Interventi matematici del prof. Renato Betti nell`opera teatrale Primo

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Interventi matematici del prof. Renato Betti nell’opera teatrale
Primo Intervento
I due personaggi che abbiamo appena visto hanno una diversa sensibilità dello spazio nel quale si muovono. Dei due, il Capo ha una percezione di tipo euclideo, nel senso che la superficie su cui sente di vivere, è
piatta. La linea di lunghezza minima che congiunge due punti è un segmento di retta.
Invece l’Apprendista killer capisce di muoversi su una superficie curva – la superficie di una sfera. E qui la distanza fra due
punti si misura lungo un arco di circonferenza.
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Infatti, se si considera la geometria della sfera cioè lo studio delle proprietà delle figure che sono tracciate
sulla sfera, allora i cerchi massimi – che si ottengono dalla intersezione della sfera con i piani passanti per il
centro – prendono il posto che hanno le rette per la geometria del piano.
Come si dice: si interpretano come rette. E si possono condurre molte analogie fra la geometria del piano e
quella della sfera. Ma ci sono anche notevoli differenze.
Ad esempio, sul piano le rette sono illimitate e non hanno lunghezza finita, mentre questo non è vero per
i cerchi massimi – che sulla sfera, in quanto curve di minima distanza, si interpretano come rette – che sono
anch’essi illimitati (non hanno un limite, un punto nel quale si interrompono) ma hanno lunghezza finita,
precisamente hanno lunghezza 2 r.
Un’altra differenza: è noto che la somma degli angoli interni di un triangolo è costante e vale 180 gradi
se il triangolo è piano, mentre se è tracciato sulla sfera per mezzo di archi di cerchio massimo vale più di 180
gradi. E non è costante: la differenza con 180 gradi, il cosiddetto “eccesso angolare”, cresce al crescere dell’area
del triangolo.
La comprensione del fatto che la geometria del piano si può trasferire sulla sfera – o su una superficie
più generale – e che tutte queste geometrie hanno proprietà comuni, ma anche specifiche differenze, è stato un
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processo lungo, che ha richiesto molte conquiste intellettuali. È stato un risultato difficile dal punto di vista
concettuale.
All’inizio della geometria come scienza razionale si pensava ad un’unica geometria di un unico spazio –
quello nel quale viviamo – che era intuitivamente e per semplicità pensato piatto.
Fin dal III secolo avanti Cristo questa geometria, considerata come l’unica, vera geometria del nostro
mondo, è stata descritta in termini assiomatici in un’opera che è rimasta famosa: gli Elementi di Euclide.
Euclide in una incisione rinascimentale.
Nel caso del piano, Euclide fissa cinque postulati – proprietà che sono assunte come vere senza bisogno
di dimostrazione – ed a partire da questi postulati dimostra in maniera rigorosa le altre proprietà delle figure.
Il metodo assiomatico, che ha fatto la sua prima comparsa negli Elementi, è considerato tutt’ora il metodo scientifico, il metodo deduttivo per eccellenza. Tuttavia, subito dopo la comparsa degli Elementi di Euclide,
la comunità scientifica – matematici, fisici, filosofi della natura – ha sollevato alcune perplessità sul V ed ultimo
postulato della geometria piana – il cosiddetto Postulato delle parallele.
Ecco una formulazione del postulato delle parallele, diversa ma equivalente a
quella data da Euclide:
In un piano, dati una retta ed un punto fuori di essa, esiste un’unica retta passante per il punto e parallela alla
retta data.
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Qui, che due rette siano parallele significa precisamente che non hanno punti in comune.
Perché il postulato delle parallele ha sollevato perplessità? Non ha una formulazione particolarmente
semplice – almeno se la si confronta con gli altri postulati. Ad esempio con il primo postulato:
Per due punti dati passa una sola retta.
Ma non è neanche particolarmente complicata. Non è questo il motivo delle perplessità. Il fatto è che gli
manca l’evidenza inarrestabile degli altri postulati – l’evidenza che si richiede alle proprietà da assumere a
priori, senza dimostrazione.
Attenzione: la proprietà espressa dal postulato non viene considerata falsa: basta prendere la perpendicolare della perpendicolare alla retta data per dimostrare di avere una parallela: ma questa, per l’appunto, è una
dimostrazione.
La questione riguarda l’unicità della parallela, cioè il fatto che non esistano altre
parallele:
come essere sicuri a priori, senza nessuna dimostrazione, che due rette si intersecano o prima o poi, pur senza vederle
mai intersecare?
Questa certezza obbliga a considerare le rette nella loro interezza, come infinità in atto, mentre nella
concezione classica – e forse anche nella nostra maniera di capire questi fenomeni geometrici – la retta è da
considerare come un segmento che si può estendere quanto si voglia, ma è pur sempre un infinità in potenza: ma
nulla si può dire a priori che riguardi tutto il percorso di una retta. Per affermare una proprietà che coinvolga la
retta in tutta la sua interezza, occorre una dimostrazione.
Per questa insoddisfazione nei confronti del postulato delle parallele, fin dai tempi più antichi gli scienziati – che ritenevano la proprietà vera e necessaria ed erano grandemente ammirati dall’opera di Euclide –
cominciano a pensare che si tratti di un teorema, cioè di una proprietà che si può dimostrare a partire dai
precedenti quattro postulati, e non di una proprietà da assumere senza dimostrazione.
Ma, nel corso di due millenni, nonostante numerosi e spesso arguti tentativi, non si riesce mai a dimostrarlo. O meglio, si trovano numerose dimostrazioni ma poi o prima si scopre che sono basate tutte, implicitamente, su assunzioni equivalenti al postulato da dimostrare.
Ad esempio: una proprietà che equivale al postulato delle parallele è
quella enunciata in precedenza per cui la somma degli angoli
interni di un triangolo vale 180 gradi.
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Oppure, è equivalente al postulato delle parallele il fatto che
due rette parallele sono equidistanti.
Oppure anche: che esistano due triangoli simili.
Queste, e numerose altre proprietà, equivalgono al postulato delle parallele.
Alla fine del ‘700, l’impossibilità a dimostrare il postulato delle parallele viene considerato un vero e
proprio scandalo dei fondamenti della geometria.
Oggi, duemila anni dopo – col senno di poi – noi sappiamo che una dimostrazione di questo tipo non si
poteva trovare. Come si dice, il V postulato è indipendente dagli altri: se fosse una conseguenza dei precedenti
quattro, valendo questi dovrebbe valere automaticamente, invece esistono delle superfici sulle quali valgono i
primi quattro postulati ma non quello delle parallele. Come si dice, si ha un modello.
Ad esempio – anche se questo non è il caso esatto perché sulla sfera non è verificato anche un altro dei postulati di Euclide, il secondo – il postulato delle parallele non vale sulla superficie della sfera, perché due cerchi
massimi – che, come curve di minima distanza, sulla sfera si interpretano come rette – hanno sempre due punti
in comune: dunque sulla sfera non esistono parallele.
Ma c’è di più: solo dalla seconda metà dell’800, abbiamo la coscienza che su altre superfici, che erano
note e studiate per altri motivi, le curve di minima distanza – che sulla superficie si interpretano come rette –
sono tali che per un punto esterno ad una di esse passi più di una parallela.
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Queste superfici si chiamano pseudosfere e sono da considerare come delle sfere a curvatura negativa –
intuitivamente “concave”, anziché “convesse”. La scoperta della loro proprietà relativa al postulato delle
parallele è stata fatta da Eugenio Beltrami nel 1868.
Dunque, la sfera e la pseudosfera sono due superfici sulle quali la geometria è non euclidea, nel senso
che il postulato delle parallele non vale. E sono non euclidee in due maniere diverse: in un caso per mancanza di
parallele (sulla sfera), nell’altro per la presenza di tante parallele (sulla pseudosfera).
La sfera ha curvatura positiva, la pseudosfera ha curvatura negativa. Il caso intermedio fra la curvatura
positiva e la curvatura negativa è quello della curvatura nulla, cioè del piano, in cui c’è un'
unica parallela:
questo corrisponde al fatto che la curvatura del piano è nulla – e questo significa che lo spazio è piatto.
In questo modo si raggiunge una visione di grande unità in relazione alla geometria delle superfici.
In un mondo in cui non esistono rette parallele – come sulla superficie della sfera – muovendosi costantemente nella direzione di minima distanza – e dunque con la percezione di percorrere una retta – si ritorna al
punto di partenza.
Un mondo in cui le parallele esistono, ma non sono uniche, è invece un mondo come quella della superficie pseudosferica – in cui essere paralleli non vuol dire avere sempre la stessa distanza ma semplicemente
non incontrarsi.
In questo mondo, le rette parallele si avvicinano indefinitamente l’una all’altra, asintoticamente, da una
parte, ma si allontano progressivamente dall’altra parte.
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Tornando alla scena che abbiamo appena visto, un mondo curvo è quello che, nella sua semplicità ed ingenuità, intuisce l’Assistente killer, anche se non sa, o non gli interessa sapere, se le parallele non ci sono, come
sulla sfera, oppure ce ne possono essere tante, come avviene sulla pseudosfera.
Secondo Intervento
Sì, la storia è proprio questa, anche se avvenuta in un’epoca diversa.
Dopo i numerosi tentativi di dimostrazione del V postulato che si sono succeduti nei secoli, alcuni grandi matematici hanno intuito che in realtà il problema non è quello di dimostrare che la proprietà espressa dal V
postulato è una conseguenza degli altri postulati e dunque che si tratta di un teorema della geometria di Euclide.
Il vero problema è quello di capire cosa succede se non lo si assume o addirittura se si nega l’esistenza e
l’unicità della parallela: quali conseguenze si hanno, e soprattutto rendersi conto che non si possano avere
contraddizioni, cioè che in nessun caso sia possibile dimostrare contemporaneamente una proprietà e il suo
opposto. Hanno forse intuito che quella delle parallele è una proprietà indipendente dagli altri postulati. È solo
una ipotesi, che si può assumere o di cui si può assumere la negazione.
Come conseguenza di questa scelta
sulle parallele, si possono concepire tre tipi di
spazio e le relative geometrie: che sono detti
euclideo l’uno
– quando la parallela esiste ed è unica – e non
euclidei gli altri due – ottenuti negando
l’esistenza della parallela oppure, quando esiste, negando che sia unica: questi spazi sono
detti, rispettivamente, non euclideo ellittico e
non euclideo iperbolico.
Sembra tutto molto facile. In realtà,
l’autorità ed il prestigio che l’opera di Euclide hanno assunto presso gli scienziati – ed anche la sua bellezza ed il suo rigore – sconsigliano di rivelare questa scoperta: bisogna aspettare tempi più maturi e che le intuizioni si
fissino in regole matematiche precise.
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È quello che fa il maggiore dei matematici
dell’800 – Carlo Federico Gauss – riponendo
letteralmente in un cassetto le proprie considerazioni relative al postulato delle parallele e
quindi i propri dubbi sulla natura dello spazio
nel quale viviamo.
Così il merito della scoperta tocca a matematici più giovani e meno famosi: il russo Nikolaj
Ivanovic Lobacevskij e l’ungherese Janos
Bolyai, che lavoravano nello stesso periodo
ma indipendentemente l’uno dall’altro.
Forse perché questi giovani matematici non avevano una reputazione da difendere come i grandi e famosi scienziati e per questo erano meno sensibili alla responsabilità di mettere in discussione la geometria di
Euclide. E quella di mettere in discussione la geometria di Euclide non era una questione di poco conto.
Di fatto la geometria di Euclide ha sempre avuto nei tempi un doppio ruolo per la cultura – e non solo
per la cultura scientifica: da una parte c’era il ruolo tecnico di studiare le proprietà dello spazio e delle sue
figure, ma dall’altro c’era anche una funzione metodologica: quella di fissare i canoni del rigore scientifico e
disciplinare il ragionamento. Educare le menti alla deduzione rigorosa.
Una critica al postulato delle parallele metteva in discussione tutto il complesso della scienza conosciuta
ed accettata fino ad allora, perché la colpiva sia nel merito delle proprietà geometriche che nel metodo del
procedimento scientifico.
Bisogna considerare che sulla geometria euclidea si basava fra l’altro tutta la fisica moderna, quella classica per noi, ma allora relativamente recente, di Galileo e Newton:
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la struttura dello spazio euclideo, con il postulato delle parallele, con le rette parallele che proseguono
all’infinito mantenendo sempre la stessa distanza, era quella più idonea a descrivere la legge galileiana di
inerzia, in cui i corpi mantengono indefinitamente il proprio stato di moto rettilineo uniforme.
Che senso ha che possano esistere spazi di vario tipo e con proprietà completamente diverse? E se questo è vero, con le nuove concezioni come cambiano le leggi della fisica? Insomma, che cos’è lo spazio?
Ci si rende conto a fatica – si tratta di una grossa conquista intellettuale – che lo spazio non è più, soltanto, l’ambiente che si percepisce con i sensi, una specie di recipiente nel quale avvengono i fenomeni fisici ma
che è sostanzialmente indifferente rispetto ai fenomeni, ma può essere anche una costruzione intellettuale. È
l’ambiente più adatto nel quale ha senso lo studio di problemi geometrici di natura diversa. Lo spazio è determinato dai fenomeni che in esso avvengono.
In questo modo, all’interno della geometria rientrano varie esperienze e varie teorie che in quei tempi –
siamo nella prima metà dell’800 – si stavano sviluppando in maniera frammentaria, indipendenti fra di loro e
dalle questioni del V postulato.
Come ad esempio, lo studio dei problemi di tipo grafico, di intersezione e di appartenenza fra punti e
curve, delle proprietà che si conservano per proiezione e sezione, indipendenti dalla misura delle distanze e
degli angoli: questo studio stava conducendo alla geometria proiettiva, ambientata per l’appunto in spazi
proiettivi.
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Oppure lo studio delle proprietà delle curve e delle superfici che hanno senso solo localmente, vale a dire nelle immediate vicinanze di un punto, e la maniera con cui si possono estendere a porzioni sempre più ampie
della curva o della superficie – il cui studio è intrinseco:
lo spazio si esaurisce nella curva o nella superficie stessa, indipendentemente dal fatto che possa essere immerso nello spazio euclideo o non euclideo.
Ma anche, si rende possibile – perché no? – concepire spazi che hanno soltanto un numero finito di punti
e di rette – spazi finiti, nei quali tipicamente si studiano problemi di natura combinatoria.
L’unico limite è che i postulati scelti per definire lo spazio non conducano a contraddizioni: e l’esistenza
di un modello di solito garantisce che questo sia vero.
Altre concezioni in campo geometrico, che stavano sorgendo in quei tempi, conducono ad una nuova e
importante nozione: quella di dimensione.
Già dell’inizio del ‘700 i fisici invitavano a considerare il tempo come una quarta dimensione e la meccanica era vista come una geometria a quattro dimensioni.
Ecco un’immagine (di Escher) che illustra qualcosa che nel nostro mondo tridimensionale è impossibile
– la risalita dell’acqua di una cascata – ma che è possibile in uno spazio a quattro dimensioni.
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Ma, di più, alcuni matematici intraprendono anche uno studio sistematico degli spazi a n-dimensioni e
della relativa geometria, nel desiderio di trattare la nozione di dimensione in maniera puramente intellettuale,
senza limitare le considerazioni allo spazio che viene percepito dai sensi E molte considerazioni relative alle
superfici – ad esempio la curvatura – si estendono ad ogni dimensione.
Gli spazi si moltiplicano e l’idea stessa di spazio perde la propria connotazione originaria. Ora è il risultato di una costruzione intellettuale, un prodotto della mente, anche se certamente un prodotto non arbitrario.
L’estensione raggiunta dalla geometria, insieme alla grande unità che ha ottenuto, le ha dato una nuova consapevolezza, nella quale sembrano definitivamente recisi i tradizionali e millenari legami con la realtà fisica.
Eppure non è così. Di fatto i matematici non rinunciano per niente a mantenere i contatti con il mondo
fisico – che è comunque in grande evoluzione e sta affrontando nuovi problemi per i quali la classica geometria
euclidea non è del tutto adeguata.
E, dal canto loro, i fisici non rinunciano a cercare nelle astrazioni della matematica le strutture più convenienti per descrivere i fenomeni sempre più complessi che si presentano nelle loro ricerche: relativi al calore,
alla propagazione della luce, all’elettricità, al magnetismo… e in generale a tutti i fenomeni radianti.
Ora c’è la possibilità di interpretare fenomeni che non hanno una soddisfacente rappresentazione nel tradizionale spazio euclideo, utilizzando l’ambiente più opportuno, sia riguardo alla struttura geometrica che alla
dimensione.
È noto che nella impostazione della teoria di
Einstein, il primo requisito logicamente necessario è
l’abbandono dell’idea che spazio e tempo esistano in
modo naturale ed assoluto, indipendenti l’uno all’altro:
nasce lo spazio-tempo o cronotopo che ha quattro dimensioni. E per di più questo spazio, che incorpora e spiega
i nuovi fenomeni della fisica, ricorre ad una struttura non euclidea.
Torniamo a noi. Un essere che viva in uno spazio ha la percezione soltanto di quello spazio. Se, come in
certi racconti fantastici, vive su una superficie – che ha due dimensioni – non vede i corpi tridimensionali e ne
può capire l’esistenza solo in maniera intellettuale. E così noi non vediamo e non tocchiamo gli oggetti dello
spazio a quattro dimensioni: eppure comprendiamo qual è il senso con cui si può parlare della loro esistenza.
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E inoltre, se la superficie su cui questo essere fantastico vive è piatta, tenderà per esperienza a sviluppare
una geometria euclidea. Se invece il suo mondo ha curvatura positiva oppure negativa – è una sfera o una
pseudosfera – tenderà a formalizzare il proprio ambiente con una geometria non euclidea del tipo opportuno: ma
per rendersi conto della curvatura deve avere un’esperienza non troppo limitata del proprio spazio.
Così avviene per noi: finché abbiamo un’esperienza limitata del nostro spazio tridimensionale, è sufficiente il ricorso ad una geometria euclidea. Per distanze non eccessivamente grandi è sufficiente l’intuizione che
lo spazio sia piatto.
Se poi, al contrario, come in certi racconti di fantascienza, pensiamo a degli abitanti di uno spazio di dimensione superiore a tre, questi vedranno una infinità di mondi tridimensionali simili al nostro, esattamente
come noi possiamo vedere un’infinità di superfici nel nostro spazio.
E loro, ai nostri occhi, appariranno capaci di azioni che non sappiamo spiegare. Ad esempio muovendosi
nel tempo oltre che nello spazio.
Ecco un’immagine (ancora di Escher) che rappresenta l’uscita dalla propria dimensione e poi il ritorno.
Vediamo nella prossima scena che cosa significa rendersi conto dell’esistenza di un’altra dimensione, attraverso l’adattamento di un famoso testo teatrale.
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