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DISPENSA
LA FAMIGLIA COME GRUPPO SOCIALE
La famiglia è un gruppo sociale che si riscontra nella quasi totalità delle società umane.
Naturalmente, questo non significa che la famiglia – nella forma che questa parola evoca alla nostra
immaginazione – sia e sia stata sempre presente in tutti i contesti sociali e in tutti i periodi storici,
dalla comparsa dell’essere umano sulla terra fino ai giorni nostri: questa affermazione non
reggerebbe infatti ad una seria analisi a livello etnologico e antropologico. Non si vuole, dunque,
assolutizzare il nostro modello familiare, quanto piuttosto marcare la rilevanza, non solo statistica,
della famiglia come gruppo sociale. Che cosa si intende con l’espressione: “famiglia come gruppo
sociale”? In prima battuta, si potrebbe affermare che la famiglia è un gruppo in quanto è
l’insieme di due o più persone legate fra loro da vincoli di sangue, di matrimonio, di adozione
ecc. In realtà, questa è una definizione molto generica e generale e per ciò stesso un poco sommaria.
In effetti, le definizioni di famiglia possono differenziarsi in rapporto al quadro concettuale che si
assume volta per volta quale riferimento da un punto di vista sociologico e psicosociale.
1. Cinque quadri di riferimento sociologico
Seguendo la classificazione dei sociologi R. Hill e D. A. Hausen, si possono distinguere, in
ordine alla definizione di famiglia come gruppo sociale, cinque principali quadri di riferimento.
Ognuno di essi mette in evidenza aspetti particolari dell’analisi sulla famiglia, prospettive che, se tra
loro adeguatamente integrate, aiutano a cogliere meglio quel complesso universo. In sintesi
possiamo così tentare di visualizzarle:
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Il quadro interazionale. L’approccio di coloro che si riferiscono a questo metodo
d’indagine è socio-psicologico. La famiglia viene considerata come un’unità di persone che
interagiscono. L’inter-azione dei membri (vale a dire l’azione esercitata reciprocamente da
ognuno di essi) è in funzione del ruolo che essi svolgono all’interno di questa unità.
Il quadro struttural-funzionalista. Secondo l’impostazione degli studiosi che si
riconoscono nell’impostazione struttural-funzionalista, la famiglia sarebbe un sottosistema
specializzato e differenziato del più generale sistema societario. 1 Le basi sociologiche di
questo quadro concettuale sono state poste in particolare da Talcott Parsons e dal Goode.
La famiglia è intesa in questo contesto come l’espressione specifica di bisogni e di valori
che vengono soddisfatti attraverso rapporti di scambio, cioè di negoziazione e dunque di
reciprocità. Il modello familiare della reciprocità è di importanza fondamentale per la
famiglia soprattutto perché consente di fissare, orientare e regolare le dinamiche dei ruoli
intrafamiliari.
Che cosa significa affermare che la famiglia è un sottosistema societario? La definizione, che si riallaccia
alla teoria dei sistemi del sociologo tedesco Niklas Luhmann, significa riconoscere che la famiglia assolve
funzioni sociali insostituibili a vantaggio dell’intera società. L’organizzazione (sistema) sociale, infatti, per
poter funzionare ed essere efficiente, si avvale di almeno quattro sottosistemi. Il primo è il governo politico,
o l’amministrazione statale; c’è poi l’economia con i relativi mercati (mobiliari, immobiliari, delle varie
merci ecc.); ci sono inoltre le diverse associazioni (per esempio i sindacati) che si presentano come
organizzazioni autonome rispetto agli altri organismi elencati e che per questo assumono anch’esse la
caratteristica di sottosistemi societari. Un tempo questa elencazione si fermava qui. Oggi si riconosce invece
che la famiglia è il quarto sottosistema societario, condividendo con gli altri uno specifico codice
simbolico, i mezzi materiali per sopravvivere, uno statuto giuridico composto da diritti e doveri. In più la
famiglia ha un proprio e originale mezzo simbolico di comunicazione: la reciprocità.
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Il quadro situazionale. È la prospettiva indicata dagli studiosi Chombart, de Lauwe e
Michel: in base ad esso è il contesto esterno alla famiglia a forgiarne (a definirne, a dare in
qualche modo “il tono”) l’esistenza.
L’approccio istituzionale. Secondo i sostenitori di questa teoria, la famiglia è un’istituzione
che è venuta via via definendosi attraverso un complesso sviluppo storico. Quando si parla
di “istituzione” si pensa normalmente a qualcosa di rigido, di immobile ed immutabile.
L’istituzione familiare, invece, secondo questo approccio, si struttura in base ai bisogni
fondamentali che storicamente emergono in seno alla famiglia, manifestando i valori
culturali specifici di ogni società. Si rifanno a questo quadro concettuale gli studiosi
Ogburn, Zimmermann, Murdock, Levy ed il già citato Goode.
L’approccio dello sviluppo. In estrema sintesi, si possono comprendere all’interno di
questo quadro concettuale tutti quegli studiosi che nell’analisi della famiglia pongono
particolarmente l’accento sull’insieme dei ruoli e dei compiti che si sviluppano nel corso
dell’esperienza familiare.
Da questi brevi cenni storici si nota che la classificazione della famiglia come gruppo
sociale è comune alla maggior parte degli approcci presi in considerazione. La famiglia è cioè un
gruppo sociale inserito, insieme con altri sottosistemi, nel più vasto sistema societario con i quali
interagisce, subendone i mutamenti e concorrendo a sua volta al cambiamento sociale; non esiste
in altre parole una famiglia statica, ma una famiglia in evoluzione, storicizzata sia per quanto
riguarda i bisogni che essa esprime, sia per i ruoli che al suo interno si sviluppano.
2. La famiglia “auto-poietica”
La prima condizione da citare come essenziale per la sopravvivenza della famiglia in quanto
sottosistema societario è quella che induce a definire la famiglia attuale una famiglia autopoietica
(dal greco autos, “se stesso”, e poiein, “fare”: ossia capacità della famiglia di “farsi da sé”, di autoriprodursi come sistema autonomo di valori). L’espressione è apparentemente oscura, ma il
concetto è molto semplice. Per comprenderla dobbiamo però farci ancora una volta una domanda:
qual è il rapporto che esiste tra famiglia e società? Si tratta di un rapporto non ben definito,
problematico, talora contraddittorio. Un tempo, e per alcuni aspetti ancora oggi, si è parlato e si
parla della famiglia come un elemento della società sui-generis: la società si occupa sì della
famiglia, ma spesso non in quanto “famiglia” ma come una realtà composta di diversi membri. Si
occupa dei figli (ed ecco allora vari interventi sulla scuola, sulle attrezzature sportive ecc.), si
occupa dei genitori (con interventi sul tema del lavoro ecc.), degli anziani... e così via. . Non si parla
cioè della famiglia – va ancora una volta ribadito – come di un vero sottosistema societario
(secondo la cita definizione di Niklas Luhmann), collegato funzionalmente agli altri sottosistemi,
l’istruzione, l’economia, l’organizzazione amministrativa (la politica). In un certo senso quindi tutti
gli interventi sulla famiglia, essendo disarticolati, si trasformano in interventi assistenziali.
L’assistenza crea sempre a propria volta, in una sorta di circolo vizioso, degli assistiti. La famiglia
rischia di essere la grande assistita del nostro tempo, prima di tutto non acquisendo la
consapevolezza di essere soggetto politico, capace cioè di porsi come interlocutore a livello
istituzionale.
A tale riguardo è opportuno soffermare la nostra attenzione su alcune transizioni che la
famiglia è chiamata ad operare per proporsi come sistema autonomo di valori (ossia come entità
autopoietica):
a) Da famiglia sfera privata a famiglia soggetto sociale: la famiglia deve prendere consapevolezza
di non essere soltanto il luogo degli affetti, delle emozioni private, dei sentimenti, ma un “soggetto”
in grado di trasferire a livello sociale, al di là di ogni privatizzazione, un modello – emotivo,
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sentimentale, emozionale, appunto – capace di conferire al vivere sociale quelle caratteristiche
“familiari” di cui oggi è privo.
b) Famiglia come luogo della reciprocità: è questo il grande tema della solidarietà intergenerazionale. Proprio gli interventi assistenziali cui si accennava hanno finito col mettere in crisi
questa solidarietà. Hanno messo in “lotta” i padri contro i figli, le generazioni tra di loro. Il rapporto
di scambio all’interno della famiglia non può essere solo affettivo, espressivo, ma anche fisico,
economico, intellettuale, culturale. Se cade il rapporto tra le generazioni, la famiglia è davvero
destinata a disgregarsi.
c) Famiglia come luogo in grado di generare, di dare e ricevere, affettività: la famiglia non è
soltanto il luogo in cui “ci si vuole bene” naturalmente, perché composta di persone legate tra loro
da vincoli non scioglibili di parentela, ma è un crocevia simbolico capace di trasferire, di “pilotare”
significati espressivi, valori, emozioni. È attraverso questi che si forma l’identità personale, il senso
di appartenenza, la conservazione di un’eredità e di una memoria. Non per nulla le giovani
generazioni hanno spesso un rapporto privilegiato con i nonni, capaci ancora – là dove i genitori
sono spesso brancolanti – di operare questo trasferimento nella vita quotidiana. La famiglia deve
avviarsi dunque a diventare il luogo primario delle mediazioni: tra i sessi, tra le generazioni, tra la
parentela più estesa.
d) Famiglia come luogo di costruzione di soggetti, cioè di persone. Non si dà persona senza
relazione, senza connessione con le altre persone, senza referenze psicologiche e operative
reciproche. Ora, il luogo in cui si “impara” la relazione è proprio la famiglia. Attraverso tutta una
serie di processi psicologici, il bambino fin dalla nascita è immesso in un contesto relazionale nel
quale si forma la sua identità. Questo significa essere qualcosa di più e di diverso che non un luogo
di parcheggio per le giovani generazioni.
3. La famiglia nella società complessa
La complessità è la cifra della nostra esistenza quotidiana. Essa rappresenta una sfida
ambivalente. Che cosa significa? Significa che essa contiene aspetti negativi ed aspetti positivi, e
cioè ostacoli e risorse. L’ostacolo principale è l’irruzione di una irriducibile incertezza nelle nostre
conoscenze, lo sgretolarsi dei miti della certezza, della completezza, dell’esaustività. Un tempo
si viveva di certezze assolute. Ora non più. E questo vale anche per la scienza, alla quale, in periodo
di indigestione positivista, ci si affidava in totale sicurezza. Chi vive in una società complessa come
la nostra è spesso destinato a porsi domande senza risposta, forse solo a porsi delle domande senza
neppure cercare una risposta, o a reinventare un modo nuovo per porsi delle domande. Questo è il
limite della complessità, un’incertezza con la quale occorre convivere. La risorsa è l’appello
insito in essa ad approfondire la conoscenza dei fenomeni. Come afferma il sociologo ed
epistemologo francese Edgar Morin, la complessità ci obbliga a decollare verso un pensiero
multidimensionale, per comprendere come le varie categorie disciplinari non siano che vari aspetti,
tanti tasselli di un’unica realtà complessa. Questo ci porterà a mettere in atto uno sforzo positivo per
evitare la tentazione di rinchiudere il reale in strutture prestabilite, in categorie note. È questa la
tentazione assolutista, integrista.
La complessità ci induce ad essere umili nella ricerca, a non dare mai nulla per scontato, a
imparare a fare collegamenti interdisciplinari. Questo metodo è molto importante per quanto
riguarda lo studio dei fenomeni familiari. Prendiamo ad esempio il tema del disagio della famiglia
sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro: molte ricerche leggono questo disagio come la
somma dei disagi dei singoli componenti la famiglia (il disagio della coppia, il disagio dei
cinquantenni, il disagio degli anziani, il disagio degli adolescenti ecc.); il metodo della complessità
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esige invece che questo disagio venga affrontato da un punto di vista sistemico, vale a dire
attraverso l’analisi delle reti che connettono le generazioni. Prima di addentrarci nello studio della
famiglia nella sua proiezione in una dimensione futura o futuribile, è dunque opportuno soffermarci
proprio sul quadro sociale della complessità che ne rappresenta lo sfondo. Nello studio dei
fenomeni sociali dobbiamo muoverci un po’ come quando andiamo in automobile o in bicicletta, e
cioè con uno sguardo per così dire “strabico”: uno sguardo corto, sulla strada, per evitare gli
ostacoli; ed uno sguardo lungo, all’orizzonte, per aver sempre la consapevolezza della direzione.
Non per nulla il termine “orizzonte” ricorre spesso nel vocabolario degli studiosi della teoria
dell’interpretazione.
4. La differenziazione sociale: elementi, effetti, slittamenti e conseguenze immediate
La nostra società occidentale proviene dall’esperienza della differenziazione sociale, quel
processo, cioè, mediante il quale gli individui presenti in una determinata società si strutturano, si
raggruppano (e dunque si differenziano) sulla base di una data posizione sociale, formando in tal
modo degli strati, delle classi o dei ceti. Un tempo questa struttura sociale era di carattere
segmentario, o a bassa mobilità sociale: era cioè molto difficile passare da un segmento all’altro;
gli strati erano in genere impermeabili fra loro: chi nasceva servo, o contadino era normalmente
destinato a restare in questo strato sociale per tutta la vita. Oggi, invece, grazie soprattutto al
processo di industrializzazione, viviamo in un contesto di elevata mobilità sociale: gli strati sono
meno impermeabili fra loro; è possibile il passaggio dall’uno all’altro.
Questa elevata mobilità si esprime attraverso la differenziazione delle funzioni sociali.
Oggi, molto più che nel passato, rispetto alle funzioni la nostra società è molto differenziata: in
particolare, il processo di divisione del lavoro è molto articolato e specializzato; ognuno di noi vive
contemporaneamente in più contesti, viviamo cioè molteplici biografie. Questo implica che si
formino molti “centri di orientamento”, vale a dire una pluralità di centri ognuno con la pretesa di
conferire ai valori che fanno da supporto alla società una legittimazione parziale. Manca
l’unificazione di questi “centri”, un tempo data per esempio dalla religione (una delle possibili
etimologie di religione è proprio re-ligare, unire, tenere assieme) ed è qui che va ricercata la causa
di quel vistoso fenomeno che assume il nome di frammentazione2.
Un altro elemento importante è quella che viene definita la eccedenza culturale: i giovani
in particolare (ma anche gli adulti, portati a vivere questa realtà in modo schizofrenico) vengono
fatti oggetto di molte proposte, hanno molti interessi, forse troppi interessi (il più delle volte indotti
dagli stessi genitori) che trascinano il rischio di una difficile, quando non mancata, identificazione.
Succede qui un po’ quanto si verifica per il mercato: un’eccedenza di offerta rispetto alla domanda,
per cui si creano domande illusorie.
4.1 Gli elementi
La nostra è la “società del frammento”. Infatti, alcuni fondamentali elementi della dimensione quotidiana
dell’esistenza (la produzione-consumo e dunque il lavoro, lo svago e il tempo libero, l’istruzione e
l’addestramento professionale) vengono sganciati dall’ambito familiare. Questa frammentazione ha
interessato e interessa sempre più il piano etico dell’esistenza: esiste un’etica per il lavoro e l’economia, una
per lo svago ed i week-end , un’etica per l’istruzione e la trasmissione culturale; leggi ed etiche scollegate tra
loro, non facenti più parte di un continuum (geometricamente: un cerchio, una retta), ma appunto “segmenti”.
Questi segmenti della vita vanno avanti seguendo ognuno una propria direzione, spesso entrando tra loro in
conflitto, in rotta di collisione. Non esiste più un punto fermo che si ponga come regolatore delle diverse
istanze, che sappia indicare soluzioni unitarie e conseguenti. Il regolatore diventa, in qualche misura,
l’esperienza.
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Sono moltissimi: di seguito se ne indicano quattro tenendo soprattutto conto dell’orizzonte
della famiglia.
1) Il nuovo ruolo dell’informazione. Non è il caso di sottolineare come l’informatica sia la scienza
del presente. Ieri, il tempo per la raccolta delle informazioni era molto lungo, per cui esisteva uno
scarto tra il momento in cui si poneva un problema e quello della sua risoluzione. Oggi questo
scarto è stato abolito perché da Roma a New York, da Tokyo a Torino l’informazione viaggia in
tempo reale. Aumenta in misura esponenziale il numero delle informazioni disponibili (pensiamo a
Internet!). Si modifica il tempo che ci è concesso per decidere. Non abbiamo più molto tempo per
pensare. Enorme è l’effetto di tutto questo sui mercati. Da questo flusso informativo rapidissimo
essi risultano “drogati”. Si creano tecnocrazie potenti che su essi vivono e speculano. Senza questo
enorme sviluppo informatico la società globale non sarebbe neppure concepibile. La nostra è una
società fondata sul mercato, considerato spesso un idolo al quale sacrificare i valori etici ed
espressivi più preziosi. Dai computers installati in stanze di un qualche grattacielo di una enorme
multinazionale partono gli ordini che in tempo reale decidono della vita di milioni di esseri umani.
In queste stanze ovattate del cinquantesimo piano di un grattacielo di Manhattan, ove un impulso
elettronico può generare disperazione, non filtra il lamento di un’infinità di madri del terzo o quarto
mondo che non riescono a comperare il latte per i loro figli. Quando alla Borsa delle materie prime
di Londra o di New York la soia perde due punti percentuali, vuol dire che nella città brasiliana di
San Paolo, per non fare che un esempio, la mortalità infantile cresce del 2%, perché il governo
taglia le risorse destinate al latte dei bambini, risorse che nel bilancio statale erano vincolate al
guadagno nella vendita internazionale della soia. Ma anche senza considerare il problema a livello
di società globale, a livello stesso della nostra vita quotidiana, in una delle capitali europee o in una
piccola città di provincia, questo sviluppo informatico è destinato a modificare la vita di molte
famiglie. Pensiamo alla “casa cablata”, l’affidamento cioè di certi servizi (informazioni
telefoniche, ecc,) a domicilio (oggi si stima che il 50% del lavoro degli uffici potrebbe essere fatto
a domicilio). Ci troviamo dunque di fronte a una terziarizzazione sempre più spinta, nonché
all’esigenza di ripensare architettonicamente gli alloggi, ma anche, dal punto di vista psicologico,
all’aumento di una solitudine dei singoli e delle coppie, perché l’informatica, pur non essendo il
caso di demonizzarla, diseduca al dialogo interpersonale.
2) Mutazioni del modello di sviluppo. Qui il dato è addirittura quantificabile. Limitiamoci a due
aspetti: la produzione di rifiuti ed il consumo di energia. Nell’arco degli ultimi cinquant’anni
abbiamo quintuplicato la produzione individuale di rifiuti. In quanto al consumo di energia, esso è
sempre più il parametro su cui si valuta lo sviluppo di un paese. Se ad esempio Cina e India – che
contano insieme oltre due miliardi di abitanti – raggiungessero il modello di sviluppo anche solo
italiano in termini di consumo di energia e di combustibili, in un tempo brevissimo non avremmo
più risorse per tutti.
3) Mutazioni del sistema economico. Da un punto di vista immediato sono quelle che si
manifestano in modo più evidente ed immediato sulla famiglia. Ne elenchiamo due, in particolare:
a) una sovrapproduzione di beni di consumo, incapace tuttavia di eliminare vistose sacche di
sottosviluppo anche nei paesi più affluenti. Ad esempio, nei soli Stati Unitici sono almeno dodici
milioni di bambini sottoalimentati; b) un vistoso processo di de-industrializzazione che trascina
problemi di disoccupazione, la necessità per un lavoratore di riciclarsi, problemi di flessibilità, e
così via.
4) Mutazioni culturali. Sono veramente radicali. Ne indicheremo solo tre, le più vistose: a) la
mobilità spaziale. I limiti delle distanze geografiche sono aboliti. Come conseguenza di questo
abbiamo: b) una nuova modalità di confronto tra culture, una riduzione cioè delle distanze culturali,
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con l’instaurazione però di modelli sincretistici a livello culturale, religioso ed etico; c) un mutato
rapporto con i media, che diventano i veri “educatori” delle famiglia. C’è una sostanziale disparità
di potere tra i detentori dei media ed i consumatori. È una sfida, questa, che la famiglia non solo non
si trova preparata ad affrontare, ma che addirittura il più delle volte non percepisce.
4.2 Gli effetti
Sempre rimanendo nell’orizzonte della famiglia, vediamo ora quali possono essere alcuni tra
gli effetti della complessità in cui viviamo. Qui ci addentriamo in un campo più specificamente
psicosociale.
1) Un primo effetto è dato dalla relativizzazione dei sistemi di significato, vale a dire del nostro
rapporto critico con il reale. Abbiamo già visto come uno dei portati della società complessa sia la
presenza di una pluralità di centri. Questo fa sì che ogni centro di socializzazione elabori sistemi di
significato particolari, spesso incapaci di sintonizzarsi, di mettersi in comunicazione con gli altri.
A livello di contenuti i sistemi di significato della scuola, della chiesa, delle istituzioni pubbliche,
della politica il più delle volte non dialogano, vanno ognuno per la propria strada. Di qui due
fenomeni apparentemente contraddittori, ma del tutto verificabili a livello familiare: un relativismo
culturale ed etico (un contenuto vale l’altro); lo straordinario sviluppo di forme sincretistiche a
livello culturale e religioso (contenuti di provenienze diverse possono stare assieme e mescolarsi fra
loro). Questo elemento della relativizzazione dei sistemi di significato è, dal punto di vista
psicologico, un elemento da tenere in considerazione nello sviluppo dei processi di identificazione
personale che da esso non vengono certo favoriti.
2) Un secondo effetto è dato dalla vieppiù crescente dimensione debole dell’esistenza. Pur senza
soffermarci sugli aspetti filosofici specifici di questo problema, possiamo accennare al fatto che in
una società complessa il vivere individuale e sociale perde spesso di consistenza. Viviamo infatti
in un contesto di appartenenze parziali, a basso rendimento: anche qui il tema dell’identità è
d’obbligo, proprio perché questa scarsa qualità del vivere, la ricerca sempre più faticosa di un senso
all’esistere, porta ad un’identità debole, frammentata, contraddittoria, in perenne evoluzione. Spesso
l’interrogarsi sul senso della vita appare fine a se stesso: da questa domanda non ci si attende alcuna
risposta.
3) Un terzo effetto è dato dalla iposocializzazione, vale a dire la scarsa socializzazione. Significa
soprattutto l’incapacità di identificare i bisogni reali, profondi, e dunque di gerarchizzarli, di dar
loro un contenuto valoriale in rapporto alla qualità dell’esistenza; un’allergia diffusa ad accettare
risposte istituzionali ai bisogni espressi dall’individuo, e dunque una ipercritica nei confronti delle
istituzioni stesse; il rifiuto delle mediazioni istituzionali trascina la privatizzazione dei
comportamenti, ma anche l’accesso a utilizzi incontrollati ed occasionali per la soddisfazione di
bisogni (o pseudo-bisogni). Esempio tipico è il consumismo dilagante.
4) Un quarto effetto è dato dalla ipersocializzazione, che è la situazione opposta alla precedente,
vale a dire l’accentuata, o eccessiva, socializzazione, la tendenza cioè a reagire alla crisi dei
processi e delle agenzie socializzatrici con l’adozione di risposte ideologiche, dogmatiche,
integriste. È il rifiuto di accettare la sfida della complessità, percepita come una minaccia nei
confronti delle sicurezze acquisite; è il rifiuto di accettare la diversità. Ai sistemi delle ideologie
vengono richieste risposte assolute, veritative. Certi gruppi giovanili sono impostati su questo
modello. Il rischio è quello della manipolazione, del conformismo acritico, della subordinazione
irresponsabile a leaders fortemente carismatici capaci spesso di plagiare le personalità più deboli.
Sia l’iposocializzazione che l’ipersocializzazione rappresentano esiti fortemente problematici dal
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punto di vista educativo. Questo è un tema che coinvolge in modo diretto la famiglia, ma c’è da
chiedersi se essa sia, nella normalità dei casi, all’altezza di questo compito.
4. 3 Slittamenti
Da un punto di vista sociologico, si possono individuare alcuni significativi “slittamenti”,
ovvero transizioni da un modello culturale all’altro, cagionati dalla complessità odierna.
1) Il passaggio da una cultura sacrale ad una secolarizzata. Oggi, la religione non occupa più lo
spazio che rivestiva nel passato. Non è un processo nuovo, ma è uno slittamento sancito addirittura
da un’infinità di guerre di religione e da alcune rivoluzioni. Di fronte al rischio di disgregazione
sociale operata da queste guerre (e ne abbiamo ancora oggi esempi vistosi) la società moderna non
nega di per sé l’esistenza di un’entità superiore, semplicemente non ne tiene conto, opera “etsi Deus
non daretur”, secondo una celebre formula del giurista olandese Ugo Grozio, come se Dio non ci
fosse. La religione, dunque, non è più deputata a fare da collante tra i vari strati sociali, a “tenere
assieme” i vari elementi della vita associativa, ma viene sempre più considerata un fatto privato.
Questo processo prende il nome di secolarizzazione Anche la famiglia, considerata a lungo come
istituzione “sacra”, con funzioni di mediazione nei confronti del Trascendente, si è secolarizzata.
Questo non significa affatto che oggi sia andato perduto il riferimento religioso. Più una società è
secolarizzata, più si fa strada una nostalgia di senso di cui il religioso è portatore. Il sacro, oggi, è
oggetto di una sempre più vistosa ricerca da parte di un’umanità smarrita, che ha perso i riferimenti
di senso, la stella polare dell’esistere. E tuttavia la religione non si trova più – per usare
l’espressione del teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer – “al centro del villaggio”, ma alla
periferia. Essa è, insieme con altri, “uno” degli elementi della società complessa. Si trova sullo
sfondo. Il sociologo Franco Garelli parla di religione dello scenario.
2) La rivoluzione industriale: lo slittamento da una cultura contadina ad una cultura postindustriale. È la rivoluzione determinante nel processo di modifica e ristrutturazione della nozione
di famiglia, quella che ha portato al passaggio dalla famiglia rurale alla famiglia urbana, dalla
famiglia estesa alla famiglia nucleare. Gli effetti di questa rivoluzione si riverberano su tutti i piani
della vita: sul piano psicologico, sociale, economico, politico, religioso. Vediamone solo alcuni. Il
contadino nel suo contatto con la natura è abituato a vivere su tempi lunghi; l’operaio, l’impiegato
vivono il “giorno dopo giorno”. Dicono anzi gli psicologi che i lavoratori dell’industria, ma questo
vale anche in un contesto di terziarizzazione, soffrono di cronopatia, che è l’incapacità di situarsi
nel tempo. Una società abituata a vivere nei tempi brevi scalza le relazioni di lunga durata.
Pensiamo solo alla perdita del senso della parentela, una volta accentuatissimo. Si indebolisce la
capacità di collocarci in un contesto di eredità e di memoria, di cui pure si sente la nostalgia. Ma
soprattutto, a livello matrimoniale, il per sempre entra vistosamente in crisi. Il pendolarismo, il fatto
di passare molte ore – spesso l’intera giornata – fuori casa, portano, per non fare che un esempio,
ad instaurare relazioni significative con i propri colleghi, o colleghe, di lavoro. Il rapporto coniugale
è messo molto più a dura prova. Questa maggior fragilità del vincolo matrimoniale, peraltro sempre
più sottratto alla cauzione del sacro, è anche favorito dall’allungamento significativo della vita
media. Il tempo di vita di una coppia è oggi praticamente raddoppiato rispetto a non moltissimi
decenni fa. Come mette in evidenza l’esperienza consultoriale, molti matrimoni oggi entrano in crisi
dopo il venticinquesimo, trentesimo anno, spesso al momento del pensionamento di uno dei
coniugi. Anche nel rapporto con i figli emergono problemi. Un tempo era la famiglia, estesa, che
gestiva al suo interno l’addestramento e il tempo libero. Oggi assistiamo ad un vistoso processo di
delega ad altre istituzioni. Inoltre, il bambino viene oggi posto al centro del desiderio della coppia,
quando non della persona single (“un figlio ad ogni costo”) e dunque oggettualizzato, caricato di
un investimento psicologico talora morbosamente esasperato. Il nucleo familiare, già diviso dal
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lavoro extradomestico della coppia, da un lato vive un’esperienza di isolamento e di esclusivismo
affettivo e, dall’altro lato, genera fenomeni di implosione a causa di una superconcentrazione
affettiva.
3) Uno slittamento da un matrimonio di interesse ad un matrimonio d’amore. È un aspetto
noto, e sicuramente positivo, frutto di una concezione romantica dell’amore. Una famiglia non più
centrata sui figli, ma sulla coppia; non più sulla consanguineità, ma sul coniugio; non più sulla
sicurezza d’amore (l’amore dato per scontato), ma sulla esperienza d’amore. L’area problematica di
questa rivoluzione positiva sta appunto nel termine “esperienza” che evoca una provvisorietà. Una
siffatta famiglia ha in sé indubbiamente maggiori elementi di fragilità. Finché un certo modello
d’amore dura la famiglia sta in piedi, quando non esiste più l’esperienza viene conclusa.
4) La rivoluzione sessuale. Anche questo è uno slittamento positivo. Non è che al tempo dei nostri
nonni l’aspetto sessuale nella vita di coppia non esistesse: c’era, ma veniva sottaciuto. La
rivoluzione sessuale oggi lo ha per così dire liberato, legittimato, posto al centro di questo rapporto,
mentre prima era sullo sfondo. Non si parla più di “dovere” coniugale (in genere con riferimento
alla donna). Lo slittamento di questa rivoluzione è proprio il passaggio dal dovere al piacere, la
rivalutazione del piacere come elemento fondamentale di crescita e di conoscenza. La corporeità
diventa una componente importante della relazione tra due soggetti che si amano e che desiderano
fondare una famiglia. Ma esso pone in evidenza un’ulteriore fragilità del rapporto di coppia:
l’assenza del piacere erotico come elemento di scacco.
4.4 Le conseguenze immediate
Le conseguenze immediate di questa situazione sono sostanzialmente due: la
frammentazione e la privatizzazione.
1) La frammentazione. Abbiamo già accennato a questo fenomeno, ma è bene ulteriormente
precisarlo. Abbiamo visto che uno slittamento importante è stato quello da una società rigida ad
una fortemente differenziata. Pensiamo solo ad un cambiamento importante. Un tempo la famiglia
era, in gran parte, luogo di produzione e di consumo: si consumava ciò che si produceva; la società
industriale ha prodotto una prima frantumazione: la famiglia è diventata luogo di consumo di
prodotti provenienti dall’esterno. Un tempo ci si divertiva in famiglia: i nostri nonni o bisnonni
ci hanno tramandato il racconto dei balli nelle cascine (ragazzi e ragazze – queste ultime sotto lo
sguardo vigile della mamma o della sorella maggiore – ma anche adulti e persone anziane
accomunati nell’unico divertimento consentito in un contesto di vita caratterizzato sì da una grande
semplicità, ma anche da una grande fatica); oggi i luoghi di svago sono in genere lontani dalle
nostre abitazioni. Anche l’istruzione, rudimentale, era spesso impartita nella stessa abitazione: i
nonni e i padri erano coloro che “insegnavano il mestiere” ai propri nipoti e figli. Oggi il
pendolarismo studentesco è un fenomeno diffusissimo. In sostanza, i nuclei vitali erano il villaggio
e la famiglia: oggi, le immense anonime megalopoli. E la famiglia, non più luogo di lavoro, di
svago, di istruzione sta trasformandosi in luogo di parcheggio o di scarico delle tensioni
accumulate all’esterno.
2) La privatizzazione (individualismo, isolamento, ecc.) L’uomo e la donna si trovano dunque
frammentati, divisi: e questo non solo sul piano della vita quotidiana, o a livello sociale, ma proprio
sul piano psicologico. Lo psichiatra inglese Ronald Laing definisce questa condizione con il termine
di io diviso. Questa divisione o frammentazione dell’io determina, dal punto di vista psicologico,
l’insorgenza di meccanismi di difesa. Restando nell’orizzonte della psicologia sociale, potremmo
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azzardare l’ipotesi (invero da verificare) che la privatizzazione funzioni come meccanismo di difesa
contro l’ansia depressiva derivante dalla frammentazione e dal decentramento etico3.
Proviamo a vedere come tutto questo può avvenire. Storicamente l’uomo e la donna, e la famiglia, vivono
due passaggi. Il primo è quello della riscoperta della libertà. Nei confronti dei vari attori sociali non ci sono
più quelle piccole comunità (famiglia estesa, villaggio) che da un lato fornivano una sicurezza di
appartenenza, ma dall’altro lato erano vissute, per le pressioni psicologiche che esercitavano, come
un’autentica “camicia di forza”. Liberati da queste costrizioni, gli uomini e le donne inseriti in un contesto di
modernità hanno sperimentato l’ebbrezza del sentirsi liberi: liberi soprattutto di poter organizzare la propria
vita, e liberi da norme morali rigidamente prefissate e socialmente vincolanti. Ma subentra presto – è il
secondo passaggio – una scoperta. Questa libertà è solo apparente in quanto dall’esterno del loro vissuto
individuale provengono delle domande con un peso spesso superiore alle possibilità personali di risposta. Da
ognuno dei “segmenti” che abbiamo indicato (lavoro, scuola, tempo libero, ecc.) giungono pressanti
richieste di impegno: una carriera fonte di angoscia sempre crescente, con la necessità di salvaguardare dei
pesanti status-symbol; i week-end sempre più faticosi; le relazioni di amicizia sempre più coinvolgenti; la
necessità di studi sempre più lunghi, approfonditi, costosi; all’uomo e alla donna si chiede poi di appartenere
ad un sindacato, ad un partito politico, ad un gruppo ecclesiale, ad un’organizzazione culturale, a un club
sportivo, a un comitato di quartiere o di genitori; e poi bisogna fare palestra, portare i figli a nuoto, a
scherma, a pallavolo, a inglese, a danza... Impegni non alternativi, ma concomitanti. Ernest Henau,
sociologo olandese, parla di sirene sociali. Qual è l’esito dell’irruzione di queste “sirene sociali”, con il loro
canto coinvolgente, nella vita degli individui? Si stabilisce una reazione. L’uomo e la donna prendono le
distanze, si ritirano nel privato, cercano delle “zone rifugio”. La famiglia, ma anche certe relazioni amicali,
possono rappresentare queste zone rifugio. Ma in questo modo la famiglia “cade” nella privatizzazione del
comportamento, nell’individualismo. E spesso si creano tensioni, malesseri, forse disagio.
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