Il Logos disperso nella Foresta nera
- Carlo Galli, 11.12.2015
Martin Heidegger. Il primo volume dei «Quaderni neri», scritti dal filosofo tedesco negli anni del
suo «creativo tacere». L’adesione al nazismo e la rapida presa di distanza dal regime perché ritenuto
espressione di un «materialismo etico»
Il primo tomo dei Quaderni neri di Heidegger, relativi agli anni 1931-1938 (Bompiani, pp. 702, euro
28) tradotto da Alessandra Iadicicco – documenta un solitario pensare in atto, verso il superamento
dell’esistenzialismo di Essere e tempo (che l’autore reputa inadeguato), dell’idealismo tedesco e di
ogni scientismo: in pratica, della filosofia moderna e della sua metafisica, e dell’intera tradizione
filosofica, che Heidegger vuole mettere in discussione nei suoi presupposti originari. Alla ricerca del
cono d’ombra da cui ha origine il Logos occidentale, che ne è immemore, Heidegger destruttura la
tradizione filosofica facendo della filosofia un domandare – un porre l’unica domanda sulla verità
dell’Essere a partire dall’«esser-ci».
E il domandare non approda alla conoscenza di un concetto ma all’essere esposti «all’assalto
dell’Essere», all’emergenza di un’Origine, di un inizio che non si coglie mai, che sempre si ritrae ed
eccede, che rispetto a ogni pensiero è più inquietudine che fondamento. La filosofia non è, come
voleva Hegel, «il tempo appreso in pensieri»; è pensare contro l’epoca, è un «secondo inizio» dopo
quello dei presocratici, tradito da Platone fino ai nostri giorni.
L’incivile selvatichezza
Lungo questo cammino di «demolizione», di solitaria e incivile selvatichezza, Heidegger incontra il
nazismo, che definisce come «principio barbarico», come la nuova «posizione fondamentale» che
consente di porre la domanda sull’Essere, e quindi di accedere alla negazione dell’intellettualismo e
della mediocrità piccolo-borghese, come la «risolutezza del rinunciare e del domandare» (a cui è
rivendicato anche il Discorso del rettorato). Nel nazismo l’«esser-ci» prende dunque il corpo del
popolo, e il filosofo solitario si scopre seguace del Führer. La filosofia è azione, e il «secondo inizio»
è appunto il «nazionalsocialismo spirituale».
La disillusione di Heidegger è rapida. Il nazismo è presto reinterpretato come una «visione del
mondo» tra le tante, come una riverniciatura del mediocre mondo civilizzato, come «materialismo
etico» cioè come marxismo rovesciato, come regno della piccolezza e della bassezza, come
«americanismo», e il popolo è ridimensionato al Man, all’esistenza inautentica. Nessuna
discontinuità, quindi, ma anzi la continuità del mondo piccolo-borghese, plebeo,
democratico-egualitario, moderno – e intanto Heidegger scatena una violenta polemica contro i suoi
critici nazisti –.
I Quaderni ci mostrano poi Heidegger, ancora più solitario, teorizzare un «lungo e creativo tacere» e
avviarsi verso le riflessioni sulla tecnica e sul nichilismo come verità della metafisica occidentale (in
cui il nazismo viene inserito), su Nietzsche «non deturpato dai contemporanei» (cioè denazificato), e
sui «venturi», i pochi che nella nuova storia comprenderanno radicalità della sua filosofia.
L’antisemitismo è qui più implicito che esplicito (nei Quaderni successivi si mostrerà più
chiaramente); tuttavia Heidegger non rifiuta la tematica della razza ma lamenta semmai che il
nazismo la tratti solo in modo biologistico e quindi non «spirituale». In ogni caso, è scioccante che
l’essenza antiumana del nazismo non sia vista, che non faccia problema; che, benché l’adesione al
nazismo non avvenga sulla base dell’antisemitismo, il «movimento» non appaia subito come
ripugnante; che l’addio al nazismo (ma non al pregiudizio antisemita) sia motivato solo dal fatto che
esso è moderno, interno alle logiche della tecnica e del progresso; e che la condanna della modernità
sia emessa non a partire dal suo esito criminale ma dalla sua piatta mediocrità, dalla sua banalità,
conseguenza dell’oblio dell’Essere.
Non certo da oggi ci si chiede come sia possibile che il pensatore capace di criticare la tragedia della
vita quotidiana dei «piccoli uomini» non abbia visto la tragedia specifica indotta dall’antisemitismo
proclamato dal nazismo. In realtà, come non si può dire che il nazismo di Heidegger sia un incidente
biografico insignificante dal punto di vista teorico, un esempio della banalità del genio, così è
sbrigativo sostenere che sia una grande «scorrettezza» politica, segno di un grande filosofare; ed è
anche fuorviante affermare che l’antisemitismo sia la molla nascosta di tutto il suo pensiero.
Il dominio della modernità
Il problema è altro, teorico, e quindi ancora più grave. E sta nel fatto che la filosofia dell’Origine è
autistica e indeterminata, priva di rapporti col mondo; e di conseguenza è indifesa davanti ai
contenuti determinati in cui di volta in volta si imbatte; che la risolutezza demolitoria della «filosofia
sulla filosofia» è vuota passività occasionalistica; e che Heidegger può essere portatore del
pregiudizio razziale, e indifferente alle sue conseguenze, perché ha distrutto ogni possibilità di
giudizio; per lui, la modernità è impresa di dominio perché è metafisico oblio dell’Essere, a cui si
contrappone il risoluto domandare, il destrutturare: e tanto basta – e quindi gli è preclusa anche la
negazione determinata del capitalismo come specifica forma di dominio.
Insomma, non è la filosofia ad adattarsi al pregiudizio, a venire dopo di esso per dargli una veste
presentabile, ma è il pregiudizio ad accomodarsi in una filosofia che lo accoglie senza problema: una
volta individuata filosoficamente la via della risolutezza, non importa a che cosa si sia risoluti; una
volta identificata la modernità come supremo oblio e sradicamento, si lascia libero lo spazio per
identificarne la figura più adeguata; e questa sarà, negli ultimi Quaderni, anche «l’ebraismo
internazionale» come qui è il cristianesimo.
Prigioniero di se stesso
All’opposto filosofico, il giovane Hegel faceva dell’ebraismo l’emblema non della adeguazione ma
della mancata conciliazione con la modernità, opponendolo al cristianesimo, capace di conciliarsi
sviluppando dal proprio seno la filosofia. Ma mentre il pensiero di Hegel è progressivo, e non resta
segnato dall’antisemitismo che ne è solo un tratto episodico e contingente, quello di Heidegger è
tanto abissalmente indeterminato da non avere in sé la forza né l’intenzione di superare se non,
eventualmente, in esclusiva coerenza col proprio «domandare» la contingenza che lo abita.
L’ansia di verità di Heidegger è muta o indifferente davanti alla più radicale non-verità
(analogamente, anche il decisionismo vuoto di Carl Schmitt, pur non essendo mero travestimento del
suo antisemitismo – autentico e costante –, non gli ha saputo evitare le trappole della contingenza
storica).
Prigioniero di se stesso, come scrisse Hannah Arendt, che lo amò, passivo nella sua attività e
gerarchico nella sua libertà, come scrisse Marcuse, che dopo il 1933 lo disprezzò pur
riconoscendogli di essere stato da lui introdotto alla filosofia, Heidegger è rischioso fino all’aporia e
all’assurdo se lasciato a se stesso, se non è letto con la consapevolezza che la filosofia non è
esercizio da salotto o da talk show ma non è neppure domanda destrutturante posta nella solitudine
più abissale e spettrale; che è relazione non solo con i venturi ma anche con i contemporanei; che
vive nella città, insieme agli «ultimi uomini», anche se per separarsene, o per separarla e dividerla;
che se non è una «visione del mondo», non è neppure un addio al mondo della comune umanità; che
se la parola può darsi ormai solo come frammento, non può essere tanto criptica da risultare
incomprensibile e da non saper comprendere la sofferenza del mondo (e anzi da fare del popolo più
sofferente la figura della colpa filosofica dell’umanità).
Le domande del bambino
Scrive Heidegger nei Quaderni neri che una della due G del suo cognome significa Güte, «bontà, non
compassione». Ecco che cosa manca al filosofo della Foresta Nera: la capacità di criticare il mondo
ricercando che cosa ci fa «soffrire insieme agli altri», e che cosa ci fa agire insieme agli altri. Il
«grande bambino che pone grandi domande», come egli definisce il filosofo, cioè se stesso, restò
aggrappato a quelle domande e non volle darsi risposta, e quindi non seppe crescere e agire come
uomo fra gli uomini. Perché il Male non potesse più abitare nella solitudine della sua filosofia, questa
ha dovuto essere urbanizzata e civilizzata da altri: meno grandiosamente radicali, ma consapevoli
che pensare contro la filosofia non può equivalere a pensare contro l’uomo
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