PLOTINO e le Sostanze Eterne dell’UNO, dello SPIRITO e dell’ANIMA Fondendo in maniera originale le acquisizioni dei Pitagorici, del Platonismo e delle Sostanze Individuali o Sinoli aristotelici, Plotino può affermare che la condizione esistenziale di ogni Essente è quella di presentarsi sempre e comunque nella realtà di una cosa singolare, o come cosa sensibile e concreta o come una qualsiasi rappresentazione o concetto della mente, cosicchè il mondo non è altro che l’unità di un molteplice costituito da infinite unità singolari, infiniti ‘uno’ racchiusi e delimitati dalla singolarità stessa del mondo. Già Platone insegnava che l’unità di un molteplice non è della stessa natura degli elementi costituenti quel molteplice, ma li trascende in una nuova singolarità, per es. la singolarità dell’Idea di Albero o l’Albero In Sé, che trascende, con la sua natura Universale e Intelligibile, la realtà sensibile dei molteplici alberi concreti. Ma Platone si era fermato al dualismo tra Idee e Individui, lasciando che anche il ‘Bene’ venisse catturato dalla luce intelligibile di un’Idea, certamente speciale perchè l’Idea unificante la molteplicità delle Idee, ma pur sempre anch’essa un’idea. Se è vero però che l’unità di molteplici mattoni non è a sua volta un mattone, bensì l’unità di una casa o edificio che trascende i singoli mattoni, e che l’unità successiva delle case non è una casa, bensì un quartiere o un paese che trascende le singole case come suoi elementi costitutivi, come dobbiamo denominare quel trascendimento finale che presenta come unità singolare la totalità delle molteplici unità singolari costituenti il mondo? Soltanto il generico termine di ‘Uno’ sembra adeguato a rappresentare l’ambivalenza insopprimibile del suo significato, perché mentre assume il valore matematico dell’unità singolare, nasconde dietro di sé l’infinito della totalità delle cose mondane, e reciprocamente, la visione intelligibile della successione infinita dei Finiti, presuppone il trascendimento della loro molteplicità nella placida identità dell’unità numerica. Ma si tratta forse di un ‘Uno’ di carattere matematico? Secondo gli esempi di Plotino, l’unità di un esercito, di un gregge, di una casa, non è semplicemente una somma di soldati, di pecore o di mattoni, perché si tratta di unità formali che trascendono gli elementi che le compongono, e che possono a loro volta diventare parti di altre unità più ampie in cui essere incluse. Quello che emerge è che c’è un’implicazione reciproca tra Unità e Molteplicità, nel senso che l’una sussiste in virtù dell’altra, e viceversa. Così dice Plotino nelle Enneadi, la raccolta delle sue opere in sei libri di nove parti ciascuno, compiuta dal discepolo Porfirio : “ Tutti gli enti sono in virtù dell’Uno…. non si ha esercito se esso non sa presentarsi uno, né si ha coro né greggia, se non sono ‘uno’….. niente casa o nave se non hanno unità, dal momento che la casa è una unità, e così pure la nave, tanto che se perdono l’unità, la casa non sarà più casa e la nave non sarà più nave….. la salute stessa si ha solo allora che il corpo sia coordinato in unità; e si ha bellezza quando le parti siano tenute insieme dalla virtù dell’uno…” Facendo proprio anche lo sguardo di Aristotele sulla totalità degli Essenti, Plotino può così dire che Tutto è l’Uno, con la sequela infinita delle molteplici unità singolari a costituire la totalità del mondo, e l’Uno è il Tutto, con la totalità del mondo rappresentata dalla singolarità insuperabile di un unico cosmo, reso sempre identico a se stesso dall’essere il trascendimento eterno delle unità individuali che lo compongono. Ma se le cose stanno così, come possiamo noi uomini, anche noi unità finite e singolari all’interno del cosmo, avere conoscenza dell’Uno? Essendo una realtà che non è circoscrivibile, che non può essere guardata dall’esterno, bisogna concludere che l’Uno non è oggettivabile e nessuna determinazione è adeguata ad esprimerne la natura. Possiamo forse attribuire all’Uno il predicato dell’Essere e dire che l’Uno E’? No, perché per essere, l’Uno dovrebbe essere l’oggetto di un pensiero, cosicchè subirebbe la duplicazione di esistere fuori dal pensiero e al tempo stesso di esserne il contenuto, cioè un molteplice in cui va perduta la sua autentica natura; possiamo forse dire che l’Uno è un’Idea? No, perché sarebbe inteso come un universale che unifica la totalità degli ‘Uno’ del mondo, così come i nostri concetti ne unificano porzioni limitate e parziali, nei Generi e nelle Specie, confuso quindi in un molteplice incapace di esprimere la sua autentica natura; possiamo infine dire che l’Uno è sostanza? No, perché questo attributo lo renderebbe equivalente, come vuole Ari, a tutte le sostanze del mondo, in un molteplice che finisce per negare l’unicità insuperabile della sua natura. Appare così che qualunque attribuzione confonderebbe l’Uno con i caratteri delle molteplici cose ‘finite’, e ciò rivela l’Uno come una realtà inconoscibile, indicibile e ineffabile, un ‘Dio’ di cui è possibile soltanto dire ciò che non è (Teologia negativa), con la sola connotazione positiva di riconoscersi nella trascendenza pura di un ‘Infinito reale’, non soltanto matematico, ben distinto dalle molteplici cose ‘finite’. Inaccessibile e non oggettivabile nella sua assoluta trascendenza, quale esperienza possiamo avere dell’Uno? Se l’esperienza teoretica è solo negativa, sarà invece l’esperienza della sua infinita Potenza testimoniata dagli infiniti ‘uno’ di cui costituisce l’unità, ciascuno dei quali è il trascendimento delle sue parti, in una proliferazione di unità singolari di cui nemmeno l’atomo materiale può essere il termine, a riconoscere questa Potenza come il ‘Bene sovrabbondante’ con cui l’Uno realizza e conserva la sua trascendenza pura rispetto al mondo. L’Uno vive la perfezione della sua immobile eternità come ‘ciò che è tutte le cose finite, senza essere nessuna di esse’, nella insuperabile distinzione tra il divenire delle molteplici cose finite, e la trascendenza pura e immobile dell’Uno Infinito. Ma questa relazione tra la circonferenza del Tutto e il molteplice al suo interno non si giustifica con la Causa Finale del Dio di Ari, bensì come la Potenza stessa della perfezione dell’Uno che vuole e realizza se stessa attraverso l’imperfezione di ciò che sta dentro il mondo. La Perfezione è infatti tale solo nella relatività al suo contrario, cosicchè anche l’imperfezione è voluta, emanata e creata dalla sovrabbondanza di Bene della Perfezione stessa. L’imperfezione delle cose del mondo si manifesta per gradi, come l’attenuarsi della luce emanata dalla fiamma di una candela man mano che ci si allontana da essa, dando luogo alle tre Ipòstasi o gradi di realtà di per sé sussistenti, che derivano dal limite della inconoscibilità dell’Uno. La potenza dell’Ipostasi dell’Uno, perfetta nella sua unicità non oggettivabile, emana da sé la dualità di uno Spirito che è l’esistenza di un pensiero autocosciente di essere l’unità pensante di tutti i pensati, avente cioè l’universalità di un’Idea. Ma tale Spirito si duplica a sua volta nel principio vitale di un’Anima come unità organica delle Parti nel Tutto, sia come Anima del Mondo che organizza le Idee in Specie e Generi, sia come Anima Individuale che permane come il Tutto di una Forma o Idea nella Parte di una esistenza individualizzata dalla Materia (i Sinoli aristotelici). La Materia non è però un’Ipostasi come lo sono l’Uno, lo Spirito e l’Anima, perché è impossibile che essa possa esistere come una singolarità autonoma priva di una qualsiasi forma; essa è piuttosto il limite della passività e della tenebra necessario al manifestarsi della potenza dell’Uno, il negativo privo di ogni sostanzialità che sottomette le molteplici cose ‘corporee’ del mondo all’imperfezione del divenire e alla corruzione della morte. All’interno della molteplicità delle cose corporee, il vertice della gerarchia dei viventi è costituito dall’uomo, la cui Anima partecipa della dualità del superiore, capace di contemplare le Idee intelligibili, e dell’inferiore, che governa la vita sensibile e biologica. Per questa centralità cosmica, l’uomo vive nella condizione esistenziale di una costante ‘nostalgia dell’Uno’, animato dal desiderio di andare oltre il limite della propria individualità e risalire ai gradi superiori delle Ipòstasi, da cui la sua Anima proviene. Nella sua libertà interiore, l’uomo comprende che nella vita corporea l’Anima si trova esiliata e distinta dalla fonte che l’ha originata, e vive la condizione inautentica di essere soltanto un’immagine dell’Uno, soggetta alle seduzioni della Materia, ai piaceri sensibili e alle passioni più o meno violente che essa può suscitare. L’Anima potrà trovare il riscatto dai limiti della condizione corporea solo compiendo un percorso a ritroso per ricongiungersi alla sua ‘patria’, a cui da sempre appartiene, facendo degli stessi impulsi naturali i mezzi e gli strumenti per trovare l’equilibrio e l’armonia della propria unità psicofisica. Sul modello del percorso di liberazione illustrato nel mito della Caverna, Plotino delinea diverse tappe di questo viaggio di ritorno dell’uomo all’Uno che l’ha generato e lo comprende. Dopo le tappe della conquista delle Virtù Civili, come il coraggio, la temperanza, la giustizia, dell’esaltazione del ruolo della Bellezza sensibile, del percorso della scala erotica platonica, e della visione dialettica delle relazioni vere e necessarie tra le Idee, qual è l’ultima tappa di questo percorso a ritroso che vuole andare oltre il sapere filosofico? Essa esige esplicitamente l’abbandono del piano dell’intelligenza e della conoscenza perché non è sul piano conoscitivo che può avvenire il ricongiungimento con l’Uno. Come sappiamo infatti, l’Uno non è oggettivabile, cosicchè l’ultima tappa di questo viaggio è un vero e proprio salto che ci porti ad ‘uscire fuori da noi stessi’, secondo l’etimologia del termine ESTASI, ad andare oltre la nostra stessa unità psicofisica per vivere la rara esperienza di un congiungimento estatico con l’Uno originario da cui tutto proviene. L’Estasi così raggiunta opera una sorta di Epochè, di sospensione della individualizzazione dell’Io nella corporeità materiale, perché l’Anima veda l’Uno dentro se stessa come il Tutto; è un’Anima che ha abbattuto l’angusto confine della sua individualizzazione materiale per ricongiungersi con l’Uno nella medesimezza di una estensione e di una potenza infinita, in quanto il suo confine è ormai l’infinito del Tutto.