Presunzione e Modestia
Claudio D’Errico
Scienze Umane
Diogene Edizioni
in copertina: C. Fusco, Acquerello.
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SCIENZE UMANE
Collana di testi e studi
diretta da Fabrizio Lomonaco
Comitato scientifico:
Arturo De Vivo, Louis Begioni, Michele Lenoci, Matthias Kaufmann,
Giancarlo Magnano San Lio, Guglielmo Tamburrini, Guglielmo Trupiano
Tutti i saggi pubblicati in questa collana vengono sottoposti a blind peer review
Claudio D’Errico
Presunzione e Modestia
ovvero Protagora e Socrate
Diogene Edizioni
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© 2014 by Diogene Edizioni
Tutti i diritti sono riservati
Prima edizione italiana settembre 2014
ISBN 978-88-6647-104-2 (ebook)
INDICE
Prefazione
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Introduzione
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1. Protagora nella grande svolta della storia
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2. Etimologia e definizione dei termini
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3. Il caso Socrate
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4. Contraddizioni della presunzione e della modestia
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5. Il sapere di non sapere contro Protagora
67
6. Il problema della non belligeranza religiosa
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7. Vizi semantici e virtù pragmatiche dell’utile
89
8. La Repubblica di Protagora.
105
9. Le origini pragmatiche della linguistica
113
10. Relatività, relativismo e scetticismo
119
11. Gorgia
137
12. L’homo mensura
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13. L’educazione reciproca
159
14. Hegel e il libro muto
185
Conclusione
197
Appendice. Le insospettabili implicazioni della deposizione
di Meleto e del consiglio di Anito
207
5
«Fit via vi», Seneca.
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Prefazione
L’intento di questo saggio non è psicologico, ma filosofico. Quel che
qui interessa non è una fenomenologia degli stati di coscienza, ma soltanto
la determinazione di due di essi, la presunzione e la modestia, che offrono
il filo per una ricerca che ha altri intenti. Il loro ambito abbraccia innanzitutto la storia della filosofia. Questa però, per l’epoca in cui si situa l’oggetto in esame, deve venir considerata in stretto rapporto con la storia della cultura. È la scienza che Vico chiamava «storia delle idee» o «storia della
mente», e noi epistemologia storica.
Per quest’aspetto, lo studio muove dalla convinzione che l’indispensabile opera di revisione della tradizione, riguardo ai primi sofisti e Socrate, avviata da Hegel, vada continuata e ampliata ben al di là del punto in cui egli
si è arrestato. Il binomio appare inscindibile, se alla rivalutazione della Sofistica, e in particolare del suo iniziatore Protagora, sembra dover corrispondere una parallela demitizzazione del personaggio di Socrate, quale
l’abbiamo ricevuto dalla tradizione. Non può però che essere così, se ciò
che sappiamo del pensiero di Protagora proviene quasi esclusivamente dagli scritti di Platone, dove egli compare nel ruolo dell’antagonista su una
scena dominata da Socrate.
Si può alludere al senso della revisione del loro rapporto filosofico, con
un’analogia storica: Socrate è la reazione, per qualche aspetto romantica,
all’illuminismo di Protagora. Socrate prefigura il romanticismo per l’individualismo soggettivistico, lo scetticismo anarchico, il reazionarismo politico, l’insofferenza per la retorica e per il professionismo, l’ironia e altro. È
Hegel stesso a istituire l’analogia, ma in questa forma: Protagora: Kant =
Gorgia: Hegel. Per le ragioni dette e per i nostri fini, sembra però più appropriata quest’altra: Protagora: Kant = Socrate: Hegel.
La ricerca non si esaurisce nell’intento storiografico, perché con esso è
strettamente intrecciato un interesse teoretico, come d’altronde secondo
Habermas è necessario che sia. Per chiarire questo aspetto, occorre collegarsi a quella parte della filosofia che, a detta di Apel, viene sempre più a
configurarsi come l’attuale “philosophia prima”, e cioè la filosofia del linguaggio.
Il principale interesse teoretico, che presenta oggi la ricostruzione
dell’autentico pensiero di Protagora, nasce da un dato evidente a un semplice esame non pregiudiziale della fonte platonica. Il Protagora attesta che,
nel V secolo a. C., il sofista individua con chiarezza la dimensione inter-
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soggettiva e delinea una teoria della comunicazione di incredibile attualità,
di cui si possono distinguere agevolmente gli assi portanti.
Questo è quindi senz’altro un saggio di filosofia della comunicazione.
Non però di filosofia del linguaggio, ma non perché si voglia sminuire
l’importanza del linguistic turn in filosofia, che è invece decisivo. La ragione
sta solo nel fatto che, per affrontare il tema della comunicazione sul piano
storiografico, si devono necessariamente collegare filosofia del linguaggio
e filosofia del soggetto. Tutte le filosofie del passato hanno infatti come
oggetto non il linguaggio, ma la soggettività che pensa e agisce.
L’interesse teoretico ha trovato però la sua legittimazione filosofica, proprio sul terreno della linguistica e della filosofia del linguaggio del
novecento. Esso concerne infatti una nozione, che è stata identificata
con chiarezza ed è entrata in filosofia, solo nell’ultimo quarto del novecento, grazie soprattutto al lavoro in buona parte cooperativo di Apel e
Habermas. È la fondamentale nozione di ‘pretesa di validità’ (validity claim).
Nel nodo della pretesa di validità si intrecciano l’interesse storiografico
e quello teoretico, perché è probabilmente in questo senso, che si deve intendere il famigerato principio protagoreo dell’homo mensura. La conferma
ce la dà lo stesso Socrate, contrapponendo al relativismo del sofista la modestia del proprio sapere di non sapere. Se infatti la pretesa di validità deve
avere un corrispettivo psicologico, questo non può che essere la presunzione.
In un precedente studio, ho iniziato a raccogliere le tracce della pretesa
di validità, per tentare di delinearne la storia nei suoi tratti essenziali a partire già dalla filosofia antica1. L’opera è difficile, per la mancanza ancora
quasi totale di ricerche storiche sulla nozione, e in generale sulle teorie della comunicazione. Naturalmente i termini con cui essa viene indicata variano con i filosofi che la trattano, ma sotto questa differenza, per così dire, di colore, si può riconoscere lo stesso oggetto.
Per determinare quest’oggetto al di là dei pur ampi confini di una filosofia del linguaggio, è quindi indispensabile l’equivoca nozione di presunzione, che trascina con sé quella correlativa, e non meno obliqua, di modestia
(o all’inverso). Presunzione e modestia diventano così per noi il filo tematico, sul cui schema oppositivo si possono legittimamente interpretare le
obiezioni filosofiche di Socrate a Protagora, da ricostruire sul piano storiografico.
Si è visto, che gli argomenti fondamentali dei due grandi rivali si prestano, a essere indagati sul modello di questa antitesi valoriale, in virtù soprattutto del vivace spirito polemico di Socrate. L’argomento sofistico, da lui
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2011.
Cfr. C. D’Errico, La monade nuda. Storia dell’idea di intersoggettività, Loffredo, Napoli
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avanzato contro Protagora, inciderà notevolmente e in molti sensi sul pensiero occidentale. Ne seguiremo l’evoluzione storica nella regione poco
esplorata dove dialettica e retorica, ovvero filosofia e letteratura (o psicologia), si confondono.
Eleggere Protagora ad assertore, forse inconsapevole, della presunzione, quindi non è affatto un ritrovato euristico, ma consegue innanzitutto
dell’auto-elezione di Socrate a paladino della modestia, secondo le sue intenzioni apertamente dichiarate. È comunque indispensabile ai fini dell’interesse teoretico e di quello storiografico. Ciò comporterà l’uso di categorie sia della filosofia del linguaggio che della filosofia del soggetto. Queste
si potrebbero d’altronde anche intendere come due registri di uno stesso
organo, da usare a seconda delle circostanze della ricerca.
In questo senso, si può anticipare che tra gli strumenti della linguistica
che, in questo lavoro, vengono trasferiti all’analisi di problemi della filosofia del soggetto, c’è il procedimento commutativo. Dalla pragmatica proviene la diade concettuale semantico-pragmatico. Per certi aspetti il procedimento è simile a quello di Hösle, che usa momenti e rapporti della storia
del pensiero antico, come modelli per la posizione dei problemi fondamentali, e altro ancora.
È però necessario un brevissimo chiarimento preliminare dell’antitesi
semantico-pragmatico, che è di importanza strutturale in questo studio e
di grande rilevanza nell’attuale temperie culturale. Ha pienamente ragione
Apel a considerare la «svolta pragmatica», intervenuta nella filosofia del secondo novecento, essenziale quanto quella linguistica. Pragmatica e pragmatismo, come atteggiamenti conoscitivi, non sono però da confondere.
La prima è un procedimento o un metodo, mentre il secondo è un criterio
di valutazione. Si può dire, in chiave analogica, che la pragmatica differisce
dal pragmatismo quanto la logica dall’ideologia.
Nella linguistica del novecento, a partire da Bühler fino a Morris e a
Austin, si avvia un vero e proprio cambio di paradigma, che interessa appunto i due procedimenti. Si è venuto palesando progressivamente, che il
problema del significato non può più essere impostato nei tradizionali
termini aristotelici, cioè semantici. In questi termini, esso consiste esclusivamente della parola e delle sue combinazioni, completamente astratte
dall’uso reale.
Inizia finalmente, o forse torna, a farsi chiaro, che una componente
fondamentale del senso di un atto linguistico sta nell’intenzione del parlante. L’intenzione a sua volta è comprensibile, solo nel contesto reale dell’interazione tra il parlante e gli interlocutori. Questo è il piano della componente pragmatica della lingua, sulla base appunto della quale Protagora aveva dato inizio a questa scienza.
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La differenza tra i due tipi di analisi è il corrispettivo teorico della fisiologica ambivalenza funzionale della lingua, che Habermas definisce la «duplice struttura pragmatico-proposizionale» degli atti linguistici. Per la sua
congruenza con il tipo di problemi da affrontare, in questo saggio la diade
semantico-pragmatico ricorre anche in contesti non strettamente linguistici.
Si possono nutrire dubbi sulla legittimità di questo eclettismo analitico.
La riserva si potrebbe però estendere a tutto il lavoro, che procede, quasi
in ogni sua parte, usando sia gli strumenti della filosofia del linguaggio che
quelli della filosofia del soggetto. Di un tale metodo questo saggio, pur
senza averne l’intenzione, sarebbe un esempio di applicazione. Della validità di questo procedimento, come di tutti gli altri, potranno far fede solo i
risultati. Dei buoni metodi va infatti predicato quello che Cristo disse dei
buoni maestri: “Li riconoscerete dai frutti”.
Introduzione
In un’introduzione può trovar luogo l’aspetto biografico della ricerca,
se serve a gettarvi luce. Taccio della mia personale posizione in tema di
presunzione e modestia, perché risulterà dal prosieguo, se non lo è già.
Sarà però già chiaro il mio orientamento verso la scuola filosofica, che si
può chiamare “ermeneutica pragmatica” o anche “trascendentale” (Apel,
Habermas, Hösle, ecc.). Quando ne presi conoscenza, essa mi sembrò
quella che meglio applicava i risultati della tradizione filosofica, al problema sempre più centrale della comunicazione, che non è identico a quello
della lingua.
In particolare, con la nozione di “pretesa di validità”, mi sembrò di ricevere finalmente la risposta a un interrogativo che mi ponevo da molto
tempo, se non da sempre. Quello su che senso potesse avere la presunzione nelle relazioni umane, soprattutto nel campo della comunicazione del
sapere. Ancora però non vedevo il filo che, e contrario (in più sensi), doveva
inevitabilmente portarmi a collidere frontalmente con le posizioni fondamentali di Socrate. Il filo iniziava a districarsi solo con la progressiva scoperta delle buone, anzi ottime ragioni della sua controparte.
Facendomi un’idea più chiara della teoria intersoggettiva di Fichte, mi
ero accorto infatti che essa presentava notevoli somiglianze con qualcosa
che ricordavo di aver letto in Platone, e precisamente nel Protagora. Non si
trattava però di idee di Socrate o di Platone, bensì di idee che essi avversavano, e cioè quelle appunto di Protagora, l’iniziatore della Sofistica.
Il fatto stesso, che somigliassero a quelle di Fichte, attestava evidentemente che queste idee avevano molto poco a che vedere con quelle, che
comunemente vengono attribuite ai sofisti. Pur non avendo mai lavorato
prima sulla filosofia antica, la mia storia dell’idea di intersoggettività partì
allora dal V secolo a. C. Parallelamente iniziavano ad affiorare le prime
crepe nel mio mito di Socrate, già scosso dalla interpretazione hegeliana
del suo processo.
Socrate è il più grande fautore della libera coscienza, e resterà per sempre il monumento alla libertà che va alla ricerca di se stessa. C’è solo il
problema che, pur restando il monumento che è, egli potrebbe diventare il
secondo nella serie degli iniziatori del moderno mondo individualistico,
almeno agli occhi della critica più aggiornata. Ciò però, unicamente nel
caso che si portasse avanti in modo significativo la revisione storiografi-
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ca, che Hegel ha solo avviato, e soltanto per il processo di Socrate e per
Gorgia.
Il filosofo tedesco ha certo il grande merito di avere per primo sollevato la lastra tombale del moralismo, sotto cui la tradizione ha sepolto la
Sofistica. Egli ha interpretato questo movimento come un fondamentale fenomeno progressivo che, in stretta dipendenza dalla «grande svolta
della storia», si connota come vero e proprio «illuminismo attico». E, se
«Socrate non è spuntato dalla terra come un fungo», ne fa certamente parte, occorre aggiungere in questi casi, integrando doverosamente le reticenze critiche di Hegel, quando si tratta dei classici.
Il grande idealista esprime considerevoli apprezzamenti per la filosofia
dei sofisti e anche di Protagora. In conclusione però il suo giudizio sull’abderita non si stacca affatto dalle evidenti deformazioni interpretative, da
lui stesso denunciate, anzi vedremo che sul punto decisivo addirittura le
aggrava.
Prendendo le idee dell’autore più seriamente di quanto egli stesso non
abbia fatto, occorre allora rivedere non solo la figura di Socrate, come
Hegel iniziò lodevolmente a fare, ma anche e soprattutto la sua filosofia.
Se l’hegeliana critica etica di Socrate ha avuto come pendant la riabilitazione
delle folte giurie ateniesi, la critica teoretica, cui va indubbiamente sottoposta la filosofia del maestro ateniese, non può che far apparire in nuova
luce quella di Protagora.
Questo è il compito che mi si è imposto, senza che io lo avessi cercato.
Anzi, fino a cinque o sei anni fa, non solo non pensavo di dovermi occupare del pensiero antico, ma non avrei mai creduto, di dover prendere posizione in filosofia contro Socrate e Platone, e ancora meno contro Hegel.
Visto che siamo in tema di presunzione, devo precisare che il mio compito
non è certo quello di continuare la revisione avviata da un gigante del pensiero, senza la quale la mia modesta ricerca non sarebbe nemmeno partita.
L’impegno che ho incontrato sul mio cammino, e che torno volentieri
ad accollarmi con questo lavoro, è soltanto quello di segnalarne la persistente necessità, se è possibile con buoni argomenti. Questa critica alla critica di Socrate non ai sofisti, ma soltanto a Protagora, è però solo la necessaria pars destruens del compito. L’aspetto più importante, che ha segnato il
punto di svolta nei miei interessi storiografici, è infatti la ricostruzione delle idee del primo sofista, che come minimo vanno chiamate pionieristiche.
È necessario, anche solo per misurare l’opera di revisione, che si
sgomberi innanzitutto la strada dall’errore grave e comune, che consiste
nell’estendere in varia misura a Socrate il pensiero del suo allievo. La “questione socratica” è tuttora inesorabilmente aperta. A tal fine, occorre tener
fermo che la variante platonica del pensiero di Socrate è solo una scuola,
che si aggiunge ad altre tre almeno, anche se è la più importante. Tutte
Presunzione e Modestia
provengono in linea diretta dal maestro e si sono formate intorno ad allievi, come Antistene, Euclide e Aristippo, che erano vissuti al suo fianco.
Maier sostenne a suo tempo che erano tutti più o meno scettici, come
in buona misura il loro maestro: «Se assolutamente si vuol fare di Socrate
un filosofo scientifico, è molto più ovvia un’altra concezione, quella cioè
che fa consistere l’opera della sua vita in un’attività negativo-critica»1. L’aspetto scettico del magistero socratico è evidente in particolare nella scuola megarica, che produsse il paradosso del mentitore e preparò il successivo scetticismo, nel quale finì, guarda caso, anche l’accademia platonica.
Per Maier, lo scetticismo che in Socrate ha un significato essenzialmente «protrettico», da lui passa alle scuole con accentuazioni che diventeranno radicali. Per l’essenziale egli ha ragione. Hegel stesso ammette, che
«Socrate […] non si proponeva affatto di possedere una scienza»2. Questo
è il lato da considerare, per distinguerlo chiaramente da Platone. È su questa base che occorre allora correggere la tradizione, reinterpretando alcuni
aspetti della filosofia socratica, ben oltre la necessità di differenziarlo dal
suo più grande allievo.
Al fine di ricostruire dal testo platonico la filosofia di Protagora, muoviamo da un’anticipazione euristica. L’ipotesi è che una parte importante
della filosofia di Socrate, in particolare due o tre suoi principi fondamentali, consti di nient’altro che di obiezioni che egli muove al sofista. La stessa
vulgata tradizionale autorizza a sostenerlo, sia pur con limitazioni miranti a
preservare l’immagine del maestro. Con l’ipotesi della stretta correlazione
antitetica, che lega la filosofia di Socrate a quella di Protagora, si può tentare di leggere in controluce, nelle obiezioni di questi, le idee del sofista.
Platone le presenta infatti in modo assolutamente disorganico.
È chiaro comunque che la necessaria reinterpretazione non può certamente farsi, se continuiamo a guardare a Socrate come al monumento che
la tradizione ha eretto nel deserto. Per la verità la tradizione ha eretto quel
monumento nella colpevole desertificazione, da lei stessa operata con la
damnatio memoriae degli autentici contemporanei del filosofo ateniese, e anche precursori, che sono esclusivamente i sofisti.
Essa stessa li accredita come gli interlocutori di Socrate di gran lunga
privilegiati, purtroppo però solo previo l’annichilimento delle loro idee,
e in modo speciale di quelle di Protagora. Come se si facesse un onore a
1 H. Maier, Socrate. La sua opera e il suo posto nella storia, trad. Giovanni Sanna, La Nuova
Italia, Firenze 1978, I p. 301.
2 Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. E. Codignola e G. Sanna, La
Nuova Italia, Firenze 1985, II p. 55. Le citazioni da Hegel sono in genere tradotte da me.
Come indicazione, dò però il luogo del traduzioni italiane correnti.
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Socrate, facendolo competere con gente che non può avere un serio barlume di ragione, e questo addirittura per antonomasia.
Per l’essenziale Socrate è certamente un pensatore antitetico e, se non
fosse per il suo legalismo tonalizzato miticamente, per certi versi anche
anarchico, come attesta la variante cinica del suo pensiero. Per molti aspetti somiglia a Nietzsche. Questi però non ha mai voluto accorgersene, intento com’era alla misologica ricerca delle sorgenti di quel Nilo tossico,
che appariva ai suoi occhi il Cristianesimo.
Il carattere scettico-anarchico del pensiero del filosofo ateniese è attestato espressamente dai suoi principi fondamentali, appena li si guardi
senza i gravi pregiudizi stratificatisi nella tradizione. Come infatti il fondamentale principio socratico della ragion pura è il sapere di non sapere,
così quello decisivo della ragion pratica è la non insegnabilità della virtù. A
volerlo prendere alla lettera, quello di Socrate sarebbe scetticismo puro.
È vero che, al di là della sua modesta professione di ignoranza, egli ha
poche certezze di ordine morale, per le quali si è meritato gli attacchi dello
stesso Nietzsche (ad es.: è meglio subire il male che farlo; si devono sempre rispettare le leggi; si deve parlare secondo la propria convinzione, e
poco altro). L’atteggiamento fondamentale di Socrate è però quello del
polemista, che si assume per vocazione l’onere dialettico dell’antitesi, ed è
lui stesso a presentarsi così.
Questa descrizione certo non contrasta con l’immagine accreditata dalla tradizione, che si dimentica solo di tirare le conclusioni. È notorio che il
primo interesse di Socrate, più che la costruzione di un sapere positivo, è
confutare le certezze colpevolmente facili, in materia di verità e soprattutto di virtù. Questi caratteri che, a pensarci bene, sono esattamente gli stessi che si attribuiscono ai sofisti, acconciati al monumento, non si sa perché, fanno tutto un altro effetto.
Al confronto con il suo maestro, Platone è un filosofo tetico (forse
“sintetico”, secondo la nota classificazione di Hösle), che invece crede nel
sapere positivo. Pur di «salvare» l’oggetto di questo sapere, arriva finanche
a eseguire l’edipico «parricidio» di «nostro padre Parmenide» (soph. 241d),
descritto altrove come «venerando e terribile». Evidentemente egli considera l’eleate il padre della filosofia, come d’altronde il suo ammiratore Hegel.
Per la sua attitudine filosofica costruttiva, Platone somiglia molto di più
a quello che veramente fu Protagora, piuttosto che al suo maestro. Verso il
sapere positivo Socrate mostra infatti un asciutto distacco. Egli ritiene importante solo il sapere morale, se pure lo ritiene possibile, visto che dice di
regolarsi nell’agire piuttosto sul sentimento e sulla retta opinione che sul
sapere. In ogni caso crede sia impossibile insegnarlo.
Se riusciamo per un momento a fare epochè (sospensione del giudizio)
dai noti pregiudizi millenari, che velano il nostro sguardo, il gioco dei ruoli
Presunzione e Modestia
cristallizzatosi nella tradizione si rovescia completamente. Se per sofista intendiamo lo scettico, allora il sofista è certamente Socrate e non Protagora.
Se invece per sofista intendiamo colui che «fa diventare forte il discorso
debole», opponendo considerazioni di natura essenzialmente retorica, contro buone ragioni filosofiche dell’avversario, anche in questo caso il sofista
è sempre e soltanto Socrate.
Di per se stesso, il fatto che la formula sia una sicura citazione da Protagora e possa contenere il suo programma retorico, non significa niente ai
fini del giudizio di merito. Le opinioni, in filosofia come dappertutto, vanno comprese e interpretate unicamente per se stesse, e cioè soltanto per
ciò che è detto espressamente nella forma usata dall’autore. Non invece
come conseguenze inferite da prese di posizione di carattere generale, che
si possono attribuire anche del tutto giustificatamente a un filosofo3.
Confrontiamo queste posizioni di Socrate con quelle di Protagora. La
filosofia del sofista nella storia precede subito la sua e per l’essenziale, come si cercherà di mostrare nel seguito, è senz’altro una filosofia tetica o
positiva. Anzi, se la tesi non suona scandalosa, è addirittura una filosofia
sistematica. Il primo dato da rivedere è che due tra le più importanti di
quelle, che comunemente sono ritenute posizioni autonome e originarie di
Socrate, e cioè 1) il sapere di non sapere e 2) la non insegnabilità della virtù, potrebbero invece non essere affatto tali.
Innanzitutto è chiaro che, trattandosi di due negazioni, dipendono da
ciò che negano. Le si fraintende invece con il riferirle esclusivamente alla
morale, che forse molto più di Dio è l’asylum ignorantiae dei filosofi, girandole così a tout le monde. In realtà è chiaro come il sole che due, dei principi
fondamentali del pensiero di Socrate, non sono che le nude antitesi dei
due principi fondamentali del pensiero di Protagora, e cioè 1) l’homo mensura e 2) l’educazione reciproca.
È lo scetticismo atteggiato a modestia del sapere di non sapere, a opporsi al criterio dell’homo mensura. È Socrate che pratica l’antilogia con Protagora, e non certamente il contrario. La portata del criterio protagoreo è
ancora tutta da comprendere. Dopo però gli sviluppi filosofici dell’ultimo
novecento, esso non può più essere liquidato come mero scetticismo, al
modo dei due ateniesi, secondo i quali l’homo mensura semplicemente renderebbe «ogni uomo sufficiente a se stesso per la conoscenza» (Theaet.
169d).
Allo scetticismo condurrebbe invece proprio il percorso che partisse
dai principi di Socrate. Nemmeno potrebbe partire, dato che sono scettici
fin dall’origine. Al contrario, con la semplice traduzione nei termini della
filosofia del linguaggio, il principio protagoreo si emancipa da ogni misti3 Cfr. Id.,
Storia della filosofia, cit., I p. 54 e sgg.
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ficazione. Scompaiono di colpo gli aspetti negativi che la tradizione ci ha
abituato ad associare a Protagora, solo perché è un “sofista”. Primo fra
tutti lo scetticismo. Come per compensazione, questo carattere si trasferisce proprio a Socrate e, anche se in misura diversa, a tutte le sue scuole,
potendosi salvare con certezza il solo Platone. E qua il discorso si fa interessante.
Quali sono le fonti di Platone? Anche includendo naturalisti, pitagorici,
eraclitei ed eleati, resta ancora una quantità di nozioni, di argomenti e
di principi, che non può aver inventato tutti da solo. Se ha ragione Maier,
Socrate dal lato tetico aveva poco da proporgli. Non molto più di Gorgia.
E Protagora? Quale storico della filosofia ha mai preso in seria considerazione l’ipotesi, che Protagora possa essere stato una fonte essenziale per
Platone? Eppure era lì, quasi davanti ai suoi occhi, nelle parole del maestro. Nessuno ha mai dato il minimo credito alle numerose testimonianze
in questo senso, forniteci dalla stessa tradizione.
Tutto ciò solo perché si parte precisamente dal pregiudizio di Anito, il
mortale nemico di Socrate. Volendo poi restare nei termini della vulgata,
non si capisce nemmeno perché i due siano nemici, visto che entrambi si
oppongono ai sofisti per gli stessi motivi e quasi con lo stesso fanatismo.
La differenza sarebbe solo che Socrate parla a ragion veduta e Anito no?
Questi sostiene infatti che non c’è bisogno di conoscerli, per sapere che
dai sofisti non ci può essere niente da imparare: «Esperienza o no, è facile
per me sapere costoro chi sono, sia conoscendoli che no» (Men. 92c).
Nel seguito evidenzieremo con l’asterisco i punti, per i quali si potrebbe ragionevolmente considerare Protagora una fonte di Platone*. Ritrovare le idee del sofista, in ciò che l’ateniese presenta senza riferimenti a fonti,
ha l’unico scopo di demistificare la sua falsa immagine di scettico. Occorre
portare in piena luce il lato tetico (quasi tutto) della sua filosofia e l’impegno civile da philosophe illuminista, adempiuto con una profondità teoretica degna di Platone o di Kant.
A differenza loro però, Protagora ha come interesse principale la comunicazione. Solo la svolta linguistico-pragmatica, dell’ultimo quarto del
novecento, poteva allora gettare sulla storia della filosofia quel minimo di
luce sufficiente, a distinguere appena un po’ meglio l’ombra enigmatica del
sofista.
Basta un’occhiata ai principi più importanti dell’abderita, per convincersi di come stanno effettivamente le cose. Il criterio, cioè l’homo mensura,
è la nozione fondamentale della filosofia di Protagora. Lo assumiamo
quindi come principio 1. Esso dice:
1. «L’uomo è misura di tutte le cose, delle essenti per quanto sono e delle
non essenti per quanto non sono». (Theaet. 152a).
Presunzione e Modestia
Questo è il principio che per Socrate è il manifesto dello scetticismo e,
ancora peggio, la demagogica legittimazione dell’umana presunzione di sapere. È contro di esso che ha dovuto affilare le armi dialettiche della modestia, precisamente con questo tipo di motivazioni:
«Come faremo a trattenerci dal dire che Protagora faceva queste affermazioni per ingraziarsi la folla?» (Theaet. 161e).
Il criterio protagoreo appare a Socrate come la diagnosi di un medico compiacente, che per basso interesse certifica la buona salute di chi è
affetto da una mortale malattia dell’anima. Protagora stesso gliene dava
d’altronde adito, usando la metafora del medico o, in subordine, quella
dell’agricoltore, per spiegargli in che cosa consistesse il ben remunerato
lavoro del sofista.
Sul piano della comunicazione del sapere teoretico, l’homo mensura, tradotto nei termini della pragmatica del linguaggio, significa che il parlante
(l’io) pone se stesso come norma della verità di tutti i propri enunciati. In
questo modo il criterio viene a coincidere perfettamente con il primo
principio fondamentale della pragmatica trascendentale, e cioè che con
ogni atto linguistico il parlante avanza necessariamente una “pretesa di verità”. La sua retroversione, ai nostri fini, nei termini della filosofia del soggetto, dice che, in ogni presa di posizione e in ogni scelta, il soggetto presume (cioè pre-assume) universalmente di sapere.
Da ciò discende, che il presupposto pragmatico-trascendentale, oltre
che nel discorso, vale anche per qualsiasi azione umana che abbia un senso. Così in realtà è, e questo sembra sia giunto a capire Hegel nella fase
immediatamente successiva alla Fenomenologia. Dice infatti il filosofo tedesco:
a) «Nell’azione [...], in quanto azione di un essere razionale, sta che essa è
qualcosa di universale, per mezzo di cui è posta una legge [Gesetz]». b) Il
soggetto infatti, in ogni sua azione, «vuole essere la regola [Regel] di un
modo di agire razionale e valido universalmente in sé e per sé» 4.
Il «vuole essere» (sein will) di Hegel è un importante segnale pragmatico-trascendentale, per la sua stretta affinità semantica con la pretesa di validità, e con ciò che qui viene problematicamente indicato come ‘presunzione’. In effetti “voler essere”, “pretendere di essere” e “presumere di essere”, in questo senso, sono sinonimi.
4 Id., Lineamenti di filosofia del diritto, cur. Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1998, p. 207
e p. 263.
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