Effetti della terapia del diabete sulla malattia cardiovascolare

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Effetti della terapia del diabete
sulla malattia cardiovascolare
Angelo Avogaro
Cattedra di Malattie del Metabolismo, Dipartimento di Medicina (DIMED), Università degli Studi, Padova
It is debatable whether metabolic control in patients with type 2 diabetes is followed by a commensurate reduction in cardiovascular risk. Large clinical outcome trials have shown that lowering glucose is a poor predictor of cardiovascular outcome; rather a too tight metabolic control exposes patients, particularly those at
risk for hypoglycemia, and with renal failure, to severe adverse events. This article reviews the specific effects
of the most commonly used glucose-lowering agents on the cardiovascular system, and specifies which drug
is best suited for a given clinical condition related to cardiovascular disease.
Key words. Cardiovascular disease; Diabetes mellitus, type 2; Incretins; Insulin; Secretagogues.
G Ital Cardiol 2013;14(12 Suppl 1):26S-36S
INTRODUZIONE
L’incidenza di cardiovasculopatia nel diabete mellito di tipo 2 è
tale che questa patologia può essere considerata, dopo alcuni
anni dalla diagnosi, come un equivalente di rischio coronarico1.
Il rapporto tra diabete e aterosclerosi non è un rapporto “soglia” ma, al contrario, è stato osservato come, per un aumento anche modesto di emoglobina glicata (HbA1c), si ha un incremento significativo del rischio di coronaropatia e di malattia
cardiovascolare. La lesione aterosclerotica presuppone come
tappa iniziale l’attivazione seguita da un danno all’endotelio
che perde le sue funzioni fisiologiche come la capacità di vasodilatare secondaria alla produzione di ossido nitrico (NO),
un’azione antiaggregante, e la normale interazione tra endotelio e cellule circolanti2. Dal punto di vista funzionale nel paziente diabetico è presente una disfunzione del microcircolo già
presente nelle fasi precoci della malattia determinata da un aumentato stress ossidativo. In presenza di diabete l’endotelio
mostra una ridotta capacità rigenerativa; inoltre vi sono aumentati livelli di cellule vascolari pro-calcifiche che sono in grado di indurre calcificazione a livello vascolare3. L’impatto negativo che l’iperglicemia esercita sulla funzione endoteliale nel paziente diabetico può essere svolto anche indirettamente da quei
substrati che in questa condizione metabolica possono essere
elevati: tra questi vanno sicuramente annoverati gli acidi grassi liberi. Il diabete mellito, oltre al tradizionale quadro dismetabolico, è caratterizzato dalla presenza di un processo infiammatorio cronico subclinico che non solo è conseguente all’alterazione metabolica, ma anche causa della fragilità della placca aterosclerotica e quindi di sindrome coronarica acuta. Nel
2003 Khot et al.4 hanno riportato che in 122 458 pazienti af-
© 2013 Il Pensiero Scientifico Editore
L’autore dichiara rapporti di tipo economico e professionale con
Eli Lilly, Novo Nordisk, Merck Sharp & Dohme, GSK, Boehringer
Ingelheim, Novartis, Bristol-Myers Squibb/AstraZeneca, Servier.
Per la corrispondenza:
Prof. Angelo Avogaro Cattedra di Malattie del Metabolismo,
Dipartimento di Medicina, Università degli Studi, Via Giustiniani 2,
35128 Padova
e-mail: [email protected]
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fetti da coronaropatia, almeno uno dei 4 fattori di rischio tradizionali (fumo, diabete, ipertensione arteriosa e dislipidemia)
era presente nell’84.6% delle donne e nell’80.6% degli uomini. Nel paziente diabetico la presenza dei fattori di rischio classici, oltre ovviamente al diabete, è più prevalente rispetto ai
soggetti non diabetici; purtroppo nella stragrande maggioranza di questi pazienti i fattori di rischio sono presenti in forma assai più grave. Ciò può spiegare, almeno in parte, l’eccesso di
mortalità per malattia cardiovascolare in questa popolazione
dove sono operanti anche altri fattori di rischio non presenti
nella popolazione generale, il più importante dei quali è la microangiopatia5. Le complicanze microvascolari rappresentano
un importante fattore di rischio per complicanze macrovascolari. La presenza di una complicanza microvascolare predice indipendentemente la coronaropatia: questo è vero sia per la nefropatia sia per la retinopatia. A differenza della macroangiopatia, la cui eziopatogenesi è prevalentemente determinata da
dislipidemia, ipertensione arteriosa, fumo e stato pro-infiammatorio, la microangiopatia è classicamente determinata dall’iperglicemia. Se da una parte esistono molteplici evidenze che
il rischio di mortalità cardiovascolare aumenta con l’incremento del valore di HbA1c, dall’altra i trial di intervento che hanno
avuto come obiettivo di verificare se la riduzione dell’HbA1c si
associava ad una riduzione degli eventi cardiovascolari, hanno
offerto risultati molto controversi. I risultati di studi di intervento
come l’ACCORD (Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes Study), l’ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular Disease: Preterax and Diamicron MR Controlled Evaluation) e il
VADT (Veterans Affairs Diabetes Trial) sembrano negare il concetto secondo il quale lo stretto controllo glicemico possa conferire una protezione nei confronti della malattia cardiovascolare nel paziente diabetico6-8. Secondo queste considerazioni,
una terapia antidiabetica che riduca contemporaneamente la
glicemia e sia in grado di esercitare effetti positivi a livello vascolare potrebbe contribuire a ridurre morbilità e mortalità cardiovascolare. In questa rassegna saranno presi in considerazione i potenziali effetti protettivi cardiovascolari dei diversi farmaci antidiabetici e le evidenze di questi effetti nel paziente
diabetico di tipo 2.
EFFETTI DELLA TERAPIA DEL DIABETE SULLA MALATTIA CARDIOVASCOLARE
METFORMINA
La metformina è il farmaco di prima scelta per il trattamento del
diabete di tipo 2: è in grado di ridurre la glicemia e quindi
l’HbA1c senza indurre ipoglicemia. La metformina è un insulinosensibilizzante: riduce sia i livelli di insulina che l’insulino-resistenza, caratteristica questa del paziente diabetico di tipo 2. La
sua azione principale è l’inibizione della gluconeogenesi e quindi della produzione epatica di glucosio9. La metformina attiva
la AMP-activated protein kinase (AMPK), una chinasi serina/
treonina dipendente che sovrintende al metabolismo energetico intracellulare essendo strettamente dipendente dal rapporto AMP/ATP. L’attivazione di AMPK modifica il metabolismo intracellulare da anabolico a catabolico: ciò comporta un blocco
della sintesi di glucosio, lipidi e proteine e la stimolazione della loro ossidazione. L’attivazione di AMPK del farmaco è secondaria all’azione dello stesso a livello mitocondriale, dove la
metformina induce la specifica inibizione del complesso 1 della catena respiratoria; è inoltre in grado di esercitare un effetto antiossidante mediante l’inibizione del flusso di elettroni lungo la catena respiratoria e della protein chinasi C10. L’insulinoresistenza è un meccanismo patogenetico centrale nel diabete
di tipo 2 che contribuisce non solo allo sviluppo di iperglicemia,
ma conferisce anche un rischio indipendente per malattia cardiovascolare. Pertanto la sensibilizzazione all’azione dell’insulina rappresenta una strategia non solo per ridurre la glicemia
ma anche per ridurre il rischio cardiovascolare. La metformina
può ridurre l’HbA1c dello 0.5-1.5% ed esercita benefici seppur
modesti sui fattori di rischio tradizionali riducendo la pressione
arteriosa, migliorando il profilo lipidico e riducendo il peso corporeo per un lieve effetto anoressizzante. La metformina può
migliorare lo stato pro-fibrinolitico riducendo i livelli circolanti
dell’inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI)-1 e il fattore di von Willebrand, può ridurre l’aggregazione piastrinica, lo
stato pro-infiammatorio e migliorare la funzione endoteliale11.
Numerosi studi osservazionali hanno dimostrato un beneficio
della metformina sia per quanto riguarda la mortalità totale, la
cardiopatia ischemica e lo scompenso cardiaco. Johnson et al.12,
in un campione di 12 272 nuovi utilizzatori di antidiabetici orali, con almeno 1 anno di esposizione al farmaco e nessun uso
di insulina, hanno riportato tassi di mortalità del 24.7% per i
soggetti trattati in monoterapia con sulfaniluree (SU), del
13.8% per quelli trattati in monoterapia con metformina e del
13.6% per quelli trattati con la terapia di combinazione con un
rischio per mortalità per monoterapia con metformina del 40%
in meno rispetto a SU in monoterapia12. Per quanto riguarda
lo scompenso cardiaco, in uno studio retrospettivo di coorte su
16 417 con diabete dimessi con diagnosi di insufficienza cardiaca, i tassi di mortalità ad 1 anno erano del 30.1% nei trattati con glitazonici e del 24.7% nei trattati con metformina13.
Per quanto riguarda la cardiopatia ischemica, uno studio osservazionale su 253 690 pazienti che iniziavano un trattamento antidiabetico, l’incidenza di eventi compositi era di 18.2 per
1000 anni-persona per i pazienti in trattamento con SU (esclusa gliclazide) e di 10.4 per 1000 persone-anno in coloro che
erano in trattamento con metformina14.
La metformina è stata utilizzata nello studio UKPDS (UK
Prospective Diabetes Study) nel quale 342 diabetici in sovrappeso sono stati trattati con questo farmaco: in questo sottogruppo il farmaco ha indotto una riduzione del rischio di infarto pari al 39% rispetto a 411 pazienti considerati come controllo15,16. Questi dati sono stati confermati nel follow-up a 8
anni dello studio durante i quali le differenze tra i due gruppi,
quello di intervento e quello di controllo, non sono state conservate17. Queste evidenze hanno indotto a ipotizzare un effetto cardioprotettivo di questo farmaco, diventato ormai il trattamento di prima scelta in quasi tutte le linee guida nazionali e
internazionali. Nello studio BARI 2D (Bypass Angioplasty Revascularization Investigation 2 Diabetes), a cui hanno partecipato pazienti diabetici con comprovata malattia coronarica, la
metformina è stato il farmaco maggiormente usato (spesso in
combinazione con rosiglitazone), nel gruppo trattato con insulino-sensibilizzanti rispetto al gruppo trattato con terapia insulinica e/o secretagoghi18. In questo studio non si sono osservate differenze in termini di eventi e mortalità tra le due strategie
antidiabetiche. L’impiego di metformina è controindicato, oltre
che nei pazienti intolleranti al farmaco, in tutti coloro che presentano una velocità di filtrazione glomerulare (VFG) <30
ml/min; deve essere utilizzata con cautela in coloro in cui la VFG
è compresa tra 60 e 30 ml/min19.
SULFANILUREE
Il trattamento del diabete di tipo 2 con SU è estremamente popolare soprattutto grazie al loro basso costo: questi farmaci
svolgono la loro azione ipoglicemizzante stimolando la secrezione insulinica tramite interazione con i recettori sulle cellule β
del pancreas, bloccando i canali K+ ATP-dipendenti. Il blocco di
questi canali apre i canali del calcio voltaggio-dipendenti, causando un influsso di Ca2+ che porta alla liberazione di insulina
da parte delle cellule β. Il trattamento con SU ha generato parecchio dibattito su di una loro presunta nocività in termini di
eventi cardiovascolari; ciò è stato determinato dall’osservazione
che il loro meccanismo d’azione, a livello delle β-cellule pancreatiche, si basa sulla chiusura dei canali del potassio ATP-dipendenti, i quali sono strettamente connessi ai recettori specifici, SUR1-Kir6.2, per le SU20. La chiusura di questi canali aumenta le concentrazioni intracellulari di calcio con conseguente liberazione di insulina. Sfortunatamente analoghi recettori,
SUR2-Kir 6.2, sono presenti a livello del circolo coronarico; in
questa sede la chiusura di tali canali inibisce l’iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce e pertanto impedisce la vasodilatazione conseguente ad un insulto ischemico. Tale fenomeno
viene chiamato precondizionamento ischemico ovvero una risposta vasodilatatoria autonoma del letto vascolare in risposta
ad ischemia ripetuta. Le SU inibirebbero il precondizionamento,
fenomeno questo che è stato dimostrato in vivo nell’uomo21:
non vi è però uno studio randomizzato e controllato che abbia
evidenziato che le SU portino ad un eccesso di eventi per questo meccanismo. È importante sottolineare come, all’interno
della classe delle SU, vi sia una notevole differenziazione delle
stesse sia nella farmacodinamica che nella farmacocinetica. Infatti, tra le varie SU il rapporto di selettività tra β-cellula e cuore è estremamente variabile. A fronte di un rapporto <1 per repaglinide, gliclazide presenta un rapporto di 16 000: ciò significa che questa SU agisce quasi esclusivamente sulle β-cellule
pancreatiche, senza esercitare effetto “spillover” sul miocardico. Le SU selettive per le β-cellule sono proprio, per questo motivo, indicate come le SU d’elezione nel trattamento del diabetico con cardiopatia ischemica22. Alcuni studi hanno ipotizzato
che glimepiride induca una minor interferenza con il precondizionamento ischemico e sia quindi la SU da preferire nel paziente diabetico con cardiopatia ischemica. D’altra parte il regiG ITAL CARDIOL | VOL 14 | SUPPL 1 AL N 12 2013
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stro danese ha dimostrato che nei pazienti diabetici senza e con
pregresso infarto miocardico, rispetto a metformina, i trattamenti con glimepiride, glibenclamide, glipizide e tolbutamide
erano associati ad un aumento della mortalità per qualsiasi causa nei pazienti senza precedente infarto miocardico23. Nei pazienti con pregresso infarto i trattamenti con glimepiride, glibenclamide, glipizide e tolbutamide si associavano ad un aumento di mortalità, dato che non si osservava per i pazienti in
trattamento con gliclazide e repaglinide. Il registro nazionale
francese ha dimostrato che nei pazienti ricoverati per infarto
miocardico, tra i pazienti trattati con SU, la mortalità in ospedale
è stata inferiore nei pazienti trattati con gliclazide o glimepiride
rispetto a glibenclamide24. Aritmie e complicanze ischemiche
erano anche meno frequenti nei pazienti trattati con gliclazide/glimepiride. L’ormai storico University Group Diabetes Program Study aveva dimostrato che i pazienti trattati con tolbutamide presentavano una più alta mortalità25. In tempi più recenti l’UKPDS è stato il primo studio che ha valutato l’effetto del
trattamento con SU sugli eventi cardiovascolari. In questo studio non si è dimostrata nessun efficacia sull’endpoint principale, l’infarto miocardico, del trattamento intensivizzato basato
sulla somministrazione di SU: questa efficacia si è invece osservata nel periodo post-trial con una riduzione del 33%26. Oltre
all’UKPDS, condotto su pazienti diabetici di tipo 2 all’esordio,
l’ADVANCE è stato un trial disegnato per evidenziare l’efficacia
della normalizzazione della glicemia (nonché della pressione)
nei pazienti diabetici di tipo 2 ad alto rischio cardiovascolare sugli eventi combinati micro- e macrovascolari27. Nel braccio intensivizzato la sola SU permessa era gliclazide a rilascio prolungato mentre i pazienti in terapia standard potevano essere trattati solo con SU diverse da gliclazide. L’ADVANCE ha dimostrato che il controllo intensivizzato della glicemia riduceva l’endpoint combinato (macro+microangiopatia), soprattutto grazie
ad una riduzione dell’incidenza di nefropatia. Non si osservava
alcun effetto sull’incidenza di macroangiopatia e sulla morte da
qualsiasi causa. L’ADVANCE, a differenza dell’ACCORD, non ha
evidenziato un eccesso di mortalità in relazione a uno stretto
controllo della glicemia e, soprattutto, ha dimostrato un basso
tasso di ipoglicemie gravi rispetto a ACCORD e VADT. Quest’ultimo dato è estremamente importante dal momento che le
ipoglicemie sono assai frequenti in corso di trattamento con SU,
soprattutto se vengono utilizzate quelle a lunga emivita, quale
glibenclamide. Infatti le ipoglicemie severe si associano, indipendentemente da altre comorbilità, ad un aumento del rischio
di eventi cardiovascolari di oltre il 50%28.
Per quanto riguarda lo scompenso cardiaco, in uno studio
retrospettivo di coorte la terapia con SU era gravata da un aumento di scompenso dal 18% al 30% rispetto metformina29.
Nello studio ADVANCE, la terapia ipoglicemizzante con gliclazide non dimostrava alcun effetto negativo sullo scompenso cardiaco, patologia questa, prespecificata come endpoint secondario. Nello studio ADOPT (A Diabetes Outcome Progression
Trial) è stato osservato che i pazienti in terapia con glibenclamide presentavano un’incidenza di scompenso cardiaco decisamente inferiore rispetto a coloro che erano in terapia con rosiglitazone e metformina30. Il più recente Euro Heart Survey e il
DIGAMI-2 (Diabetes Mellitus and Insulin-Glucose Infusion in
Acute Myocardial Infarction 2) hanno comprovato che l’uso di
secretagoghi non si associa ad un’aumentata mortalità cardiovascolare31,32. In conclusione, l’uso di questi farmaci deve essere
contemplato con molta cautela nei pazienti con scompenso cardiaco. Nonostante il loro basso costo, la maggior parte delle li-
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nee guida ritengono che l’utilizzo delle vecchie SU sia da proscrivere nei pazienti con sottostante coronaropatia e che le nuove siano da utilizzare con cautela nel paziente fragile e con ridotta funzione renale. Le linee guida della National Kidney Foundation (KDOQI) affermano che l’uso di glibenclamide va evitato,
che glimepiride va utilizzata titolando attentamente la dose
mentre per glipizide e gliclazide non vi è necessità di aggiustare
la dose33. Per quanto riguarda repaglinide, la dose iniziale deve
essere di 0.5 mg ai pasti se la VFG è <30 ml/min/1.73 m2.
INIBITORI DELL’ALFA-GLUCOSIDASI
Gli inibitori dell’alfa-glucosidasi (a-GI) sono molto prescritti soprattutto in Asia, molto meno in Europa e negli Stati Uniti. Il loro utilizzo è molto limitato soprattutto per gli importanti effetti collaterali intestinali (meteorismo). I più noti a-GI sono l’acarbosio, il voglibosio e il miglitolo. Il meccanismo ipoglicemizzante si basa sulla loro capacità di inibire l’assorbimento dei
carboidrati: per questo effetto riducono soprattutto le escursioni della glicemia post-prandiale. La riduzione dell’HbA1c è
dell’ordine dello 0.5% in monoterapia. Il razionale per il loro
uso si basa sul fatto che i picchi post-prandiali possano rappresentare un importante fattore di rischio per malattia cardiovascolare34. Un piccolo studio ha riportato un effetto benefico di
acarbosio sul rapporto mio-intimale carotideo35. Sembra anche
possa esercitare un modesto effetto sulla pressione arteriosa sistolica. Una metanalisi condotta su 7 studi ma che comprendeva solamente 2180 pazienti studiati per 1.1 anni, ha dimostrato che acarbosio riduceva il rischio relativo per qualsiasi
evento cardiovascolare36. Nello studio STOP-NIDDM (Study to
Prevent Non-Insulin-Dependent Diabetes Mellitus), acarbosio è
stato utilizzato per valutare il suo effetto sulla progressione da
alterata tolleranza ai carboidrati a diabete37. In una sottoanalisi è stato osservato che l’utilizzo di questo farmaco si associava ad un’importante riduzione del rischio relativo cardiovascolare, anche se il numero dei soggetti (n=1368) e la durata del follow-up (3.3 anni) erano di dimensioni limitate38. In conclusione
il trattamento con a-GI seppur gravato da importanti effetti collaterali può rappresentare un’opzione di prima scelta nei pazienti
con diabete modesto, e intolleranti alla metformina. Inoltre questi farmaci sembrano svolgere un certo ruolo protettivo sul sistema cardiovascolare riducendo le escursioni glicemiche.
TIAZOLIDINEDIONI
I tiazolidinedioni (TZD) sono ligandi ad alta affinità per i recettori nucleari PPAR-γ, membri della super-famiglia di recettori
nucleari dei fattori di trascrizione ligando-attivati. I PPAR-γ sono espressi soprattutto nel tessuto adiposo ed in minore quantità in altri distretti come cuore, cellule muscolari lisce, monociti, milza, rene, fegato, intestino, surrene, isole pancreatiche e
muscolo-scheletrico. Previa attivazione da parte dei TZD, il
PPAR-γ forma un eterodimero con un altro recettore nucleare,
il recettore del retinoide-X39. Questo eterodimero è in grado di
legarsi a specifiche sequenze di DNA regolando l’attività trascrizionale di geni codificanti proteine che regolano il metabolismo del glucosio e dei lipidi, così come la risposta infiammatoria40. L’attivazione di PPAR-γ da parte dei TZD determina un
aumento della sensibilità insulinica periferica, epatica e adipocitaria. I TZD promuovono la differenziazione degli adipociti,
con produzione di un maggior numero di adipociti di ridotte
EFFETTI DELLA TERAPIA DEL DIABETE SULLA MALATTIA CARDIOVASCOLARE
dimensioni, caratterizzati da maggiore insulino-sensibilità, ridotta produzione di acidi grassi liberi, fattore di necrosi tumorale-α e leptina e aumentata produzione di adiponectina. I TZD
promuovono lo sviluppo del tessuto adiposo sottocutaneo rispetto a quello viscerale. Pertanto il meccanismo d’azione dei
TZD sembra svolgersi a livello del tessuto adiposo, del metabolismo lipidico e della risposta infiammatoria. La loro efficacia
ipoglicemizzante è simile a quella delle SU e della metformina,
con una riduzione dei livelli di HbA1c dell’ordine di 1.0-1.5%
quando impiegati in monoterapia41. È stato ipotizzato che proprio grazie a questa loro azione sullo stato pro-infiammatorio
e lipidico, i TZD potessero esercitare effetti favorevoli sul profilo di rischio cardiovascolare del paziente con diabete di tipo 2.
Il destino dei due TZD, rosiglitazone (RGZ) e pioglitazone (PGZ),
è stato alquanto diverso. Per quanto riguarda gli effetti sul metabolismo lipidico RGZ si associa ad un aumento del colesterolo LDL nonostante entrambi i farmaci determinino favorevoli
modificazioni delle caratteristiche chimico-fisiche delle LDL che
risultano meno dense e quindi potenzialmente meno aterogene42. Mentre PGZ determina una riduzione dei livelli di trigliceridi, RGZ si associava ad un loro incremento (variabile dal 2%
al 19%). Il trattamento con TZD si accompagna a modesti decrementi della pressione arteriosa, ad una riduzione della microalbuminuria e ad un miglioramento della funzione endoteliale43. Il loro utilizzo si associa a un aumento di peso in gran
parte determinato dalla ritenzione di liquidi mediata a livello
renale dall’attivazione dei PPAR-γ a livello dei tubuli collettori.
Per questo motivo il loro trattamento è gravato da un importante aumento di scompenso cardiaco, situazione che ne proscrive il loro utilizzo in via assoluta. Un’altra ipotesi per l’insorgenza di edema potrebbe essere conseguente ad un’aumentata vasodilatazione insulino-indotta e all’aumentata produzione
di fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF). In monoterapia l’incidenza di edema declive varia dal 3% al 5% sia per
RGZ sia per PGZ ma può aumentare se questi farmaci vengono
utilizzati in associazione specie con insulina23. D’altra parte in
uno studio di Inzucchi et al.44 in cui si valutava la mortalità per
tutte le cause e la riammissione ospedaliera per scompenso cardiaco ad 1 anno, nel sottogruppo di pazienti con preesistente
scompenso i TZD non aumentavano il rischio di morte. Vi era invece un trend in aumento per il ricovero ospedaliero per scompenso cardiaco in coloro in terapia con TZD rispetto agli altri
antiadiabetici orali insulina compresa. In uno studio di Masoudi et al.45 la terapia con TZD era associata a una ridotta mortalità e a nessun aumento dell’ospedalizzazione per tutte le cause. Dargie et al.46, in uno studio con casistica molto più piccola, hanno rilevato che la terapia con TZD non modificava la frazione di eiezione, il volume ventricolare sinistro e il flusso transmitralico. Un ulteriore studio di Aguilar et al.47 non dimostrava alcun incremento di scompenso cardiaco in diabetici di tipo
2 né un aumento della mortalità per tutte le cause. Il National
Heart Care Project in oltre 23 000 pazienti diabetici di tipo 2 ha
infine dimostrato che il trattamento con TZD nel postinfarto
non si associava ad un’aumentata mortalità ma ad un’aumentata incidenza di nuovi ricoveri ospedalieri per scompenso cardiaco48. Nello studio DREAM (Diabetes REduction Assessment
with ramipril and rosiglitazone Medication) la diagnosi di scompenso cardiaco veniva posta nello 0.5% in coloro che si trovavano nel braccio RGZ vs lo 0.1% nel braccio placebo49. Nello
studio ADOPT lo scompenso cardiaco veniva registrato
nell’1.5% in coloro che erano in trattamento con RGZ, nello
1.3% nei pazienti in terapia con metformina e nello 0.6% nei
pazienti in terapia con glibenclamide50. Nello studio RECORD
(Rosiglitazone Evaluated for Cardiac Outcomes and Regulation
of Glycaemia in Diabetes) si avevano 38 eventi di scompenso
cardiaco nel braccio RGZ contro i 17 eventi nel braccio di controllo con un rischio per scompenso in coloro che erano in trattamento con RGZ di 2.2451. Nel PROactive (PROspective pioglitAzone Clinical Trial In macroVascular Events) la diagnosi di
scompenso cardiaco veniva riportata nell’11% dei pazienti in
terapia con PGZ e nell’8% nei pazienti in terapia con placebo;
il 6% dei pazienti in terapia con PGZ necessitava di un ricovero ospedaliero per scompenso cardiaco contro il 4% dei pazienti in trattamento con placebo52. Per quanto riguarda il rischio di scompenso cardiaco, la metanalisi di Lago et al.53 condotta su 20 191 pazienti con diabete e pre-diabete il rischio di
scompenso cardiaco era di 1.72 (intervallo di confidenza [IC]
95% 1.21-2.42, p=0.002) in coloro in terapia con TZD rispetto ai controlli. Il rischio di morte non era invece significativamente diverso. La metanalisi di Lincoff et al.54, effettuata su 19
trial in cui erano stati arruolati 16 390, ha dimostrato che nei
diabetici in terapia con PGZ un grave scompenso cardiaco era
riportato nel 2.3% contro l’1.8% dei controlli (hazard ratio
1.41; IC 95% 1.14-1.76; p=0.002). Per quanto riguarda la cardiopatia ischemica, nonostante i benefici effetti pleiotropici,
RGZ è stato ritirato dal commercio in Italia e il suo impiego molto ridotto in altri paesi, per la sua presunta associazione con un
aumentato rischio (+43%) di infarto miocardico55. Questo legame tra RGZ ed infarto è stato recentemente messo in discussione. Studi di piccole dimensioni hanno dimostrato che
PGZ può avere effetti positivi sulla proliferazione neo-intimale
dopo impianto di stent sia nei pazienti diabetici sia nei non diabetici56. Studi di maggiori dimensioni hanno suggerito un consistente effetto di protezione cardiovascolare. Nel PROactive,
che ha coinvolto 5238 pazienti diabetici di tipo 2, PGZ ha indotto una riduzione del rischio relativo del 16% del principale
endpoint composito secondario: mortalità per tutte le cause,
infarto miocardico non fatale e ictus57. Nel sottogruppo di pazienti con pregresso infarto i pazienti trattati con PGZ dimostravano: una riduzione del rischio del 28% per reinfarto fatale e non fatale, del 37% per sindrome coronarica acuta58. Nei
pazienti con pregresso ictus, PGZ riduceva l’ictus fatale e non
fatale del 47%. Una metanalisi ha corroborato questi risultati
nonostante PGZ sia associato ad un significativo aumento di
scompenso59. Lo studio CHICAGO (Carotid Intima-Media
Thickness in Atherosclerosis Using Pioglitazone) ha dimostrato
che in pazienti diabetici di tipo 2 randomizzati a PGZ o glimepiride, dopo 72 settimane, PGZ riduceva la progressione dello
spessore mio-intimale carotideo rispetto a glimepiride60. Lo studio PERISCOPE (Pioglitazone Effect on Regression of Intravascular Sonographic Coronary Obstruction Prospective Evaluation), eseguito su 543 pazienti diabetici di tipo 2 sottoposti a ultrasonografia intravascolare dei vasi coronarici prima e dopo
18 mesi di trattamento con PGZ o glimepiride, ha dimostrato
che i pazienti che ricevevano PGZ presentavano una riduzione
del volume ateromasico dello 0.16% rispetto ad un incremento dello 0.73% osservato nei pazienti in glimepiride61. La specifica protezione di PGZ rispetto a RGZ come precedentemente dimostrato è probabilmente legata ai migliori effetti sul metabolismo lipidico; a supporto di questa ipotesi, in uno studio
retrospettivo condotto dai medici di famiglia inglesi è stato dimostrato che PGZ riduceva la mortalità per tutte le cause dal
31% al 39% rispetto a metformina. In altro studio osservazionale è stato visto come PGZ riducesse la mortalità per infarto
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miocardico acuto o scompenso del 17% rispetto a RGZ62. In
conclusione PGZ, unico TZD commercializzato in Italia, è un farmaco efficace nel ridurre l’insulino-resistenza e nel migliorare il
compenso metabolico nel paziente diabetico di tipo 2. Il suo
uso, nonostante sia gravato da un eccesso di ritenzione di fluidi e, conseguentemente, di scompenso cardiaco, sembra svolgere un effetto benefico a livello vascolare anche nel paziente
con insufficienza renale. Le linee guida KDOQI indicano che
questi farmaci, avendo un’escrezione prevalentemente epatica, possono essere prescritti con una certa sicurezza, senza aggiustamento della dose nei pazienti con insufficienza renale.
INCRETINE
All’inizio di un pasto vi è un aumento della secrezione di entero-ormoni chiamati incretine: il più importante di questi ormoni di derivazione intestinale, il glucagon-like peptide-1 (GLP-1),
stimola la secrezione insulinica e inibisce la secrezione di glucagone, con conseguente diminuzione della glicemia. Una volta secreto il GLP-1 è rapidamente (2-3 min) inattivato da uno
specifico enzima, la dipeptidil peptidasi-4 (DPP-4). A sua volta,
l’inattivazione della DPP-4 con specifici inibitori prolunga significativamente l’emivita del GLP-1 e quindi la sua attività antiiperglicemicizzante63. Il GLP-1 agisce tramite l’interazione con
un recettore (GLP-1R) ampiamente espresso nel sistema cardiovascolare64. L’attivazione del GLP1-R aumenta i livelli di
cAMP, della protein chinasi A e del calcio intracellulare; stimola inoltre vie di trasduzione del segnale antiapoptotiche, è in
grado di attivare il rilascio di NO con conseguente vasodilatazione e aumento dell’utilizzazione del glucosio. Gli inibitori della DPP-4 attualmente in commercio in Italia sono: sitagliptin, linagliptin, vildagliptin e saxagliptin. Essi riducono l’HbA1c di circa 0.5-0.9% inducendo anche una progressiva ma modesta riduzione di peso. Più marcata è invece la riduzione dell’HbA1c da
parte degli attivatori del GLP-1R, liraglutide ed exenatide, nell’ordine dello 0.9-1.5%, come più marcata è la loro capacità di
ridurre il peso corporeo. È stato dimostrato sia nei pazienti diabetici di tipo 1 sia di tipo 2 che l’attività della DPP-4 plasmatica è significativamente aumentata e si correla fortemente ai valori di HbA1c: questo fenomeno può contribuire, soprattutto nel
diabetico di tipo 2, ad un maggior catabolismo del GLP-1 e di
conseguenza ad una ridotta secrezione insulinica65. Sia gli agonisti del GLP-1R sia gli inibitori della DPP-4 sono in grado di
esercitare un effetto protettivo a livello endoteliale. Ciò è stato
osservato anche nell’uomo per entrambe le classi di farmaci.
A livello miocardico, i topi con delezione genetica della DPP4 dimostravano normali indici di funzione e struttura cardiaca
mentre la sopravvivenza nel postinfarto era modestamente migliorata; i topi senza delezione genetica ma trattati con sitagliptin dimostravano una ridotta mortalità dopo infarto66. Numerosi studi hanno evidenziato come, sia gli inibitori della DPP4 sia gli agonisti del GLP-1R migliorino alcuni indici di ischemiariperfusione. L’inibizione della DPP-4 appare in grado di svolgere un’azione antischemica anche nell’uomo. In un studio sono stati valutati 14 pazienti con cardiopatia ischemica e preservata funzione ventricolare sinistra in attesa di rivascolarizzazione67. Dopo una singola dose di sitagliptin o placebo, sono
stati sottoposti a eco-stress con dobutamina a riposo, al picco
dello stress e 30 min dopo. Il trattamento con sitagliptin migliorava significativamente la frazione di eiezione rispetto ai
controlli. Alcune metanalisi hanno confermato il profilo di pro-
30S
G ITAL CARDIOL | VOL 14 | SUPPL 1 AL N 12 2013
tezione cardiovascolare degli inibitori della DPP-4. Una prima
metanalisi, che ha considerato 18 studi clinici controllati e randomizzati di durata superiore a 24 settimane comprendenti
4998 pazienti randomizzati a inibitori della DPP-4 e 3546 pazienti ad altro farmaco attivo, ha valutato la sicurezza cardiovascolare di questi farmaci68. Il rischio relativo per ogni evento
avverso durante trattamento con inibitori della DPP-4 è risultato pari a 0.48, e il rischio relativo per infarto miocardico acuto
non fatale o sindrome coronarica acuta pari a 0.40 (da 0.18 a
0.88, p<0.02). Una seconda metanalisi ha riportato che l’uso
degli inibitori della DPP-4 si associa ad un rischio di eventi cardiovascolari maggiori pari a 0.689 indipendentemente dalla durata del trial, dal tipo di inibitore della DPP-4 utilizzato o dal
comparatore attivo69. A differenza degli inibitori della DPP-4,
gli agonisti del GLP-1R sono in grado di esercitare un discreto
effetto ipotensivo: il GLP-1 inibisce l’assorbimento del sodio nel
tubulo prossimale70. Recentemente, Kim et al.71 hanno dimostrato che l’attivazione del GLP-1R promuove la secrezione di
peptide natriuretico atriale (ANP) e una riduzione della pressione arteriosa. Inoltre essi hanno anche osservato che liraglutide
aumenta le concentrazioni plasmatiche di ANP nel topo wildtype, ma non nell’animale Glp1R (-/-), migliorando l’escrezione
di sodio nelle urine. Sia gli agonisti del GLP-1R sia gli inibitori
della DPP-4 svolgono un’azione antinfiammatoria riducendo i
biomarcatori circolanti di infiammazione. A tale riguardo la
DPP-4 svolge un ruolo di primaria importanza nel sistema immunitario: in vitro l’espressione di questa proteina viene stimolata dopo attivazione e proliferazione dei linfociti T; un’elevata espressione di CD26 correla con la produzione di citochine quali l’interferone-γ ed è implicata nella trasformazione dei
linfociti B a plasma cellule72. È pertanto intuitivo comprendere
l’importanza che può avere la somministrazione degli inibitori
della DPP-4 sui processi immunitari e in generale sui processi
pro-infiammatori soprattutto a livello del tessuto adiposo. A
questo riguardo Lamers et al.73 hanno recentemente dimostrato che la DPP-4 può essere considerata come una nuova adipochina rilasciata dagli adipociti umani ed esercitare una serie
di effetti autocrini e paracrini in grado di indurre insulino-resistenza; l’espressione di DPP-4 è particolarmente elevata nel
grasso viscerale di soggetti obesi e correla con tutti i parametri
della sindrome metabolica.
Gli inibitori della DPP-4 modificano lo stato infiammatorio
anche a livello della placca aterosclerotica. In diversi modelli di
roditori, è stato riportato un importante effetto antinfiammatorio da parte di questi farmaci, i quali sono in grado di modificare positivamente la reazione infiammatoria nella placca aterosclerotica74. Per quanto riguarda i dati nell’uomo, Rizzo et
al.75, in uno studio clinico prospettico, hanno valutato l’efficacia del trattamento di due inibitori della DPP-4, sitagliptin e vildagliptin, nel ridurre lo stress ossidativo e pro-infiammatorio in
pazienti diabetici di tipo 2 non trattati adeguatamente con la
sola metformina. Questo dato è stato confermato anche da altri gruppi di ricerca76. In conclusione, studi sperimentali nell’animale e clinici dimostrano che la terapia con incretine è in
grado non solo di ridurre lo stato pro-infiammatorio legato all’obesità/insulino-resistenza ma anche quei processi immunitari legati allo sviluppo della placca.
Per quanto riguarda il ruolo del GLP-1 e dei suoi agonisti
nel contesto della cardiopatia ischemica, uno studio di registrazione ha dimostrato che il trattamento con exenatide è associato ad un minor rischio di eventi cardiovascolari e ricoveri
rispetto ad altri trattamenti ipoglicemizzanti77, nonostante una
EFFETTI DELLA TERAPIA DEL DIABETE SULLA MALATTIA CARDIOVASCOLARE
recente metanalisi evidenzi come gli analoghi del GLP-1 siano
associati a un modesto aumento della frequenza cardiaca78. Nikolaidis et al.79 hanno dimostrato che l’infusione di 72h di GLP1, in aggiunta alla terapia di base, in 10 pazienti affetti da infarto miocardico acuto e frazione di eiezione ventricolare sinistra <40%, dopo angioplastica primaria, ha migliorato significativamente la frazione di eiezione ventricolare sinistra. Un altro studio ha dimostrato che l’infusione endovenosa di GLP-1
sembra proteggere il cuore da disfunzione ventricolare sinistra
ischemica indotta da stress con dobutamina80. Il trattamento
con exenatide ha indotto un beneficio in pazienti con sindrome
coronarica acuta. Un primo studio ha riportato una riduzione
del danno da riperfusione nei pazienti con sopraslivellamento
del tratto ST81 mentre, il secondo, una riduzione delle dimensioni dell’infarto e il miglioramento della funzione ventricolare
sinistra subclinica in pazienti con infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST sottoposti a intervento coronarico
percutaneo primario82. Una recente metanalisi ha dimostrato
che l’effetto netto del GLP-1 sulla contrattilità miocardica è comunque alquanto modesto, peraltro senza alcun miglioramento significativo dei livelli di peptide natriuretico cerebrale83.
Per quanto riguarda gli inibitori della DPP-4, questi sono in
grado di alterare numerose chemochine/proteine substrato di
questo enzima84. Una di queste chemochine è lo stromal-derived factor-1α (SDF-1α) che riveste molta importanza per la biologia delle cellule progenitrici vascolari (CPV). L’ischemia rappresenta uno stimolo potente per la mobilizzazione delle CPV
dal midollo: questo effetto è dovuto ad un ridotto rilascio di
VEGF e SDF-1α, fondamentali per la mobilizzazione di CPV dal
midollo3. SDF-1α agisce previa interazione con il suo recettore
CXC chemokine receptor type 4 [CXCR4]/Janus kinase (JAK) 2.
SDF-1α/CXCR4/JAK-2 riveste un ruolo fondamentale nel determinare la riendotelizzazione vascolare ed è inoltre in grado di
modulare l’homing dei progenitori a livello midollare. Gli inibitori della DPP-4, essendo in grado di inibire la degradazione di
SDF-1α, sono quindi indirettamente in grado di richiamare progenitori nelle sedi d’ischemia. A tal proposito Zaruba et al.85
hanno dimostrato che la delezione genetica o farmacologica di
DPP-4 è in grado di aumentare l’homing delle CPV CXCR4 positive a livello del miocardio infartuato, di ridurre il rimodellamento miocardico e la funzione cardiaca. A tal proposito abbiamo dimostrato che la somministrazione di sitagliptin per 4
settimane determina un significativo aumento delle CPV, dell’SDF-1α e una riduzione di monocyte chemotactic protein-1
(MCP-1)86. In conclusione il trattamento con inibitori della DPP4 apre delle opportunità terapeutiche importanti per il trattamento di tessuti ischemici tramite un miglioramento quanti/qualitativo delle CPV.
Per quanto riguarda studi randomizzati e controllati sugli inibitori della DPP-4, sono stati recentemente pubblicati i primi due
studi per esplorare la sicurezza cardiovascolare di saxagliptina
e alogliptina, in pazienti diabetici tipo 2. Lo studio EXAMINE
(EXamination of CArdiovascular OutcoMes: AlogliptIN vs Standard of CarE in Patients with Type 2 Diabetes Mellitus and Acute Coronary Syndrome) è stato disegnato per valutare la sicurezza cardiovascolare di alogliptin in pazienti diabetici di tipo 2,
con recente pregresso infarto miocardico87. Il gruppo di controllo era rappresentato da pazienti in terapia antidiabetica convenzionale, a parte l’inibizione della DPP-4. L’endpoint primario
era il tempo tra la randomizzazione e il primo evento cardiovascolare: la morte cardiovascolare, infarto miocardico non fatale
e ictus non fatale. Il trial SAVOR-TIMI 53 (Saxagliptin Assessment
of Vascular Outcomes Recorded in Patients with Diabetes Mellitus-Thrombolysis in Myocardial Infarction 53) è stato disegnato per valutare la sicurezza cardiovascolare di saxagliptina in
pazienti con diabete di tipo 2 ad alto rischio88. Nello studio
EXAMINE 5380 pazienti sono stati sottoposti a randomizzazione e seguiti fino a 40 mesi: un endpoint primario si è verificato
nell’11.3% nei pazienti assegnati ad alogliptin e nell’11.8% nei
pazienti assegnati a placebo, con un hazard ratio pari a 0.96. I
livelli di HbA1c sono risultati significativamente più bassi con alogliptin rispetto al placebo con una differenza media pari a -0.36
punti percentuali. L’incidenza di ipoglicemia, cancro, pancreatite e inizio di dialisi è stata simile nei due gruppi. Nello studio
SAVOR-TIMI 53 un endpoint primario si è verificato nel 7.3%
dei pazienti nel gruppo saxagliptin e nel 7.2% dei pazienti nel
gruppo placebo, con un hazard ratio di 1.00. Più pazienti nel
gruppo saxagliptin rispetto al gruppo placebo sono stati ricoverati in ospedale per insufficienza cardiaca (hazard ratio 1.27,
p=0.007). I casi aggiudicati di pancreatite acuta e cronica sono
stati simili nei due gruppi. A differenza dello studio EXAMINE, in
questo studio si è avuta un’incidenza significativamente maggiore di almeno un evento ipoglicemico nei pazienti trattati con
saxagliptin rispetto al placebo; eventi ipoglicemici gravi si sono
verificati nel 2.1% nel gruppo saxagliptin rispetto all’1.7% nel
gruppo placebo (p=0.047). Complessivamente, i risultati di questi primi due studi hanno dimostrano un buon grado di sicurezza di questi farmaci. Peraltro è necessario sottolineare che, alla
luce della grande quantità di dati sperimentali positivi, nell’uomo questi due inibitori della DPP-4 hanno dimostrato una neutralità cardiovascolare. Neutralità che può essere giustificata dalla durata troppo breve del follow-up, dalla modesta riduzione di
HbA1c, dal fatto che i pazienti trattati avevano già una notevole estensione del danno cardiovascolare. I trial in corso potranno sicuramente fornire ulteriori informazioni sugli eventuali effetti cardioprotettivi di questi farmaci.
INSULINA
L’aterosclerosi è un processo complesso la cui prima tappa è il
danno endoteliale: questo danno, determinato dai vari fattori di
rischio, induce l’ingresso delle lipoproteine nell’intima-media
scatenando l’espressione delle molecole di adesione le quali, a
loro volta, attraggono monociti/macrofagi che daranno poi origine alla formazione delle “cellule schiumose” nel contesto di
una placca aterosclerotica. L’iperglicemia è un moltiplicatore e
acceleratore di questi processi. Nella malattia diabetica, oltre all’iperglicemia, è presente anche insulino-resistenza che, come
noto, è di per sé un fattore di rischio per malattia cardiovascolare89. A tal proposito, numerosi studi osservazionali hanno evidenziato come il trattamento insulinico fosse associato a un aumento della mortalità. L’insulino-resistenza si accompagna a elevati livelli di insulina i quali, di per sé, non implicano necessariamente la presenza di insulino-resistenza. Inoltre poiché l’insulina è l’unico trattamento possibile in pazienti con gravi comorbilità (Tabella 1), il suo utilizzo è da considerarsi un “marker”
di gravità più che causa di patologia. È noto che l’insulina è il più
potente ormone ipoglicemizzante e il suo impiego è indispensabile ogniqualvolta le altre strategie antidiabetiche non consentano il conseguimento di un soddisfacente compenso glicemico. A livello dei tessuti bersaglio, l’insulina stimola il reclutamento di specifici trasportatori del glucosio che ne favoriscono
l’utilizzazione. È noto però come l’insulina sia un ormone in graG ITAL CARDIOL | VOL 14 | SUPPL 1 AL N 12 2013
31S
A AVOGARO
Tabella 1. Utilizzabilità dei farmaci antidiabetici in relazione alla patologia cardiaca e alla compromissione renale.
Patologia cardiaca
VFG (ml/min)
>60
30-60
<30
Malattia non cardiovascolare
Metformina
Sulfaniluree
Pioglitazone
Inibitori aG
Inibitori DPP-4
Agonisti GLP-1
Insulina
Metformina (cautela)
Solo gliclazide e repaglinide
Pioglitazone
Inibitori aG
Inibitori DPP-4
Agonisti GLP-1 (cautela)
Insulina
Solo gliclazide e repaglinide
Pioglitazone
Inibitori DPP-4 (aggiustare dose)
Insulina
Cardiopatia ischemica
Metformina
Solo gliclazide
Pioglitazone
Inibitori aG
Inibitori DPP-4
Agonisti GLP-1
Insulina
Metformina
Solo gliclazide e repaglinide
Pioglitazone
Inibitori aG
Inibitori DPP-4
Agonisti GLP-1 (cautela)
Insulina
Pioglitazone
Inibitori DPP-4 (aggiustare dose)
Insulina
Scompenso cardiaco
Metformina
Solo gliclazide o repaglinide
Inibitori DPP-4 (cautela)
Inibitori aG
Agonisti GLP-1
Insulina
Solo gliclazide o repaglinide
Inibitori aG
Inibitori DPP-4 (aggiustare dose)
Agonisti GLP-1 (cautela)
Insulina
Insulina
aG, alfa-glucosidasi; DPP-4, dipeptidil peptidasi-4; GLP-1, glucagon-like peptide-1; VFG, velocità di filtrazione glomerulare.
do di svolgere i suoi effetti anche a livello vascolare. Le evidenze sperimentali supportano un suo effetto acuto protettivo sulle strutture e funzioni vascolari. L’insulina stimola la sintesi endoteliale di NO e come tale svolge una potente azione vasodilatatoria sostenuta anche grazie all’attivazione della pompa sodio-potassio ATPasi con conseguente depolarizzazione della
membrana cellulare e rilassamento delle cellule muscolari lisce
vascolari90. L’insulina svolge poi acutamente un’azione antiapoptotica, nonché antiossidante ed antinfiammatoria mediante l’inibizione del fattore nucleare kB (NF-kB). Questi effetti acuti benefici, unitamente a quelli riguardanti la capacità di stimolare l’utilizzazione di glucosio, sono stati alla base del razionale
di utilizzo della terapia insulinica per un attento controllo glicemico. A supporto di questa ipotesi è stato dimostrato che in pazienti diabetici con malattia coronarica nota la disfunzione miocardica ischemica indotta dal dipiridamolo è meno severa nei
pazienti trattati con insulina piuttosto che con glibenclamide91.
Sulla stessa linea di evidenze si è osservato che un controllo glicemico ottimale che veniva raggiunto introducendo add-on la
terapia con insulina basale (glargine o detemir indifferentemente) determinava un miglioramento degli indici di danno endoteliale e di rigenerazione92. Lo studio che ha dimostrato gli
effetti positivi della somministrazione di insulina, oltre che della necessità di controllare accuratamente i livelli di glucosio circolante nei pazienti colpiti da infarto miocardico, è stato lo studio DIGAMI93. In questo studio un controllo della glicemia mantenuta tra 140-180 mg/dl, mediante l’infusione combinata di insulina-glucosio-potassio, è stato in grado di ridurre significativamente la mortalità postinfartuale. Questo presunto effetto positivo è stato messo in dubbio dai risultati dello studio CREATEECLA, il quale non ha dimostrato differenze nella mortalità a
breve termine tra i pazienti infartuati che ricevevano la soluzione con insulina e il gruppo di controllo a sostegno dell’idea che
la capacità protettiva dell’insulina possa essere mitigata e ridimensionata da elevati livelli di glucosio che in questo studio non
32S
G ITAL CARDIOL | VOL 14 | SUPPL 1 AL N 12 2013
venivano assolutamente controllati94. Lo studio prospettico randomizzato controllato che ha dimostrato gli effetti del rimpiazzo basale di insulina sugli outcome cardiovascolari è stato lo studio ORIGIN (Outcome Reduction with Initial Glargine Intervention)6. In questo studio che ha avuto un follow-up medio di 6.2
anni sono stati arruolati pazienti con pre-diabete o diabete di
nuova diagnosi con alto rischio cardiovascolare. L’endpoint primario è stato costituito dal composito morte cardiovascolare,
infarto miocardico o ictus. Lo studio aveva un disegno fattoriale a due livelli (2x2) e le variabili erano la somministrazione di insulina analogo lento glargine, la cui dose veniva progressivamente aggiustata in modo da ottimizzare la glicemia a digiuno,
oppure la terapia standard. L’altro braccio confrontava la somministrazione di acidi grassi omega-3. L’ORIGIN ha dimostrato
che la proporzione di pazienti con questi outcome cardiovascolari non è stata diversa nei due gruppi (16.6% in insulina glargine vs 16.1% in terapia standard). Il dato saliente che emerge
da questo studio è che l’approccio con terapia insulinica non
determina un aumento degli eventi cardiovascolari, nonostante la presenza, in questi pazienti, di insulino-resistenza. Il trattamento insulinico cronico è pertanto neutro sul sistema cardiovascolare purché vengano raggiunti e mantenuti dei livelli di
HbA1c appropriati. Durante sindrome coronarica acuta, il trattamento insulinico è l’unico consentito al fine di controllare la
glicemia; è ovvio che l’insulina dovrà essere accuratamente titolata per non esporre il paziente con coronaropatia a ipoglicemie. A tal proposito è comunque utile ricordare che nello studio DIGAMI si è avuto un effetto positivo nei pazienti trattati
con insulina a fronte di un’incidenza di ipoglicemie di ben 30
volte maggiore.
CONCLUSIONI
Nonostante le numerose, e molto spesso positive, azioni che
i principali farmaci antidiabetici svolgono a livello cardiova-
EFFETTI DELLA TERAPIA DEL DIABETE SULLA MALATTIA CARDIOVASCOLARE
Tabella 2. Effetti cardiovascolari dei farmaci antidiabetici ed evidenze disponibili dai principali studi randomizzati e controllati di intervento e sicurezza.
Farmaco
Effetti vascolari
Metformina
Riduzione dell’’insulino-resistenza
Riduzione dello stress ossidativo
Miglioramento della fibrinolisi
Miglioramento dell’assetto lipidico
Riduzione dell’aggregazione
piastrinica
Miglioramento della funzione
endoteliale
Sulfaniluree
Effetti cardiaci
Effetti renali
Dimostrazioni basate
sull’evidenza
UKPDS: protezione CV sia nello
studio di intervento che nel
follow-up post-trial
BARI 2D: nessuna protezione CV
Gliclazide: non
interferisce con il
precondizionamento
ischemico; effetto
antiossidante
Glimepiride: non
interferisce con il
precondizionamento
ischemico
UKPDS (glibenclamide o
clorpropramide): protezione CV
nel follow-up post-trial
ADVANCE (gliclazide): solo
protezione microvascolare
Inibitori aG
Migliorano il rapporto mio-intimale
carotideo
STOP-NIDDM (acarbosio):
protezione CV
Pioglitazone
Riduzione degli acidi grassi
Riduzione del colesterolo LDL
Riduzione dei trigliceridi
Protezione endoteliale
Riduzione dello stato
pro-infiammatorio
Rallentamento della progressione
del rapporto mio-intimale
Riduzione del volume di
placca
Riassorbimento di
acqua
Riduzione della
microalbuminuria
PROactive (pioglitazone):
nessuna protezione CV
sull’endpoint primario
Protezione CV nei pazienti con
pregresso infarto
Inibitori DPP-4
Aumento della produzione di NO
Protezione endoteliale
Aumento delle cellule progenitrici
vascolari
Riduzione dello stato
pro-infiammatorio
Protezione dal danno di
ischemia-riperfusione
Riduzione della
microalbuminuria
SAVOR (saxagliptina): neutro sugli
endpoint CV con aumento del
27% di ospedalizzazione da
scompenso
EXAMINE (alogliptin): neutro sugli
endpoint CV
Agonisti GLP-1
Aumento della produzione di NO
Protezione endoteliale
Riduzione della pressione arteriosa
Stimolazione del BNP
Protezione dal danno di
ischemia-riperfusione
Effetto
natriuretico
In corso
Insulina
Stimolazione del rilascio di NO
Riduzione dello stato
pro-infiammatorio
Rilasciamento di cellule muscolari lisce
Riduzione dell’apoptosi
Aumento della
ritenzione di
acqua
DIGAMI 1: protezione CV nel
post-infarto
ORIGIN (analogo lento glargine):
neutro dal punto di vista CV
aG, alfa-glucosidasi; BNP, peptide natriuretico cerebrale; CV, cardiovascolare; DPP-4, dipeptidil peptidasi-4; GLP-1, glucagon-like peptide-1; NO,
ossido nitrico.
scolare (Tabella 2), le evidenze che questi farmaci svolgano un
chiaro effetto cardioprotettivo nell’uomo. Gli effetti più positivi derivano dall’UKPDS che ha dimostrato, seppur in un numero esiguo di pazienti, che la metformina svolge un’azione
protettive nei confronti dell’infarto miocardico. Le evidenze
su un modesto beneficio o sulla neutralità di tutti gli altri farmaci sul sistema cardiovascolare derivano da grandi studi in
cui sono stati reclutati pazienti con molteplici fattori di rischio
o con estesa malattia cardiovascolare in atto; questa può essere una ragione per i risultati, a volte deludenti, dei farmaci
antidiabetici. Un ulteriore motivo è che, molto spesso, questi
farmaci vengono utilizzati in condizioni cliniche che ne impedirebbero il loro impiego: ciò espone il paziente con comorbilità a gravi effetti avversi (Tabella 1). Il messaggio forte è
pertanto: trattare il prima possibile il paziente diabetico pri-
ma che si instauri la malattia cardiovascolare. Non rimane comunque che attendere l’esito degli studi attualmente in corso che prevedono l’utilizzo non solo di altri inibitori della DPP4 e degli agonisti del GLP-1R, ma anche di nuove classi di farmaci quali gli inibitori del riassorbimento renale del glucosio
o SLGT2 inibitori. Rimarrà comunque difficile dimostrare chiari benefici cardiovascolari in studi di sicurezza quali quelli che
la Food and Drug Administration ha recentemente imposto.
RIASSUNTO
Non è ancora chiaro se il controllo metabolico nei pazienti con
diabete di tipo 2 si accompagna ad una consensuale riduzione
del rischio cardiovascolare. Grandi studi clinici di intervento hanno dimostrato che la riduzione della glicemia a valori considerati
G ITAL CARDIOL | VOL 14 | SUPPL 1 AL N 12 2013
33S
A AVOGARO
ottimali è un povero predittore di outcome cardiovascolare; piuttosto un controllo metabolico troppo meticoloso espone i pazienti, in particolare quelli a rischio di ipoglicemia e con insufficienza renale, a gravi eventi avversi. Questa rassegna esamina gli
specifici effetti sul sistema cardiovascolare degli agenti ipoglice-
mizzanti più comunemente usati, e identifica quale, tra questi farmaci, è il più adatto nel contesto di una determinata condizione
clinica.
Parole chiave. Diabete mellito, tipo 2; Incretine; Insulina; Malattia cardiovascolare; Secretagoghi.
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