LA SPERANZA CONTRO LA PAURA Pietro Barcellona Marietti 1820 (2012), pagg. 192, ISBN: 9788821125096, € 15,00 I n queste pagine intendo affrontare il tema della paura, non tanto per fornirne un’ennesima spiegazione, più o meno fondata sulle argomentazioni fornite dalle neuroscienze oppure dalla sociologia contemporanea, ma per porre, in una prospettiva nuova, la pensabilità stessa della paura, come possibilità di ragionare su uno stato d’animo che è ormai un connotato della realtà contemporanea. Per rendere legittimo questo approccio bisogna, tuttavia, delineare un processo argomentativo complesso, che, da un lato si confronti con l’oggettivazione in meccanismi neurobiologici della percezione della paura e, dall’altro, con le spiegazioni sociologiche fondate sul potere di controllo sociale che la paura conferisce agli istituti della repressione. Rendere possibile un ragionamento nuovo sulla paura esige di ritematizzare il rapporto tra Io e mondo. Dopo il crollo del muro di Berlino, il mondo occidentale sembrava inneggiare a una nuova rivoluzione mondiale, che avrebbe immesso nel corpo delle popolazioni lo spirito della libertà da ogni oppressione totalitaria e il dispiegarsi di tutte le forze politiche, culturali e sociali erano state bloccate dalla divisione del mondo in due blocchi distinti, dominati rispettivamente dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti d’America. Nonostante qualche voce pessimistica sulla fine della storia, sembrava, al contrario, che la storia si rimettesse in movimento e che, finalmente, l’unificazione dei destini dei popoli del pianeta avrebbe prodotto una trasformazione radicale dei modi di vivere e di consumare e persino un nuovo ordine mondiale della convivenza pacifica tra gli Stati. Anche se tutto ciò non si è affatto realizzato, è però rimasta l’idea del cambiamento e della rivoluzione permanente come immagine influente della nuova epoca. Tutti i governi che si sono succeduti in Europa e in Italia, hanno chiesto ai cittadini la totale disponibilità al cambiamento e l’impegno a lottare contro i privilegi e le corporazioni che – fino ad oggi – hanno bloccato ogni autentico processo di trasformazione e modernizzazione. Persino la richiesta di pesanti sacrifici economici è stata legittimata dalla necessità di consentire un cambiamento che aprisse le porte a una nuova fase della vita di tutte le popolazioni, orientata dal principio della conquista della più ampia libertà possibile, per incrementare la possibilità di ciascuno di realizzarsi e di conquistare un futuro migliore per le nuove generazioni. Tutte le espressioni adoperate nel lessico politico, “nuovo patto sociale fra le generazioni”, “potenziamento delle chance di vita oltre i limiti sinora conosciuti”, “nuova equità nella distribuzione della ricchezza”, continuano a essere oggi gli obiettivi proposti alla maggioranza della popolazione mondiale. A parte la critica dell’enfasi e della retorica cui si accompagna l’apologia del cambiamento e dell’innovazione, che bolla come reazionari e conservatori tutti coloro che non si lasciano sedurre dalla prospettiva di cambiare regole e principi della vita collettiva in nome di un inaudito sviluppo della libertà individuale, ciò che a prima vista viene spontaneo obiettare è la vistosa contraddizione tra questa sorta di appello a lasciar trionfare il liberalismo in tutti i campi e l’apatia rassegnata al peggio che caratterizza il tono dell’umore dei ceti popolari delle maggior parte del mondo. L’unica innovazione che si può constatare, con qualche approssimazione ai dati oggettivi della realtà, è che sono cresciuti in modo iperbolico le disuguaglianze sociali e i poteri di controllo sulla vita collettiva da parte di alcune ristrette lobby finanziarie e informatiche, dotate di straordinari poteri di manipolazione dell’opinione pubblica. Ciò che mi preme mettere in evidenza, e che cercherò di mettere in luce nelle pagine seguenti, è come questo appello alla libertà e alla capacità di accogliere il rischio dei mutamenti si accompagni paradossalmente a una rappresentazione del mondo in cui sembra teoricamente possibile ipotizzare un cambiamento di rotta. La divulgazione scientifica delle scoperte che si susseguono incessantemente sul funzionamento della mente umana e sulle leggi di natura sembra, 38 infatti, favorire un atteggiamento di deresponsabilizzazione, attraverso una spiegazione della vita individuale e collettiva che nega il ruolo di ogni insorgenza soggettiva capace di esprimere volontà di cambiamento e progettazione del futuro. La vulgata scientifica che oggi accompagna la vita quotidiana sembra tesa a dimostrare, con un crescente incremento di dati empirici, come le nostre idee di soggettività, di libertà e di responsabilità siano pure illusioni che gli esseri umani hanno alimentato per secoli a causa dell’ignoranza di tutto ciò che il sapere scientifico contemporaneo ha messo in luce nelle ricerche sul comportamento umano. A parte le spiegazioni sempre più dettagliate degli atteggiamenti apparentemente soggettivi come mere conseguenze automatiche di reazioni biochimiche e neuronali (nelle quali il soggetto in quanto tale è una mera espressione verbale, priva di consistenza effettiva), ciò che sembra ormai un risultato acquisito dai nuovi saperi è che la libertà e l’intenzionalità degli esseri umani siano un’illusione. La vita umana è un ingranaggio complesso, in cui ciascuna unità svolge funzioni che sarebbero esclusivamente dipendenti da correlazioni automatiche di causa ed effetto. L’essere umano che viene chiamato a un nuovo protagonismo storico per realizzare il cambiamento della società e dell’universo è, al tempo stesso, ridotto sul terreno scientifico a poco più di un automa, che riceve e trasmette informazioni secondo meccanismi prevalentemente meccanici. L’individuo del cambiamento non è antropologicamente il soggetto della volontà e della rappresentazione, ma un mero “registratore di cassa”, che si connette via internet con una “contabilità generale”, che fissa in modo obiettivamente inconfutabile i rapporti tra l’attività degli esseri umani e le prassi collettive. Anzi, si dovrebbe dire che le stesse prassi collettive non siano più un terreno di indagine, poiché l’universo umano è composto da unità atomistiche, che reagiscono alla presenza di altri atomi secondo leggi immanenti al divenire del mondo e alla sua trasformazione costante, salvo poi verificare che la trasformazione costante si traduce nella riaffermazione dei principi dell’economia. E proprio in ciò sta l’immobilismo della trasformazione che viene proposta come nuovo mito, poiché la negazione di ogni protagonismo sociale e collettivo riduce l’innovazione a un aggiornamento del meccanismo centrale dell’economia capitalistica e del suo principio fondativo, in base a cui il criterio di successo di ogni strategia è la valorizzazione del capitale, non già il miglioramento della vita. Se si sfoglia la letteratura sociologica che tenta di interpretare il significato dei comportamenti collettivi, è facile constatare come converga quasi interamente sulla persistenza diffusa di un senso di rassegnata fatalità in cui ciascuno ha perso la speranza di poter diventare protagonista della storia del proprio paese e dell’intera umanità. All’enfasi del cambiamento corrisponde, su questo piano, una società di atomi privi della capacità di rappresentare le proprie relazioni come rapporti interpersonali creativi di esperienza e nuovi pensieri. Una società passiva e depressa, che teme il rischio come incertezza collettiva e insicurezza personale, che non trova alcuna ragione per impegnarsi a produrre e a perseguire un progetto di vita, che si lascia andare, istante dopo istante, a una ricerca assillante del godimento immediato come surrogato di una vera e propria ricerca della felicità e dell’armonia. L’unico sentimento comune di questa società passiva e frantumata è il diffondersi di un senso di paura indeterminata, che spinge i governi a produrre continue misure securitarie. Più che cittadini di un mondo nuovo, gli esseri della nostra epoca si sentono gruppi umani, braccati da un nemico invisibile, che provano a rifugiarsi in un privato senza legami sociali. Tutti i governi, mentre si affannano a esaltare le prossime conquiste dell’apparato tecnologicoindustriale, si candidano concretamente a realizzare la tutela poliziesca delle presunte minacce esterne. Sociologicamente, la società che si dovrebbe apprestare ad assumere su di sé il compito della trasformazione radicale del modo di vivere e di consumare, si presenta invece come una società bloccata da una paura paralizzante, che tende a delegare a poteri esterni la garanzia della propria sopravvivenza. […] *Con l’autorizzazione dell’Autore si riporta parte del primo capitolo Pietro Barcellona è Docente di Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Catania 39