www.ildirittoamministrativo.it Annaclara Viola Prestazioni sanitarie e responsabilità civile Ogni comportamento illecito riceve dal nostro ordinamento un particolare trattamento sanzionatorio che trova nella responsabilità civile l’istituto che ricomprende e disciplina tutte le conseguenze giuridiche causate dalle condotte dannose. Conseguenza pregnante della responsabilità civile è l’obbligo del risarcimento del danno causato da fatto illecito sia esso di natura contrattuale ovvero extracontrattuale. I due sistemi risarcitori si distinguono profondamente non solo con riguardo ai presupposti giuridici ma anche in relazione alla distribuzione dell’onere della prova e al termine di prescrizione del diritto al risarcimento. La responsabilità da illecito contrattuale ricorre infatti quando sussiste alla base del danno sofferto un rapporto obbligatorio contrattuale, genericamente o specificamente disciplinato dalla legge (art. 1173 c.c.), con la conseguenza che la violazione di uno o più obblighi negozialmente assunti provoca l’obbligo di risarcimento qualora ne sia derivato un danno all’altra parte contraente (artt. 1218 e 1223 c.c.). In tale settore, è richiesta al creditore solamente la dimostrazione dell’esistenza del vincolo contrattuale e del suo mancato ovvero inesatto adempimento entro il termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c. che costituisce il limite temporale di sbarramento per far valere il diritto al risarcimento del danno, peraltro non estendibile ai danni non prevedibili nel tempo in cui è sorta l’obbligazione (art. 1225 c.c.). La responsabilità aquiliana è integrata invece dalla violazione del generale principio del neminem laedere e riceve disciplina dall’art. 2043 c.c., a norma del quale anche i comportamenti colposi caratterizzati da negligenza, imprudenza, imperizia ovvero da inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline possono dare luogo all’obbligo risarcitorio nei confronti del soggetto che ha subito pregiudizio. Il forte impatto di siffatta disciplina ed i possibili abusi in sede processuale giustificano il regime giuridico previsto con riguardo all’onere della prova che incombe sul danneggiato, tenuto pertanto a dimostrare la colpa ovvero il dolo dell’autore dell’illecito, il danno subito ed il nesso di causalità tra condotta ed evento di danno, non essendo sufficiente la mera allegazione del pregiudizio sofferto. 1 www.ildirittoamministrativo.it Inoltre, in un’ottica di salvaguardia della certezza delle situazioni giuridiche soggettive onde evitare di esporre per eccessivo tempo i soggetti alla possibile instaurazione di cause risarcitorie ex art. 2043 c.c., il termine di prescrizione del diritto da far valere in giudizio è ridotto a cinque anni anche perché la responsabilità extracontrattuale permette di ottenere la liquidazione non soltanto dei danni prevedibili al sorgere dell’obbligazione ma anche di quelli imprevedibili, ragion per cui è necessario circoscrivere temporalmente il periodo oltre il quale nessuna pretesa può essere avanzata. Poste tali premesse di ordine generale, l’attività sanitaria ha, negli ultimi anni, ricevuto particolare attenzione dalla dottrina e dalla giurisprudenza a fronte delle questioni giuridiche correlate all’inquadramento dogmatico della materia. Appaiono, infatti, indubbie le peculiarità che caratterizzano le prestazioni mediche eseguite all’interno di strutture sanitarie, con la conseguenza che i possibili danni subiti dai pazienti vanno ricostruiti non soltanto in relazione all’attività propria del medico curante ma anche con riguardo al contesto ospedaliero (pubblico o privato) in cui tale prestazione professionale si incardina. Sebbene la regolamentazione codicistica sia comune alle altre professioni, la responsabilità sanitaria ha ricevuto dalla giurisprudenza recente un inquadramento differenziato ed aggravato dalle finalità garantiste che governano il settore. In particolare, l’art. 32 della Costituzione ha giocato un ruolo importante e determinante nella definizione della responsabilità del medico in quanto consacra la salute come diritto fondamentale dell’individuo nonché come interesse della collettività. Tale premessa giuridica e di valore ha radicalmente trasformato la relazione medico – paziente e quella paziente – ente ospedaliero che ha, dunque, perso il carattere di supremazia rispetto ai cittadini da cui se ne deduceva in passato l’impossibilità di qualificare il relativo rapporto in termini contrattuali, potendo il paziente ricevere tutela solamente entro gli stretti confini dell’illecito extracontrattuale. L’innovazione costituzionale ha permesso di mettere al centro dell’attenzione l’individuo ed il suo intangibile diritto alla salute nei cui confronti lo Stato assume un vero e proprio obbligo di salvaguardia, dovendosi considerare la strutture ospedaliera al servizio del cittadino e non mero erogatore di servizi per la collettività da cui ne discende, pertanto, il capovolgimento nella descrizione del rapporto paziente – ospedale. Non può stupire, dunque, il notevole incremento del contenzioso civile in materia di responsabilità sanitaria connesso, ovviamente, ad un aumento di consapevolezza da parte dei cittadini circa la posizione di diritto dagli stessi vantata, non essendo più semplicemente destinatari di “assistenza clinica” bensì parti di un vero e proprio rapporto giuridicamente disciplinato. 2 www.ildirittoamministrativo.it Al riguardo, la tutela risarcitoria in materia di responsabilità sanitaria si è evoluta in modo pressoché parallelo all’attività di interpretazione delle norme codicistiche alla luce dei principi costituzionali. Suddetto processo interpretativo ha accompagnato i progressi della scienza medica ed il mutato assetto gestionale ed organizzativo che ha colpito le strutture pubbliche e private nelle quali la professione medica trova la propria concreta esplicazione, dando vita ad un profondo ed innovativo intervento giurisprudenziale in materia. Il momento nevralgico di tale cambiamento è rappresentato dall’affermazione di una nuova e più ampia figura di responsabilità definita da “contatto sociale”, caratterizzata dall’assoggettamento di una certa fattispecie alla disciplina propria delle obbligazioni contrattuali, pur mancando un vero e proprio negozio giuridico patrimoniale. La Suprema Corte ha, infatti, sostenuto nel 1999 nonché precisato nel 2007 che l’obbligazione del medico dipendente del servizio sanitario per responsabilità professionale nei confronti del paziente, ancorché non fondata su contratto, ma sul contatto sociale (connotato dall’affidamento che il malato pone nella professionalità dell’esercente una professione protetta) ha natura contrattuale individuata non con riferimento alla fonte dell’obbligazione ma al contenuto del rapporto, in base al quale il medico è tenuto all’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente con il quale il paziente ha stipulato il contratto, ad essa ricollegando obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del detto “contatto”. Dai principi enucleati dalla Corte di Cassazione è possibile individuare due momenti che segnano gli estremi della responsabilità sanitaria: Relazione negoziale atipica che viene ad instaurarsi tra paziente ed ospedale a seguito della domanda del soggetto diretta a ricevere il servizio sanitario e della relativa accettazione da parte di un altro soggetto – operatore nel settore (contratto di spedalità). Tale nuova figura contrattuale trae origine da ciò che caratterizza il servizio reso dalla struttura sanitaria, rispetto a quello tradizionalmente reso dal medico, ossia l’erogazione oltre alla prestazione principale di cura, di una serie di altre prestazioni che concorrono in modo complesso ed unitario a garantire il risultato finale. Rapporto medico – paziente definito come rapporto che nella previsione legale è di origine contrattuale (contratto di prestazione d’opera intellettuale) e tuttavia in concreto viene costituito senza una base negoziale e talvolta grazie al contatto sociale. Le conseguenze immediate di questa ricostruzione sono evidenti in quanto viene ampliato il confine dei rapporti idonei a generare obbligazioni giuridicamente 3 www.ildirittoamministrativo.it rilevanti nonché viene estesa la responsabilità di natura contrattuale anche a rapporti ab origine non necessariamente negoziali. Peraltro, i due momenti definitori della responsabilità sono tra loro correlati in quanto l’ospedale si impegna ad eseguire una prestazione complessa nei confronti del paziente e della quale risponderà autonomamente ex art. 1218 c.c., mentre il medico, incardinato nella struttura ospedaliera in quanto dipendente, è tenuto ad eseguire la propria opera professionale per conto dell’ente con il quale sussiste una relazione di immedesimazione organica e da cui discende appunto l’obbligo di prestare l’attività, di cui l’ente ospedaliero risponde ex art. 1228 c.c. e 2049 c.c. Ne consegue che il medico risponde contrattualmente dei danni cagionati a causa del contatto sociale instaurato con il paziente che si innesta a sua volta sul contratto di spedalità stipulato a monte con l’ente ospedaliero. Infatti, come precisato dalle Sezioni Unite del 2008, il medico e l’ospedale rispondono a titolo contrattuale dei danni arrecati dal sanitario per il solo fatto del “contatto” intervenuto con il paziente, indipendentemente dall’assunzione formale di obblighi riconducibili ad una fonte negoziale tipica. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che “per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sono equivalenti a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura pubblica o privata della struttura sanitaria”. Peraltro, la Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto, mentre l’obbligazione del medico dipendente dalla struttura, ancorché non fondata sul contratto ma sul contatto sociale, ha parimenti natura contrattuale. Il recente orientamento interpretativo ha peraltro il grande merito di scindere la colpa del medico dalla responsabilità dell’ospedale in quelle ipotesi in cui sia ravvisabile una responsabilità autonoma della struttura per inosservanza di obblighi e doveri suoi propri, tra i quali quello dell’efficiente organizzazione non solo sanitaria1. Da ciò consegue l’apertura a forme di responsabilità autonome dell’ente che prescindono dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori e trovano invece la propria fonte nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente 1 Cfr. Piero Calabrò, Responsabilità civile in materia sanitaria – Dall’evoluzione giurisprudenziale all’abnorme crescita dei casi giudiziari. 4 www.ildirittoamministrativo.it riferibili all’ente in considerazione dell’esistenza di un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive al quale si applicano le regole ordinarie sull’inadempimento ex art. 1218 c.c. Per quanto concerne, invece, le obbligazioni mediche che l’ente svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, è possibile abbandonare il richiamo alla disciplina del contratto d’opera professionale e fondare semmai la responsabilità dell’ente per fatto del dipendente sulla base dell’art. 1228 c.c. L’impostazione del tema in termini di obbligazione contrattuale comporta che il problema del riparto dell’onere probatorio debba seguire i criteri fissati in materia contrattuale secondo i quali il creditore che agisce per il risarcimento del danno deve dare la prova della fonte negoziale o legale del diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dall’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento. Al riguardo, sono state espresse opinioni critiche dalla dottrina sul ricorso alla distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato che, sebbene operante solamente all’interno della categoria delle obbligazioni di fare, ha causato contrasti sia in ordine all’oggetto o contenuto dell’obbligazione sia in relazione all’onere della prova e quindi sullo stesso fondamento di responsabilità del professionista. Le obbligazioni di mezzi si caratterizzerebbero per il comportamento dedotto in obbligazione a prescindere dal risultato eventualmente perseguito dall’attività del debitore con la conseguenza che la diligenza svolgerebbe funzione di criterio determinativo del contenuto del vincolo, il cui risultato è del tutto aleatorio e dunque estraneo alla direzione finalistica dell’impegno assunto. Le obbligazioni di risultato, invece, si caratterizzerebbero per il fine perseguito che se non raggiunto comporta inadempimento da parte del debitore a prescindere dalla condotta tenuta. Tale impostazione non è immune da dubbi in quanto non può prescindersi dal fatto che un risultato appare dovuto in tutte le obbligazioni con la conseguenza che non può utilizzarsi tale distinzione per fare atteggiare diversamente il regime dell’onere della prova a seconda del tipo di obbligazione che viene posta in essere in quanto ciò provocherebbe un diverso sistema di acquisizione delle prove dipendente dalla natura dell’obbligazione assunta (nelle obbligazioni di mezzi il creditore dovrebbe provare la mancanza di diligenza in capo al debitore, mentre nelle obbligazioni di risultato il debitore dovrebbe dimostrare che il mancato risultato sia dipeso da causa a lui non imputabile a fronte dell’allegato inadempimento da parte del creditore). Orbene, il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale, è identico sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione ex art. 1453 c.c. sia che domandi il risarcimento 5 www.ildirittoamministrativo.it per l’inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi o di risultato (Corte di Cassazione n. 13533/2001 e SS.UU. n. 577/2008). Tuttavia, ritengono le SS.UU. del 2008 che l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni c.d. di comportamento non sia qualunque inadempimento bensì solo quello che costituisce causa o concausa efficiente del danno, essendo peraltro onere dell’attore dimostrare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione. Ciò comporta che l’allegazione del creditore - paziente non può attenere ad un inadempimento generico bensì ad un inadempimento qualificato ossia astrattamente efficiente alla produzione del danno, dovendo, invece, il debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio ovvero non è stato nella fattispecie causa del danno lamentato. Ragionando in tal modo però non può non rilevarsi come al creditore si chieda in effetti una prova che non sempre gli sarà “prossima e vicina” in quanto dovrebbe essere in grado di ricostruire chiaramente l’iter causale che ha dato luogo al danno, pur in mancanza di adeguate conoscenze tecniche e professionali che soprattutto in campo medico sono alquanto complesse ed articolate. Ne consegue che, in ogni caso, dovrebbe trovare applicazione il principio di vicinanza della prova, non potendosi addossare astrattamente ad un soggetto l’onere di dimostrare un fatto a lui distante ovvero difficilmente raggiungibile soprattutto quando i rapporti contrattuali, come quelli di natura professionale, presentano una discrasia tra le conoscenze e le competenze possedute dalle parti. Altre due questioni che meritano un breve cenno, in conclusione del discorso qui sviluppato, sono la risarcibilità dei danni non patrimoniali sofferti sia dal paziente che dai congiunti e la possibile esclusione di responsabilità in capo alla struttura sanitaria pubblica. Il danno non patrimoniale, diversamente da quello patrimoniale, trae la propria specifica origine dalla disposizione di cui all’art. 2059 c.c. alla luce del quale tale pregiudizio deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge. L’originaria interpretazione della norma limitava il risarcimento alle sole ipotesi di reato così come previsto dall’art. 185 c.p. Al riguardo è però intervenuta la Corte Costituzionale che nel 2003 ha affermato che ogni lesione di valori di rilievo costituzionale inerenti la persona comporta il ristoro del danno non patrimoniale da intendersi in primo luogo come danno morale soggettivo ossia “transeunte turbamento” dello stato d’animo della vittima del fatto illecito, includendo il complesso delle sofferenze e dei patimenti interiori inferti al danneggiato dell’evento dannoso indipendentemente dalla sua rilevanza penalistica. 6 www.ildirittoamministrativo.it Diversa connotazione assume il danno esistenziale che, oggetto di analisi da parte della giurisprudenza di legittimità, ha acquisito la dignità di autonoma voce di danno da ravvisare in qualsivoglia “pregiudizio provocato sul fare areddituale del soggetto che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”. Ne consegue che, mentre il danno morale sussiste in re ipsa per il solo fatto della gravità della lesione subita, la liquidazione del danno esistenziale necessita della prova in merito all’attività umana non patrimoniale e realizzatrice della personalità individuale che sia stata compromessa nella sua esplicazione. Sul tema, sono intervenute le SS.UU. che nel 2008 hanno inteso introdurre un criterio unitario teso ad uniformare il danno non patrimoniale al fine di evitare la possibile suddivisione in sottocategorie spesso abusate nella quantificazione del danno risarcibile che, al contrario, avendo dimensione unica, potrà essere determinato sulla base dei vari elementi non patrimoniali pregiudicati dall’azione illecita con la conseguenza che il danno esistenziale non deve essere ignorato nella fase liquidatoria ma semplicemente ricompreso ed incluso nell’ampia categoria del danno non patrimoniale di cui costituisce, di fatto, una forma di estrinsecazione. Peraltro, i danni morali strettamente intesi non sono da riferire esclusivamente al paziente che abbia subito un trattamento medico lesivo in quanto, sebbene in passato la Corte di Cassazione riteneva che soltanto la vittima primaria del reato può chiedere il risarcimento del danno morale, oggi viene riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale anche ai prossimi congiunti che potranno agire iure propri in caso di decesso del parente nonché a fronte di lesioni personali da questi riportate, trovando anche tale danno causa immediata e diretta nel fatto dannoso. La base normativa impiegata per giungere a tale ampliamento di tutela è l’art. 29 della Costituzione che, riconoscendo i diritti della famiglia, attribuisce a quest’ultima un ruolo primario nello sviluppo e nell’articolazione della personalità di ogni individuo con la conseguenza che la tutela di cui all’art. 2059 c.c. offre al nucleo familiare un’occasione di ripristino, in termini meramente economici, della frattura subita al suo interno o per la morte di un congiunto ovvero per le lesioni dallo stesso riportate a seguito di prestazioni sanitarie peggiorative dello stato di salute del paziente. Una questione problematica è rappresentata dalla possibile esclusione di responsabilità in capo alla struttura sanitaria pubblica per fatto del proprio medico dipendente. Occorre precisare che tra medico ospedaliero e ed ente ricorre un rapporto di immedesimazione organica che permette di intravedere nell’opera professionale del medico la realizzazione degli obiettivi attribuiti dalla legge al sistema sanitario 7 www.ildirittoamministrativo.it con la conseguenza che l’ospedale svolge la sua fondamentale funzione proprio attraverso le prestazioni sanitarie eseguite dai propri dipendenti. Tale identificazione fisiologica e necessaria, che ricorre in tutto il settore del pubblico impiego, subisce una frattura irreversibile qualora il dipendente ponga in essere un’azione dolosa che in quanto tale si pone al di fuori dello schema lavorativo che governa la relazione di immedesimazione. Nello specifico ambito sanitario è difficile poter affermare che il danno cagionato da un medico sia accompagnato dall’elemento psicologico del dolo ma, dai dati statistici, è possibile individuare casi in cui la condotta colposa è talmente grave da porsi essa stessa fuori da quel modulo professionale che regge la suddetta identificazione. Ci si può dunque domandare quali conseguenze possano essere riservate alla colpa che sia talmente grave da confinare con le situazioni di dolo ad esempio perché il medico, alla luce di determinate circostanze, non poteva non prevedere gli esiti drammatici di una certa azione. Orbene, in tal caso, certamente non si può procedere ad un’imputazione per dolo perché, sebbene sia presente nel medico la rappresentazione della condotta altamente pericolosa, manca l’elemento della volontarietà del danno. Tuttavia, si potrebbe parimenti individuare uno spazio di colpa gravissima entro cui l’immedesimazione organica viene meno, non potendosi riferire l’azione del medico alla struttura salvo il ricorrere di elementi da cui desumere una responsabilità dell’ente per fatto proprio ex art. 1218 c.c. E’ dunque possibile interrogarsi sulle peculiarità di ogni caso concreto in relazione al quale modulare il trattamento sanzionatorio in sede civile (e solo nei confronti del medico) perché non tutte le situazioni presentano i requisiti oggettivi per affermare la responsabilità per fatto degli ausiliari ex art. 1228 c.c. che, sebbene concepita in chiave fortemente garantista, potrebbe tradursi in ostacolo allo svolgimento di attività di rilievo costituzionale che però portano con sé anche un certo margine di rischio costante. 8