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Capitolo
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Famiglia e filiazione:
profili generali
Sommario
1.1 Il diritto di famiglia. - 1.2 Famiglia parentale, famiglia nucleare e famiglia convivente. - 1.3 C’era una volta la famiglia legittima… - 1.4 L’erosione dell’idea di «famiglia naturale» quale entità preesistente allo Stato. - 1.5 La «famiglia
di fatto» figlia di un dio minore? - 1.6 La posizione dei coniugi e dei figli nella famiglia. - 1.7 Le prospettive aperte dal
disegno di legge n. 2514 del 12 aprile 2007. - 1.8 Parentela e affinità. - 1.9 La parentela naturale ridisegnata dalla Corte
costituzionale. - 1.10 Il trasferimento al tribunale ordinario dei procedimenti sui figli naturali (art. 317bis c.c.).
1.1Il diritto di famiglia
Il diritto di famiglia è l’insieme delle norme che disciplinano i rapporti familiari, ossia i
rapporti di coniugio, di filiazione (legittima, naturale e adottiva), di parentela e di affinità.
Il codice civile dedica alla famiglia il primo libro intitolato «Delle persone e della famiglia».
La maggior parte degli articoli che lo compongono hanno oggi un contenuto profondamente diverso da quello che avevano nel testo originario del 1942.
Il diritto di famiglia codificato nel 1942 concepiva una famiglia fondata sulla subordinazione della moglie al marito (nei rapporti personali e in quelli patrimoniali, nelle relazioni di
coppia e nei riguardi dei figli) e sulla discriminazione dei figli nati fuori dal matrimonio (figli
naturali), che ricevevano un trattamento giuridico deteriore rispetto ai figli legittimi.
Il primo libro del codice venne riformato dalla L. 151/75 (riforma del I principi introdotti dalla
diritto di famiglia), che introdusse numerose novità finalizzate a uni- riforma del ‘75
formare il diritto di famiglia ai principi costituzionali. In particolare, la
legge del 1975:
— ha riconosciuto la parità giuridica e morale dei coniugi, attraverso l’abolizione di
una serie di istituti che sancivano la supremazia del marito sulla moglie (ad esempio,
abolizione della patria potestà, sostituita con la potestà dei genitori da esercitarsi di
comune accordo);
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— ha affermato la parità dei diritti e dei doveri di entrambi i genitori nei confronti dei figli (legittimi e naturali), stabilendo il dovere di entrambi i coniugi di mantenere,
istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e
delle aspirazioni dei figli (art. 147 c.c.);
— ha istituito la comunione dei beni come regime patrimoniale legale della famiglia (in
mancanza di diversa convenzione);
— ha ampliato la possibilità di riconoscimento dei figli naturali e ha sancito la
parità di trattamento tra figli legittimi e figli naturali (art. 261 c.c.), nonostante restino in piedi alcuni profili di diversità (ad esempio, la normativa sull’usufrutto legale dei beni dei figli naturali non si applica con la stessa ampiezza prevista in caso di
filiazione legittima, poiché i frutti dei beni del figlio naturale possono essere destinati
solamente al mantenimento del figlio stesso) (1);
— ha abrogato l’istituto della dote;
— ha riconosciuto ai figli naturali la stessa tutela prevista per i figli legittimi.
Accanto alla riforma del 1975, occorre menzionare la L. 431/67, che ha integrato le norme
del codice in tema di adozione, e successivamente riformata con la L. 184/83; la L. 898/70,
che ha introdotto il divorzio; la L. 121/85 che ha reso esecutivo l’accordo del 1984 di modifica del Concordato del 1929 tra Stato e Chiesa; la L. 40/04 sulla procreazione medicalmente assistita e, da ultimo, la L. 54/06 sull’affidamento condiviso, che ha rivoluzionato
l’assetto dei rapporti genitori-figli così come disciplinato dal codice civile.
1.2Famiglia parentale, famiglia nucleare e famiglia convivente
Sul piano definitorio la famiglia è un insieme di persone unite da
un rapporto di parentela o affinità.
Questa definizione si riferisce, in particolare, alla c.d. famiglia parentale, ossia al gruppo di persone appartenenti a una discendenza comune.
A questa nozione si affianca quella di famiglia nucleare, ossia la comunità di coloro che
si uniscono stabilmente e della loro prole.
La famiglia nucleare è caratterizzata da un forte vincolo di solidarietà che lega i suoi componenti e si traduce in diritti e obblighi reciproci di assistenza, collaborazione e mantenimento.
Alla famiglia nucleare fanno riferimento l’art. 29 Cost., laddove parla di «famiglia naturale»,
l’art. 144, comma 1, c.c. laddove riserva ai coniugi le decisioni sull’indirizzo della vita familiare e sulla residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia, e l’art. 159 c.c. quando prevede il regime patrimoniale della famiglia.
Un terzo tipo di famiglia è la c.d. famiglia convivente, ossia la comunità dei familiari che
coabitano nella stessa residenza.
Solitamente la famiglia nucleare è anche convivente, poiché i coniugi hanno l’obbligo
della coabitazione (art. 143, comma 2, c.c.) e fissano insieme la residenza della famiglia
(art. 144 c.c.).
Si parla, infine, di famiglia lavorativa per indicare la comunità dei familiari che collaborano unitariamente per un’attività economica produttiva. La famiglia lavorativa dà luogo,
normalmente, all’impresa familiare (art. 230bis c.c.) (2).
La tipologia degli interventi
(1) Checchini, Della filiazione naturale, in Comm. dir. it. fam., a cura di Cian-Oppo-Trabucchi, IV, Padova, 1992, 142.
(2) Per queste classificazioni, v. BIANCA, Diritto civile, 2. La famiglia - Le successioni, Milano, 2005, 4 s.
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Famiglia e filiazione: profili generali
È bene chiarire che la famiglia non è un’entità distinta rispetto ai soggetti che la compongono. Non si tratta, cioè, di un autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche
soggettive, poiché nessuna posizione giuridica è attribuita alla famiglia in quanto tale.
Piuttosto, gli interessi realizzati nella famiglia sono gli interessi delle persone che la compongono, per cui quando il legislatore parla delle esigenze della famiglia (ad es., artt. 144
comma 1, 145 comma 2, 181 c.c.) deve farsi riferimento alle esigenze dei suoi componenti complessivamente considerate.
Non può trovare spazio alcuno, soprattutto per la rilevanza che assume il principio della
parità dei coniugi (art. 143 c.c.), il modello autoritario e gerarchico che considera la famiglia come società trascendente l’insieme dei suoi membri, portatrice di interessi non coincidenti con quelli dei singoli.
Nonostante una parte della dottrina di ispirazione cattolica (3) ritenga che l’interesse della
famiglia sia un interesse superiore e sovraordinato a quello dei suoi membri, occorre ribadire
che la tutela della famiglia consiste nella tutela degli interessi personali dei coniugi e dei figli.
1.3C’era una volta la famiglia legittima…
La Costituzione dedica alla famiglia tre articoli (collocati all’interno del La famiglia nella CostituzioTitolo II intitolato «Rapporti etico-sociali»), e precisamente:
ne
— l’art. 29, secondo cui «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società
naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare»;
— l’art. 30, per il quale «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i
figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge
provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia
legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità»;
— l’art. 31, che afferma: «La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare
riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo».
In via preliminare occorre subito sfatare una leggenda, negli ultimi anni sempre più insistentemente propagandata dagli avversari di qualunque forma di riconoscimento giuridico
delle unioni familiari di tipo non tradizionale.
Il comma 1 dell’art. 29 Cost., come sopra accennato, afferma che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».
Tale disposizione, com’è evidente già ad una prima lettura, dice soltanto che cosa è «lecito»,
ma non dice che cosa è «illecito». Non vieta, cioè, il riconoscimento di altre forme
di convivenza familiare, e ciò per il semplice fatto che un tale riconoscimento non sarebbe suscettibile di modificare, limitare, compromettere o intaccare in alcun modo i diritti o la sfera di autonomia delle famiglie tradizionali.
L’art. 29, infatti, stabilisce soltanto che lo Stato non può fare a meno di garantire i
diritti della famiglia fondata sul matrimonio, alla quale viene così assicurata una
(3) SANTORO PASSARELLI, Saggi di diritto civile, I, Napoli, 1961, 381; IRTI, Il nuovo diritto di famiglia, Milano, 1976, 37.
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relativa sfera di autonomia rispetto al potere regolativo dello Stato: di qui, ad esempio,
l’illegittimità costituzionale di una legge ordinaria che mirasse a disconoscere i diritti di tali
famiglie. L’autonomia della famiglia fondata sul matrimonio, come «formazione sociale
intermedia», non può quindi essere manomessa da interventi autoritari, come quelli messi
in atto dal regime fascista appena tramontato all’epoca del varo della Costituzione.
Del resto, sarebbe illogico pretendere che la particolare o rinforzata tutela esplicitamente
garantita dalla Costituzione a una specifica situazione obblighi a negare lo stesso trattamento a situazioni analoghe o identiche.
Si prendano, ad esempio, gli artt. 33, comma 1, e 19 Cost., che tutelano, rispettivamente, la libertà di insegnamento e la libertà di culto: nessuno si sognerebbe di trarne la conseguenza che la libertà di espressione del pensiero in altri campi (peraltro garantita dall’art.
21 Cost.) debba essere limitata nei casi che non formano oggetto della tutela «rinforzata»
prevista dagli artt. 33 e 19 citati.
In altri termini, affermare in modo solenne i diritti di qualcuno non equivale a vietare il
riconoscimento, sia pure minimo, dei diritti di qualcun altro; e comunque una così rilevante negazione di diritti dovrebbe almeno essere formulata in modo espresso.
Altre indicazioni sono desumibili dall’art. 3, comma 1, Cost., che prevede l’uguaglianza
formale fra i cittadini come parametro fondamentale di legittimità della legge ordinaria e
impone che situazioni giuridiche uguali siano trattate in modo uguale. Nella misura in cui
situazioni giuridiche attinenti alle famiglie tradizionali siano identiche a quelle attinenti a famiglie non tradizionali, queste ultime devono essere trattate in modo identico Non solo,
quindi, l’art. 29, comma 1, Cost., non impone un trattamento differenziato ma al contrario,
la Costituzione, nel suo complesso, impone parità di trattamento e parità di diritti.
E ancora: l’art. 29, comma 1, Cost., colloca la tutela della famiglia nel quadro delle autonomie riconosciute alle «formazioni sociali intermedie».
Tali formazioni sociali, che ricomprendono anche la famiglia, rivestono il ruolo essenziale
di luoghi dove si svolge la personalità del singolo individuo, come recita l’art. 2 Cost. Come
tali esse sono i luoghi all’interno dei quali «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo». Che fra tali formazioni sociali possano riconoscersi anche le «famiglie
di fatto» è pacificamente riconosciuto da dottrina e giurisprudenza.
Ed è altrettanto chiaro, dalla lettura complessiva delle disposizioni costituzionali riguardanti le formazioni sociali e la famiglia, che il loro fine comune è il pieno e libero sviluppo
della personalità e dei diritti umani fondamentali degli individui che le compongono (tanto
che non ha mai avuto successo il tentativo di attribuire alla famiglia — neppure alla famiglia
legittima — il carattere di persona giuridica, titolare di situazioni giuridiche soggettive distinte e sovraordinate rispetto a quelle dei singoli componenti): è evidente che, a questi
effetti, qualunque discriminazione non potrebbe che ritenersi del tutto illegittima.
1.4L’erosione dell’idea di «famiglia naturale» quale entità preesistente allo Stato
Fatte queste brevi annotazioni, occorre analizzare più in dettaglio l’art. 29 Cost.
La tesi tradizionale
La norma, laddove fa riferimento alla famiglia naturale, avrebbe accolto, secondo la tesi tradizionale, una concezione di famiglia come
entità preesistente allo Stato. Lo Stato, cioè, secondo questa tesi,
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Famiglia e filiazione: profili generali
non attribuisce diritti alla famiglia, ma si limita a riconoscerla come entità naturale che
preesiste allo Stato stesso (4), e l’unica forma di famiglia oggetto di riconoscimento è
quella legittima, con esclusione, dal concetto costituzionale di famiglia, delle unioni di fatto
(non fondate, cioè, sul matrimonio): famiglia legittima è quella costituitasi col matrimonio
del padre naturale e composta dal coniuge e dai figli legittimi. A questa interpretazione
conducono il linguaggio e il contenuto delle norme costituzionali e della legislazione ordinaria, oltre alla stessa sistematica del codice civile.
Infatti, nell’art. 29 la garanzia costituzionale copre il gruppo società naturale fondato sul
matrimonio, quello cioè che, nato da tale unione, riposa appunto sulla parità dei coniugi,
anche nel governo della famiglia, e sull’unità familiare (comma 2 dello stesso art. 29),
parità e unità che non possono esigersi né ipotizzarsi nei riguardi degli ascendenti o collaterali di chi ha costituito col matrimonio una società naturale.
Del resto, che solo del coniuge e dei discendenti si sia preoccupato il Costituente risulta
anche dall’art. 31, dove la famiglia e i suoi compiti sono quelli che derivano dal matrimonio; risulta inoltre dall’art. 30, comma 1, che riconosce doveri e diritti dei genitori nei
confronti dei figli e non nei riguardi dei propri ascendenti o collaterali. Da questo quadro
non è verosimile che sia uscito il comma 3 dell’art. 30: anche qui, l’accenno alla famiglia
legittima di chi ha figli naturali, evidentemente, non comprende gli ascendenti o i collaterali; poiché si contrappongono i figli nati fuori del matrimonio di lui alla sua famiglia legittima, questa non può essere che il gruppo costituitosi col suo matrimonio (5).
Se il matrimonio è fondamento della famiglia (legittima), il riferimento alla società «naturale» ne determina l’estensione. La naturalità richiama il fine della procreazione, e
dunque la famiglia legittima è costituita solamente dai genitori e dalla prole. Non ne
fanno parte, quindi, come sopra accennato, né gli ascendenti né i collaterali: nella sentenza 79/1969 la Corte Costituzionale ha precisato la portata dell’art. 30, comma
terzo, Cost., statuendo che deve considerarsi famiglia legittima quella costituitasi col
matrimonio del padre naturale comprendente soltanto il coniuge e i figli legittimi e non
anche i collaterali e gli ascendenti. Ha poi affermato che se il genitore naturale non ha
coniuge né figli legittimi manca una famiglia legittima nel senso previsto dalla citata
norma costituzionale e si apre per il figlio naturale (riconosciuto o dichiarato) la tutela
garantita da questa norma (6).
Il riferimento alla famiglia fondata sul matrimonio (famiglia legittima) precluderebbe, secondo
le interpretazioni fiorite all’indomani del varo della Costituzione, l’ingresso al riconoscimento
di forme «spurie» di convivenza familiare.
Occorre subito chiarire, però, che l’art. 29 non può essere inteso L’interpretazione dell’art. 29
come una norma che imponga un solo tipo di famiglia, quella Cost.
fondata sul matrimonio: la norma, piuttosto, indica un particolare
impegno della Repubblica italiana nel riconoscere il matrimonio (ad esempio, se una legge,
per assurdo, decidesse di abrogare il matrimonio, sarebbe in contrasto con l’art. 29), ma
ciò non implica la messa al bando di altre forme di unione, perché altrimenti la norma
entrerebbe in conflitto con altre disposizioni costituzionali, tra le quali l’art. 2 — che riguar(4) DALLA TORRE, Motivi ideologici e contingenze storiche nell’evoluzione del diritto di famiglia, in D’Agostino (a cura di), Famiglia, diritto e diritto di famiglia, Milano, 1985, 58.
(5) Corte cost. 2-4-1969, n. 79.
(6) Corte cost. 27-3-1974, n. 82.
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da il riconoscimento dei diritti fondamentali in tutte le formazioni sociali — e l’art. 3 — che
sancisce il principio di eguaglianza e, soprattutto, di non discriminazione.
Questo potenziale conflitto tra l’art. 29, da un lato, e gli artt. 2 e 3 Cost., dall’altro, deve
essere risolto facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento, tra i quali il principio
di libertà e di uguaglianza, perché altrimenti la famiglia fondata sul matrimonio si risolverebbe in un’inammissibile imposizione dello Stato sulle scelte dei singoli.
Del resto, le norme di rango europeo contribuiscono a rafforzare
questa tesi.
Ad esempio, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza nel 2000, all’art. 9 stabilisce che i cittadini europei hanno il
diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia. Il «diritto di sposarsi» — che riecheggia, anche a livello lessicale, il matrimonio tradizionale — e il «diritto di costituire una famiglia» sono diritti paralleli, che possono coincidere ma possono anche essere distinti. La
mancanza di qualsiasi riferimento al matrimonio e all’eterosessualità dei componenti di
questo nucleo fa sì che l’art. 9 della Carta europea abbia un contenuto più ampio dell’art.
29 della Costituzione italiana.
Inoltre, l’art. 53 della Carta europea consente di «raccordare» le disposizioni sovranazionali con quelle nazionali. Esso recita testualmente: «Nessuna disposizione della presente
Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali riconosciuti … dal diritto internazionale … e dalle Costituzioni degli Stati
membri».
Questo significa che la Carta europea può attribuire nuovi diritti ma non può limitare
quelli esistenti. Pertanto, un eventuale conflitto tra norme va risolto riconoscendo come
prevalente la fonte che dà più diritti. Ciò significa che, tra l’art. 9 della Carta europea e
l’art. 29 della Carta costituzionale italiana, deve attribuirsi prevalenza al primo (7). Si tratta di un meccanismo di sicurezza per cui la norma sovranazionale prevale su quella nazionale soltanto se aggiunge qualcosa; se, invece, introduce delle limitazioni di diritti, prevale
quella nazionale.
Più in generale, può osservarsi che l’art. 29 Cost., nel definire la famiglia «società naturale», non la contrappone allo Stato, né la colloca in una posizione sovraordinata rispetto
all’ordinamento statale, ma attribuisce rilevanza giuridica alla «constatazione di fatto che,
tra i membri della famiglia, non sussistono solo freddi vincoli giuridici, ma legami affettivi,
sentimentali, spontanei e di sangue» (8).
In altri termini, l’aggettivo «naturale» non si riferisce a un inafferrabile «diritto di natura»,
ma evidenzia che la famiglia è una struttura soggetta ai cambiamenti del tempo, storicamente mutevole e adattabile alle mutevoli esigenze storico-sociali (9).
Del resto, affermare che l’art. 29 Cost. precluda il riconoscimento giuridico delle famiglie
non fondate sul matrimonio non ha senso. Infatti, all’epoca del varo della Costituzione le
uniche forme di convivenza presenti nella società erano quelle fondate sul matrimonio: la
convivenza era una realtà assolutamente minoritaria e sostanzialmente sconosciuta ai costituenti.
Normativa europea
(7) Vedi le dichiarazioni di SANTOSUOSSO in Commissione Giustizia - seduta del 13 ottobre 2005, Resoconto delle audizioni dell’indagine
conoscitiva sul fenomeno delle coppie di fatto, in http://www.unpacsavanti.it/documenti/commissione9.htm.
(8) ESPOSITO, Famiglia e figli nella Costituzione italiana, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 136 ss.
(9) BESSONE, Commento agli artt. 29-31, in Comm. Cost., a cura di Branca, Bologna-Roma, 1976, 31.
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Famiglia e filiazione: profili generali
Ciò comporta che, a seguito delle mutate condizioni sociali, «un esclusivo ancoraggio
dell’interprete all’intento dei Costituenti porterebbe a relegare nella sfera del giuridicamente irrilevante ogni forma di convivenza diversa dalla famiglia legittima. In tal caso, non solo
sarebbero compromessi i diritti inviolabili dei conviventi di fatto e la loro pari dignità sociale, ma la realtà si vendicherebbe in un modo o nell’altro della pretesa di ignorarla, con la
creazione di un circuito informale di rapporti sociali che farebbe cadere in desuetudine un
intero capitolo del nostro diritto costituzionale» (10).
1.5La «famiglia di fatto» figlia di un dio minore?
Sulla scorta di quanto detto nei paragrafi precedenti non vi è alcun ostacolo a collocare,
accanto alla famiglia legittima fondata sul matrimonio e riconosciuta espressamente dall’art.
29 Cost., la famiglia di fatto, ovvero l’unione non consacrata in un vincolo matrimoniale ma basata sull’affetto e sulla reciproca osservanza dei doveri familiari.
La giurisprudenza della Corte costituzionale colloca sul piedistallo l’isti- La giurisprudenza della
tuto matrimoniale in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della Corte Costituzionale
corrispettività dei diritti e dei doveri che nascono soltanto dal matrimonio. Secondo il giudice delle leggi, l’art. 29 Cost. non nega dignità a forme naturali del rapporto di coppia diverse dalla struttura giuridica del matrimonio, ma è altrettanto vero che riconosce alla famiglia legittima una dignità superiore, in ragione «dei caratteri di stabilità e certezza
e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri, che nascono soltanto dal matrimonio. Il riconoscimento della convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all’eredità, da
un lato, contrasterebbe con le ragioni del diritto successorio, il quale esige che le categorie
dei successibili siano individuate in base a rapporti giuridici certi e incontestabili (quali i
rapporti di coniugio, di parentela legittima, di adozione, di filiazione naturale riconosciuta o
dichiarata), dall’altro, per le conseguenze che comporterebbe nei rapporti tra i due partners
(non solo l’obbligazione alimentare, ma anche qualcosa di simile all’obbligo di fedeltà), contraddirebbe alla stessa natura della convivenza, che è un rapporto di fatto per definizione
rifuggente da qualificazioni giuridiche di diritti e obblighi reciproci.
Nemmeno può dirsi violato, secondo la Corte, il principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana. Ammesso che l’art. 2 Cost. sia riferibile anche alle
convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità, ciò non implica la garanzia ai conviventi del diritto reciproco di successione mortis causa, il quale certo
non appartiene ai diritti inviolabili dell’uomo, i soli presidiati dall’art. 2.
In ordine alla famiglia naturale la discrezionalità lasciata al legislatore ordinario dall’art. 42,
comma 4, Cost., per la determinazione delle categorie dei successibili, incontra soltanto il
vincolo derivante dalla direttiva di equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi nei rapporti con i genitori che li hanno riconosciuti o nei confronti dei quali la filiazione è stata
dichiarata, sancita dall’art. 30, comma 3» (11).
(10) PINELLI, La Nota del Consiglio episcopale permanente e le norme costituzionali in tema di famiglia e formazioni sociali, in Associazione italiana dei costituzionalisti - http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/dottrina/libertadiritti/pinelli.html
(11) Corte cost. 26-5-1989, n. 310. Da ultimo, Corte cost. 20-4-2004, n. 121: «se da un lato la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude affatto la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost., … tuttavia, al di fuori di tali specifi-
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Capitolo 1
Per la Corte, infatti, l’unione libera non costituisce un fenomeno che, per quanto
diffuso, possa rientrare nella previsione di cui all’art. 29 Cost. La notevole diffusione della convivenza di fatto, quale rapporto tra uomo e donna ormai entrato nell’uso
e comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale, non autorizza secondo la Corte, una visione unificante secondo la quale la convivenza di fatto
rivestirebbe connotazioni identiche a quelle che scaturiscono dal rapporto matrimoniale. Al contrario, in diverse decisioni la Corte Costituzionale ha posto in luce la netta
diversità della convivenza di fatto, fondata sull’affectio quotidiana — liberamente e in
ogni istante revocabile — di ciascuna delle parti rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri … che nascono soltanto dal matrimonio (12).
Tuttavia, nonostante queste dure prese di posizione del giudice delle
Leggi, la tutela della convivenza more uxorio è registrata in diverse
pronunce ed è funzionale alla necessità di porre rimedio a situazioni
di disuguaglianza e alla conseguente necessità di rispettare il principio di eguale godimento di diritti fondamentali.
Così è avvenuto, ad esempio, nel caso del riconoscimento — a seguito della declaratoria
di illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge sulle locazioni (n. 392/78) nella parte in
cui non prevedeva la successione nel contratto di locazione stipulato dal conduttore che
abbia cessato la convivenza, a favore del convivente di questo quando vi sia prole — del
diritto del convivente more uxorio a rimanere nell’immobile stesso con la prole naturale
nata dall’unione (Corte cost. 16-5-88, n. 404).
Più in generale, al di là dei singoli casi sottoposti alla sua attenzione, la Corte ha più volte
affermato che l’art. 2 Cost., che si riferisce alla tutela dei diritti della persona anche nelle
formazioni sociali dove si svolge la personalità, ricomprende anche le convivenze di fatto,
purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità: «questa Corte non può ignorare, per un verso, il sempre maggiore rilievo che, nel mutamento del costume sociale, sta
acquistando la convivenza more uxorio, … né può, per altro verso, negarsi validità alla …
considerazione che … la solidità di una vita matrimoniale potrebbe risultare, oltre che da
una convivenza successiva alle nozze protratta per alcuni anni, anche da un più lungo
periodo, anteriore alle nozze, caratterizzato da una stabile e completa comunione materiale e spirituale di vita della coppia stessa, che assuma poi col matrimonio forza vincolante.
Pertanto, fermo restando questo primo e indeclinabile presupposto matrimoniale (con i
diritti e doveri che ne conseguono), la scelta potrebbe, eventualmente, cadere anche su
coniugi sposati da meno di tre anni, ma con una consistente convivenza more uxorio
precedente alle nozze» (13).
Tutela della convivenza
more uxorio
ci casi che possono rendere necessaria una identità di disciplina, ogni intervento in tal senso rientra nella sfera di discrezionalità del legislatore. … [Sotto] il profilo della asserita violazione dell’art. 3 Cost. non v’è ragione di discostarsi dalle conclusioni raggiunte nella …
sentenza n. 8 del 1996, tanto più che un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità che assumesse in ipotesi la pretesa identità della
posizione spirituale del convivente e del coniuge, rispetto all’altro convivente o all’altro coniuge, oltre a rappresentare la premessa di quella totale equiparazione delle due situazioni che non corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione, determinerebbe ricadute normative consequenziali di portata generale che trascendono l’ambito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale».
(12) Corte cost. 18-1-1996, n. 8.
(13) Corte cost. 6-7-1994, n. 281.
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Famiglia e filiazione: profili generali
Anche l’ordinamento attribuisce rilevanza, peraltro utilizzando una terminologia non univoca, alle posizioni giuridiche soggettive dei conviventi sotto molteplici aspetti:
a) il codice civile, il codice penale, il codice di procedura civile e il codice di procedura
penale prendono in considerazione il convivente (artt. 155quater, 330, 342bis, 342ter,
406, 417 c.c.; artt. 609quater, 609septies c.p.; art. 815 c.p.c.; art. 199 c.p.p.);
b) analogamente, la posizione del convivente è presa in considerazione dalla legislazione
in materia di protezione sociale e del lavoro (art. 4, L. 53/2000; art. 53 D.Lgs.
151/2001), in materia sanitaria (art. 1, L. 405/1975, art. 3, L. 91/1999, L. 40/2004),
in materia di diritto alla riservatezza (artt. 24, 26, 43, 82, 105, D.Lgs. 196/2003), di
edilizia e abitazione (art. 6, L. 392/1978 nel testo «additivato» dalla sentenza n.
404/1998 della Corte costituzionale, oltre che le varie disposizioni statali e regionali
sull’assegnazione degli alloggi di edilizia economica o popolare) e in materia risarcitoria
(diverse disposizioni prevedono forme di indennizzo o risarcimento in favore dei conviventi di vittime di particolari eventi quali terrorismo, usura, disastri aerei e nel campo
delle assicurazioni private).
La suddetta evoluzione normativa e giurisprudenziale, ha portato al riconoscimento della
famiglia di fatto quale situazione degna di tutela.
Muovendo dall’evidente necessità di porre l’accento sulla realtà sociale piuttosto che sulla
veste formale dell’unione tra due persone conviventi, è stata quindi riconosciuta valenza
giuridica a quella relazione interpersonale che presenti carattere di tendenziale stabilità e
che si esplichi in una comunanza di vita e di interessi nonché nella reciproca assistenza
morale e materiale (basti pensare, tra i principi enunciati nella giurisprudenza, a quello
secondo cui deve attribuirsi rilievo, quanto alla corresponsione dell’assegno divorzile dovuto in conseguenza di scioglimento di matrimonio, al rapporto di convivenza more uxorio
caratterizzato da stabilità, continuità e regolarità eventualmente instaurato dal coniuge
beneficiario dell’assegno stesso).
Dovendo confrontarsi con le mutate concezioni che via via si sono affermate nella società
moderna, la giurisprudenza, ha dunque considerato la famiglia «di fatto» quale realtà sociale che esprime caratteri e istanze analoghe a quelle della famiglia stricto sensu intesa (14).
Questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui la giurisprudenza costituzionale, come sopra evidenziato, non è indifferente, potrebbe autorizzare una visione unificante, in forza della quale la convivenza di fatto riveste, connotazioni identiche a
quelle che scaturiscono dal rapporto matrimoniale, e dunque le due situazioni in
nulla differirebbero se non per il dato estrinseco della veste formale del vincolo.
Si tratta, tuttavia, di un’affermazione osteggiata dalla Corte costituzionale, che al contrario
ha posto in luce, come sopra evidenziato, la netta diversità della convivenza di fatto, fondata sull’affectio quotidiana — liberamente e in ogni istante revocabile — di ciascuna
delle parti rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio.
La distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale, non
esclude, tuttavia, la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e
dell’altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma
dell’art. 3 Cost.: un controllo già in passato esercitato numerose volte dalla Corte costituzionale, il quale, senza intaccare l’essenziale diversità delle due situazioni, ha tuttavia con(14) In termini, Cass. pen., IV, 5-1-2006, n. 109.
13
Capitolo 1
dotto talora a censurare l’ingiustificata disparità di trattamento (a danno ora della famiglia
di fatto, ora della famiglia legittima) delle analoghe condizioni di vita che derivano dalla
convivenza e dal coniugio (15).
1.6La posizione dei coniugi e dei figli nella famiglia
L’art. 29 Cost. afferma l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.
Tale principio incontra, tuttavia, nel comma 2 dell’art. 29, un limite
nelle differenziazioni dettate per legge a garanzia dell’unità familiare,
per cui è legittima una differenza di trattamento fra coniugi disposta
per soddisfare tale interesse.
Questo limite risente della normativa preesistente alla Costituzione, basata sulla supremazia
del marito, per cui gli stessi costituenti avvertirono l’esigenza di identificare, all’interno della
famiglia, un capo, sia pure primus inter pares.
Ciononostante, l’art. 29 Cost. ha segnato il passaggio dalla famiglia patriarcale alla famiglia
fondata sull’uguaglianza dei coniugi, in linea con il principio sancito dall’art. 3 Cost. e con
quanto stabilito dall’art. 2 Cost., essendo la famiglia una formazione sociale nella quale si
svolge la personalità degli individui.
In quest’ottica, l’art. 29 Cost., laddove sancisce l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare, deve essere inteso nel
senso che la parità dei coniugi non può impedire contrasti su scelte più o meno rilevanti,
che non possono risolversi se non con disposizioni limitative dell’eguaglianza. Tali limitazioni, che non devono necessariamente tradursi in danno della moglie (16), devono essere
espressamente previste da disposizioni di legge ed essere finalizzate a garantire l’unità familiare.
L’art. 143 c.c., introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, ha dato attuazione
all’art. 29, comma 1 Cost., sancendo il principio di uguaglianza dei coniugi, intesa come
identità di posizioni dei coniugi rispetto ai diritti e ai doveri nascenti dal matrimonio (17).
Il principio di uguaglianza
morale e giuridica dei coniugi
Nella concezione costituzionale della famiglia rientrano, ovviamente,
anche i figli.
L’art. 30 Cost. stabilisce, a questo proposito, che «è dovere e diritto
dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio»
(comma 1) e che «la legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica
e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima» (comma 3).
Tale disposizione, che intende tutelare la posizione dei figli (legittimi e naturali), all’interno
della famiglia legittima sancisce il dovere di entrambi i genitori di mantenere, educare e
istruire i figli, e di conseguenza attribuisce a questi ultimi il correlativo diritto, che potrà
essere fatto valere nei confronti dei genitori in caso di inadempienza.
Non vi è differenza tra figli legittimi (nati nel matrimonio) e figli naturali (nati al di fuori del
matrimonio), sebbene la norma preveda la possibilità di limitazioni alla parità di trattamento di
questi ultimi, purché tali limiti siano necessari per tutelare la famiglia legittima e la sua unità.
Doveri dei genitori verso i
figli
(15) Corte cost. 18-1-1996, n. 8.
(16) BESSONE, op. cit., 40
(17) Santoro Passarelli, Art. 143, in Comm. dir. it. fam., a cura di Cian-Oppo-Trabucchi, II, Padova, 1992, 501.
14
Famiglia e filiazione: profili generali
Inoltre, nell’ottica dell’uguaglianza formale e sostanziale dei coniugi, l’art. 30 Cost. addossa a entrambi i doveri di cura dei figli, equiparando il ruolo paterno e il ruolo materno (18).
1.7Le prospettive aperte dal disegno di legge n. 2514 del 12 aprile 2007
Nel paragrafo precedente abbiamo visto che, a fronte di una sostanziale parità di trattamento dei figli legittimi e naturali, l’art. 30 Cost. consente al legislatore di introdurre talune limitazioni in danno di questi ultimi, dando vita a una disparità di trattamento tra i figli
nati nel matrimonio e quelli nati fuori del matrimonio.
Occorrerebbe, pertanto, portare a compimento il disegno, già delineato fin dalla legge di
riforma del diritto di famiglia (L. 19-5-1975, n. 151) inteso a parificare, nel pieno rispetto
dei principi costituzionali e comunitari in materia, ogni forma di filiazione.
Del resto, nei vari paesi dell’Unione europea la tendenza è verso una completa equiparazione tra tutti i figli senza ulteriori qualificazioni: in Spagna già dal 1978, in Germania e
negli altri paesi del nord Europa ancor prima, in Francia molto più di recente, con una
legge che unifica la normativa in materia in un solo capo dedicato allo stato di figlio senza
ulteriori aggettivi. E convenzioni europee sui diritti dell’uomo e del fanciullo, raccomandazioni comunitarie, interventi in tale materia della Corte europea dei diritti dell’uomo si
susseguono senza sosta, disegnando un unico quadro di cui l’Italia presenta tratti, a volte,
divergenti.
Il cammino di riforma degli istituti che disciplinano la famiglia, iniziato con il codice del
1942 e giunto a maturazione con la riforma del 1975, non è ancora completo: permangono nella disciplina codicistica disparità nelle condizioni di trattamento: alcune di carattere formale, quali la diversa collocazione sistematica e la stessa tecnica di rinvio con cui il
codice civile disciplina la filiazione «naturale»; altre, di natura sostanziale, concernenti, ad
esempio, la permanenza dell’istituto della legittimazione del figlio naturale (che non troverebbe più la sua giustificazione se non vi fosse ancora un margine di differenziazione tra le
due categorie di figli), di cui alcune decisamente anacronistiche, quali le disposizioni secondo le quali i figli nati fuori del matrimonio risultano privi del rapporto di parentela con i
parenti dei loro genitori nonché alcune residue discriminazioni in materia successoria, come
la permanenza dell’istituto della «commutazione» (che consiste nell’atto mediante il quale i
figli legittimi estromettono i figli naturali del defunto corrispondendo ad essi il valore della
loro quota).
In quest’ottica si muove il disegno di legge recanti modifiche in La parificazione delle divermateria di filiazione n. 2514 del 12 aprile 2007, che intende se forme di filiazione
eliminare definitivamente dall’ordinamento ogni traccia, anche lessicale, di ingiustificata difformità di trattamento tra i figli nati nel matrimonio e quelli nati
fuori del matrimonio, un tempo segnata dall’«odiosa» distinzione tra figli legittimi e illegittimi, definizione ora sostituita da quella di figli legittimi e figli naturali.
Il disegno di legge si propone di mutare tale distinzione in quella di «figli nati nel matrimonio» e «figli nati fuori del matrimonio», utilizzando la definizione scelta dalla Costituzione.
(18) CUOCOLO, Famiglia. I) Profili costituzionali, in Enc. giur. Treccani, XIV, Roma, 1989, 3.
15
Capitolo 1
La parificazione di tutte le forme di filiazione, quale che sia la fonte di formazione del legame giuridico, trova, infatti, il suo fondamento nell’art. 30 Cost., che tutela la filiazione
come valore in sé, originale e non dipendente; in quest’ottica, nessuna differenza, se non
quelle necessarie a regolarne l’accertamento, può derivare dalla fonte del rapporto, sia
esso un atto volontario come il matrimonio o il riconoscimento o quello autoritativo dell’accertamento della paternità o della maternità.
Anzi, la prospettiva tende al riconoscimento di un unico status filiationis, fondato sui due
aspetti della verità biologica e dell’assunzione della responsabilità rispetto al figlio.
L’art. 30 si esprime assai chiaramente in proposito, quando determina diritti e doveri dei
genitori, non lasciando spazio per alcuna forma di discriminazione.
Non hanno più senso le residue differenze, prima ricordate, legate a una visione ormai da
tempo superata di conservazione del patrimonio familiare, che si rinvengono nel regime
successorio.
Inoltre, sembra maturo il momento per abbattere l’ultima odiosa mortificante discriminazione nei riguardi dei figli incestuosi, la cui posizione giuridica è comunque da tutelare
in via prioritaria rispetto alla posizione dei genitori. E così, il riconoscimento del figlio
incestuoso dovrebbe essere possibile (de iure condendo), previa autorizzazione del giudice, avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi
pregiudizio.
Necessario appare, poi, riformare l’istituto della parentela, riconoscendo il legame di parentela tra il figlio riconosciuto nato al di fuori del matrimonio e i parenti del genitore.
Se unico è lo status di figlio, fondato sulla verità e sulla responsabilità, analoga è l’esigenza di superare l’ostacolo dell’assenza o della distruzione delle registrazioni anagrafiche: da
qui la proposta, contenuta nel citato disegno di legge, di regolare anche per i figli nati
fuori del matrimonio la prova fondata sul possesso di stato.
L’elemento della responsabilità, anche qui senza differenze, si accentua nella disciplina
della potestà dei genitori, quando si regola la cura del figlio.
Il dovere principale rimane quello di dare al figlio assistenza materiale, ma anche amore,
attenzione e rispetto, dando spazio all’autodeterminazione del minore dotato di capacità
di discernimento in tutte quelle decisioni che, più di altre, influiscono sulla sua persona e
sulla personalità: frequentazioni, salute, professione religiosa, formazione professionale,
ma anche consenso al riconoscimento, al mutamento del cognome etc.
1.8Parentela e affinità
Per completare il quadro generale del diritto di famiglia, occorre soffermarsi sul rapporto
di parentela e di affinità.
La parentela è il vincolo che unisce chi discende da uno stesso capostipite (padre
o madre) (art. 74 c.c.).
Tale vincolo è riconosciuto dalla legge fino al sesto grado.
Si hanno vari tipi di parentela:
— parentela in linea retta, che unisce coloro che discendono l’uno
dall’altro (padre e figlio);
— parentela collaterale, che unisce più soggetti i quali, pur discendendo da un capostipite comune, non discendono l’uno dall’altro (fratelli, cugini);
Tipi di parentela
16
Famiglia e filiazione: profili generali
— parentela giuridica, ossia la parentela che si crea per legge con l’adozione;
— parentela legittima, che sussiste tra chi discende da due capostipiti coniugati tra loro;
— parentela naturale, che sussiste tra soggetti discendenti da identici capostipiti non
coniugati tra loro o da un identico capostipite coniugato con un soggetto diverso da
quello col quale i discendenti sono stati generati.
La parentela si misura per gradi.
Per il computo del grado di parentela:
— nella linea retta si conta un grado per ogni generazione, escluso lo stipite;
— in quella collaterale si risale da un parente allo stipite (che non si conta) e si ridiscende
all’altro parente (ad es., i figli di fratelli sono parenti di 4° grado).
La parentela costituisce un impedimento al matrimonio, che può essere impugnato e annullato ex art. 117 c.c. se contratto da persone legate dal vincolo parentale (art. 87 c.c.).
L’affinità, invece, è il rapporto che lega un coniuge ai parenti dell’altro coniuge (art. 78,
comma 1, c.c.).
Nessun rapporto, invece, lega gli affini di un coniuge con gli affini dell’altro.
Il grado di affinità si calcola come il grado di parentela.
L’affinità non cessa a causa della morte del coniuge da cui deriva, salvo che per alcuni
effetti. Cessa, invece, se il matrimonio è dichiarato nullo, salvi gli effetti di cui all’art. 87,
n. 4, c.c.
1.9La parentela naturale ridisegnata dalla Corte costituzionale
Dall’art. 74 c.c. sopra citato, secondo cui «la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite», si dovrebbe ricavare che la parentela sussiste indipendentemente dalla circostanza che i figli siano stati generati in costanza di
matrimonio o meno.
Questa conclusione, apparentemente scontata, è messa però in diLa tesi restrittiva
scussione dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, che in materia di filiazione naturale interpretano restrittivamente la norma, riferendola solamente al rapporto tra genitore e figlio naturale e non a tutti gli altri membri
della famiglia. Si afferma, infatti, che
«la [parentela naturale] acquista valore giuridico solo se riconosciuta o dichiarata ed opera
in modo ristretto, nel senso che il vincolo che si crea lega soltanto fra di loro figlio naturale
e genitore naturale e non ha un’efficacia estesa al di là di tale rapporto; d’altro lato, nell’assicurare ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, la legge si riferisce
sempre e unicamente ai rapporti tra genitori e figli e non a quelli dei figli tra di loro» (19).
Pertanto, i figli di genitori non uniti in matrimonio non possono essere considerati, sotto il profilo giuridico, come fratelli.
La parentela naturale assumerebbe rilevanza soltanto per gli effetti espressamente previsti
dalla legge (ad es., l’impedimento alle nozze tra parenti previsto dall’art. 87 c.c.).
(19) Cass. 7-11-1979, n. 5747.
17
Capitolo 1
La tesi restrittiva fa leva, inoltre, sul comma 1 dell’art. 258 c.c., laddove prevede che «il
riconoscimento non produce effetti che riguardo al genitore da cui fu fatto, salvo i casi
previsti dalla legge».
Tuttavia, tale norma, laddove stabilisce la relatività degli effetti del riconoscimento, in quanto limitati al rapporto tra genitore e figlio, va intesa esclusivamente nel senso che il riconoscimento di un genitore non ha effetto nei
confronti dell’altro, mentre nessun ostacolo è ravvisabile nell’ammettere la produzione degli effetti del riconoscimento anche tra il figlio riconosciuto e gli altri figli del genitore naturale. Se così non
fosse, la norma sarebbe palesemente incostituzionale per contrasto con l’art. 30, comma 3, Cost.
(v. supra), che ha eliminato qualunque discriminazione in danno dei figli naturali.
In sostanza, il figlio naturale entra a pieno diritto nella famiglia del suo genitore (20).
Rilievi critici
Questa conclusione è avvalorata da alcune pronunce della Corte costituzionale.
Con la sentenza n. 55 del 4-7-79, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 565 c.c. (nel testo anteriore alla riforma del diritto di famiglia
del 1975) nella parte in cui escludeva dalla categoria dei chiamati alla successione legittima,
in mancanza di altri successibili, e prima dello Stato, i fratelli e le sorelle naturali.
La giurisprudenza della
Corte Costituzionale
Nella sentenza si legge:
«Fondata è invece la questione di legittimità costituzionale dell’art. 565 c.c. In assenza
di membri della famiglia chiamati alla eredità, infatti, l’esclusione del diritto alla
successione del fratello (o della sorella) naturale del de cuius — purché la filiazione sia stata riconosciuta o dichiarata — contrasta tanto con l’art. 30, comma
3 che con l’art. 3 della Costituzione.
Ed invero, una posizione di minore tutela del figlio nato fuori del matrimonio in tanto può
trovare giustificazione costituzionale in quanto la condizione di figlio naturale contrasti
con i diritti dei membri della famiglia legittima. Ove — come nella specie — tale situazione di conflittualità non possa ipotizzarsi, per essere lo Stato unico chiamato alla successione, la posizione del figlio naturale viene assimilata a quella del discendente legittimo.
In assenza quindi di membri della famiglia legittima, trova giustificazione la successione tra fratelli (o sorelle) naturali nei casi in cui non vi siano altri successibili ex lege, ad eccezione dello Stato.
È chiaro, inoltre, che la devoluzione della eredità allo Stato, operante, ai sensi dell’art. 586
c.c., nell’assenza di altri successibili, è motivata, tra l’altro, da ragioni di ordine generale,
per la necessità di impedire che i beni restino in stato di abbandono: il che non ha modo
di verificarsi tutte le volte in cui esistano soggetti legati al de cuius da vincoli di sangue.
L’art. 565 c.c. contrasta anche con l’art. 3 della Costituzione. Ed infatti, una volta ritenuto che la posizione giuridica del figlio nato fuori del matrimonio — ove non sussistano diritti dei membri della famiglia legittima da tutelare — è analoga a quella dei figli
legittimi, appare contrastante con il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale un
regime successorio che escluda che i fratelli (o le sorelle) naturali possano succedere ai
propri fratelli (o sorelle) naturali, stabilendo conseguentemente per essi un trattamento
deteriore rispetto a tutti gli altri successibili ex lege».
(20) BIANCA, op. cit., 21.
18
Famiglia e filiazione: profili generali
Il nuovo art. 565 c.c., elaborato dalla riforma del 1975, ribadiva la La pronuncia di illegittimità
differenza di trattamento tra fratelli e sorelle legittimi e fratelli e sorel- costituzionale dell’art. 565
le naturali.
c.c.
Anche tale norma fu colpita da una dichiarazione di illegittimità costituzionale, per mano della sentenza 12-4-1990, n. 184, che dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 565 c.c. (questa volta, però, nella nuova veste formulata dalla L.
151/1975 sulla riforma del diritto di famiglia), nella parte in cui, in mancanza di altri successibili all’infuori dello Stato, non prevedeva la successione legittima tra fratelli e sorelle
naturali, dei quali sia legalmente accertato il rispettivo status di filiazione nei confronti del
comune genitore.
La sentenza così motiva:
«Vanno richiamate due notazioni, tra loro complementari, contenute nelle sentenze
precedentemente pronunciate in argomento da questa Corte [sent. n. 76/1977 e
55/1979], le quali discernono due aspetti del significato normativo dell’art. 30, comma
3, della Costituzione.
Il primo significato si esprime in una regola di equiparazione dello status di figlio naturale (riconosciuto o dichiarato) allo status di figlio legittimo nei limiti di compatibilità con i
diritti dei membri della famiglia legittima costituita dal matrimonio del genitore con persona diversa dall’altro. In questo senso l’art. 30 si riferisce ai rapporti tra genitori e figli,
e non a quelli dei figli tra loro (sent. n. 76/1977): il suo ambito normativo è commisurato alla regola dell’art. 258, comma 1, c.c., che delimita l’efficacia del riconoscimento.
Nel secondo significato, concernente i rapporti della prole naturale con i parenti del
genitore (ossia con la famiglia di origine del genitore e con altri suoi figli, legittimi o
naturali riconosciuti), l’art. 30, comma 3, non impartisce un comando immediato di
parificazione giuridica alla prole legittima anche in questi rapporti, ma si pone come
«norma ispiratrice di un orientamento legislativo a favore dei figli naturali» (sent. n.
55/1979), la quale esclude che al limite di efficacia del riconoscimento indicato dall’art.
258 c.c. possa attribuirsi valore assoluto. In conformità di tale norma il testo novellato
dell’articolo aggiunge una riserva che fa salvi i casi previsti dalla legge.
Coordinato col principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., il principio ora individuato dell’art. 30 implica un limite alla discrezionalità legislativa nella determinazione
dei casi e dei contenuti di rilevanza giuridica del riconoscimento nei rapporti con i parenti del genitore. Il limite può essere così formulato: nei detti rapporti le disparità di
trattamento delle due specie di filiazione non possono essere conservate più di quanto
richiedano un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco e il contemperamento
con altri principi di pari o maggior peso.
Alla stregua di questo criterio, non ci sono ragioni idonee a giustificare la conservazione della regola del codice civile che esclude il diritto di successione tra fratelli e sorelle
naturali pur quando, mancando altri successibili per titolo di coniugio o di parentela, il
favore per i figli naturali non entra in conflitto col principio della successione familiare,
né con l’interesse dello Stato. L’istituto dell’art. 586 c.c. non tutela un interesse patrimoniale dello Stato di natura privata, che possa essere messo a confronto con l’interesse dei fratelli naturali superstiti, bensì l’interesse pubblico alla conservazione dei beni
del defunto e alla continuità dei rapporti giuridici che a lui facevano capo, quando
manchino soggetti legittimati a raccogliere l’eredità.
19
Capitolo 1
Non si può obiettare che l’apertura dell’ordine successorio ai fratelli naturali eccederebbe l’ambito soggettivo della tutela dell’art. 30 Cost. perché avvantaggerebbe anche i
figli legittimi del genitore che ha riconosciuto il figlio naturale: in mancanza dei successibili indicati negli artt. 578 e 579 c.c., essi potrebbero pretendere l’eredità lasciata dal
figlio naturale. Tale possibilità è inclusa per ragione di necessaria reciprocità nella prospettata ultrattività del riconoscimento, la quale investe gli altri figli dello stesso genitore indipendentemente dalla natura del rispettivo status di filiazione, tutti essendo, naturali o legittimi, fratelli naturali nei confronti del figlio naturale considerato.
Nemmeno la norma censurata può trovare una giustificazione tecnico-giuridica nella
mancanza di un rapporto civile di parentela tra fratelli e sorelle naturali, così denominati per modo di dire breviloquo, estraneo al linguaggio legislativo (cfr. art. 87, comma
3, c.c., in relazione al primo comma, n. 2). Il riconoscimento di un rapporto giuridico
di parentela è indubbiamente una scelta spettante alla discrezionalità insindacabile del
legislatore; ma è altrettanto fuori dubbio, da un lato, che la rilevanza del riconoscimento nei rapporti con i parenti del genitore non è necessariamente legata al modello
dell’efficacia nel rapporto tra genitore e figlio, dall’altro, che il criterio tradizionale per
cui i titoli di successione mortis causa sono individuati nella sfera dei rapporti familiari
del defunto non è assoluto. Il sistema delle successioni a causa di morte ha conosciuto
e conosce diritti successori direttamente collegati al fatto naturale della consanguineità,
in deroga alla regola della successione familiare.
L’accertamento della non conformità dell’art. 565 c.c. al principio sopra spiegato dell’art.
30 Cost., con conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua,
comporta l’attribuzione ai fratelli e alle sorelle naturali di un titolo reciproco di successione ereditaria fondato sul vincolo di consanguineità indirettamente risultante dai rispettivi status di filiazione, titolo che potrà essere fatto valere in mancanza di successibili per
diritto di coniugio o di parentela, e con precedenza sulla successione dello Stato».
Entrambe le pronunce hanno riconosciuto i diritti successori dei fratelli (e sorelle) naturali,
sebbene abbiano «confinato il fratello naturale nell’ultimo grado della scala dei successibili
prima dello Stato, creando un ordine successorio che non ha riscontro nella legge» (21).
Sul versante opposto si collocano, però, altre pronunce della Corte costituzionale, che
hanno «cancellato» quanto affermato nelle citate pronunce della Corte del 1979 e del 1990.
In particolare, con la sentenza 7-11-1994, n. 377, la Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 565 c.c., ha negato qualsiasi diritto successorio ai parenti naturali (ad eccezione dei fratelli naturali, i cui diritti erano stati già riconosciuti dalle precedenti sentenze della Corte):
«La sentenza n. 184 ha introdotto una nuova categoria (o classe) di successibili, rappresentata dai fratelli e dalle sorelle naturali, senza però alterare l’ordine successorio della
parentela del defunto. Per effetto della sentenza i fratelli e le sorelle naturali sono chiamati all’eredità in mancanza di successibili per diritto di coniugio o di parentela, con
precedenza soltanto sullo Stato. Poiché la successione dello Stato si inserisce nel sistema
della successione legittima … con funzione suppletiva … e come norma di chiusura del
sistema, l’attribuzione di un titolo successorio con efficacia così circoscritta non implica
La sentenza della Corte
Cost. 7-11-1994, n. 377
(21) Così BIANCA, op. cit., 22.
20
Famiglia e filiazione: profili generali
la costituzione di uno status giuridico, nemmeno ridotto, di parentela col de cuius. (Il)
diritto da essa riconosciuto si fonda direttamente sul fatto naturale della consanguineità,
valutato alla stregua della direttiva di graduale miglioramento della condizione di diritto
familiare della prole naturale anche nei rapporti con i parenti del genitore (e quindi anche
nei rapporti dei figli naturali riconosciuti tra loro), enucleata al secondo dei due livelli di
interpretazione ammessi dall’art. 30, terzo comma, della Costituzione.
(…) Nell’applicare il criterio di compatibilità «con i diritti dei membri della famiglia legittima, il giudice a quo fa riferimento alla famiglia in senso stretto definita dalla sentenza
n. 79 del 1969, senza avvertire la diversa referenzialità sottesa ai due significati normativi, primario e secondario, distinguibili nell’art. 30, comma 3, della Costituzione. Il
riferimento alla famiglia che il de cuius si è formato mediante il matrimonio con persona diversa dall’altro genitore ha senso solo quando il problema del trattamento dei
figli naturali, in rapporto ai figli legittimi, si pone con riguardo alla successione al genitore comune o ai suoi ascendenti. Quando il problema si pone, invece, con riguardo
alla successione a chi, avendo lo status di figlio legittimo, muore senza lasciare né coniuge, né discendenti, il referente per la ponderazione della tutela costituzionalmente
garantita ai fratelli naturali del defunto è la sua famiglia di origine, ossia la parentela
definita dall’art. 74 c.c., e non vi sono indicazioni, normative o sociologiche, che autorizzino l’interprete a restringerne senz’altro la rilevanza giuridica, sotto questo aspetto,
ai membri della famiglia coniugale costituita dai genitori del defunto. In rapporto non
solo agli ascendenti e ai fratelli e alle sorelle, ma anche agli zii e alle zie e ai loro figli
— parenti di terzo e quarto grado, che già il codice del 1942 distingueva, a certi effetti, dai parenti più lontani di quinto e sesto grado (art. 583, testo originario) — è sicuramente riconoscibile ancor oggi una coscienza della parentela operante come fonte di
solidarietà di gruppo.
Di questo dato sociologico e dell’inerente giudizio di valore occorre tenere conto nel bilanciamento di interessi che deve guidare l’attuazione della direttiva costituzionale più volte
rammentata: bilanciamento che coinvolge una valutazione complessa eccedente i poteri di
questa Corte, essendo prospettabile una pluralità di soluzioni, non esclusa l’introduzione di
nuovi casi di concorso, tra le quali la scelta appartiene alla discrezionalità legislativa».
In realtà, nonostante la pronuncia della Corte, è palese l’incostituRilievi critici
zionalità dell’art. 565 c.c. nella parte in cui, in mancanza di altri
chiamati all’eredità all’infuori dello Stato, non prevede la successione
legittima dei parenti naturali. Basti considerare la parità di trattamento tra figli legittimi e
figli naturali e la conseguente lesione del principio di eguaglianza e di pari dignità sociale;
ciò in quanto non esiste alcuna valida ragione per dare ingresso alla successione dello
Stato in presenza di parenti naturali.
In particolare, non c’è motivo per non inserire parenti naturali nelle categorie dei chiamati alla successione, in caso di mancanza di eredi legittimi e con precedenza sullo Stato,
poiché quest’ultimo subentra nell’eredità non per un interesse patrimoniale, bensì per
l’esigenza di evitare che i beni rimangano senza un legittimo proprietario. Non è conforme
a Costituzione il fatto che i parenti naturali, che pure sono legati al defunto da un vincolo
di consanguineità, vengano esclusi dal diritto di succedere quando non vi siano eredi legittimi all’infuori dello Stato.
Questi argomenti, però, sono stati rispediti al mittente dalla sentenza 15-11-2000, n.
532, con la quale la Corte costituzionale ha ribadito che «dall’art. 30 della Costituzione
21
Capitolo 1
non discend(e) in maniera costituzionalmente necessitata la parificazione di tutti i parenti
naturali ai parenti legittimi. Può dirsi, invece, che un ampio concetto di parentela naturale
non è stato recepito dal legislatore costituente, il quale si è limitato a prevedere la filiazione naturale ed a stabilirne l’equiparazione a quella legittima, peraltro con la clausola di
compatibilità. Tale equiparazione, pertanto, riguarda fondamentalmente il rapporto che si
instaura tra il genitore che ha provveduto al riconoscimento del figlio naturale (o nei cui
confronti la paternità o maternità sia stata giudizialmente accertata) ed il figlio stesso. I
rapporti tra la prole naturale ed i parenti del genitore, invece, non trovano riferimenti
nella Carta fondamentale e restano quindi estranei all’ambito di operatività dell’invocato
parametro. Già nell’ordinanza n. 363 del 1988 — con la quale fu ritenuta inammissibile
una questione simile a quella odierna — questa Corte ha ribadito che non esiste nell’ordinamento una norma che all’accertamento formale della filiazione naturale colleghi l’effetto di far entrare il figlio nella famiglia di origine del genitore, in guisa da attribuirgli uno
status familiare rapportato non solo a un padre o a una madre, ma anche a nonni, zii, e
cugini. Da tanto consegue l’infondatezza della presente questione anche sotto il parametro
di cui all’art. 30 della Costituzione».
La gravità di simili argomentazioni è lampante: viene ribadita, di fatto, una doppia discriminazione, l’una a carico dei parenti naturali rispetto a quelli legittimi, l’altra a carico di
tutti i parenti naturali diversi dai fratelli naturali: questi ultimi succedono, gli altri no.
1.10 Il trasferimento al tribunale ordinario dei procedimenti sui
figli naturali (art. 317bis c.c.)
è in corso la discussione parlamentare dei disegni di legge n. 1211 e 1412, che intendono modificare la disciplina in materia di esercizio della potestà genitoriale e di filiazione naturale.
In primo luogo, l’abrogazione del riferimento all’art. 317bis c.c. contenuto nell’art. 38 disp.
att. c.c., disposta dal d.d.l.1412, comporta l’immediato trasferimento al tribunale
ordinario dei procedimenti ex art. 317bis c.c. relativi ai figli naturali, nonché
— come precisa il ddl 1412 — delle questioni di status del figlio naturale disciplinate dagli
artt. 250 (in materia di riconoscimento), 252 (affidamento del figlio naturale e suo inserimento nella famiglia legittima), 261 (diritti e doveri derivanti al genitore dal riconoscimento), 262 (cognome del figlio), 263 (riconoscimento dell’impugnazione per difetto di veridicità), 264 (impugnazione da parte del riconosciuto), 269 (dichiarazione giudiziale di paternità e maternità) e 316 (esercizio della potestà dei genitori) del codice civile.
In Italia la materia della separazione e del divorzio non è trattata da un organo specializzato e neppure esistono “sezioni famiglia” all’interno dei tribunali ordinari, salvo che in alcuni casi isolati; ma solo un giudice specializzato e preparato, non solo tecnicamente, può
essere in grado di dominare l’emotività, di interpretare, cioè i fatti con distacco e non secondo la propria formazione personale ed esperienza personale.
Al contrario, con tali ddl si sposterebbe la competenza di diversi procedimenti minorili
— rispetto ai quali è centrale la considerazione dell’interesse del minore, più che la soluzione di aspetti tecnico-giuridici — a un organo privo di requisiti di specializzazione e che non garantirebbe neppure la possibilità di trattazione da parte di giudici addetti in
via esclusiva della materia, a causa dell’organizzazione interna stessa ai tribunali ordinari.
Inoltre, il ddl. 1211 prevede l’abrogazione dell’art. 317bis c.c.
22
Famiglia e filiazione: profili generali
A seguito dell’ordinanza n. 8632/2007 della Cassazione, il tribunale per i minorenni è ora
competente a provvedere sulla disciplina dell’affidamento dei figli di genitori non coniugati, sulla misura e sul modo con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento
del figlio, salvi alcuni casi in cui la domanda relativa agli aspetti economici non è contestuale a quella di regolamentazione dell’affidamento.
Nell’applicazione della L. 54/2006, secondo i principi affermati dalla citata decisione
della Cassazione, non esiste, pertanto, alcuna disparità di trattamento dei figli di genitori
non coniugati rispetto ai figli di genitori coniugati.
Quanto alle proposte in esame, si rileva una forte contraddizione tra i ddl n. 1412 e
1211: il primo ddl vorrebbe il trasferimento dinanzi al tribunale ordinario della competenza a decidere sull’affidamento e sul mantenimento dei figli dei genitori non coniugati, che
trova nell’art. 317bis c.c. il proprio riferimento normativo (la Cassazione, nell’ordinanza
n. 8632/07, ha chiarito che “l’art. 317bis c.c. resta il referente normativo della potestà e
dell’affidamento nella filiazione naturale, anche in caso di cessazione della convivenza dei
genitori naturali, e non viene meno, agli effetti della competenza, il binomio costituito
dagli artt. 317bis, comma 2, c.c. e 38, comma 1, disp. att. c.c.”) mentre il ddl n. 1211
abroga l’intero art. 317bis c.c. creando un vuoto normativo non altrimenti colmabile.
La soppressione dell’art. 317bis c.c. lascerebbe completamente scoperta, dal punto di vista della regolamentazione giuridica, tutta un’area di rapporti familiari
che non sono ricompresi nella disciplina dell’art. 155 c.c. Infatti, sempre riprendendo l’ordinanza n. 8632/2007, il novellato art. 155 c.c. non si è totalmente sovrapposto all’art. 317bis c.c., laddove questo prevede l’intervento del giudice (anche) nella crisi
della famiglia di fatto, perché diversi sono i presupposti dell’intervento del giudice in ordine alla emanazione dei provvedimenti riguardo all’affidamento e al mantenimento dei figli,
a seconda che si tratti di crisi dell’unione di fatto e di crisi della famiglia fondata sul matrimonio.
Nella separazione dei coniugi l’intervento del giudice è immancabile.
La coppia non si scioglie, legittimamente, che a seguito di una pronuncia giudiziaria.
Ugualmente, l’affidamento dei figli legittimi ed il loro mantenimento è deciso dal giudice.
Anche in caso di separazione consensuale, il codice garantisce sempre un vaglio giurisdizionale volto a verificare che l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento e al mantenimento dei figli non sia in contrasto con l’interesse di questi.
Viceversa, nella crisi della coppia di genitori naturali non sussiste questa inevitabile necessità di un intervento giudiziario: non solo lo scioglimento della famiglia di fatto “avviene
senza alcun intervento del giudice, essendo sufficiente, com’è logico, che i due si lascino”,
ma anche con riguardo all’affidamento e al mantenimento dei figli l’intervento del giudice
è previsto come indispensabile soltanto nel caso in cui i genitori naturali, nella loro autonomia, non abbiano raggiunto tra loro un accordo (22), salva in ogni caso la possibilità per
i genitori non coniugati di rivolgersi congiuntamente al tribunale per i minorenni per la
verifica della non contrarietà all’interesse dei figli di quanto tra loro concordato. Tale diversità di presupposti non è incisa dalla novella (23).
(22) Cass. 20-4-1991, n. 4273.
(23) Per queste considerazioni, v. Osservazioni dell’ AIMMF sui disegni di legge 1211 e 1412 - Modifica alla disciplina in materia di esercizio della potestà genitoriale e di filiazione naturale (10-4-09), in Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia http://www.minoriefamiglia.it.
23
Formulario
Formula n. 20
Ricorso congiunto proposto da genitori non sposati e non conviventi
per l’affidamento e per la disciplina delle visite
Art. 317bis c.c. (Esercizio della potestà):
«Al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale spetta la potestà su di lui.
Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, l’esercizio della potestà spetta congiuntamente
ad entrambi qualora siano conviventi. Si applicano le disposizioni dell’articolo 316. Se i genitori
non convivono l’esercizio della potestà spetta al genitore con il quale il figlio convive ovvero, se
non convive con alcuno di essi, al primo che ha fatto il riconoscimento. Il giudice, nell’esclusivo
interesse del figlio, può disporre diversamente; può anche escludere dall’esercizio della potestà
entrambi i genitori, provvedendo alla nomina di un tutore.
Il genitore che non esercita la potestà ha il potere di vigilare sull’istruzione, sull’educazione
e sulle condizioni di vita del figlio minore».
TRIBUNALE PER I MINORENNI DI ………
RICORSO CONGIUNTO EX ART. 317BIS
Tizio, nato a ……………… il ………………, residente in ……………… via ………………
n. ……, c.f. ………………, e Tizia, nata a ……………… il ………………, residente in
……………… via ……………… n. ……, c.f. ………………, elettivamente domiciliati
in ……………… via ……………… n. …… presso lo studio dell’avv. ………………, c.f.
………………, dal quale sono rappresentati e difesi in virtù di procura in calce al presente atto,
il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni al n. di fax ……… o all’indirizzo di posta
elettronica certificata ……@……, comunicato al proprio ordine, espongono quanto segue.
PREMESSA
I ricorrenti non sono coniugati fra loro e attualmente non convivono.
Dalla loro relazione è nato il figlio Tizietto, di anni …, riconosciuto da entrambi i genitori.
Alla luce dell’art. 4, comma 2, L. 54/06, «le disposizioni della presente legge si applicano
anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio,
nonchè ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati», per cui si deve ritenere
applicabile al presente procedimento tutta la nuova disciplina riguardante l’affidamento
condiviso dei figli.
L’art. 155, comma 2, c.c., nuova formulazione, prevede che il giudice «prende atto» degli
accordi intervenuti tra i genitori, se non contrari all’interesse dei figli.
397
Formulario
La presente domanda, pur prevedendo una forma di affido esclusivo alla madre, corrisponde
senz’altro all’interesse del minore atteso che tiene conto del disposto di cui al comma 1 dell’art.
155 c.c., come modificato dalla L. 54/06, che recita: «Anche in caso di separazione personale
dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con
ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti
significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale».
Anche in caso di affidamento esclusivo, comunque «la potestà genitoriale è esercitata
da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione,
all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità,
dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli» (art. 155, comma 3, c.c.).
Tutto ciò premesso, Tizio e Tizia, rappresentati e difesi come in atti,
CHIEDONO
che il tribunale adito disciplini l’affidamento dei figli e le modalità dei rapporti degli stessi
con i genitori.
Propongono le seguenti modalità per l’affidamento e per la disciplina delle modalità dei
rapporti dei genitori con i figli:
1) Tizietto viene affidato alla madre Tizia, con la quale continuerà a convivere nell’alloggio
di quest’ultima in …. . Il padre Tizio avrà facoltà di vederlo quando lo desidera, previo
preavviso telefonico e di tenerlo con sé due sere a settimana.
In estate Tizio terrà con sé Tizietto per 15 giorni consecutivi in coincidenza col proprio periodo di ferie.
Tizietto trascorrerà con la madre o con il padre rispettivamente, ad anni alterni, il giorno di
Natale o capodanno nonché il giorno di Pasqua o di pasquetta.
In ogni caso, previo accordo tra le parti e compatibilmente con le esigenze del minore, lo
stesso potrà rimanere col padre in giorni e orari diversi da quelli sopra fissati.
Tizio si impegna a collaborare fattivamente con Tizia nella cura e crescita di Tizietto.
Le parti si impegnano vicendevolmente a non coabitare con terze persone per un congruo
periodo, nell’interesse esclusivo del minore.
2) A partire dal mese di novembre 2007 Tizio corrisponderà a Tizia, a titolo di contributo
nel mantenimento del figlio, la somma mensile di  350,00 (euro trecentocinquanta/00);
tale importo verrà versato in via anticipata entro il giorno 5 di ogni mese e si rivaluterà annualmente secondo gli indici ISTAT. La predetta somma mensile dovuta a titolo di contributo
nel mantenimento dovrà essere versata da Tizio tramite bonifico bancario sul conto corrente
intestato a Tizia (di cui la stessa fornirà numero e coordinate bancarie). Tizio rimborserà
a Tizia il 50% delle spese straordinarie da questa anticipate per Tizietto di natura medica
(per visite specialistiche, cure dentale e odontoiatriche, farmaci con prescrizione medica) e
scolastiche (libri di testo, gite scolastiche, corsi anche extrascolastici, attività e corsi sportivi).
398
Formulario
Le predette spese straordinarie dovranno essere preventivamente concordate tra i genitori ove
la singola spesa superi l’importo di  200,00. Fino a quando, al compimento del terzo anno
di età, Tizietto non si recherà alla scuola materna, Tizio contribuirà a pagare la metà della
spesa mensile necessaria per la baby-sitter fino all’importo massimo mensile di complessivi
 470,00 ( 235,00 pro-quota);
3) Tizio e Tizia si impegnano a collaborare per l’individuazione di occasioni e modalità di
incontro, che in relazione alla progressiva crescita del loro figlio, garantiscano lo sviluppo
di un rapporto costante, sereno e costruttivo tra il minore e ciascuno dei genitori.
4) Tizia dichiara di non avere più nulla a pretendere ad eccezione di quanto menzionato ai
punti precedenti nei confronti di Tizio per alimenti pregressi e/o altro relativi a Tizietto, e con
la sottoscrizione del presente atto rilascia ampia ricevuta liberatoria al riguardo.
Si allegano:
— certificati di nascita di Tizietto e Tizietta;
— ……………
Ai sensi degli artt. 10 e 14, comma 2, T.U. 115/02, si dichiara che il presente procedimento
è esente da contributo unificato.
……, lì ……
Avv. ……………
PROCURA
Deleghiamo a rappresentarci e difenderci nel presente giudizio l’avv. ………………, conferendogli all’uopo ogni potere e facoltà di legge, e nel suo studio in ……………… via
……………… n. …… eleggiamo domicilio.
Tizio
……………
Tizia
……………
Sono autentiche
Avv. ……………
399
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