OPERETTE MORALI

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OPERETTE MORALI
Nelle Operette Morali confluisce il nucleo della riflessione filosofica che Leopardi elaborò tra il 1819 ed il
1823. Abbandono della poesia (1822 Ultimo canto di Saffo, 1823 Alla sua donna) e scelta della prosa satirica
coincidono. Esse si collocano in un momento di snodo dell’elaborazione concettuale e artistica leopardiana,
cui giunge anche dopo una serie di delusioni:
-
nell’estate del 1819 tentò la fuga dalla casa paterna, perché sentiva il bisogno di allontanarsi dalla
famiglia che avrebbe voluto avviarlo alla carriera ecclesiastica. Con la fuga sperava di uscire da
quella specie di carcere, di venire a contatto con più vive esperienze intellettuali e sociali, ma il
tentativo fu scoperto e sventato. Lo stato d’animo conseguente a questo fallimento e una malattia
agli occhi che gl’impediva anche la lettura, unico conforto alla solitudine, lo portarono ad uno stato
di totale prostrazione e aridità. Raggiunse così la percezione lucidissima della nullità di tutte le cose
che è il nucleo del suo sistema pessimistico. Questa crisi del 1819 segna il passaggio dal “bello al
vero”, dalla poesia dell’immaginazione alla filosofia e ad una poesia nutrita di pensiero.
-
nel 1822 si recò a Roma , ospite dello zio Carlo Antici. Ma l’uscita tanto desiderata si risolse in una
cocente disillusione. Gli ambienti letterari di Roma gli apparvero vuoti e meschini, la stessa
grandezza monumentale della città lo infastidì.
Un’opera unitaria nei fini ma variata nelle forme.
Per Leopardi le Operette Morali erano un’opera unitaria ed organica, per questo motivo si rifiutò sempre alla
pubblicazione su rivista di singole prose.
Pur essendo concepite come opera unitaria, esse hanno una struttura organizzata in modo disorganico: da una
prosa all’altra mutano le tecniche narrative, mutano le ambientazioni e, quando ricostruibili, le epoche
storiche.
L’organicità sta nel fine del libro, che è un fine sia concettuale che pratico: esso vuole, da un lato, mostrare il
vero e irridere a tutte le sue mistificazioni illusorie e colpevoli, e, dall’altro, reperire modi di vita adeguati
alla consapevolezza del vero.
Tra filosofia e satira.
Il titolo dell’opera, ripreso dal retore greco Isocrate (V- IV secolo A. C.), ne riassume il carattere filosofico
(la morale è il ramo della filosofia che si occupa dei temi relativi alla vita ed al comportamento umano) e
insieme satirico, data la connotazione comica conferita all’aggettivo morali dal diminutivo operette.
Ma Isocrate non è la sola fonte di Leopardi: egli si avvale anche del modello di un altro scrittore greco,
Luciano di Samosata (II secolo D. C.) i cui Dialoghi gli forniscono esempi di stile e di contenuto; si serve
anche delle opere di molti scrittori settecenteschi francesi (Voltaire e Diderot).
L’opera si compone di “dialoghetti”, novelle e prose di diversa intonazione, in cui grande spazio è dato
all’ironia, al sarcasmo e al grottesco, “armi del ridicolo”, che sono per Leopardi le più adatte alla denuncia
dei vizi della propria e di ogni epoca.
Essendosi dedicato allo studio della condizione umana, l’autore ne dà una rappresentazione allegorica e
favolistica, offrendoci una galleria di figure d’ogni genere: personaggi storici, letterari e mitologici;
personificazioni di entità concrete e astratte; uomini comuni, animali e creature fantastiche. Ne nasce una
varietà di toni (compresi il commosso e il tragico) accostati con grande sapienza, in cui il punto di vista
prevalente è quello dell’ironia.
Gli obiettivi delle Operette Morali.
Scopo delle Operette Morali è quello di assolvere a tre compiti fondamentali:
-
rappresentare senza veli la necessità del dolore per gli uomini;
-
smascherare e deridere le illusioni consolatorie (prevalenti nel clima culturale del periodo della
Restaurazione e condivise anche dai liberali moderati);
-
indicare un modello di reazione all’infelicità; incarnato nelle passioni e nei gesti generosi e audaci
che anche la disperazione può consentire.
Leopardi sa bene che le Operette Morali contengono verità scandalose e difficili da accettare da parte dei
contemporanei; l’esercizio della ragione è sempre doloroso poiché conduce a concludere che “tutto è male“,
come si dice nello Zibaldone.
All’ingannevole ottimismo dei contemporanei Leopardi oppone la sua serena disperazione, il suo pungente
esercizio della critica: la ragione l’induce a distruggere le credenze ingannevoli, a rivelare le contraddizioni e
le imperfezioni, a denunciare l’incapacità dell’uomo di capire il mistero della vita e del mondo.
I temi delle Operette Morali.
I numerosi temi affrontati nelle Operette circolano da un testo all’altro, con progressive riprese e
arricchimenti. I temi fondamentali sono:
o
La teoria del piacere, basata sull’impossibilità per l’uomo di raggiungere la felicità. Questa consiste
in un piacere infinito, il cui ineliminabile desiderio non può essere soddisfatto dai singoli piaceri,
necessariamente limitati e temporanei. Da qui deriva la percezione sempre più acuta della “nullità di
tutte le cose“, della vanità della gloria (a cui ha aspirato, e che ha posto tra le illusioni vivificatrici
degli antichi), e della vita stessa; questa gli appare priva di scopi e ridotta a mera “esistenza“,
destinata a concludersi nel nulla della morte, in un orizzonte materialistico che esclude qualsiasi
prospettiva provvidenzialistica.
o
La Natura , vista ora come una “matrigna” e non più come una madre “benevola”.
o
La Civiltà, ritenuta responsabile della creazione di “falsi miti”.
o
L’ansia insoddisfatta d’infinito e la consapevolezza della fine inevitabile, che si traducono nel
sentimento che invade ogni istante della vita umana, la noia, che è la “vera materia del mondo“: esito
della frustrazione umana, prodotto dalla vanità di ogni speranza.
o
L’Arido Vero
Un tema che si va progressivamente definendo riguarda la concezione materialistica, che segna il passaggio
dal “pessimismo storico”(in cui l’infelicità umana è vista come caratteristica peculiare del mondo moderno e
civilizzato) ad un “pessimismo cosmico”. Leopardi, rifacendosi alla teoria del piacere, concepisce l’idea che
l’universo non sia fatto per l’uomo, poiché in esso dominano il dolore e l’irrazionalità, mentre l’uomo aspira
solo alla felicità ed al governo della ragione. La natura nel suo “perpetuo circuito di produzione e
distruzione” non ha alcun riguardo per la sorte delle sue creature, tesa com’è alla salvaguardia dell’equilibrio
dell’universo ed alla sua sopravvivenza.
L’origine del male, quello fatto e quello subito dall’uomo, è nell’ordine delle cose: Leopardi arriva a tale
conclusione nel maggio del 1824, durante la composizione del Dialogo della Natura e di un Islandese, dove
si precisano i termini del suo materialismo. La ragione dell’infelicità umana (e universale) viene ricondotta al
suo fondamento biologico, quello dell’essere per la morte. “Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio
ed unico obietto il morire recita il “Cantico del gallo silvestre”, in cui Leopardi ci dice che la vita è una
fatica insostenibile se non fosse interrotta dal sonno, “particella di morte“; il gallo ricorda quindi che il
tendere alla morte è legge e causa dell’esistenza di tutte le cose.
Con le ultime operette (del ’32) Leopardi abbandona il suo austero individualismo per una più aperta
valorizzazione della compassione e della solidarietà. Agli uomini non resta che il coraggio di accettare la
propria condizione con saggezza e distacco: un atteggiamento in cui si riconosce lo stesso Leopardi e che
ritrova anche nel Manuale, da lui tradotto, del filosofo stoico Epitteto (II – I secolo D. C.). Questo eroismo
della verità è sostenuto dal “senso dell’animo”: un sentimento di compassione e di fratellanza nei confronti
degli altri uomini, compagni di sofferenze.
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