe niente perché il fanciullo s’addormentò, e quando bene non l’avesse fatto non ci sarìa stato pericolo. E fatto tardi, tornato alla moglie senza preda perché s’era bloccato ad aspettare fino a sera, disse quello che nell’autore puoi vedere […]273. Secondo Bonifazi, la camera oscura, dalla quale il poeta può soltanto percepire suoni e rumori che alimentano le sue paure o la sua 269 Zib.1. Ibidem. 271 Il palazzo è quello dove Giacomo vive, è il palazzo dei conti Leopardi. 272 N. Bonifazi, La «camera oscura» cit., p. 65. 273 Zib. 1. 270 101 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ immaginazione «è sentita come il luogo dell’esecuzione punitiva da parte dei genitori, e in particolare del padre, motivata dalla solitudine e dall’oscurità che impedisce di vedere (“lasciato solo” al buio), e dalla minaccia di divoramento, che viene dai rumori esterni, in seguito ai racconti della balia, o di chi per lei; è il luogo dove si è provocata, fin dall’inizio, la colpevolizzazione nel bambino del suo desiderio di piacere, che si è reso irrealizzabile per sempre […]»274. I suoni provenienti dall’esterno descritti nella prima pagina dello Zibaldone, assumono all’interno della camera oscura, la funzione di stimoli per la rimembranza: l’abbaiare del cane che, assimilato all’ululare minaccioso del lupo, rappresenta metaforicamente la paura della morte, costituisce una chiave di accesso alla memoria delle numerose “angosce infantili” del poeta, mentre l’immagine successiva, quella del rumore delle ruote del carro del «passegger» e del «tintinnío de’mobili sonagli» sarà riutilizzata da Leopardi nei vv. 22-24 della Quiete dopo la tempesta (e, dalla via corrente, odi lontano / tintinnio di sonagli; il carro stride / del passegger che il suo cammin ripiglia)275 con una variazione di significato, infatti, nella Quiete, il suono proveniente dall’esterno non scandisce più un pauroso quadro notturno, ma fa da sfondo alla dilettosa immagine dello scampato pericolo della tempesta che consente al passeggero con il carro di riprendere il suo cammino. Anche i vv. 40-46 della Sera del dì di festa (Nella mia prima età, quando s’aspetta / bramosamente il dì festivo, or poscia / ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, / premea le piume; ed alla tarda notte / un canto che s’udia per li sentieri / lontanando morire a poco a poco, / già similmente mi stringeva il core) sono caratterizzati da una cornice pressoché identica a quella descritta nello Zibaldone dove il poeta si trova sveglio nel suo letto, in piena notte, e sente un suono che non è un 274 275 N. Bonifazi, La «camera oscura» cit., p. 89. La quiete dopo la tempesta, p. 30. 102 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ rumore inarticolato, bensì un ‘canto’ vero e proprio proveniente da una voce umana, ma, esattamente come quel rumore, anche il canto dell’artigiano evoca «un altro ricordo pauroso della fanciullezza, un ricordo che stringe il cuore»276. Nel Tramonto della luna ai vv. 15-22 (orba la notte resta, / e cantando, con mesta melodia, / l’estremo albor della fuggente luce, / che dianzi gli fu duce, / saluta il carrettier dalla sua via; tal si dilegua, e tale / lascia l’età mortale / la giovinezza), il canto del carrettiere non scandisce, come nei casi precedenti, il buio profondo, perché il momento qui rappresentato è quello del crepuscolo, ed è un canto triste perché in esso c’è la consapevolezza del «dileguarsi della giovinezza e della vita»277. 276 277 N. Bonifazi, La camera oscura cit., p. 66. Ibidem. 103 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ § II.3 BELLEZZA E MUSICA. LA CADUCITÀ DELLE COSE UMANE Tutto noia si fa, l’amore e il suono E i dolci canti e i graziosi balli (dice Omero) Nel discorso che segue non si guarderà alla bellezza nel senso della ricerca estetica del ‘bello’ ideale278, ma si farà riferimento ad un preciso genere di bellezza, che è quella femminile, associata da Leopardi, come del resto da tutta la tradizione poetica occidentale, al desiderio amoroso. L’amore inteso come «imperio della bellezza» 279 è, altresì, collegato alla musica, per la sublimità delle sensazioni che entrambi sono capaci di suscitare nell’animo umano, e per la consapevolezza che, come la perfezione nella musica si regge su un delicatissimo equilibrio fra i suoni, e se tale equilibrio viene meno anche in una sua minima parte, l’intera musica si scompone, così la bellezza e l’amore, che sono prerogative esclusive della giovinezza, si dissolvono insieme ad essa dopo una brevissima fase dell’esistenza umana. È molto amara per l’uomo la consapevolezza che la gioventù finisce quando ci si affaccia ad una determinata soglia d’età, e più drammatica è l’impotenza di fronte alla trasformazione del proprio corpo, alla decadenza fisica, alla vecchiaia che conduce inesorabilmente alla morte passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell’appassimento del fiore dei giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù […]280 278 Oltre a quanto si è già detto in I.2 del presente lavoro, si veda il saggio di B. Reizov, L’estetica di Leopardi, in Leopardi, arte e verità, a cura di C. Ferrucci, Roma, Bonacci, 1990, pp. 103-125. 279 Diario del primo amore, p. 353. 280 Zib. 4287. 104 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ Al centro del discorso di Leopardi c’è, dunque, la «perdita» della gioventù che assumerà nella sua opera, il doppio significato di ‘morte della gioventù’, nel senso di dissoluzione della bellezza e di conclusione di quel periodo della vita in cui si è più disposti alle illusioni e si mira, di conseguenza, al raggiungimento della felicità, e di ‘morte nella gioventù’, ovvero di giovani vite spezzate tragicamente. In questa direzione si è mossa di recente la ricerca di Emilio Giordano che, nel suo intervento al convegno su Leopardi e l’età romantica281 , ha sostenuto il confronto fra il poeta recanatese e il suo contemporaneo poeta inglese John Keats, in un modo piuttosto originale. Infatti, laddove la critica precedente aveva voluto individuare, come tratto comune tra i due poeti, il rimpianto per il mondo classico e la nostalgia per le «favole antiche»282, che caratterizzano gli scritti giovanili di Leopardi, e in particolare il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, oppure evidenziare i richiami che avvicinano il componimento leopardiano Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, alla keatsiana Ode on a Grecian Urn283 , Giordano ripercorre tutti i luoghi delle rispettive opere in cui è trattato il tema della «giovinezza spenta», puntando sul tema leopardiano della corrispondenza tra ‘disfacimento della bellezza’ e ‘morte’, che assume toni analoghi anche in Keats, dacché «la beauty keatsiana non vive come vuota immagine da cui tragga 281 Cfr. E. Giordano, La «giovinezza spenta» e altro: fra Keats e Leopardi, in Leopardi e l’età romantica, a cura di M. A. Rigoni, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 359-369. 282 A proposito, Giordano indica i seguenti interventi: G. Hough, Tra Keats e Leopardi, in «Il Veltro», 2, aprile 1971; F. Spera, Il canto delle favole antiche, in Leopardi e il mondo antico cit., pp. 607-616; A. Prete, Leopardi e la favola antica, in Omaggio a Leopardi, a cura di F. Foschi e R. Garbuglia, Abano Terme, Francisci, 1987, pp. 475488; L. Felici, Le «favole antiche» di Giacomo Leopardi, in Mito e letteratura dall’Arcadia al Romanticismo, a cura di P. Gibellini, Roma, Tibergraph Editrice, 1993, pp. 101-126. 283 Brevi notazioni sull’argomento si trovano in: G. Hough, Tra Keats e Leopardi cit., pp. 191-192; E. Cecchi, I grandi romantici inglesi, vol. II, Milano, Adelphi, 1981, p. 450; A. Ferraris, L’ultimo Leopardi. Pensiero e poetica 1830-1837, Torino, Einaudi, 1987, p. 74; G. Padovani, La prima canzone sepolcrale di Giacomo Leopardi, Enna, Edizioni Papiro, 1989, pp. 17-18; M. Dell’Aquila, La linea d’ombra. Note sulla elegia di Leopardi, Fasano, Schena, 1994, p. 204; L. Blasucci, I tempi dei «Canti» cit., p. 210. 105 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ linfa un freddo estetismo, per la chiara consapevolezza nel poeta delle forze che la minacciano; anzi, sembra proprio che – nell’immaginario poetico di Keats – il tema del disfacimento e della morte si imponga come una sorta di polo contrapposto rispetto a quello della bellezza […]»284. Riguardo la bellezza femminile, Leopardi si sofferma, in un celebre passo dello Zibaldone, su due categorie di donne il cui tipo di bellezza si diversifica in base a un criterio d’età: una donna di venti, venticinque o trenta anni ha forse più d’attraits, più d’illecebre, ed è più atta a ispirare, e maggiormente a mantenere, una passione […]. Ma veramente una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto questo ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder quell’oggetto […]285. La prima categoria di donne di cui parla Leopardi, quelle di età compresa tra i venticinque e i trent’anni, include figure femminili come Saffo, condannata all’infelicità dalla sua bruttezza fisica, e l’Elvira del 284 285 E. Giordano, La «giovinezza spenta» e altro cit., p. 362. Zib. 4310-4311. 106 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ Consalvo «per divina beltà famosa»286, la cui opposizione si manifesta anche nella rappresentazione chiastica che il poeta fa dei loro destini, Saffo è innamorata non corrisposta, mentre Elvira è oggetto dell’amore di Consalvo senza saperlo, Saffo muore per amore, mentre Elvira assiste alla morte del suo innamorato. La seconda categoria è, invece, quella rappresentata dalle giovinette tra i sedici e i diciotto anni, le cui espressioni, atteggiamenti, movimenti, voci, e la cui ingenuità ispirano sensazioni sublimi, inesprimibili con le parole, sentimenti che non implicano necessariamente l’innamoramento inteso come desiderio carnale, ma si manifestano in una forma di desiderio-ammirazione verso la condizione di persona di giovane età, piuttosto che verso la giovinetta in quanto persona amata, e nello stesso tempo, di compassione al «pensiero dei patimenti che l’aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze […]»287. La rappresentante per eccellenza di questa categoria è la figura poetica di Silvia che, grazie all’«aggiustamento anagrafico»288 operato da Leopardi, si presenta appunto nelle vesti di un’adolescente di età compresa fra i sedici e i diciotto anni, e non già di una ventunenne come era Teresa Fattorini, sulla cui identità reale si fonda l’identità poetica della protagonista del celebre componimento, e che in quanto tale, ispira nel poeta tutte le sensazioni descritte nel passo appena citato dello Zibaldone, che costituisce la chiosa poetica di A Silvia. 286 Consalvo, p. 20. Zib. 4311. 288 L. Blasucci, Genesi e costruzione di «A Silvia», in Lo stormire del vento tra le piante cit., p. 137. 287 107 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ «Vagheggiare, bellissimo verbo»289, dice Leopardi, che significa aspirare a un piacere indefinito, come è quello che la giovinetta Silvia suscita in lui, a una tensione positiva verso le sue stesse speranze e illusioni, ottenebrate e spente «all’apparir del vero»290. Nel componimento, la fase del vagheggiamento, espressa attraverso la rievocazione della fresca bellezza e del canto di Silvia, cui fa da sfondo un rasserenante scenario primaverile (v. 14: Era il maggio odoroso), culmina nell’affermazione dei vv. 26-27 (Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno), e nella doppia esclamazione dei vv. 2831 (Che pensieri soavi, / che speranze, che cori, o Silvia mia! / Quale allora ci apparia / la vita umana e il fato!) che prelude ad una interrogazione rivolta direttamente dal poeta alla natura, sul senso dell’inganno perpetrato ai danni dell’umanità (vv. 36-39: O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?). Il momento della compassione, che coincide con i vv. 40-48 (Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, / da chiuso morbo combattuta e vinta, / perivi, o tenerella. E non vedevi / il fior degli anni tuoi; / non ti molceva il core / la dolce lode or delle negre chiome, / or degli sguardi innamorati e schivi; / né teco le compagne ai dì festivi / ragionavan d’amore) si svolge all’insegna del rammarico per la morte della «tenerella» che, in uno scenario di autunno inoltrato, che coincide metaforicamente col «limitare di gioventù», e in questo caso della vita stessa, perisce dopo essere stata «combattuta e vinta» da un morbo che il poeta definisce «chiuso», «occulto» nella variante autografa del testo, non tanto nell’accezione di malattia che consuma lentamente e inesorabilmente la vita della protagonista, quanto in quella di male «misterioso», perché 289 290 Zib. 4287. A Silvia, p. 26. 108 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ «comprende il fato, la natura contro cui la fanciulla combatte e soccombe»291. Nella strofa successiva, ai vv. 49-55 (Anche peria fra poco / la speranza mia dolce: agli anni miei / anche negaro i fati / la giovanezza. Ahi come / passata sei, / cara compagna dell’età mia nova, / mia lacrimata speme!), si passa dalla compassione all’immedesimazione del poeta nel destino di Silvia, sorretta dal doppio uso, al v. 49 e al v. 51, della congiunzione «anche», a sottolineare che per entrambi si è conclusa la fase della gioventù portando via con sé ogni illusione e ogni speranza per il futuro, solo che per Silvia la fine della gioventù coincide con la morte e con la conseguente cessazione di ogni dolore spirituale e fisico, per il poeta equivale, invece, alla perdita della vitalità che lascia spazio solo alla sofferenza, come lasciano intendere chiaramente l’interiezione di dolore «ahi» del v. 52, e l’invocazione sconsolata rivolta alla speranza «compagna» della gioventù, che lo ha abbandonato per sempre. Rispetto al passo di riferimento dello Zibaldone, anche in A Silvia si passa, secondo Blasucci «dal vagheggiamento […] alla “compassione”, e da questa all’immedesimazione. [….] solo che qui alla previsione dei patimenti che attendono la fanciulla si sostituisce la realtà della sua morte. La vicenda di Silvia, con la sua parabola luminosa e fugace, diventa così emblematica della stessa vicenda della giovinezza e delle sue speranze, destinate a cadere “all’apparir del vero”»292 . E si può aggiungere che, nella parte finale ai vv. 56-63 (Questo è quel mondo? questi / i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi / onde cotanto ragionammo insieme? / questa la sorte dell’umane genti? / All’apparir del vero / tu, misera, cadesti: e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano), all’immedesimazione subentra la ‘condivisione’ del poeta per la sorte che accomuna tutta l’umanità, la 291 292 W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973. L Blasucci, Genesi e costruzione di «A Silvia», in Lo stormire del vento cit., p. 138. 109 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ consapevolezza della vanità del tutto, la dissoluzione della speranza, e infine la morte. Caratteristiche analoghe sono quelle che avvicinano a Silvia, Nerina, la protagonista femminile delle Ricordanze: molto probabilmente anche dietro la figura poetica di Nerina si cela la persona reale di Teresa Fattorini, entrambe sono rappresentate come fanciulle di giovanissima età, ed entrambe sono contrassegnate da un destino di morte prematura, ma «Silvia è più propriamente un’immagine […], oggettivata della giovinezza del poeta e del fato immaturo che a quella toccò; Nerina è più specialmente la donzella che sorride all’adolescente, è l’amore, è la più potente illusione di quei giorni vezzosi, inenarrabili, alla quale il poeta, ridestato alla virtù degli affetti, torna a volgersi con anelito doloroso»293. A partire dal v. 136, fino alla chiusa della poesia, Leopardi si rivolge direttamente a Nerina in un crescendo di domande retoriche (vv. 136-140: O Nerina! e di te forse non odo / questi luoghi parlar? caduta forse / dal mio pensier sei tu? / Dove sei gita, / che qui sola di te la ricordanza / trovo, dolcezza mia?; e vv. 144-148: Ove sei, che più non odo / la tua voce sonar, siccome un giorno, / quando soleva ogni lontano accento / del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto / scolorarmi?)294 che trovano risposta unicamente nella considerazione che i tempi rammemorati sono necessariamente ‘altro’ rispetto al presente (v. 148: Altro tempo), che lei è ‘passata’ come il tempo, senza possibilità di ritorno (vv. 148-149: I giorni tuoi / furo, mio dolce amor. Passasti), ma è passata prematuramente senza ‘trascorrere’ le varie fasi della vita. E se di Silvia viene elogiata la bellezza fisica, attraverso la «dolce lode delle negre chiome»295, di Nerina è messa in rilievo la grazia, che di per sé ispira sensazioni sublimi e può accendere le più grandi passioni, 293 Cfr. il commento alle Ricordanze, in G. Leopardi, I Canti, a cura di A. Straccali cit., p. 190, nota n. 136. 294 Le ricordanze, p. 28. 295 A Silvia, p. 26. 110 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ attraverso la descrizione del suo procedere quasi a passo di danza (v. 153: Ivi danzando), coerentemente con le considerazioni sul ballo espresse da Leopardi nella già citata lettera al fratello Carlo del 5 febbraio 1823, e con il passo dello Zibaldone datato 4-9 agosto 1820, in cui afferma che: lo svelto, il leggero, parimente ha a che far colla grazia. E notate che i movimenti molli e leggeri di una persona di taglio svelto, sono graziosi senza sorpresa, giacché non è strano che i moti di una tal persona sieno facili e leggeri […]296. La grazia e la bellezza, non solo per quanto riguarda la forma umana, ma anche gli oggetti, le parole e l’arte, hanno in comune fra loro la relatività, percui il modo di intendere entrambe varia da soggetto a soggetto, ma, spiega Leopardi, la bellezza rispetto alla grazia crea un’impressione immediata nel soggetto che la percepisce, il quale resta appagato già al primo impatto e non desidera di poter scoprire altre qualità nascoste in quell’oggetto, al contrario, la grazia ha il privilegio di sorprendere chi la osserva perché mostra man mano di sé delle qualità che a prima vista non appaiono. La grazia solletica la curiosità, ma solo la bellezza scuote l’animo «fortemente come la scintilla elettrica»297, ed è proprio in questo senso che la subitaneità dei suoi effetti può essere paragonata alle sensazioni prodotte nella musica dal suono «il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco»298 , e «al primo istante […] basta ad aprire e scuotere l’animo umano»299. Bellezza e musica agiscono direttamente, non solo sulla sfera generale dei sentimenti, ma incidono, più specificamente, sul sentimento amoroso. La musica, aiuta la mente a produrre degli spazi immaginari 296 Zib. 202. Zib. 198. 298 Zib. 155. 299 Zib. 1935. 297 111 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ entro i quali si alimenta l’illusione di felicità degli amanti: è cantando che Silvia manifesta la contentezza per il «vago avvenir» che ha in mente, mentre nel poeta che ascolta il suo canto si accendono «pensieri soavi» e «speranze»; è il suono della voce di Nerina, che scuote così fortemente il poeta da farlo addirittura impallidire (vv. 144-148: Ove sei, che più non odo / la tua voce sonar, siccome un giorno, / quando soleva ogni lontano accento / del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto / scolorarmi?); è il canto dell’agricoltore che risuona per le valli a destare, nella canzone Alla sua donna, il rimpianto per le illusioni, le speranze, e i desideri giovanili che hanno ormai abbandonato il poeta, e il pensiero della donna amata che fa riprendere a palpitare il suo cuore (vv. 34-41: Per le valli, ove suona / del faticoso agricoltore il canto / ed io mi seggo e mi lagno / del giovanile error che m’abbandona; / e per li poggi, ov’io rimembro e piagno / i perduti desiri, e la perduta / speme de’ giorni miei; / di te pensando, / a palpitar mi sveglio)300. La bellezza crea, invece, una sensazione di «spavento» che consiste nella prefigurazione dell’ipotesi di non riuscire mai a possedere l’oggetto del proprio desiderio, o di perderlo dopo averlo posseduto, il che significa, soprattutto per un giovane inesperto, smarrire il senso della propria esistenza è proprio dell’impressione che fa la bellezza […] su quelli d’altro sesso che la veggono o l’ascoltano o l’avvicinano, lo spaventare […]. E lo spavento viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento pare impossibile di star mai più senza quel tale oggetto […]. Tutto questo accade principalmente (e oggimai unicamente) ai giovani prima d’entrar nel mondo, o sul lor primo ingresso (talvolta, e non di rado, ancora ai fanciulli). I quali e son più suscettibili di vivezza d’impressione e di vivezza di desiderio ec., e sono inesperti del quanto presto e facilmente l’amore o si dilegui o si soddisfaccia, e 300 Alla sua donna, p. 22. 112 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ del come; e che al mondo non v’ha cosa veramente amabile; e di quanto sia facile ottenere ogni cosa ch’ei brama da quegli oggetti ch’ei stima inaccessibili ec. ec. […]301. Il passo appena citato dello Zibaldone, datato 16 settembre 1823, è la chiosa poetica del componimento Il primo amore, dove il sostantivo ‘spavento’, nel contesto della descrizione degli effetti contrastanti suscitati dalla passione amorosa nell’animo di un giovane amante, ovvero il piacere intenso di provare un sentimento nuovo e, al contempo, la perdita della propria serenità, è utilizzato come oggetto di un’interrogazione, rivolta dal poeta al proprio cuore, e finalizzata a comprendere la causa di tale doloroso contrasto (vv. 8-15: Perché seco dovea sì dolce affetto / recar tanto desio, tanto dolore? / e non sereno, e non intero e schietto, / anzi pien di travaglio e di lamento / al cor mi discendea tanto diletto? / Dimmi, tenero core, or che spavento, / che angoscia era la tua fra quel pensiero / presso al qual t’era noia ogni contento?)302. Talvolta, come si è visto, lo ‘spavento’ dipende dal pensiero di non riuscire più a fare a meno di un oggetto che in realtà non si potrà mai possedere, e in questo caso, l’angoscia e il dolore si trasformano in desiderio di morte, come avviene nell’Ultimo canto di Saffo di cui è protagonista la leggendaria poetessa greca che, respinta dal suo amato Faone, si suicida precipitandosi dalla rupe di Leucade. La bellezza si configura per Saffo come una doppia mancanza che turba la sua esistenza, da una parte c’è, infatti, la bellezza irraggiungibile di Faone, e dall’altra l’«infinita beltà»303 dell’universo di cui il destino non le ha concesso neanche una parte ‘finita’, relegandola al ruolo di sgradita ospite («vile […] e grave ospite») della natura, e di 301 Zib. 3443-3446, corsivi miei. Il primo amore, p. 15. 303 L’ultimo canto di Saffo, p. 14. 302 113 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ amante non contraccambiata («dispregiata amante»), a cui è precluso ogni diletto, e non perché, come troviamo espresso letteralmente nel testo, le fonti di piacere della natura fuggano da lei (vv. 27-36: A me non ride / l’aprico margo, e dell’eterea porta / il mattutino albor; me non il canto de’ colorat augelli, e non de’ faggi / il murmure saluta: e dove all’ombra / degli inchinati salici dispiega / candido rivo il puro seno, al mio / lubrico piè le flessuose linfe / disdegnando sottragge, / e preme in fuga l’odorate spiagge), ma perché manca in lei lo stato d’animo adeguato e la predisposizione a godere dello spettacolo della natura che normalmente dà sollievo ai sensi, pertanto, il male che affligge Saffo, è sofferenza psicologica, è autoesclusione dal contesto esistenziale. Nella visione leopardiana degli anni ’20, e il componimento in questione è del ’22, la natura appare come un’entità creatrice e distruttrice, indifferente nel bene e nel male, alla sorte delle proprie creature, come risulta dal quasi coevo Dialogo della Natura e di un Islandese (1824), in cui l’Islandese, rappresentante emblematico dell’umanità, che dopo aver attraversato tutti i luoghi della terra per sfuggire alla potenza incontrastata della natura, se la trova improvvisamente davanti nelle vesti di una donna di «forma smisurata […]; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi»304, e avendole chiesto il perché di tanta sofferenza e di tanti pericoli che insidiano continuamente l’uomo sulla terra, così si sente rispondere: Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie […] sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità […]. 304 Dialogo della Natura e di un Islandese, p. 114. 114 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ Islandese. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? O mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva consentirlo né ripugnarlo, tu stessa con le tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura. Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circolo di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento305. L’interrogativo dell’Islandese è analogo a quello di Saffo che, nel tentativo di comprendere la causa del proprio dolore, ai vv. 37-44 si chiede: Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso macchiommi anzi il natale, onde sì torvo il ciel mi fosse e di fortuna il volto? in che peccai bambina, allor che ignara di misfatto è la vita, onde poi scemo di giovinezza, e disfiorato, al fuso dell’indomita Parca si volvesse il ferrigno mio stame? […] 305 Ibidem, pp. 116-117. 115 L’idea di musica attraverso alcune linee fondamentali della poetica leopardiana ______________________________________________________________________ La risposta che la protagonista si dà, esclude l’ipotesi di qualsiasi responsabilità personale negli eventi che determinano i destini soggettivi, e culmina nella duplice sentenza che «Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor», e che «per virili imprese, per dotta lira o canto, virtù non luce in disadorno ammanto», onde risulta evidente che, se le azioni virtuose degli uomini e l’esercizio stesso delle arti, sono così indissolubilmente associati alle qualità esteriori del corpo, essendo queste estremamente caduche, anche i valori sono destinati a dissolversi con esse. Nella poetessa lirica Saffo, Leopardi vede incarnato l’ideale artistico, caratteristico del mondo greco, in cui poesia e musica si fondono, da lui propugnato fino al punto di attribuire il titolo di Canti ad una raccolta completa di poesie, e di ricorrere, non a caso, al ‘canto’ di Saffo per ribadire l’efficacia di tale connubio. 116 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ CAPITOLO TERZO LA MUSICA NEI CANTI Si è visto, nel capitolo precedente, come i principali temi della riflessione sulla musica si intessono insieme ai capisaldi della poetica leopardiana: cercheremo adesso, attraverso l’analisi di alcuni Canti, di evidenziare come i concetti espressi da Leopardi a livello teorico, trovino un’applicazione diretta nella sua poesia. A tal fine, prenderemo in esame L’Infinito e La vita solitaria, per evidenziare le modalità attraverso cui le sensazioni sonore producono gli effetti vago-indefiniti caratteristici della poesia leopardiana, Alla Primavera o delle favole antiche e Il passero solitario, per spiegare la funzione del suono nell’evocazione del passato e del ricordo, e infine, Aspasia e Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, per sostenere il legame che intercorre tra bellezza umana e musica. § III.1 L’Infinito e La vita solitaria Attraverso la figura di Saffo, Leopardi, non soltanto esprime la rievocazione nostalgica dell’antico nesso fra poesia e musica, definitivamente scisso nella modernità, ma ribadisce ancora una volta l’esigenza di un tipo di poesia che punti a quella naturalezza, semplicità e immediatezza che sono effetti spontanei della musica, grazie alla funzione del suono, e che, nella poesia degli antichi erano elementi caratterizzanti, sostituiti poi dalle ricercatezze e dagli artifici propri della poesia moderna, «Leopardi conduce il suo esercizio poetico nel segno 117 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ dell’immaginazione, rifacendosi al modello degli antichi, pur nella consapevolezza che quel mondo è perduto per sempre»306. Nella poetica leopardiana, ferma restando la consapevolezza che l’autenticità della poesia antica, sia per quanto riguarda i contenuti che lo stile, è ormai irrecuperabile sul piano storico, la riproduzione degli effetti ad essa connessi, non si risolve in una mera imitazione dei classici 307, ma consiste in ciò che potremmo definire un ‘paradosso leopardiano’ 308 , ovvero nella creazione di un artificio tutto moderno, basato sulla negligenza e sull’innovazione metrica, che consente alla poesia antica di rivivere su un piano squisitamente fittizio. E così Leopardi, poeta moderno, professa la sua scelta: perdòno dunque se il poeta moderno segue le cose antiche, se adopera il linguaggio e lo stile e la maniera antica, se usa eziandio le antiche favole ec., se mostra di accostarsi alle antiche opinioni, se preferisce gli antichi costumi, usi, avvenimenti, se imprime alla sua poesia un carattere d’altro secolo, se cerca in somma o di essere, quanto allo spirito e all’indole, o di parere antico […]309. Se la finzione, è già di fatto mescolata al tessuto poetico delle due Canzoni, All’Italia e L’ultimo canto di Saffo in cui, attraverso i monologhi affidati direttamente ai protagonisti Simonide e Saffo, si realizza l’attualizzazione del mito, nel primo idillio, L’Infinito, essa scaturisce da un atto volontario del poeta, che al v. 7 dichiara E. Gioanola, L’Infinito e dintorni, da Leopardi, la malinconia, Milano, Jaca Book, 1995, p. 253. 307 Si veda a proposito il paragrafo Uno stile ch’essendo classico e antico paia moderno…, in Leopardi. La retorica e lo stile, a cura di M. Manotta, Firenze, Accademia della Crusca, 1998, pp. 98-130. 308 Cfr. a proposito L. Felici, Un canto dal nulla, Introduzione ai Canti, Roma, Newton & Compton, 1996, pp. VII-XXXVI: «constatato il nulla universale, abbandonate le “favole antiche” perché irrevocabili, la poesia di Leopardi nasce sotto il segno della precarietà, come paradosso, scommessa, tentazione: nasce quando il poeta ha decretato la morte della poesia. Anche in ciò la cifra della sua straordinaria modernità» (p. XXII). 309 Zib. 2946. 306 118 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ esplicitamente: «io nel pensier mi fingo», e risulta così tematizzata all’interno del contenuto stesso del componimento: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare 310. Secondo la lettura proposta da Michel Orcel, volta più a cogliere, come hanno fatto per primi Francesco De Sanctis311 e Adriano Tilgher312, il ‘significato religioso’ insito nell’esperienza dell’infinito, il componimento consta di quattro tempi: «il primo tempo (v.1-3) è l’impostazione del soggetto in una situazione di esclusione, di isolamento; il secondo (v. 4-7) è la formazione di uno spazio mentale infinito e silenzioso; il terzo (v. 7-13) è la trasmutazione di questo spazio operata dalla manifestazione del vento; il quarto (v. 13-15) l’abolizione felice del pensiero»313. L’Infinito, p. 17. Cfr. F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, Roma, Editori Riuniti, 1983. 312 Cfr. A. Tilgher, La filosofia di Leopardi, Bologna, Boni, 1979. 313 M. Orcel, Il suono dell’Infinito, in Leopardi, arte e verità cit., p. 61. 310 311 119 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ Quattro tempi che corrispondono ad altrettanti stadi in cui si consuma una vera e propria esperienza mistica del soggetto, prima avvolto nel silenzio assoluto della meditazione, poi attirato dallo stormire del vento che si manifesta come ‘voce’ della divinità, e infine estasiato nella dolcezza del naufragio: tutto L’infinto deve dunque essere decifrato a partire dall’esperienza centrale, “numinosa”, della Voce e del vento. E così si spiegano l’ouverture celatamente religiosa – che prepara l’epifania del vento tramite l’ascensione di un monte deserto (“ermo”), dove il soggetto si trova isolato, escluso – e il finale della poesia, dove l’annientamento del pensiero si manifesta nella tematica mistica dell’immersione […]314. Ma se il valore dell’Infinito si gioca tutto intorno al significato da attribuire alla voce del vento, bisognerà forse evitare di ricercare questo significato all’esterno dell’ambito prettamente poetico in cui si svolge l’idillio. La finzione dichiarata nel v. 7, non riguarda in maniera circoscritta solo L’Infinito, ma è ‘programmatica’ nel senso che annuncia gli itinerari della futura produzione poetica leopardiana, pertanto, quell’«io mi fingo» può essere considerato equivalente ad un «io mi immagino»315, affermazione che chiama in gioco proprio quella «facoltà immaginativa» di cui Leopardi parla nella sua ‘teoria del piacere’, che sopperisce alla perdita delle illusioni e genera sensazioni vago-indefinite. Nello Zibaldone, come si è visto, il poeta teorizza l’esistenza di due categorie di sensazioni vago-indefinite, una di natura visiva e l’altra 314 Ibidem, pp. 69-70. Nell’edizione dei Canti curata da N. Gallo e C. Garboli, Torino, Einaudi, 1972, p. 105, nota n. 7, l’affermazione è spiegata con: «cerco di immaginare con la mia fantasia»; nel commento ai Canti a cura di A. Straccali cit., p. 38, nota n. 7, «fingo» è spiegato letteralmente con «immagino». 315 120 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ di natura uditiva, rintracciabili sul piano poetico, rispettivamente, ai vv. 1- 7½ e 7½ -15 dell’Infinito. Nella prima parte del componimento è la siepe che, occultando allo sguardo la linea dell’orizzonte, genera «le immaginazioni dell’infinito […], per cui lo spazio vasto dal colle all’orizzonte si trasforma (nella mente) in uno spazio illimitato, anzi per usare l’espressione del ’19, “interminato”»316, e in questo senso, la siepe come l’«ermo colle» che corrisponde geograficamente al Monte Tabor 317 , lungi da qualsiasi intento metaforico, sono impiegate nel senso concreto di luoghi familiari al poeta che contribuiscono a rendere quell’idea di quotidianità e di consuetudine che caratterizza gli idilli318, consuetudine che nega alla rivelazione dell’infinito lo statuto di esperienza eccezionale e irripetibile, additandola come risultato di un processo mentale il cui ingranaggio si aziona quasi automaticamente ogni volta che il poeta si trova si trova di fronte a quella veduta. A riprova di questo interviene anche la posizione incipitale dell’avverbio «sempre» che esprime la ripetizione nel tempo dell’esperienza descritta, e il verbo «fu» al passato remoto «l’unico in un testo tutto costruito al presente» che «anziché puntualizzare il dato nel tempo, lo discioglie nella prospettiva di una durata indefinita»319. La rappresentazione del poeta che, ‘impedito’ rispetto alla realtà circostante, travalica i limiti spazio-temporali grazie all’immaginazione, è una situazione topica all’interno dei Canti, ma nell’Infinito può Cfr. L. Blasucci, Paragrafi sull’«Infinito», in Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 102. 317 Cfr. G. Leopardi, I Canti, a cura di A. Straccali cit., p. 37, nota n. 1, a proposito del monte Tabor che «oggidì […] ridotto a passeggio pubblico e frequentatissimo, ha perduto la vaga rozzezza e in parte anche la forma natìa; ma a’ tempi del poeta, che volentieri vi si recava a diporto, e vi si tratteneva fuor della vista della gente, era veramente ermo [romito], folto di alberi e irto di sterpi a maniera di siepi». 318 Cfr. N. Merola, Leopardi e il sapere poetico, in Poesia italiana moderna cit., p. 155. 319 Cfr. L. Blasucci, Paragrafi sull’«Infinito», in Leopardi e i segnali dell’infinito cit., p. 97. 316 121 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ diventare ‘occasione’, per la particolare intensità con cui il pensiero si compenetra negli «interminati spazi», «sovrumani silenzi» e «profondissima quiete», fino quasi a perdersi in quella sensazione di infinito («ove per poco il cor non si spaura»). Nella seconda parte del componimento la voce del vento richiama alla realtà il pensiero del poeta che immediatamente formula il paragone (vo comparando) tra il dato attuale e concreto che è lo stormire del vento, e il dato irreale che è il silenzio, aggettivato prima con “sovrumano” poi con “infinito”, che lui poco prima stava immaginando, un paragone che si impernia sulla piacevolezza delle sensazioni destate da solitudine e silenzio, e all’opposto, dal suono, come è descritto in due diversi passi dello Zibaldone a ciò che ho detto altrove delle voci ermo, eremo, romito, hermite, hermitage, ghermita ec., tutte fatte dal greco έρημος , aggiungi lo spagnolo ermo, ed ermar (con ermador ec.) che significa desolare, vastare, appunto come il greco έρημοω […]. Queste voci e simili sono tutte poetiche per l’infinità o vastità dell’idea ec. ec. Così la deserta notte, e tali immagini di solitudine, silenzio ec. […]320 è piacevolissima ancora […], la vista di una moltitudine innumerabile […], un moto molteplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec., che l’animo non possa determinare, né concepire definitamene e distintamente ec., come quello di una folla, o di un gran numero di formiche o del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati, e non distinguibili l’uno dall’altro ec. ec. ec. […]321. Le due parti del componimento sono costruite in modo speculare tra loro: nella prima parte, le sensazioni vago-indefinite traggono origine 320 321 Zib. 2629. Zib. 1746-1747 corsivo mio. 122 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ dall’atto del “mirare”, da una determinata posizione, cioè «sedendo», il confine fra la siepe e il cielo, all’opposto di quanto espresso nello Zibaldone: ponetevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna, o considerando il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra, ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista […]322; nella seconda parte, il verbo “mirare” è sostituito dal verbo “udire”, pertanto, alla fase visiva subentra quella acustica, in cui si realizzano tutte «le condizioni essenziali per creare effetti d’infinito»323. C’è la «vastità» spaziale, rappresentata attraverso l’uso dei polisillabi «interminati», «sovrumani», «profondissima», «immensità», dove la voce del vento si diffonde più facilmente e con maggior effetto, è presente l’«impedimento» dato da «queste piante», che contribuiscono tra l’altro ad oggettivare la presenza del vento, e la percezione confusa del suono che ne deriva, mentre manca l’«ambientazione notturna» che impedirebbe al poeta di scorgere l’orizzonte, ma l’«occultamento della fonte di provenienza» del suono assicura gli effetti descritti nella pagina dello Zibaldone datata 16 Ottobre 1821324. Se nell’Infinito il conseguimento degli effetti vago-indefiniti è perseguito a partire dall’ambientazione in uno spazio e in un tempo illimitati, scanditi soltanto da un ostacolo visivo che è la siepe, e da una sensazione acustica che è il vento, nella Vita solitaria, Leopardi segue un percorso opposto che prende le mosse, appunto, dalla descrizione di luoghi circoscritti, da una serie di habitat, per così dire, dove i soggetti 322 Zib. 1746. Cfr. L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante cit., p. 41. 324 Ibidem, pp. 41-42. 323 123 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ nominati in apertura del componimento appaiono in una situazione di intimità veramente idillica. La gallinella nella «chiusa stanza», il pollaio, che col suo fendere le ali trasmette un senso di gioia, il contadino che ha come dimora i campi («abitator de’ campi»), e infine, il poeta al chiuso nella sua «capanna» 325 , risvegliato dal dolce rumore della «mattutina pioggia» che si infrange contro i vetri, una tipica situazione in cui il recupero dei sensi coincide con la percezione di stimoli visivi come la luce incerta del sole che cerca di far penetrare i suoi raggi tra la pioggia cadente, «i lievi nugoletti» e «le ridenti piagge» che godono dei benefici del sole, e di stimoli acustici come il rumore della pioggia e il «primo degli augelli susurro». Un ambiente circoscritto, racchiuso dentro le «cittadine infauste mura», è anche quello dove si consuma tra molte sofferenze la giovinezza del poeta, è Recanati, la città natale da cui ancora nel 1821, anno di composizione dell’idillio, lui non si è mai allontanato, e in cui immagina di dover morire (vv. 13-14: e doloroso / io vivo, e tal morrò, deh tosto!), eppure l’amarezza suscitata dall’idea di una natura del tutto indifferente alla sorte degli uomini, ai quali non resta altro rimedio all’infelicità che il suicidio (v. 22: non resta altro che il ferro), qui appare leggermente attenuata dalla rievocazione delle illusioni nate in passato, proprio sullo sfondo di quei luoghi (vv. 14-17: Alcuna / benché scarsa pietà pur mi dimostra / natura in questi lochi, un giorno oh quanto / verso me più cortese!), prima fra tutte l’illusione dell’amore. I vv. 23-25 propongono una situazione analoga a quella dell’Infinito, il poeta si trova nella stessa posizione, seduto in un luogo solitario, da dove osserva la realtà circostante in una prospettiva molto 325 Si riferisce «alla casa rustica dove il poeta si trova o finge di trovarsi. A San Leopardo, non molto lungi da Recanati, possedevano i Leopardi un rozzo villino; da una lettera della zia Melchiorri del 15 luglio 1820 […] si può ricavare che il p. vi andò nella estate del 1820, e forse nei successivi, o almeno nel seguente» (cfr. Straccali cit., p. 70, nota n. 6). 124 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ ridotta, da cui riesce a scorgere soltanto un lago circondato da piante definite «taciturne», per l’assenza del vento e di qualsiasi altro elemento sonoro, come viene dettagliatamente illustrato nel lungo elenco di ‘suoni mancanti’, scandito da ben otto negazioni, ai vv. 26-32 ( Ivi, quando il meriggio in ciel si volve, / la sua tranquilla imago il Sol dipinge, / ed erba o foglia non si crolla al vento, / e non onda incresparsi, e non cicala / strider, né batter penna augello in ramo, / né farfalla ronzar, né voce o moto / da presso né da lunge odi né vedi). Nell’Infinito, la situazione iniziale di quiete assoluta è interrotta dalla voce del vento, qui è la totale assenza dell’elemento acustico che favorisce l’«altissima quiete», senza provocare, tuttavia, sgomento nel cuore del poeta, ma uno stato di apatia (vv. 34-35: ond’io quasi me stesso e il mondo obblio / sedendo immoto) e di insensibilità (vv. 35-37: e già mi par che sciolte / giaccian le membra mie, né spirto o senso / più le commuova),successivamente smosso, anche in questo caso, da un suono, un canto di fanciulla che si diffonde all’interno di una stanza, e per di più di notte quando la percezione dei suoni, particolarmente gradita all’orecchio del soggetto che la percepisce, è più adatta a determinare sensazioni vago-indefinite (vv. 63-67: e di fanciulla / che all’opre di sua man la notte aggiunge / odo sonar nelle romite stanze / l’arguto canto; a palpitar si move / questo mio cor di sasso). Le prime due strofe della Vita solitaria descrivono il passaggio da una fase di partecipazione emotiva del poeta, mista tra la dolcezza e il rammarico per le illusioni perdute, alla vita che si svolge intorno a lui, ad un’altra fase, introdotta dall’avverbio «talor» in apertura della seconda strofa, che evidenzia lo stacco tra l’iniziale partecipazione e il momento in cui interviene il bisogno di solitudine che induce il poeta ad appartarsi in un luogo solitario e in un’ora particolare del giorno ( v. 26: quando il meriggio in ciel si volve), quando tutto tace e non c’è alcun suono che determini distrazione. 125 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ In un passo coevo dello Zibaldone, generalizzando il discorso che nel componimento risulta prettamente soggettivo, Leopardi, spiega che i meccanismi che generano nell’uomo l’esigenza di ripiegare su se stesso, non scaturiscono mai dall’interno, ma sono conseguenza di situazioni e di avvenimenti esterni: l’uomo sociale, finch’egli può, cerca la sua felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla società, e però dipendenti dagli altri. Questo è inevitabile. Solamente o principalmente l’uomo sventurato, e massime quegli che lo è senza speranza, si compiace della sua compagnia, e di riporre la sua felicità nelle cose sue proprie, e indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua felicità, dall’opinione e dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch’egli non può conseguire, o sperare. Forse per questo, o anche per questo, si è detto che l’uomo che non è mai stato sventurato non sa nulla. L’anima, i desideri, i pensieri, i trattenimenti dell’uomo felice, sono tutti al di fuori, e la solitudine non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del pensiero […]326. Nella terza strofa, si condensa la presenza di situazioni tipiche e di personaggi cari a Leopardi, anche con riferimenti autobiografici: c’è il «garzoncello», simbolo della speranza intatta che riempiva il cuore del poeta nella tenera età, c’è la «donzelletta», definita «vaga» per il desiderio di felicità che traspare dall’espressione del suo volto, c’è la fanciulla che canta in cui non possiamo che riconoscere Silvia, e poi c’è l’amore, doppiamente invocato (v. 39: Amore, amore), come nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza (Amore, amore cantato dai fanciulli), illusione vitale, la cui mancanza è sentita come causa principale di quella «sventura» che fa allontanare l’uomo da ogni altro interesse per la realtà che lo circonda, se è vero che solo esso «è la vita e il principio della 326 Zib. 634-635. 126 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ natura»327. Nella metafora dei vv. 39-44, la vitalità ispirata dall’amore nel cuore del poeta «che fu sì caldo un giorno, anzi rovente», è trasformata in «ghiaccio» dalla «fredda mano» della «sciaura», che in questo caso coincide con l’inevitabile sopraggiungere dell’età adulta e, di conseguenza, della ragione che provoca la perdita definitiva delle illusioni, mentre in casi come quello di A Silvia coincide addirittura con la freddezza della morte (vv. 60-63: All’apparir del vero / tu, misera, cadesti: e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano). La situazione di totale solitudine, in cui Leopardi si trova immerso già nella strofa precedente, lo induce qui a ritornare col pensiero alla gioventù definita tempo ‘irrevocabile’, nell’accezione indefinita che descritta nel passo dello Zibaldone datato 20 agosto 1821 le parole irrevocabile, irremeabile e altre tali, produrranno sempre una sensazione piacevole (se l’uomo non vi si avvezza troppo), perché destano un’idea senza limiti, e non possibile a concepirsi interamente. E però saranno sempre poeticissime: e di queste tali parole sa far uso, e giovarsi con grandissimo effetto il vero poeta […]328. La presenza dell’elemento vago-indefinito caratterizza anche le varie situazioni introdotte dal «pur» avversativo di v. 56 che contrappone all’infelicità del poeta, descritta nei versi precedenti, alcuni esempi di sensazioni visive e sonore, capaci di risvegliare, per qualche breve attimo, le sue emozioni di un tempo: la vista delle «piagge apriche» che, secondo quanto è teorizzato nello Zibaldone, «è piacevole per la vastità della sensazione»329; l’aggettivo «vaga», riferito alla donzelletta, che di per sé è riconosciuto come termine poetico per eccellenza; il «vagabondo 327 Zib. 59. Zib. 1534. 329 Zib. 1745. 328 127 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ passo» del poeta che, sebbene non risulti esplicitato nel testo, risuona nel silenzio della notte; non è il caso di soffermarsi nuovamente sul significato del ‘canto della fanciulla’, se non per riportare il componimento del 1828 che porta proprio questo titolo e che racchiude, nella sentenza finale, il significato profondo attribuito da Leopardi al ricordo della speranza: Canto di verginella, assiduo canto, che chiuso ricetto errando vieni per le quiete vie; come sì tristo suoni agli orecchi miei? perché mi stringi sì forte il cor, che a lagrimar m’induci? e pur lieto sei tu; voce festiva de la speranza: ogni tua nota il tempo aspettato risuona. Or, così lieto, al pensier mio sembri un lamento, e l’alma mi pungi di pietà. Cagion d’affanno torna il pensier de la speranza istessa a chi per prova la conobbe330. Nella strofa finale della Vita solitaria, alla creazione di effetti vago-indefiniti, contribuisce anche l’ambientazione notturna che si contrappone a quella diurna della prima strofa. E se il buio, interrotto qua e là dalla luce incerta della luna, e dai rumori prodotti dai movimenti di qualche malfattore che esplica la sua azione nella notte, «il fragor delle rote e de’ cavalli», «il calpestio de’ piedi» e «il suon dell’armi», provoca timore nella gente comune, per il poeta, al contrario, rappresenta lo sfondo ideale per la solitudine. 330 Il canto della fanciulla, p. 350. 128 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ § III.2 Alla Primavera o delle favole antiche e Il passero solitario Il nucleo ideologico della canzone Alla Primavera va indubbiamente collegato al contenuto della lettera scritta a Pietro Giordani il 6 marzo 1820 sto anch’io sospirando caldamente la bella primavera come l’unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell’animo mio; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tiepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo […]331 dove, l’impedimento fisico dato dalla finestra, la sensazione ‘visiva’, data dal raggio di luna, e la sensazione ‘uditiva’, data dall’abbaiare dei cani proveniente, non a caso, da lontano, richiamano nel poeta, il ricordo di avvenimenti passati, ma soprattutto i sentimenti ad essi collegati. Il contenuto del componimento presenta due valenze, una individuale, l’altra collettiva o storica, in base alle quali, le «immagini antiche» rappresentano, sia il riflesso della memoria personale del poeta, sia le ‘figure’ che nascevano dall’immaginazione degli antichi e che popolavano le loro favole, considerando, dunque, «la primavera […], come tramite verso un passato irripetibile, e pur giovevole, in quanto pausa e momentanea alternativa al dolore»332. 331 Ep. 287. E. Circeo, La querelle «antico-moderno» nella canzone leopardiana Alla Primavera, in Leopardi e il mondo antico cit., p. 374. 332 129 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ Nella querelle tra antico e moderno, implicita nel significato della canzone, si inserisce anche l’utilizzo, nel suo sottotitolo, di un termine come ‘favola’, che non allude all’imitazione della mitologia antica, aspramente criticata nello Zibaldone gli scrittori italiani o moderni che usano le favole antiche alla maniera degli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione. L’imitare non è copiare, né ragionevolmente s’imita se non quando l’imitazione è adattata e conformata alle circostanze del luogo, del tempo, delle persone ec. in cui e fra cui si trova l’imitatore, e per li quali imita, e a’ quali è destinata e indirizzata l’imitazione […]. Altrimenti l’imitazione è da scimmie […]333 ma mira a valorizzare una tendenza che accomuna i moderni con gli antichi, che è quella di far rivivere, attraverso la memoria e l’immaginazione, personaggi e avvenimenti appartenuti a luoghi ed epoche lontane, adattandoli alle circostanze attuali. In sostanza, rispetto alla mera imitazione, Leopardi predilige questa inclinazione e quest’uso di applicare a luoghi e persone ben note e prossime i racconti (veri o finti) appartenenti a persone e luoghi lontani, ed anche di rimodernarli, cioè applicar de’ racconti vecchi, e talora vecchissimi, a tempi e persone moderne […]. Altra conformità degli antichi coi moderni, poiché anche gli antichi ebbero lo stesso vezzo […]334. ‘Favola’, dunque, nel senso di ‘racconto’ di avvenimenti reali o immaginari, è il significato che Leopardi attribuisce al termine in questione, con una motivazione che Blasucci così spiega: «Leopardi preferisce dire Favole piuttosto che mito, con l’iniziale maiuscola che i moderni editori tendono a eliminare, ma che va invece conservata e 333 334 Zib. 3463. Zib. 4224. 130 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ rispettata, ponendosi in perfetta specularità con l’altra maiuscola di Primavera, per una comune funzione di risalto emblematico e mitico delle due parole. Favola anziché mito perché Leopardi riconduce vichianamente la parola all’etimo di fabula: da for faris “parlare”, quindi “comunicare”, “esprimere”»335. Nel componimento, anche il motivo della primavera come portatrice di effetti salutari e positivi, ha un valore che si estende ben oltre la sfera soggettiva illustrata nella lettera a Giordani, infatti, alle proposizioni concessive dei vv. 1-9 (Perché i celesti danni / ristori il sole, e perché l’aure inferme / zefiro avvivi, onde fugata e sparta / delle nubi la grave ombra s’avvalla; / credano il petto inerme / gli augelli al vento, e la diurna luce / novo d’amor desio, nova speranza / né penetrati boschi e fra le sciolte / pruine induca alle commosse belve) 336 che sembrano decantare i benefici della primavera sulla natura e sugli animali, si contrappone l’ironia di quel «forse» al v. 10, che introduce un’interrogazione retorica di senso negativo, in cui il poeta commisera la condizione dell’uomo che vede dileguarsi i privilegi della giovinezza, della «bella età», non appena il vero mostra la sua «atra face». Il privilegio della gioventù che Leopardi rimpiange è, in primo luogo, quello di una maggiore sensibilità e vitalità, e così si esprime a riguardo nel passo dello Zibaldone datato 4 giugno 1823: in primavera non è dubbio che la vita nella natura è maggiore, o, se non altro, è maggiore il sentimento della vita, a causa della diminuzione e torpore di esso sentimento cagionato dal freddo, e del contrasto fra il nuovo sentimento, o fra il ritorno di esso, e l’abitudine contratta nell’inverno. Questo accrescimento di vita (chiamiamolo così) è comune in quella stagione, come alle piante, e agli 335 L. Blasucci, I titoli dei« Canti» e altri studi leopardiani, Napoli, Morano, 1989, p. 159. 336 Alla Primavera o delle favole antiche, p. 12. 131 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ animali, così agli uomini, e massime agli individui giovani, sì della predette specie come dell’umana […]337. Da sempre, alla transitorietà dell’esistenza umana si contrappone l’eterna ciclicità della natura, solo che, con il trascorrere delle generazioni, e con il passaggio dall’antico al moderno, il rapporto tra uomo e natura è cambiato, a discapito di quella ingenuità che faceva contemplare con fiducia all’uomo i vari aspetti della realtà circostante, senza il tormento di sapere che cosa si celasse effettivamente dietro ogni parvenza. Il tema dominante della canzone, che si inserisce nell’ambito della polemica antiromantica di Leopardi, in coda al Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica e alle precedenti canzoni che trattano lo stesso tema, è, sostanzialmente, il rimpianto per un passato poetico in cui la natura parlava al poeta senza che questi la interrogasse, e proprio la semplicità di questo rapporto era il fondamento delle mitologie antiche che avevano un carattere completamente opposto rispetto a quelle moderne, perché: non cercavano l’oscuro per tutto, eziandio nel chiaro; anzi cercavano il chiaro nell’oscuro; volevano spiegare e non mistificare, e scoprire; tendevano a dichiarare colle cose sensibili quelle che non cadono sotto i nostri sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di quelle cose che l’uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora. Gli inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi secoli della nostra era, decisamente cercavano l’oscuro nel chiaro, volevano spiegare le cose sensibili e intelligibili colle non intelligibili e non sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e manifeste, con dei misteri e dei secreti […]338. 337 338 Zib. 2752-2753. Zib. 4239. 132 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ Nella prima strofa, che si svolge al tempo presente, in accordo con l’ultima, e in opposizione al passato remoto adoperato nelle tre strofe centrali dedicate alla trattazione del mito, è possibile estrapolare alcune immagini, come quella di zefiro che insinuandosi fra le nubi sparpaglia le loro ombre, dei riflessi interrotti della luce che si infiltra nei «penetrati boschi», del profumo caratteristico della primavera («primavera odorata») che «eccita» e «tocca» 339 un cuore, come quello del poeta, prematuramente irrigidito dagli effetti della vecchiaia, che perseguono la stessa atmosfera di indefinito, di cui si è argomentato nei precedenti paragrafi. L’interrogazione che Leopardi rivolge direttamente alla natura nei vv. 20-21 (Vivi tu, vivi, o santa / natura?), non ha un senso letterale, in quanto lui è perfettamente cosciente che la natura, incurante dell’avvicendarsi delle generazioni degli uomini sulla terra, prosegue ininterrottamente il suo corso, ma acquista il suo vero significato grazie alla successiva espressione dei vv. 21-22 (vivi e il dissueto orecchio /della materna voce il suono accoglie?) con cui la ‘vita’ della natura è considerata in relazione al suo manifestarsi attraverso le parole suggerite ai poeti, cosa che non si verifica più da quando l’attenzione è carpita da numerose altre questioni che distolgono l’animo dall’ascolto del suono della «materna voce». In Alla Primavera, il ricordo del passato, introdotto dall’avverbio «già» di v. 23 , consiste in una rievocazione dei più importanti miti classici, di quando «i fiumi erano abitati da ninfe, le selve scosse da misteriose danze “d’immortal piede” e il pastorello che nell’ora segreta del meriggio conduceva sulla riva il gregge assetato poteva udire le musiche dei fauni e avvertire stupito, nel tremolio della acque, la 339 Cfr. Straccali cit., nota al v. 17, p. 107. 133 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ presenza di Diana al bagno. Tutto allora – i fiori, le erbe, i boschi, gli animali, i venti, le nuvole, gli astri – era in animato, personale accordo con l’uomo»340, ma all’interno di questa descrizione non poteva mancare la spiegazione della «personificazione dell’eco» che, per il poeta, è un valido «esempio di quanto fosse naturale e piena di amabili e naturali illusioni la mitologia greca»341. Nei vv. 59-69 (Né dell’umano affanno, / rigide balze, i luttuosi accenti / voi negletti ferìr mentre le vostre / paurose latebre Eco solinga, /non vano error dei venti, / ma di ninfa abitò misero spirto, / cui grave amor, cui duro fato escluse / dalle tenere membra. Ella per grotte, / per nudi scogli e desolati alberghi, / le non ignote ambasce e l’alte e rotte / nostre querele al curvo / etra insegnava), la figura di Eco può essere paragonata a quella di Saffo, protagonista della canzone coeva, infatti, entrambe simboleggiano il dolore umano per il fallimento della più bella illusione che è quella dell’amore, e in entrambe il dolore si esprime attraverso la ‘voce’, che in Eco, è ‘puro suono’, in Saffo è già canto. La rappresentazione di Eco ha, tuttavia, un’altra funzione importante per Leopardi, che è quella di giustificare l’origine di un’immagine che, insieme ad altre sensazioni acustiche, come il fragore del tuono o lo stormire del vento, sortisce un eccezionale effetto poetico, infatti, in poesia è piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il calpestio de’ piedi o la voce ec. Perocché l’eco non si vede ec. E tanto più quanto il luogo e l’eco è più vasto, quanto più l’eco vien da lontano, quanto più si diffonde; e molto più ancora se vi si aggiunge l’oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono, né i punti da cui esso parte ec. ec. […]342. 340 Cfr. G. Leopardi, Poesie a cura di M. A. Rigoni, cit., p. 931. Zib. 52. 342 Zib. 1929. 341 134 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ Il triste canto dell’usignolo, del «musico augel» che viene «il rinascente anno cantando», si diffonde nel primaverile silenzio notturno, lamentando, secondo il racconto ovidiano 343 , il ricordo delle proprie dolorose vicende, si fa anche portavoce delle sciagure umane. Ma questa è la funzione consolatoria del mito, mentre nella realtà, a cui si ritorna nell’ultima strofa, l’usignolo non è «cognato» al genere umano, non è macchiato da nessuna colpa, e la sua espressione attraverso il canto è autentica, e non nasconde altri sentimenti come fa, talvolta, il canto degli uomini, per camuffare la paura il cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per farci compagnia da noi stessi come comunemente si dice, né per distrarci puramente, ma […] per mostrare e dare ad intendere a noi stessi di non temere. La quale osservazione potrebbe forse applicarsi a molte cose, e dare origine a parecchi pensieri […]344. Nel Passero solitario, invece, sia il canto dell’uccello che quello del poeta rappresentano una sorta di rimedio alla solitudine in cui si trovano immersi, l’uno, per volere della natura, l’altro, per le sue scelte di vita che gli stessi familiari gli rimproverano 345, in un confronto che si 343 Cfr. G. Leopardi, Canti, a cura di A. Straccali cit., nota n. 71, p. 111: «Secondo la favola, Tereo, re di Tracia, violò Filomela sua cognata; poi, perché essa minacciava vendetta della offesa patita, le recise la lingua, e la rinchiuse. Ma Filomela riuscì, per mezzo di una tela ricamata, a far conoscere la propria sventura a Progne, moglie di Tereo. La quale per vendicar la sorella uccise il figlio Iti, e ne apprestò le carni in cibo al marito. Tereo, ignaro, mangiò; ma, fatto esperto dell’orrendo delitto, si diè a perseguitare le due sorelle. Nella fuga, Filomela fu convertita in usignolo, Progne in rondine, e Tereo in upupa. – Il Leopardi, molto probabilmente, si attenne al racconto ovidiano, secondo il quale (cfr. Met. VI, 642), Filomela prese parte alla scellerata vendetta». 344 Zib. 43. 345 Cfr. Zib. 4421: «sempre mi desteranno dolore quelle parole che soleva dirmi l’Olimpia Basvecchi riprendendomi del mio modo di passare i giorni della gioventù, in casa, senza vedere alcuno: che gioventù! che maniera di passare cotesti anni! Ed io concepiva intimamente e perfettamente anche allora tutta la ragionevolezza di queste parole […]». 135 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ esplica, sul piano formale, attraverso la struttura simmetrica del componimento che, nelle prime due strofe, descrive l’esclusione dei rispettivi protagonisti dall’armonia circostante, e nella terza strofa, concentra il paragone finale sul destino di vecchiaia e di morte, alla cui soglia, a differenza del passero, il poeta giungerà pieno di rimpianti per il tempo passato (vv. 58-59: Ahi pentirommi, e spesso, / ma sconsolato, volgerommi indietro). Benché gli animali risultino tra le figure più presenti nei Canti346, solo nel Passero solitario, viene menzionata fin dal titolo questa particolare specie di uccello, che si distingue per l’abitudine a vivere appartato in luoghi alti, e per la melodiosità del suo canto, proprio come il poeta, la cui esclusione dal contesto sociale è messa in evidenza, nella sua opera, mediante l’abitudine di rappresentarsi in luoghi appartati, in questo caso una «rimota parte della campagna», e il cui canto consiste nel suo poetare. La prima strofa è ricca di riferimenti alla sfera del suono: il gerundio del verbo cantare, al v. 3, che esprime la continuità dell’azione, diluisce la sensazione acustica nello spazio di un’intera giornata, associando ai suoi effetti, l’armonia che permea tutta la valle (vv. 1-4: D’in su la vetta della torre antica, / passero solitario, alla campagna / cantando vai finchè non more il giorno; / ed erra l’armonia per questa valle); l’«odi» di v. 8, ha una funzione complementare rispetto al «miri» di v. 12, nel senso che, lo sguardo attento, il «mirare» del passero, scaturisce dall’ascolto di alcuni suoni (il belare delle greggi, il muggire degli armenti, il cinguettio degli altri uccelli). Al coro di questi animali, che è quasi un inno di gioia alla vita, si contrappongono l’isolamento e l’atteggiamento pensieroso del passero (v. 346 Per la presenza degli animali, non solo nei Canti, ma in numerosi altri luoghi dell’opera leopardiana, si veda il saggio P. Paolini, Gli animali nell’opera leopardiana, in Leopardi e lo spettacolo della natura cit., pp. 275-311. 136 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ 12: tu pensoso in disparte il tutto miri), metafora dell’atteggiamento meditativo di Leopardi di fronte alla presa di coscienza della vanità del tutto che ci circonda. In questa chiave, anche quel «canti», posto in una posizione di rilievo all’inizio del v. 15, dopo una serie di negazioni, «non compagni» «non voli» «non ti cal d’allegria» «schivi gli spassi», può essere letto, non solo nel suo significato letterale del canto come prerogativa concessa dalla natura all’uccello, ma come scelta di vita del poeta, il quale avendo compreso che ogni forma di felicità è puramente illusoria e che non esiste alcun rimedio all’umana sofferenza, trova rifugio esclusivamente nella solitudine e nella poesia ma il fatto sta che il male, soggetto del dolore e delle passioni dispiacevoli, è reale; il bene, soggetto della gioia, non è altro che immaginario: e perché la gioia fosse tale da superare la capacità dell’animo nostro, si richiederebbe, come ne’ fanciulli e ne’ primitivi, una forza e freschezza d’immaginazione persuasiva e d’illusione, che non è più compatibile con la vita d’oggidì […]347; […] oggidì colui che si trova in compagnia degli uomini, si trova in compagnia del vero, (cioè del nulla, e quindi non c’è maggior solitudine), chi lontano dagli uomini, in compagnia del falso. Laonde questo detto sebbene antico e riferito al sapiente, conviene molto più molto più a’ nostri secoli, e non al sapiente solo, ma all’universalità degli uomini, e massime agli sventurati […]348. L’analogia tra il modo di vivere del poeta e quello del passero è esplicitata mediante l’esclamazione dolorosa dei vv. 17-18 (Oimè, quanto somiglia / al costume il mio), che aprono la seconda strofa. 347 348 Zib. 717. Zib. 718. 137 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ Accogliendo l’ipotesi di una datazione tarda del componimento, probabilmente il 1829, la descrizione della gioventù del poeta nel suo «loco natio», che si dilunga nei vv. 18-45, illustra «post factum» il carattere del protagonista e la sua «vocazione alla solitudine per una nativa incapacità di partecipazione alla vita dei coetanei, qui raffigurata nel passeggio per le vie del borgo in un giorno di festa» 349 , configurandosi, quindi, come una rievocazione del passato, all’interno della quale, non potevano mancare i consueti richiami acustici, il «suon di squilla» e il «tonar di ferree canne, che rimbomba lontan di villa in villa», ai quali spetta il compito di agevolare la memoria del poeta. 349 L. Blasucci, I tempi dei «Canti» cit., p. 191. 138 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ § III.3 Aspasia e Sopra il ritratto di una bella donna In Aspasia e in Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, sono rappresentati due probabili esiti del sentimento amoroso, nel primo caso, che rispecchia la vicenda biografica dell’innamoramento di Leopardi per Fanny Torgioni Tozzetti, c’è la delusione, e il conseguente desiderio di riscatto attraverso «l’affermazione della propria personalità e del proprio mondo interiore»350, nel secondo caso, ritorna l’esito doloroso della morte e della dissoluzione della bellezza ispiratrice d’amore. Il ricordo di Aspasia, figura di donna tanto bella quanto insensibile, plasmata non a caso su modello dell’omonima etèra amata da Pericle, si ripresenta davanti al poeta indipendentemente dalla sua volontà, sia che si trovi tra la gente o in solitudine «quella superba vision risorge», e anche qui, come in altri canti, sono gli ‘odori’ a risvegliare nella memoria le sensazioni più piacevoli, quelle che nello Zibaldone come si è visto, il poeta chiama ‘indefinite’, e che in questo caso coincidono con il vagheggiamento per la bellezza della donna amata. Riprendendo la distinzione fra le due categorie di ‘donne leopardiane’, quelle dai sedici ai diciotto anni, che per la loro freschezza e ingenuità suscitano un sentimento sincero di ammirazione, e quelle dai venticinque ai trent’anni che, invece, hanno «più d’attraits», certamente Aspasia appartiene alla seconda categoria, per la malizia che il poeta ricorda nei suoi atteggiamenti, esasperandone certamente alcuni tratti, come quando intravede un’«intenzione di civetteria» 351 perfino nelle tenerezze che rivolge, con lui presente, alle sue figlie ( vv. 20-26: quando tu, dotta / allettatrice, fervidi sonanti / baci scoccavi nelle curve labbra / de’ tuoi bambini, il niveo collo intanto / porgendo, e lor di tue cagioni 350 351 W. Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1984, p. 64. G. Leopardi, Canti, a cura di L. Felici cit., nota n. 25, p. 180. 139 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ ignari / con la man leggiadrissima stringevi / al seno ascoso e desiato)352, ma è evidente, in questo, l’obiettivo del poeta di mettere in cattiva luce la donna che lo ha deluso e di giustificare la propria debolezza nei confronti di chi, stando a ciò che aveva precedentemente affermato nello Zibaldone, nel passo datato 19 dicembre 1821, è per natura più debole rispetto all’uomo e sopperisce alla sua inferiorità grazie all’arte della seduzione e all’inganno: per qual cagione le donne sono ordinariamente maliziose, furbe, raggiratrici, ingannatrici, astute, impostore, e nella galanteria, e nella devozione, e in tutto ciò che imprendono, e in qualunque carriera si mettono? Perché acquistano così presto e l’inclinazione e l’arte d’ingannare, dissimulare, fingere, cogliere le occasioni ec. ec.? […] Lo spirito naturale e primitivo delle donne non ha né vestigio alcuno di tali facoltà, né disposizione ad acquistarle, maggiore per nessun grado di quella che ne abbiano gli uomini. Ma la facilità e la perfezione con cui esse le acquistano, non viene da altra cagione che dalla loro natural debolezza […]353. Secondo il motivo principale della lirica, tuttavia, il poeta è rimasto intrappolato nell’inganno di Aspasia perché ha creduto nell’amore ideale che lo ha indotto a trasfigurare le caratteristiche reali della donna, e a vedere in lei un’«angelica forma» e un «raggio divino». In particolare, l’epiteto di «raggio divino», usato in enjambement ai vv. 27-28 (e quasi un raggio / divino al pensier mio), per evidenziare, mediante il distacco dell’aggettivo ‘divino’, che tale è stato quel ‘raggio’ solo nell’illusione di Leopardi, viene ripreso in apertura della seconda strofa per ribadire il concetto espresso prima, mediante la similitudine con la musica: 352 353 Aspasia, p. 35. Zib. 2259-2260. 140 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ Raggio divin al mio pensiero apparve, donna, la tua beltà. Simile effetto fan la bellezza e i musicali accordi, ch’alto mistero d’ignorati Elisi paion sovente rivelar. […] 354 . (vv. 33-37) Il personaggio di Aspasia è come sdoppiato nella mente del poeta: da una parte c’è la donna reale, falsa e voluttuosa, dall’altra, c’è la donna spogliata dei suoi tratti autentici, e trasfigurata secondo i canoni dell’amore ideale. Aspasia è «questa» e «quella», è com’è e come dovrebbe essere, se rispondesse all’idea d’amore concepita da Leopardi, ma le due immagini si fondono, e il poeta finisce per amare, in quel corpo, una bellezza immaginaria. La donna diventa, così, lo strumento attraverso cui la bellezza fa sentire i suoi effetti, proprio come fa il suono nella musica, veicolando le sensazioni dal principio generatore al soggetto che le percepisce: di questi due effetti della musica, l’uno cioè quello dell’armonia, è ordinario per se stesso, cioè qual è quello di tutte le altre convenienze. L’altro, cioè del suono o canto per se stesso è straordinario, deriva da particolare e innata disposizione della macchina umana ma non appartiene al bello. Questa stessissima distinzione si dee fare nell’effetto che produce sull’uomo la beltà umana o femminina ec. e la teoria di questa beltà può dare e ricevere vivissimo lume dalla teoria della musica. L’armonia nella musica, come la convenienza nelle forme umane, produce realmente un vivissimo e straordinario e naturalissimo effetto, ma solo in virtù del mezzo per cui essa giunge a’ nostri sensi (cioè suono o canto, e forma umana), o vogliamo dire del soggetto in cui essa armonia si percepisce. Tolto questo soggetto, l’armonia e convenienza 354 Aspasia, p. 35. 141 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ isolata, o applicata a un qualunque altro oggetto, non fa più di gran lunga la stessa impressione […]355. Nei versi in questione, musica e bellezza umana sono viste anche come chiave d’accesso verso «paradisi sconosciuti» 356 , luoghi dello spirito, e a questo proposito, Alberto Caprioli 357 ha evidenziato la singolare affinità tra il pensiero dello Zibaldone datato 24 settembre 1821, e le parole di Beethoven riportate in una lettera del 1810 di Bettina Brentano a Goethe. Queste sono le parole con cui Leopardi descrive la sensazione indefinita derivante dalla musica: quella svariata molteplice, rapida e rapidamente mutabile sensazione, che la musica produce, e che l’animo non arriva ad abbracciare […]358; e queste le parole di Beethoven: la musica è il vincolo che unisce la vita dello spirito alla vita dei sensi, ed è l’unico accesso immateriale al mondo superiore della conoscenza, mondo che abbraccia l’uomo ma che l’uomo non è in grado a sua volta di abbracciare359. La seconda immagine paradisiaca, quella dell’«amorosa idea, che gran parte d’Olimpo in se racchiude» ai vv. 39-40, è compresa a sua volta tra due versi, 37 e 43, in cui compare il verbo «vagheggiare» che 355 Zib. 1784-1785, il corsivo è nel testo. Cfr. G. Leopardi, Poesie, a cura di M. A. Rigoni, cit., p. 977. 357 Cfr. A. Caprioli, Giacomo Leopardi e la ‘nuova musica’ cit., p. 77. 358 Zib. 1781. 359 B. Brentano, Il carteggio di Goethe con una bimba, traduzione di G. Necco, MilanoRoma, 1932, vol. II, p. 110. 356 142 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ contribuisce a rendere meglio l’idea di indefinito, di sensazione quasi sovrannaturale in cui si trova coinvolto e «rapito» l’amante. I vv. 44-45, a cui si è già accennato per il valore dei dimostrativi, (Or questa egli non già, ma quella, ancora / nei corporali amplessi, inchina ed ama), si collegano ai vv. 78-80 ( perch’io te non amai, ma quella Diva / che già vita, or sepolcro, ha nel mio core. / Quella adorai gran tempo) perché, come ha giustamente osservato Binni, sono proprio questi i due punti in cui il poeta esprime con maggior pregnanza «l’affermazione del valore e la negazione del disvalore» 360 , incarnati rispettivamente dall’amore puro e dalla passione tutta umana provata per Aspasia. La persona innamorata non è più in grado di distinguere tra le due cose, perché, spiega Leopardi, come gli effetti della bellezza non nascono dalla convenienza ma dalla grazia che la donna possiede, così le grandi passioni non nascono dalla ragione, ma hanno sempre dei moventi irrazionali: la pura bellezza risultante da un’esatta e regolare convenienza, desta di rado le grandi passioni, per lo stesso motivo per cui la ragione è infinitamente meno forte ed efficace della natura. Quella bellezza è come una ragione, perciò non suppone vita né calore, sia in se medesima, sia in chi la riguarda. Al contrario un volto o una persona difettosa ma viva, graziosa ec. o fornita di un animo capriccioso, sensibile ec. sorprende, riscalda, affetta e tocca il capriccio di chi la riguarda, senza regola, senza esattezza, senza ragione ec. ec. e così le grandi passioni nascono per lo più dal capriccio, dallo straordinario, ec. e non si ponno giustificare colla ragione […]361. Con una punta di sarcasmo, talvolta interpretata come misoginia, il poeta giustifica il comportamento della donna, attribuendo la causa 360 361 W. Binni, La nuova poetica leopardiana cit., p. 69. Zib. 269, corsivo mio. 143 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ della sua insensibilità alla naturale inferiorità del genere femminile rispetto a quello maschile, il cui animo è maggiormente predisposto alle sensazioni sublimi. La figura di Aspasia, che ignora gli effetti suscitati sull’amante (vv. 61-67: Né tu finor giammai quel che tu stessa / inspirasti alcun tempo al mio pensiero, / potesti, Aspasia, immaginar. Non sai / che smisurato amor, che affanni intensi, / che indicibili moti e che deliri / movesti in me; né verrà tempo alcuno / che tu l’intenda), è paragonata nei versi successivi, a quella dell’«esecutor di musici concenti», ignaro degli effetti che la voce e il suono degli strumenti musicali producono nell’ascoltatore, […] In simil guisa ignora esecutor di musici concenti quel ch’ei con man o con la voce adopra in chi l’ascolta […]362. (vv. 67-70) e, ancora una volta, il nucleo ideologico di tale affermazione può essere rintracciato nello Zibaldone: si suol dire che i bravi compositori di musica non sanno cantare, perché non sovente si combina la disposizione naturale e acquisita degli organi intellettuali con quella degli organi materiali della voce. E così il più perfetto conoscitore e fabbricatore di armonia e melodia pel canto, saprebbe bene eseguire l’armonia e la melodia, ma non perciò recare alcun diletto musicale […]363. La situazione centrale è, in definitiva, quella di un amore non corrisposto in cui, la disposizione dei personaggi, ricalca la vicenda dell’amore di Consalvo per Elvira, e si contrappone a quella di Saffo per 362 363 Aspasia, p. 35. Zib. 1759. 144 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ Faone, ma con una sostanziale differenza nel finale, che è tragico negli altri due componimenti, mentre in Aspasia la delusione del poeta trova prima sfogo nell’invettiva contro la donna per rifugiarsi, poi, nella consueta solitudine (vv. 106-112: Che se d’affetti / orba la vita, e di gentili errori, / è notte senza stelle a mezzo il verno, / già del fato mortale a me bastante / e conforto e vendetta è che su l’erba / qui neghittoso immobile giacendo, / il mar la terra e il ciel miro e sorrido). A ridosso dell’esperienza biografica che costituisce la materia di Aspasia, un altro episodio reale offre a Leopardi uno spunto di «riflessione sulla precarietà materiale dell’uomo e dei suoi valori»364, è la visita allo studio romano dello scultore neoclassico Pietro Tenerani dove, con ogni probabilità, nel 1831, il poeta ebbe modo di vedere sia il bassorilievo descritto nella prima sepolcrale, sia il bozzetto del ritratto, ordinato per il monumento funebre della marchesa Margherita Canton, completato solo nel 1833 365 , a cui si riferisce Sopra il ritratto di una bella donna. L’incipit della canzone, «Tal fosti» 366 , può essere riferito tanto all’immagine della donna raffigurata in tutto il suo splendore nel ritratto, quanto ad Aspasia, che è la trasposizione poetica di tale immagine, come suggeriscono i fattori cronologici cui si è appena accennato, nonché le affinità nella descrizione dei tratti fisici: le labbra della protagonista di Sopra il ritratto (vv. 9-11: quel labbro, ond’alto / par, come d’urna piena, / traboccare il piacer), richiamano i «fervidi sonanti baci» di Aspasia; il suo collo (vv. 11-12: quel collo, cinto / già di desio), è da riferirsi al «niveo collo»367 del componimento precedente, così come la mano (vv. 364 L. Blasucci, Precisazioni sulla prima «sepolcrale», in Lo stormire del vento cit., p. 189. 365 Si vedano, a proposito, le testimonianze di A. Giuliano, Giacomo Leopardi, Carlotta Lenzoni, Pietro Tenerani, in «Paragone-Arte», XVII, 193, 1966, pp. 87-94, e di A. Vergelli, Genesi e linguaggio delle sepolcrali leopardiane, Roma, 1977, pp. 25-26. 366 Sopra il ritratto di una bella donna, p. 37. 367 Ibidem. 145 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ 12-14: quell’amorosa mano, / che spesso, ove fu porta, / sentì gelida far la man che strinse) e il seno (vv. 15-16: e il seno, onde la gente / visibilmente di pallor si tinse) ricalcano, rispettivamente, la «man leggiadrissima» e il «seno ascoso e desiato»368. Quel «Tal fosti», demarca il passaggio dal passato al presente e segna il compimento materialistico del destino di disfacimento che accomuna gli uomini, mentre il sostantivo «polve», nel verso seguente, traduce perfettamente l’idea di effimero che il poeta intende rappresentare. La sequenza di termini come «polve», «scheletro», «ossa» e «fango», conferisce al v. 2, un «effetto di violenza» derivante «più dalla gestione ritmica e retorica di quel lessico che dalla precisione evocativa»369 Tutto il componimento si svolge all’insegna della contrapposizione tra un ‘prima’e un ‘dopo’, così, nella prima strofa, lo stesso oggetto, cioè il corpo della donna amata, che quando era in vita suscitava tanta attrazione, dopo la morte, si trasforma in una figura ripugnante, la cui vista è sbarrata da «un sasso», metafora della morte, che censurando la visione del disfacimento di lineamenti e forme, lascia intatto il ricordo della bellezza che serve, quantomeno, di conforto alla tristezza dell’amante. In questi termini si era espresso precedentemente Leopardi, nello Zibaldone: il veder morire una persona amata, è molto meno lacerante che il vederla deperire e trasformarsi nel corpo e nell’animo da malattia (o anche da altra cagione). Perché? Perché nel primo caso le illusioni restano, nel secondo 368 Sulle affinità fra le descrizioni dei tratti fisici in Aspasia e in Sopra il ritratto di una bella donna, si è soffermato E. Peruzzi, Critica linguistica di un canto leopardiano, in «La Cultura», XX, 1970, pp. 467-523. 369 Cfr. L. Blasucci, Sopra il ritratto di una bella donna, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1989, p. 24. 146 La musica nei «Canti» ______________________________________________________________________ svaniscono, e vi sono intieramente annullate e strappate a viva forza. La persona amata, dopo la sua morte, sussiste ancora tal qual era, e così amabile come prima, nella nostra immaginazione […]370. Nella seconda strofa, l’opposizione non è più tra passato e presente, ma tra «oggi» e «diman» che coincidono, rispettivamente, con la costruzione delle illusioni che l’uomo fabbrica nel presente, mosso in questo caso dagli effetti del sentimento amoroso, e con la distruzione di tutto ciò che aveva immaginato, se nel futuro subentra un’imprevedibile «lieve forza» paragonabile al «lieve moto» annichilante, nel v. 45 della Ginestra. La precarietà dell’equilibrio su cui si reggono la bellezza e l’amore, che poi non sono altro che illusioni, richiama, in Leopardi, una metafora musicale in cui «la dolcezza del “dotto concento”» si oppone «alla lacerazione del “discorde accento” che ne distrugge gli effetti nella mente rapita dell’ascoltante»371: Desideri infiniti E visioni altere Crea nel vago pensiere, per natural virtù, dotto concento; onde per mar delizioso, arcano erra lo spirto umano, quasi come a diporto ardito notator per l’Oceano: ma se un discorde accento fere l’orecchio, in nulla torna quel paradiso in un momento […] 370 371 Zib. 479, corsivo mio. L. Blasucci, Sopra il ritratto di una bella donna cit., p. 32. 147 (vv. 39-49) BIBLIOGRAFIA BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE EDIZIONI COMPLETE FRANCESCO FLORA (a cura di), Tutte le opere di Giacomo Leopardi, Milano, Mondadori, 1937-49, 5 voll. (Zibaldone, 2 voll., 1937; Le poesie e le prose, 2 voll., 1940, Lettere, 1949); WALTER BINNI (a cura di), con la collaborazione di ENRICO GHIDETTI, Tutte le opere, Firenze, Sansoni,1969, (5ª edizione rivista e accresciuta, ivi, 1988, 2 voll.); LUCIO FELICI -EMANUELE TREVI (a cura di), Tutte le poesie e tutte le prose, direzione di LUCIO FELICI, premessa allo Zibaldone di EMANUELE TREVI, indici filologici di MARCO DONDERO, indice tematico e analitico di MARCO DONDERO e WANDA MARRA, Roma, Newton & Compton, 1997, 2 voll.; LUCIO FELICI (a cura di), Tutte le opere, in cd-rom, Roma, Lexis Progetti Editoriali, 1998. AMPIE SCELTE GIACOMO LEOPARDI, Opere di Giacomo Leopardi da lui approvate: Canti, Paralipomeni, Operette morali, Pensieri, secondo la revisione su manoscritti e stampe preparata da GIOVANNI MESTICA, Firenze, Le Monnier, 1906; RICCARDO BACCHELLI-GINO SCARPA (a cura di), Opere, Milano, Officina Tipografica Gregoriana, 1935; GIUSEPPE DE ROBERTIS (a cura di), Opere, Milano, Rizzoli, 1937, 3 voll.; GIOVANNI FERRETTI (a cura di), Poesie e prose, Torino, Utet, 1948-1950, 2 voll.; SERGIO e RAFFAELLA SOLMI (a cura di), Opere, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956-1966, 2 voll.; GIOVANNI GETTO (a cura di), con commento di EDOARDO SANGUINETI, Opere, 148 Bibliografia ______________________________________________________________________ Milano, Mursia, 1967; CARLO MUSCETTA-GIUSEPPE SAVOCA (a cura di), Canti, Paralipomeni, Poesie varie e Versi puerili, Torino, Einaudi,1968 (con le concordanze di tutti i versi leopardiani, tranne i puerilia, a cura di LUCIANA LOVERA e CHIARA COLLI, e le Concordanze dei Canti del Leopardi, a cura di ANTONIETTA BUFANO), Firenze, Le Monnier, 1969; MARIO FUBINI (a cura di), Opere, Torino, Utet, 1977; ALDO VALLONE (a cura di), Leopardi dagli «scritti puerili» alla «Ginestra», Napoli, Liguori, 1986; ROLANDO DAMIANI - MARIO ANDREA RIGONI (a cura di), Poesie e prose, con saggio introduttivo di CESARE GALIMBERTI, Milano, Mondadori, 1987-88, 2 voll. (recensioni di ALBERTO FRATTINI, in «Il Popolo» 24 marzo 1988; VITTORE BRANCA, in «Il Messaggero», 10 aprile 1988; EMILIO LIPPI, in «Filologia e Critica», 1, gennaio-aprile 1989, pp. 148-150; PIETRO PELOSI, in «Forum italicum», 2, 1990, pp. 279-283); GIANFRANCO CONTINI (a cura di), Antologia leopardiana, Firenze, Sansoni, 1988; SIRO ATTILIO NULLI (a cura di), Opere, Ponzano Magra (La Spezia), Casa del Libro, 1989; GIACOMO LEOPARDI, Opere: Canti, Operette morali, Paralipomeni della Batracomiomachia, poesie varie, Introduzione di GOFFREDO BELLONCI, nota biografica di NINO BORSELLINO, Trento, L. Reverdito, 1995; LUCIO FELICI-EMANUELE TREVI (a cura di), Tutto Leopardi, Roma, Newton Compton, 1997, 2 voll.; ALBERTO CARACCIOLO (a cura di), Opere, vol. 1, Morcelliana, 2004. EDIZIONI DEI CANTI EDIZIONI CRITICHE FRANCESCO MORONCINI (a cura di), Canti, Bologna, Cappelli, 1927, 2 voll. (ristampa in volume unico, con Presentazione di 149 Bibliografia ______________________________________________________________________ GIANFRANCO FOLENA, ivi, 1978); EMILIO PERUZZI (a cura di), Canti, con riproduzione fotografica degli autografi, Milano, Rizzoli, 1981 (2ª edizione rivista e ampliata, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1998, 2 voll.); DOMENICO DE ROBERTIS, Canti, Milano, Il Polifilo, 1984, 2 voll. EDIZIONI COMMENTATE FILIPPO SOSLER (a cura di), Canti, Ascoli Piceno, Tipografia Cardi, 1883 (poi edizione parziale, Firenze, Sansoni, 1890, e infine edizione completa, Milano, Dante Alighieri, 1929); RAFFAELLO FORNACIARI (a cura di), Canti, Firenze, Barbèra, 1889 (edizione parziale); ALFREDO STRACCALI (a cura di), Canti, Firenze, Sansoni, 1892 (con integrazioni di ORESTE ANTOGNONI, ivi, 1910, e ristampa, con presentazione di EMILIO BIGI, ivi, 1957); MICHELE SCHERILLO (a cura di), Canti, Milano, Hoepli, 1900; GIUSEPPE PIERGILI (a cura di), Canti, Torino, Paravia, 1905; MANFREDI PORENA (a cura di), Tutte le poesie dal 1816 al 1837, Messina, Principato, 1916 (poi IDEM, Canti, ivi, 1924); FRANCESCO MORONCINI (a cura di), Canti, Milano-Palermo, Sandron, 1917 (edizione parziale); GIULIO AUGUSTO LEVI (a cura di), Canti, Firenze, Battistelli, 1921 (2ª edizione, Firenze, La Nuova Italia, 1928); VALENTINO PICCOLI (a cura di), Canti, Torino, Paravia, 1921; GIUSEPPE DE ROBERTIS (a cura di), Canti, Firenze, Le Monnier, 1927 (ampliata e rivista da DOMENICO DE ROBERTIS, Milano, Mondadori, 1978); ATTILIO MOMIGLIANO (a cura di), Canti, Messina, Principato, 1929 (edizione parziale); MARIO FUBINI (a cura di), Canti, Torino, Utet, 1930 (poi con la collaborazione di EMILIO BIGI, Torino, Loescher, 1964, e rivista e accresciuta, ivi, 1976); IRENEO SANESI (a cura di), Canti, Firenze, Sansoni, 1931; FRANCESCO FLORA (a cura di), Canti, Milano, Mondadori, 1937; RICCARDO BACCHELLI (a cura di), Canti, Milano, 150 Bibliografia ______________________________________________________________________ Garzanti, 1945 (edizione parziale); EZIO CHIORBOLI (a cura di), Canti, Bologna, Zanichelli, 1945; LUIGI RUSSO (a cura di), Canti, Firenze, Sansoni, 1945; CARLO CALCATERRA (a cura di), Canti, Torino, Società Editrice Internazionale, 1947; WALTER BINNI, Canti, nell’antologia Scrittori d’Italia, a cura di NATALINO SAPEGNO, GAETANO TROMBATORE, WALTER BINNI, voll.3, Firenze, La Nuova Italia, 1948, pp. 206-303 (edizione parziale); NICCOLÒ GALLOCESARE GARBOLI (a cura di), Canti, Roma, Colombo, 1949 (poi Torino, Einaudi, 1962, e ristampa con nuova Prefazione di CESARE GARBOLI, ivi, 1993); ALBERTO FRATTINI (a cura di), Canti, Brescia, La Scuola, 1960 (poi, con la collaborazione di EMILIO GIORDANO, ivi, 1990); GIACOMO LEOPARDI, Canti, Introduzione e commento di GENNARO AULETTA, Catania, Edizioni Paoline, 1960; ACHILLE TARTARO (a cura di), Canti, Napoli, Glaux, 1964 (poi Roma-Bari, Laterza, 1984); DOMENICO CONSOLI (a cura di), Canti, Torino, Società Editrice Internazionale, 1967; FRANCO BRIOSCHI (a cura di), Canti, Milano, Rizzoli, 1974; LUCIO FELICI (a cura di), Canti, Roma, Newton Compton, 1974; FERNANDO BANDINI (a cura di), Canti, Milano, Garzanti, 1975; GIORGIO FICARA (a cura di), Canti, Milano, Mondadori, 1987; ENRICO GHIDETTI (a cura di), Canti, Firenze, Sansoni, 1988; UGO DOTTI (a cura di), Canti, Milano, Feltrinelli, 1993; GINO TELLINI (a cura di), Canti, Roma, Salerno, 1994 (insieme con le Operette morali); FRANCO GAVAZZENI - MARIA MADDALENA LOMBARDI (a cura di), Canti, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1998. EDIZIONI DI ALTRE OPERE FRANCESCO MORONCINI (a cura di), Epistolario, Firenze, Le Monnier, 1934-1941, 7 voll.; GIULIO BOLLATI (a cura di), 151 Bibliografia ______________________________________________________________________ Crestomazia italiana. La prosa, Torino, Einaudi, 1968; CARLO MUSCETTA - GIUSEPPE SAVOCA, Canti, Paralipomeni, poesie varie, traduzioni poetiche e versi puerili, Torino, Einaudi, 1968; GIUSEPPE SAVOCA (a cura di), Crestomazia italiana. La poesia, Torino, Einaudi, 1968; GIUSEPPE PACELLA - SEBASTIANO TIMPANARO (a cura di), Scritti filologici (1817-1832), Firenze, Le Monnier, 1969; MARIA CORTI (a cura di), «Entro dipinta gabbia». Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di Giacomo Leopardi, Milano, Bompiani, 1972; OTTAVIO BESOMI (a cura di), Operette morali, Milano, Mondadori, 1976 (edizione critica); CLAUDIO MORESCHINI (a cura di), Fragmenta Patrum Graecorum. 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Il pensiero storico e politico di Giacomo Leopardi (Recanati 9-11 settembre 1984). Firenze, Olschki, 1989. VII. Le città di Giacomo Leopardi (Recanati 16-19 novembre 1987). Firenze, Olschki, 1991. VIII. Lingua e stile di Giacomo Leopardi (Recanati 30 settembre - 5 ottobre 1991). Firenze, Olschki, 1994. IX. Il riso leopardiano: comico, satira, parodia (Recanati 18-22 settembre 1995). Firenze, Olschki, 1998. 156 Bibliografia ______________________________________________________________________ X. Lo Zibaldone cento anni dopo. Composizione, edizioni, temi (Recanati-Porto Recanati 14-19 settembre 1998). Firenze, Olschki, 2001. XI. La dimensione teatrale di Giacomo Leopardi (Recanati 30 settembre -1-2 ottobre 2004). Non ancora pubblicati. -2 ottobre 2004). Non ancora pubblicati. BIOGRAFIE LOUIS DE SINNER, Giacomo Leopardi, in «Le siécle. Revue critique de la littérature, des sciences et des arts», Paris, 1833 ; IDEM, Giacomo Leopardi, in Encyclopedie des gens du mond, vol. XVI, p. 2, Paris, 1842; ANTONIO RANIERI, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Milano, Garzanti, 1880 (edizione più recente, con introduzione di GIULIO CATTANEO e uno scritto di ALBERTO ABRASINO, Milano, SE, 2005); FRANCESCO MONTEVERDINI, La vita e le opere di Giacomo Leopardi, Milano, Dumolard, 1881; TEJA LEOPARDI, TERESA, Note biografiche sopra Leopardi e la sua famiglia, Introduzione di FRANCOISE ALPHONSE AULARD, Milano, Dumolard, 1882; GIUSEPPE PIERGILI, Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1882; CAMILLO ANTONA - TRAVERSI, Studj su Giacomo Leopardi con notizie e documenti sconosciuti e inediti, Napoli, E. Dekten, 1887; IDEM, Documenti e notizie intorno alla famiglia Leopardi per servire alla compiuta biografia del poeta, Firenze, Libreria H.F. 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Viaggio notturno intorno alla mia camera, Venosa, Osanna, 2000; GINO TELLINI, Leopardi, Roma, Salerno, 2001; STELVIO DI SPIGNO, L’autobiografia leopardiana per sentenze: I detti memorabili di Filippo Ottonieri, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli», gennaio 2002, pp. 75-130; ALESSANDRO PANAJA, Teresa Teja Leopardi. Storia di una “scomoda” presenza nella famiglia del poeta (con un inedito di Giacomo Leopardi), Pisa, ETS, 2002. SAGGI CRITICI DAL 1815 AL 1899: tutti gli interventi, italiani e stranieri, relativi agli anni 1815-1848, sono raccolti nel volume di NOVELLA BELLUCCI, Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e dall’Europa in vita e in morte del poeta, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996. Per la critica anteriore a Francesco De Sanctis, si veda MARIO MARTI, La fortuna del Leopardi nella critica predesanctisiana, in «Antico e 160 Bibliografia ______________________________________________________________________ nuovo», II, 1946 e III, 1947 (poi in Dal certo al vero, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1962, pp. 285-301). GIUSEPPE MONTANI, recensioni a Versi, Operette morali, Canti, in «Antologia», novembre-dicembre 1827, febbraio 1828, aprile 1831 [adesso in ANGIOLA FERRARIS (a cura di), Scritti letterari, Torino, Einaudi, 1980, pp. 193-215]; CARLO TENCA, gli articoli apparsi su «Il Crepuscolo» nel 1851, sono adesso raccolti in GIANLUIGI BERARDI (a cura di), Saggi critici, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 108-125; FRANCESCO DE SANCTIS, Alla sua donna. Poesia di Giacomo Leopardi [1855], in Saggi critici, 3ª edizione, Napoli, Morano,1874 [questo e gli altri scritti di De Sanctis su Leopardi si possono leggere in La letteratura italiana nel secolo XIX, vol. III: Giacomo Leopardi, a cura di WALTER BINNI, Bari, Laterza, 1953, in La letteratura italiana nel secolo decimonono, vol. IV: Leopardi, a cura di ANTONIO MUSCETTA e ANTONIO PERNA, Torino, Einaudi, 1960, e in ENRICO GHIDETTI (a cura di), Giacomo Leopardi, Roma, Editori Riuniti, 1983]; ANTONIO GUSSALLI (a cura di), Scritti editi e postumi, di PIETRO GIORDANI, Milano, Borroni e Scotti, 1856-1858 (tomo IV, pp. 118-131, 151-178 e tomo VI, pp. 122 segg.); FRANCESCO UGOLINI (a cura di), Pensieri e giudizi di Vincenzo Gioberti sulla letteratura italiana e straniera, Firenze, Barbèra, 1867; DOMENICO CIAMPOLI, La natura nelle opere di Giacomo Leopardi, Acireale, tipografia Ragonisi, 1889 (poi in Studi letterari, Catania, Giannotta, 1891); ADOLFO BORGOGNONI, Introduzione a Le prose artistiche di Giacomo Leopardi, Verona, Tedeschi, 1893; GIOVANNI NEGRI, Divagazioni leopardiane, Pavia, Tipografia del Corriere Ticinese, 18941899, 6 voll.; MICHELE LOSACCO, Il sentimento della noia nel Leopardi e nel Pascal [1895], Contributo alla storia del pessimismo leopardiano e delle sue fonti [1896], Per gli antecedenti della «Ginestra» [1896], in Indagini leopardiane, Lanciano, Carabba, 1937; GIOSUÈ 161 Bibliografia ______________________________________________________________________ CARDUCCI, Degli Spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi. 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Sullo stile dei «Canti» di Leopardi, Bologna, Il Mulino, 2006. 203 Bibliografia ______________________________________________________________________ SAGGI SU LEOPARDI E LA MUSICA Per la bibliografia completa sull’argomento specifico ‘Leopardi e la musica’ si veda la ricca bibliografia analitica di GIUSEPPE LUPPINO, L’eredità musicale di Giacomo Leopardi, Recanati, CNSL, 2002 (recensione di STEFANIA NOCITI, in Filologia Antica e Moderna, XV, 28, 2005). Si veda, inoltre, la Bibliografia reboriana a cura di ROBERTO CICALA e VALERIO ROSSI, con Presentazione di MARZIANO GUGLIELMINETTI, Firenze, Olschki, 2002. AGOSTINO CHIGI, Memoriabilia privata et publica (18011809; 1814-1855), Codice Vaticano Chigi 3966 bis, in data 6 novembre 1822; PIETRO BRIGHENTI, Della musica rossiniana e del suo autore. Discorso dell’avvocato Pietro Brighenti accademico filarmonico di Bologna, Bologna, Edizioni Dall’Olmo, 1830; JEAN JACQUES BARTHELEMY, Voyage du jeune Anacharsis en Grece, Paris, Hard, 1836; ANTONIO ZANOLINI, Biografia di Gioacchino Rossini, Bologna, 1875; ARTURO GRAF, Il Leopardi e la musica, in «Nuova Antologia», XXXII, 69, 1897, pp. 577-590; IDEM, Foscolo, Manzoni, Leopardi cit., 1898; CLEMENTE BENEDETTUCCI, Il teatro e la cultura musicale in Roma nel secondo quarto del secolo XIX, Roma, tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice, 1904 (estratto dal fascicolo di agosto 1904 della «Rivista d’Italia», pp. 1-2); ROMUALDO GIANI, L’estetica nei pensieri di Giacomo Leopardi cit., 1904; GIUSEPPE RADICIOTTI, Teatro, musica e musicisti in Recanati, Recanati, tipografia Simboli, 1904; CLEMENTE REBORA, Per un Leopardi mal noto cit., 1910; GIOACCHINO ROSSINI, Il barbiere di Siviglia: guida attraverso la commedia e la musica, Milano, Bottega di poesia, 1923; FRANCO BALDANELLO, Leopardi e la musica, in «Rivista d’Italia», 15, aprile 1924, pp. 450-459; ROMUALDO GIANI, Il piacere estetico nei «Pensieri» di Giacomo Leopardi, in «Rivista Musicale», 1928; ALFONSO RICOLFI, L’estetica in Leopardi e la sovranità della musica, 204 Bibliografia ______________________________________________________________________ in «La Tradizione», 2, 1929, pp. 129-134; CLEMENTE BENEDETTUCCI, Il teatro in Recanati, in «Il Casanostra. 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