Rapporto Corporate EFIGE Aprile 2011 Undicesima indagine sulle imprese manifatturiere italiane 022011 A cura di Andrea Brasili, Responsabile editoriale [email protected] Luigia Mirella Campagna [email protected] Elena d’Alfonso [email protected] Silvia Giannangeli [email protected] Attilio Pasetto [email protected] Antonio Riti [email protected] UniCredit Corporate Analysis La ricerca che ha condotto a questi risultati è stata finanziata dal Settimo Programma Quadro dell’Unione Europea (FP7/2007-2013) attraverso l'accordo n. 225551. Per ulteriori informazioni sul progetto è possibile visitare il sito www.efige.org La raccolta dei dati è stata effettuata dalla società GfK Eurisko. Premessa a cura di Roberto Nicastro Senza catastrofismi, senza drammi, non si può non osservare che, lungo tutte le fasi di un intero ciclo economico durato approssimativamente un decennio (dal 2002 al 2011), caratterizzato dalla più dura recessione globale dal dopoguerra ad oggi, l’economia italiana ha continuato a mostrare un ritmo di crescita più lento degli altri paesi, una capacità competitiva, nel complesso, calante. Intendiamoci, questa è un’affermazione difficilmente controvertibile ma per quanto evidente, non è per niente semplice, non produce conseguenze automatiche. Nei dibattiti sui media negli anni passati il nick name di “sick man of Europe” è stato utilizzato per diversi paesi, per esempio per la Germania a partire dagli anni ’90 e nei primi anni del 2000; nel 2005 l’epiteto di “malato” d’Europa, l’Economist l’ha assegnato all’Italia. Potrebbe sembrare che diagnosticare una malattia significhi abbastanza automaticamente suggerire una cura, ma non è così in questo caso. Intanto, si può dibattere di chi sia il ruolo di trovare diagnosi e cura, ma è abbastanza chiaro che non è di una banca. Tuttavia, ci sono due motivi per cui diviene di interesse anche per una banca interrogarsi su questi temi. Il primo è quasi una conseguenza involontaria, un prodotto correlato di un’altra attività: la banca ha una relazione individuale con il proprio cliente-impresa, ne vorrebbe conoscere al meglio le caratteristiche per comprenderne potenzialità e rischi, per poterla consigliare se ne è partner, per poterla supportare nell’operatività, se le viene richiesto. Il secondo motivo è che l’ampiezza del ritardo accumulato negli ultimi anni pone la questione in modo così intenso che una banca, che è un’impresa tra le altre imprese, con dimensione più che nazionale non può non essere interessata a capire come può evolvere uno dei suoi mercati di riferimento. Di fatto, bisogna tenere presente che per un paese inserito in un’area monetaria e con vincoli comuni di politica fiscale l’eventuale problema di cui si cerca una soluzione non può essere di regolazione macroeconomica: è, quasi di necessità, microfondato come dicono gli economisti, cioè non può che trovarsi nelle caratteristiche, nelle pieghe dell’operare delle imprese. Inevitabile dunque che nello sforzo, che ci è richiesto, di capire le necessità individuali emerga, qualche volta, uno sguardo d’insieme, un punto di vista più ampio che può dare informazioni rilevanti. La conoscenza dell’impresa e delle sue necessità è il motivo fondante di questo progetto che nasce dalla lunga tradizione dell’indagine sulle imprese manifatturiere (è l’undicesima edizione, la prima risale al 1982) e si proietta verso un futuro internazionale. L’indagine attuale è stata svolta in sette paesi europei e consente di comparare le imprese lungo una dimensione finora inesplorata, ovvero su dati “individuali”. L’indagine consente quindi uno sguardo d’insieme che è necessario quando si parla di comportamenti singoli, altrimenti si resta abbagliati dal particolare: non stiamo parlando né dell’impresa che apparentemente dal nulla, giunge nel suo settore a dominare il mercato e a conquistarne di nuovi, né di quella che invece non ha saputo rendere stabile il suo successo e ha perso progressivamente terreno. Stiamo parlando di un sistema economico che è un aggregato di entrambi i tipi di impresa e che, per dirla tutta, sembra sia al momento caratterizzato da una certa prevalenza del secondo gruppo rispetto al primo. Torniamo alla diagnosi, cercando nelle risposte delle imprese indicazioni su quali fattori possano essere sottesi alle difficoltà che si leggono in aggregato. In un mondo ormai globalizzato è inevitabile partire dalla relazione delle imprese con l’estero: è noto che le imprese italiane siano molto attive come esportatrici, ma la globalizzazione implica sforzi anche in altre direzioni. È necessario infatti Rapporto Corporate I 1 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane che il sistema produttivo sia in grado di comprare e non solo di vendere: l’immagine dell’economia tedesca come “bazaar economy” coniata anch’essa all’inizio degli anni 2000 per sottolineare il rischio di sostituire completamente la manifattura domestica con produzione estere, è diventato ora sinonimo della capacità di approvvigionarsi in maniera efficiente di input intermedi. Su questo terreno, la catena di fornitura delle imprese italiane sembra ancora troppo semplificata, in prevalenza basata su acquisti di materie prime dall’estero. Ancora, l’attività verso il resto del mondo è comunque focalizzata prevalentemente verso l’Europa. Per quanto emerge dall’indagine, si potrebbe coniare la definizione di “globalizzazione incompiuta” per le imprese italiane. L’incompiutezza deriva non solo dal limitato raggio d’azione ma anche dalla prassi con cui è realizzata. In riferimento agli investimenti diretti esteri prevale infatti una modalità che potremmo definire di “internazionalizzazione leggera” - attuata in prevalenza tramite accordi commerciali - oppure con la preminente finalità di delocalizzare - per ragioni di costo fasi dell’attività produttiva. Pochi interventi sono volti ad aprire la strada a nuovi mercati o ad acquisire il pieno controllo di un input intermedio importante o di una capacità produttiva specifica. D’altro canto affinché si realizzi una presenza all’estero più “pesante”e su mercati sia in acquisto che in vendita più lontani, è ineludibile affrontare la questione della dimensione d’impresa. È noto che la dimensione media del settore manifatturiero italiano è notevolmente inferiore ad esempio a quella tedesca (9 addetti contro 35.8) e che il ruolo giocato dalle imprese italiane medie e grandi è ridotto. Il problema non risiede nella piccola dimensione di per sé ma nel fatto che l’accesso pieno alla globalizzazione sia difficile per un’impresa piccola. È però complicato capire perché le imprese italiane non crescano abbastanza. A questo proposito, l’indagine offre indicazioni che fanno riferimento a vincoli esterni ed interni. In primo luogo le imprese indicano esplicitamente come ostacoli che si frappongono alla crescita dimensionale le rigidità di natura burocratico-normativa, confermando che il contesto istituzionale non favorisce la crescita. Esistono però una serie di indicazioni che si traggono indirettamente attraverso la lettura complessiva dei dati e che fanno riferimento a fattori interni alle imprese: alcune loro caratteristiche infatti sembrano essere in tensione con l’idea della crescita dimensionale. Non è la questione della proprietà familiare (diffusa anche in altri paesi e soprattutto in Germania) ma della sua coesistenza con un modello organizzativo molto accentrato, con poca delega ai manager e con una prevalenza di manager comunque legati alla famiglia proprietaria. Questa tensione si manifesta per esempio nel fatto che l’introduzione di innovazioni, che anche se non codificata pure è frequente nelle imprese italiane, è associata con più difficoltà a mutamenti di natura organizzativa, che probabilmente ne renderebbero più redditizi gli effetti. Specchio dello stesso fenomeno è lo scarso utilizzo di strumenti e investimenti in ICT sofisticati di supporto all’organizzazione. Globalizzazione e dimensione sono dunque due temi importanti ma non completamente esaustivi. Esiste infatti anche un tema di posizionamento all’interno della filiera produttiva su scala globale, che sempre più assume un respiro internazionale: se l’obiettivo verso cui le imprese italiane debbano tendere non può essere per tutte quello di divenire il punto di riferimento, terminale o centrale, della filiera, resta fondamentale essere partecipi di questa filiera pur non guidandola. Però per le imprese di un paese ad alto reddito questo vuol dire affermarsi nel ruolo di fornitore di eccellenza; per svolgere questo ruolo l’impresa deve trasformare fattori di produzione di qualità in output di prim’ordine. Anche su questo l’indagine fornisce indicazioni non del tutto positive. Per esempio la presenza di lavoratori stranieri è quasi sempre connessa a produzioni di livello qualitativo basso, come se si rinunciasse all’utilizzo di un 2 I Rapporto Corporate Efige fattore produttivo potenzialmente prezioso, apportatore di competenze, come può essere un manager o un tecnico non italiano, beneficiando dell’accresciuta mobilità favorita dall’Unione Europea e dalla moneta unica. Non solo, nella “auto-valutazione” della qualità dei loro prodotti le imprese italiane sembrano un po’ più timide delle altre. Non si fraintenda, lo sguardo di insieme non restituisce un’immagine pessimistica per due ragioni: la prima è che mette in luce attitudini importanti, sia verso i mercati esteri che verso l’innovazione, pur evidenziando il bisogno di crescere in complessità. La seconda ragione è che contiene esplicite linee d’azione. Che indicazione se ne trae per la banca? Non pretendiamo di (anzi di fronte a certi dibattiti verrebbe da dire pretendiamo di non) essere noi a risolvere questi problemi, ma questi come detto sono microfondati, sono problemi individuali, e allora la banca si proporrà di operare per favorire l’intrapresa di certi mutamenti organizzativi, di spingere alla crescita dimensionale o alla scelta di internazionalizzare in modo differente la propria attività qualora ce ne siano le condizioni, qualora la competizione lo richieda. Certo è che in un mercato finanziario basato principalmente sul credito bancario e che lamenta la limitata presenza di operatori specializzati nell’offerta di capitale di rischio per la crescita di impresa (tutta la filiera che va dal venture capital al private equity e infine al mercato azionario) sarebbe auspicabile costruire una relazione banca-impresa più intensa di quella che, come confermato dall’indagine, ha caratterizzato l’ultimo decennio nel nostro Paese. E per questa via, magari, le imprese del primo tipo, quelle di successo, diventeranno un po’ di più di quelle del secondo. Rapporto Corporate Efige I 3 4 I Rapporto Corporate Efige INDICE SEZIONE 1 - LE IMPRESE ITALIANE NEL CONTESTO CONGIUNTURALE 5 Le imprese italiane nel contesto congiunturale 6 SEZIONE 2 - INDAGINE SULLE IMPRESE MANIFATTURIERE ITALIANE 13 Corporate governance, gestione dell’impresa e forme di aggregazione Le imprese familiari 14 Occupazione, qualità del capitale umano, formazione Management femminile e management familiare 22 Investimenti, innovazione tecnologica e R&S Innovazione e trasformazione organizzativa delle imprese italiane ed europee 30 Internazionalizzazione commerciale e produttiva delle imprese italiane 38 Concorrenza e mercati La percezione della qualità del prodotto nelle scelte delle imprese italiane 48 Finanziamento dell’impresa e ruolo della banca Gli strumenti derivati come copertura e i rischi delle attività internazionali 54 SEZIONE 3 - APPROFONDIMENTI 63 Crisi e innovazione: il ruolo delle strategie per il finanziamento della R&S 64 La forza lavoro straniera in Italia: alcune evidenze a livello d’impresa 70 L’impatto della crisi sulle esportazioni italiane nel 2009. Caratteristiche d’impresa e strategie di esportazione 76 L’effetto della crisi sulle imprese di grandi dimensioni 82 APPENDICE 89 Aspetti metodologici 89 Rapporto Corporate Efige I 5 LE IMPRESE ITALIANE NEL CONTESTO CONGIUNTURALE Rapporto Corporate Le imprese italiane nel contesto congiunturale LE IMPRESE ITALIANE NEL CONTESTO CONGIUNTURALE a cura di Andrea Brasili La fase congiunturale globale pare essere a due velocità: come sottolinea il FMI, sembra ci una parte del mondo che corre e una che gradualmente ricomincia a camminare In questo contesto, e cercando di descrivere la situazione delle imprese italiane manifatturiere, i dati suggeriscono che dopo il brusco calo del 2009 e il graduale recupero registrato nella gran parte del 2010 sembra aver perso un po’ di slancio nelle ultime rilevazioni. Queste poche pagine hanno il ruolo di cercare di fornire il quadro di riferimento, dal punto di vista congiunturale, del tessuto delle imprese manifatturiere italiane visto da dati più aggiornati e, in genere, più aggregati di quelli di cui si discute nel seguito di questo lavoro. Per tracciare questo quadro è utile fare riferimento alle parole del FMI che descrive la situazione attuale come una fase di recupero a due velocità con una parte del mondo che corre e una che gradualmente ricomincia a camminare. Questo si riflette direttamente nei numeri della crescita: il Pil dei paesi sviluppati è cresciuto del 2,5%1 nel 2010 ed è previsto crescere allo stesso ritmo nel 2011, e quello dei paesi emergenti o ad alto tasso di sviluppo che in entrambi gli anni dovrebbero avere un ritmo di crescita del 6,5%. Pur essendo un quadro di ripresa e crescita tutt’altro che esente da rischi (al di là di quelli imponderabili o non di stretta matrice economica di cui abbiamo avuto esempi recentissimi), ce ne sono sostanzialmente due ben evidenti: da un lato, quelli legati ai timori sull’equilibrio fiscale di alcuni paesi, dall’altro, quelli connessi alle dinamiche dei prezzi delle materie prime, che sembrano evolvere in relazione alla crescita espressa dal mondo che corre e quindi non essere compatibili con il graduale recupero dei paesi sviluppati. In questo contesto, è noto che l’economia italiana ha registrato una robusta caduta dalla quale è uscita più lentamente rispetto 8 I Rapporto Corporate Efige agli altri paesi dell’area euro. Il Pil è aumentato dell’1,3% in termini reali nel 2010 (dopo il calo del 5,2% nel 2009), con una crescita dei consumi privati di appena lo 0,6%: le difficoltà del mercato del lavoro, che non ha ancora registrato in maniera convincente un’inversione di tendenza dopo la crisi, rendono debolissima la domanda per consumi; il 2011 si è aperto con un calo delle vendite al dettaglio dello 0,3% m/m e dell’1,2% a/a. In questo contesto, e cercando di descrivere la situazione delle imprese, il punto di partenza è dato dalla dinamica della produzione manifatturiera, che dopo il brusco calo del 2009 e il graduale recupero registrato nella gran parte del 2010 sembra aver perso un po’ di slancio nelle ultime rilevazioni. Il confronto internazionale con i paesi vicini fornisce un’indicazione non particolarmente rassicurante, rendendo evidente il diverso ritmo non solo nella fase storica che ha preceduto la crisi, ma anche nella fase espansiva che l’ha seguita, soprattutto rispetto alla Germania. Quest’ultima ha registrato un incremento tra il punto di minimo di marzo 2009 (aprile per la Germania, maggio per l’Austria) e il livello dell’indice di produzione di gennaio 2011 del 23,9%. Per l’Italia il recupero è stato del 9,8%, ma soprattutto i dati degli ultimi mesi evidenziano una chiara perdita di ritmo, come se la spinta della fase di ripresa fosse già esaurita: il livello dell’indice a gennaio 2011 è lo stesso di maggio 2010. L’apertura al confronto internazionale sui dati di produzione non può che richiamarne un altro, quello sugli indicatori di fiducia delle imprese manifatturiere, che, a partire dalle rilevazioni nazionali, viene armonizzato dalla Commissione Europea e rende disponibili i dati con dovizia di particolari. Anche in questo caso il punto di minimo durante la crisi è quasi simultaneo ed è stato toccato nell’aprile del 2009. In termini di comparazione con i livelli pre-crisi, le imprese tedesche sono più fiduciose oggi di quanto lo fossero all’apice del ciclo precedente e cioè nel periodo tra fine 2006 e la prima metà del 2007, le imprese francesi hanno da poco superato i loro massimi del ciclo precedente, mentre per l’Italia, e ancora di più per la Spagna, questi livelli sono ancora distanti. Un’altra caratteristica che val la pena di notare guardando a questi dati è che la sensazione di dispersione che il grafico consegna è assolutamente veritiera: la distanza a marzo 2011 tra il livello più basso (la Spagna nei dati in questo caso) e quello più alto (la Germania) ci sono 25 punti, il massimo dal 1991 ad oggi. Anche se non è l’oggetto di questo studio, la questione della convergenza nella dinamica delle economie dell’unione monetaria è tema importante, non eludibile nei dibattiti e nelle scelte di politica economica. Le altre informazioni contenute nelle indagini di fiducia delle imprese manifatturiere Ci sono altre informazioni rilevanti nelle indagini sulla fiducia, di solito relativamente poco enfatizzate, ma importanti per avere indicazioni sulla dinamica delle imprese. Queste informazioni sono contenute nelle domande a frequenza trimestrale poste alle imprese. La prima riguarda la capacità utilizzata, che fornisce informazioni rilevanti su quale sia la potenziale pressione ad investire per le imprese, o L’indice della produzione manifatturiera (%) Italia Eurozone Germania Spagna Francia 120 110 100 90 80 Gen-05 Set-05 Mag-06 Gen-07 Set-07 Mag-08 Gen-09 Set-09 Mag-10 Gen-11 Fonte: Eurostat La fiducia delle imprese manifatturiere (%) Italia Eurozone Germania Spagna Francia 20 10 0 -10 -20 -30 -40 -50 Gen-05 Set-05 Mag-06 Gen-07 Set-07 Mag-08 Gen-09 Set-09 Mag-10 Gen-11 Fonte: Commissione europea se, viceversa, un utilizzo non pieno della capacità già installata suggerisca cautela. Si deve tenere presente che anche questo indicatore è risultato delle risposte delle imprese ad una domanda e quindi “contiene” una componente di valutazione idiosincratica, tant’è che le valutazioni delle imprese dei diversi paesi raramente si incrociano. Può essere utile allora, più che dire che il livello di utilizzo della capacità delle imprese italiane è più basso di quello delle imprese degli altri paesi, valutare lo scostamento del livello attuale dalla media di lungo periodo: da questo punto di vista, le imprese tedesche sono le uniche (tra i quattro paesi considerati) per le quali il livello attuale dell’utilizzo della capacità è superiore alla media 2000-2007, mentre, tra gli altri paesi, le imprese italiane sono le meglio posizionate, situandosi al 5,4% di distanza, contro il 6,8% delle francesi e l’8,1% delle spagnole. Non sembra quindi che, sebbene vi sia un margine ancora ampio di capacità inutilizzata essa sia più grave o preoccupante che negli altri paesi, e non dovrebbe costituire di per sè un freno particolare alle scelte di investimento. Rapporto Corporate Efige I 9 Rapporto Corporate L’altro indicatore importante è la percezione delle imprese del proprio posizionamento competitivo nel mercato di riferimento, distinguendo tra il mercato domestico, l’Unione Europea e i mercati extra unione: alle imprese è richiesto di rispondere se la propria posizione competitiva sia migliorata, sia rimasta stabile o sia peggiorata. Anche in questo caso, tenendo presente il livello pre-crisi, sembra che le imprese italiane abbiano recuperato posizioni sui mercati “lontani”, mentre continua a permanere un gap competitivo sia sul mercato domestico che su quello dell’Unione, tra l’altro con la conferma di un nuovo peggioramento negli ultimi mesi (che somiglia al plateau che si nota nei dati di produzione). I profitti dai dati di contabilità nazionale Ma in concreto come evolve la dinamica della profittabilità delle imprese? I dati di bilancio sono informativi in tal senso ma con molto ritardo. Dai dati di contabilità nazionale si può ottenere un’idea grezza di profittabilità lorda (per macrosettore di attività), sottraendo al valore aggiunto il costo del lavoro. Il grafico evidenzia la variazione a/a di questa misura di profitto operativo lordo. I risultati relativi al settore manifatturiero italiano mostrano un recupero del 10,9% nel 2010, dopo il calo del 20,6% nel 2009. Guardando al profilo trimestrale però, i dati confermano il rallentamento registrato nella seconda metà del 2010, con il tendenziale che nel quarto trimestre torna appena sotto lo zero. Il paragone a livello internazionale suggerisce che, da un lato, vi è una differenza notevole con la Germania: la serie storica del margine operativo lordo per questo paese, rappresentata nel grafico sulla scala di destra, a fine 2010 è ancora largamente in territorio positivo (+44% a/a), pur tenendo presente che anche l’escursione negativa del 2009 Le imprese italiane nel contesto congiunturale La capacità utilizzata (%) Italia Eurozone Germania 95 90 85 80 75 70 65 60 2000-Q1 2001-Q4 2003-Q3 2005-Q2 2007-Q1 2008-Q4 2010-Q3 Fonte: Commissione europea La posizione competitiva nei diversi mercati (%) Domestico EU Extra EU 10 5 0 -5 -10 -15 2003 Q1 2003 Q3 2004 Q2 2005 Q1 2005 Q4 2006 Q3 2007 Q2 2008 Q1 2008 Q4 2009 Q3 2010 Q2 2011 -Q1 Fonte: Commissione europea Margine operativo lordo per la manifattura (%) Italia Francia Spagna Germania, sc. Destra 30 80 20 60 10 40 0 20 -10 0 -20 -20 -30 -40 -40 -60 -50 2000 Q01 Fonte: Eurostat 10 I Rapporto Corporate Efige Spagna Francia 2001 Q3 2003 Q1 2004 Q3 2006 Q1 2007 Q3 2009 Q01 2010 Q03 -80 è stata più ampia. Vi è un po’ di differenza anche con gli altri due paesi: le imprese spagnole, con pur un progresso nell’intero 2010 del 6,2%, hanno chiuso l’anno in crescendo (+10,1% nel quarto trimestre), quelle francesi invece presentano un profilo più debole, anche se anch’esso in lieve miglioramento a fine 2010. Livello della produzione e utile lordo per le piccole e medie imprese (%) Variazione utile lordo Livello della produzione 40 30 20 10 0 I profitti delle piccole e medie imprese A questa prima indicazione sui differenziali del ritmo della ripresa all'interno dell'unione monetaria se ne associano altre due, invece di natura microfondata sulla dinamica delle piccole imprese da un lato e delle grandi dall'altro. Sulle piccole ci rifacciamo all’indagine congiunturale che UniCredit conduce insieme a Confapi. Riportiamo qui l’indice di diffusione (che esprime il saldo tra le imprese che vedono una variabile in diminuzione e quelle che la segnalano in aumento), relativo al livello della produzione e alla variazione dell’utile lordo. Come si evince dal grafico, c’è un miglioramento graduale anche se le imprese confermano anche in questa indagine la difficoltà di raggiungere i livelli pre-crisi e la sensazione (l’ultimo dato è una aspettativa per il semestre in corso) di aver rallentato il ritmo. Anche dal punto di vista dei profitti, si evince sul dato di fine 2010 un certo rallentamento, e il saldo di diffusione resta in negativo, indicando quindi che c’è una maggioranza di imprese che segnala un peggioramento. Non stupisce troppo questa pressione sui margini di profitto, soprattutto tenendo presente quanto detto in apertura: a fronte di una domanda debole (soprattutto quella domestica, ancora fondamentale per le piccole imprese), è impossibile trasferire sui prezzi di listino le pressioni provenienti dalle commodities e quindi dai costi. Il grafico mostra l'incidenza delle variazioni nei prezzi di listino e nei costi di produzione, chiaramente spostata a destra (verso gli aumenti dei costi, ed era già così nel primo semestre del 2010). -10 -20 -30 -40 -50 -60 II Sem I Sem II Sem I Sem II Sem I Sem II Sem I Sem II Sem I Sem II Sem I Sem II Sem I Sem 2004 2005 2005 2006 2006 2007 2007 2008 2008 2009 2009 2010 2010 2011 Fonte: indagine UniCredit Confapi - I semestre 2011 I margini per le piccole e medie imprese (%) Variazioni prezzi di listino Variazioni costi produzione 45 40 35 30 25 20 15 10 5 0 < -20 tra -20 tra -9 e -10 e -5 tra -4 e -2 tra -2 e0 0 tra 0 e2 tra 2 e4 tra 5 e9 tra 10 e 20 >20 Fonte: indagine UniCredit Confapi - I semestre 2011 Ci sono altre due caratteristiche che ci preme sottolineare a partire da questa indagine: la prima è che le imprese (quelle che esportano) suggeriscono come la domanda finale proveniente da mercati lontani (extra Unione) continua ad essere ben più dinamica del totale, meno vivace ma positiva quella proveniente da mercati esteri più vicini (l’Unione Europea), stagnante quella derivante dal territorio nazionale. L’altra informazione rilevante riguarda la situazione congiunturale delle imprese per dimensione: l’andamento della situazione corrente e della profittabilità migliorano al crescere della dimensione aziendale. Riguardo al livello della produzione, mentre i saldi di opinione delle imprese al di sotto dei dieci addetti rimangono in territorio negativo, oltre i dieci addetti i giudizi appaiono via via sempre più positivi. Dal lato dell’utile lordo, il saldo resta in territorio negativo per tutte le dimensioni, ma c’è un chiaro miglioramento al crescere della dimensione. Le micro imprese scontano evidentemente la loro oggettiva difficoltà ad andare oltre il mercato nazionale, mentre le imprese di maggiore dimensione riescono ad avvalersi delle migliori opportunità offerte dalla domanda internazionale. Rapporto Corporate Efige I 11 Rapporto Corporate Le evidenze descritte a partire dall’indagine UniCredit-Confapi riguardano prevalentemente imprese piccole e medie. I profitti delle imprese quotate Sulle grandi imprese si può trarre qualche indicazione aggregando le risultanze delle trimestrali o semestrali delle imprese quotate. Senza pretesa di rappresentatività, abbiamo selezionato da Bloomberg una lista di imprese quotate2 ascrivibili al settore manifatturiero per alcuni dei paesi europei, di cui si è finora discusso, calcolando per essi la dinamica di due differenti indicatori di profitto (il net profit ratio e il ROE). Per entrambi la storia pre-crisi è abbastanza variegata: si nota comunque un livello di profittabilità elevato delle imprese spagnole (associabile all’evidenza di un tasso di crescita per l’economia iberica sistematicamente più alto di quello degli altri paesi qui presentati fino al 2007), un’accelerazione nelle performance delle imprese tedesche e una dinamica più contenuta ma generalmente sincrona (con la parziale eccezione del periodo 2007-2008) con quella degli altri due paesi per le imprese italiane e francesi. Poi, almeno per le grandi imprese e contrariamente alle indicazioni relative alla fiducia viste prima, la fase di crisi e l’uscita da essa mostrano co-movimenti estremamente vicini. Tutto questo fino alle ultime date, in cui, come già visto per la produzione e per la fiducia, la performance delle imprese italiane diviene meno brillante. Le imprese italiane nel contesto congiunturale Livello della produzione e utile lordo per classe di addetti (%) Livello della produzione Variazione Utile Lordo sc.destra 60 0 50 -5 40 -10 30 20 -15 10 -20 0 -25 -10 -20 1-5 6-9 10-20 21-49 50-99 -30 100-249 Fonte: indagine UniCredit Confapi - I semestre 2011 Le imprese manifatturiere quotate: il rapporto tra profitti netti e vendite (%) Italia Francia Spagna Germania Dic-09 Mar-11 Italia Francia Spagna Germania Dic-09 Mar-11 10 8 6 4 2 0 -2 -4 Set-03 Dic-04 Mar-06 Giu-07 Set-08 Fonte: nostre elaborazioni su dati Bloomberg Le imprese manifatturiere quotate: il Return On Equity (%) 25 20 15 10 5 0 -5 -10 Set-03 Dic-04 Fonte: nostre elaborazioni su dati Bloomberg 12 I Rapporto Corporate Efige Mar-06 Giu-07 Set-08 Conclusioni Quale quadro emerge da queste indicazioni tra il micro e il macroeconomico, focalizzate sulle performances delle imprese italiane? Cominciamo dalle evidenze positive: la capacità utilizzata è risalita significativamente e un ampio rimbalzo è visibile anche negli altri dati utilizzati. Però la produzione manifatturiera, e in modo molto simile anche l’indicatore di fiducia e le misure di profitto, mostrano una dinamica meno brillante di quella degli altri paesi e un po’ di stanchezza nella fase di recupero, come se dopo lo shock del 2009 si fosse generato uno scalino non del tutto recuperabile. Sintetizzando con uno slogan l’impressione che se ne trae, è che alle imprese italiane manchi un guizzo, un qualcosa, lo sprint finale, il colpo di reni del velocista in vista del traguardo o del saltatore quando è in prossimità dell’ostacolo. Il grafico relativo alla percezione della posizione competitiva delle imprese, per quanto sia il più “aleatorio” dei dati presentati, essendo basato su sensazioni e quindi il più lontano dagli hard data è però importante. Le imprese italiane percepiscono un buon posizionamento sul mercato “lontano” - al di fuori dell’Unione Europea ma questo potrebbe facilmente essere legato non tanto a una maggiore competitività – e quindi a un aumento delle quote di mercato delle nostre imprese su questi paesi, ma alla domanda crescente dei paesi “emergenti”. Quando si passa a considerare l’operatività delle imprese all’interno dei confini dell’Unione Europea, infatti, si incontrano più difficoltà per la concorrenza di imprese che provengono da altrove, probabilmente proprio da quel mondo “lontano” che mostra tassi di crescita a noi oramai sconosciuti. Questo è un classico problema che ha un riscontro macroeconomico, ma che è determinato a livello di impresa e riflette proprio la mancanza di una capacità che altrove sembra essere stata ritrovata: cosa manca davvero è però difficile dirlo, il tentativo non può che passare per un’analisi microfondata, analisi a cui sono dedicate le pagine che seguono. Dall’update del World Economic Outlook January 2011. Quindi prima del tragico terremoto in Giappone e prima di quella che i media definiscono la Primavera Araba, cioè le tensioni politico sociali che interessano la vasta zona dal nord Africa al Medio Oriente. 2 Le imprese considerate sono tutte le quotate nel mercato azionario principale del paese escluse le imprese finanziarie, quelle di servizi e quelle di energy. In totale sono state censite per il calcolo degli indicatori 130 imprese italiane, 200 tedesche, 400 circa francesi e 50 spagnole, le cui risultanze riportate nelle trimestrali o semestrali sono state aggregate come se si trattasse di un’unica impresa. 1 Rapporto Corporate Efige I 13 XI INDAGINE SULLE IMPRESE MANIFATTURIERE ITALIANE Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane CORPORATE GOVERNANCE, GESTIONE DELL’IMPRESA E FORME DI AGGREGAZIONE a cura di Luigia Mirella Campagna La concentrazione della proprietà si conferma elevata nelle imprese italiane. I soci di maggioranza sono per lo più persone fisiche; seguono società finanziarie di gruppo e imprese manifatturiere; la proprietà è poco diffusa tra banche, investitori istituzionali ed enti pubblici. Rilevante il ruolo delle imprese familiari. Permane una forte identità tra soggetto controllante e colui che prende decisioni strategiche. I gruppi sono rari tra le piccole e medie imprese. Il grado di concentrazione della proprietà si conferma elevato nelle imprese italiane. Nel 2008 la dimensione media delle quote sociali detenute dai primi tre azionisti superava il 92%. Il confronto con i grandi paesi dell’Unione Europea inclusi nell’indagine indica che la concentrazione della proprietà non è un fenomeno solamente italiano: la quota cumulata media dei primi tre soggetti risulta essere anche più alta in Germania (97,4%), Francia (95%) e Regno Unito (93,8%). Questa conclusione risulta rafforzata se si guarda alla dimensione media della quota detenuta dal primo azionista (57,4%), nettamente più bassa di quella in Germania (76,7), Francia (71,4%) e Regno Unito (65,5%). In media, l’azionista principale possiede comunque una quota di capitale che gli consente di avere il controllo di diritto della società. Tale quota tende ad aumentare all’aumentare della dimensione aziendale. Tale correlazione, non del tutto intuitiva, trova spiegazione nel fatto che al crescere della dimensione aziendale diventano più diffuse le strutture di gruppo, spesso utilizzate come strumenti di esercizio del controllo. In questi casi, la società controllante, cioè l’azionista principale, detiene in genere una quota di capitale sociale elevata e spesso pari al 100%. Circa la nazionalità dei soggetti proprietari, emerge in Italia una maggiore impermeabilità al capitale estero rispetto ai principali paesi osservati. I soci di maggioranza sono per lo più persone fisiche (82,9%); seguono, a notevole distanza, società finanziarie di gruppo e altre imprese manifatturiere; la proprietà risulta invece scarsamente diffusa tra banche, investitori istituzionali ed enti pubblici. Questo modello si pone in posizione intermedia tra quello tedesco, più accentrato sulle persone fisiche (84,3%) e quello francese, dove l’incidenza delle persone fisiche è più bassa (68%) e lascia spazio maggiore ad altri soggetti proprietari. Si conferma importante il ruolo delle imprese familiari, definite come imprese controllate direttamente o indirettamente da un individuo o da una famiglia. Infine trova riscontro la forte identità tra soggetto controllante e soggetto che prende le decisioni più importanti. In Italia, sono mediamente meno del 15% le imprese che appartengono ad un gruppo, ma la percentuale sale significativamente tra le imprese grandi. Analogo discorso per i legami di affiliazione tra imprese. Rare le operazioni di acquisizione e scorporo. 16 I Rapporto Corporate Efige Concentrazione della proprietà La proprietà delle imprese italiane si conferma concentrata. Guardando alla dimensione media delle quote detenute dagli azionisti principali, si osserva che nel 2008 la quota cumulata dei primi tre soggetti supera il 92%. In maniera complementare, lo stesso fenomeno è evidenziato dalla scarsissima presenza di imprese a proprietà diffusa: infatti, soltanto nell’1,9% delle imprese intervistate la quota di proprietà del primo azionista è inferiore al 10%. Quote medie cumulate del capitale sociale detenute dai primi tre azionisti (%) Italia Grandi imprese 100 96,9 95,0 93,8 92,4 90,7 80 60 40 20 Il confronto con gli altri grandi paesi europei inclusi nell’indagine indica però che l’elevata concentrazione della proprietà non è un fenomeno soltanto italiano: al contrario, la quota media dei primi tre soggetti risulta più alta in Germania (96,9%), Francia (95%) ed anche Regno Unito (93,8%). Solo in Spagna emerge un grado medio di concentrazione lievemente inferiore (90,6%). Il quadro non cambia anche quando si guarda alle quote medie cumulate ponderate per la dimensione aziendale. In generale, tali quote risultano sempre più alte nelle imprese tedesche e francesi rispetto a quelle italiane, qualunque sia la classe dimensionale di appartenenza dell’impresa. D’altra parte, Italia, Germania e Francia risultano simili proprio sotto il profilo della scarsa variabilità delle quote cumulate medie dei primi tre azionisti tra le diverse classi dimensionali osservate. In Spagna e Regno Unito, invece, è emersa una correlazione negativa tra tali quote e la dimensione aziendale: nel primo paese, essa passa dal 91,5% nelle imprese più piccole (10-19 addetti) all’86,4% nelle grandi (oltre 250 addetti); nel secondo paese, le stesse percentuali scendono dal 95,8% al 90,6%. Il tema della concentrazione della proprietà può essere approfondito guardando con maggiore dettaglio alle singole quote di proprietà. In Italia, la dimensione della quota di proprietà detenuta dal primo azionista è pari in media al 57,4%, nettamente inferiore a quella detenuta in Germania (76,9%), Francia (71,4%), Regno Unito (65,2%) e 0 Germania Francia Regno Unito Italia Spagna Quota media del capitale sociale detenuta dal primo azionista (%) Italia Grandi imprese 100 80 76,7 71,4 65,5 60 57,8 57,4 40 20 0 Germania Francia prossima solo a quella della Spagna (58,7%). I risultati dell’indagine confermano così il basso grado di separazione tra proprietà e controllo che caratterizza in media le nostre imprese: l’azionista principale, infatti, possiede in media una quota di capitale sociale che gli permette di avere il controllo di diritto sulla società. Tale quota tende ad aumentare all’aumentare della dimensione aziendale, confermando la correlazione diretta tra grado di concentrazione della proprietà e dimensione dell’impresa. Tale correlazione, non del tutto intuitiva, trova spiegazione nel fatto che al crescere della dimensione aziendale diventano più Regno Unito Italia Spagna diffuse - come vedremo in seguito - le strutture di gruppo, spesso utilizzate come strumenti di esercizio del controllo. In questi casi, la società controllante, cioè l’azionista principale, detiene in genere una quota di capitale sociale elevata e spesso pari al 100%. Il confronto internazionale restituisce un quadro simile anche per gli altri grandi paesi dell’Unione Europea, con la sola eccezione della Germania, dove non emerge alcuna correlazione diretta con la dimensione e le quote medie detenute dal primo azionista rimangono pressappoco della stessa entità in ciascuna delle quattro classi dimensionali osservate. Rapporto Corporate Efige I 17 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Imprese dove il primo azionista detiene il controllo diretto (% sul totale) Italia Germania Francia Regno Unito Spagna capitale sociale relativamente più bassa rispetto a quella dei suoi “colleghi” europei e che non supera il 60%, lasciando uno spazio ampio per accordi, coalizioni, patti con altri soggetti proprietari. 100 Assetti proprietari e controllo 80 60 40 20 0 10-19 addetti 20-49 50-249 oltre 250 Tipologia del primo azionista (% di imprese sul totale) Altro Enti pubblici Investitori istituz. Banca, assic. Holding Impresa manif. Individuo/i 100 80 60 40 20 0 10-19 addetti 20-49 La correlazione positiva tra grado di concentrazione della proprietà e dimensione aziendale emerge con chiarezza anche quando si guarda al numero delle imprese il cui primo azionista detiene il controllo diretto dell’impresa, cioè possiede una quota di capitale sociale superiore al 50%: la percentuale di tali imprese sul totale si attesta al 44% fra le imprese con 10-19 addetti, mentre raggiunge il 76% tra le imprese con oltre 250 addetti. Il confronto internazionale conferma l’esistenza della medesima relazione in tutti i grandi paesi ad esclusione della Germania; segnala, inoltre, che la percentuale di imprese italiane il cui primo azionista 18 I Rapporto Corporate Efige 50-249 oltre 250 detiene una quota maggioritaria del capitale sociale è più bassa rispetto a quella degli altri paesi in ciascuna classe dimensionale; la differenza tende ad attenuarsi solo nella classe con oltre 250 addetti. In conclusione, la concentrazione della proprietà nelle imprese italiane si conferma elevata, non differenziandosi, in questo, da un modello di proprietà che risulta peraltro prevalente in Europa. La peculiarità che invece emerge dal confronto con gli altri grandi paesi europei è che il socio di maggioranza, soprattutto tra le piccole imprese, detiene in media una quota di Nel controllo di un’impresa può essere importante, oltre alla distribuzione della sua proprietà tra un numero più o meno ampio di soggetti, anche la tipologia del soggetto proprietario. Una proprietà concentrata potrebbe infatti esercitare un controllo effettivo più stringente se fosse nelle mani di una o più persone fisiche, per esempio una famiglia, ovvero nelle mani di altri soggetti, per esempio banche o altre imprese. L’indagine consente di analizzare le principali caratteristiche dell’assetto proprietario guardando ancora una volta alle quote di proprietà. In merito alla tipologia dei soggetti proprietari, i risultati dell’indagine rilevano, come atteso, che nella grande maggioranza dei casi i soci di maggioranza sono persone fisiche (82,9%); seguono, nell’ordine, holding (7,4%) e altre imprese manifatturiere (6%). La proprietà è invece poco diffusa tra banche (0,1%), altri investitori non di gruppo (0,3%) ed enti pubblici (0,1%). Nel complesso, questi dati - la netta prevalenza delle persone fisiche da un lato, e la scarsa presenza degli intermediari bancari e finanziari dall’altro evidenziano il carattere non anonimo della proprietà delle imprese italiane. I risultati, tuttavia, variano significativamente quando si prende in considerazione la dimensione aziendale: la percentuale di imprese che indicano un individuo o un gruppo di individui come principale soggetto che detiene una quota di capitale sociale è pari all’86,7% nelle piccole imprese (10-49 addetti), diminuisce al 63,4% nelle medie imprese (50-249) e scende fino al 26,8% nelle grandi (oltre 250 addetti). La riduzione di peso delle persone fisiche si realizza a vantaggio soprattutto delle finanziarie di gruppo, che arrivano ad essere indicate come principale azionista da oltre il 56% delle grandi imprese. Il confronto internazionale non segnala differenze significative nel peso relativo dei diversi soggetti proprietari. Il modello prevalente rimane quello di una proprietà fondata sulle persone fisiche - individuo o gruppi di individui: in Germania, in particolare, l’incidenza di questo soggetto proprietario è mediamente molto elevata (84,3%) e tende a rimanere alta anche tra le grandi imprese (64,5%, contro una media dei sette paesi osservati pari al 44,1%), pur mantenendo la caratteristica della correlazione inversa con la dimensione aziendale. Un modello più vicino alla “rete” emerge invece in Francia dove, tra i principali azionisti, compaiono in misura più diffusa rispetto a quanto accade in Italia e negli altri grandi paesi europei osservati, le altre imprese manifatturiere (18%) e le holding (11%); il modello a “rete”, in particolare, sembra funzionare tra le grandi imprese, dove in oltre il 28% dei casi (più di una volta su quattro) la quota di maggioranza è detenuta da un’altra impresa manifatturiera; tra le medie imprese, la stessa percentuale scende al 22,3%, ma rimane comunque sensibilmente superiore alla media del campione (12,8%). È interessante osservare che nei casi in cui il socio di maggioranza non è una persona fisica, ma è invece un’altra impresa manifatturiera o una holding, l’impresa italiana si differenzia molto meno sotto il profilo proprietario rispetto alle “consorelle” dei principali paesi europei: in questo caso, infatti - diversamente da quanto avviene nel caso delle persone fisiche - il socio di maggioranza detiene una quota media di capitale sociale molto ampia e di entità simile a quella degli altri paesi europei (pari al 73% nel caso di “altre imprese” e ad oltre l’85% nel caso delle “holding”, con differenze peraltro minime tra le diverse classi dimensionali). Per quanto riguarda, infine, la nazionalità del primo azionista, l’Italia si conferma un paese poco permeabile al capitale straniero. In media, meno del 4% delle imprese dichiara di avere un socio di maggioranza di nazionalità estera, anche se la percentuale aumenta in misura sensibile al crescere della dimensione aziendale: in media, nelle imprese con oltre 250 addetti, la percentuale di imprese con un socio di maggioranza straniero sale al 23,7%, contro appena l’1,6% nelle imprese più piccole (10-19 addetti); la stessa percentuale si attesta sopra il 12% nell’impresa media. La frequenza tende inoltre ad aumentare tra le imprese il cui proprietario è una holding (28,5%) o un’altra impresa manifatturiera (14,4%), mentre è sostanzialmente nulla la presenza di imprese estere di proprietà di persone fisiche (0,7%). Tra i sette paesi considerati, l’Italia risulta essere il paese con la minore presenza di imprese estere. Anche in Germania si rileva una presenza lievemente maggiore (6% circa), anche se le medie calcolate per classe dimensionale correggono parzialmente il quadro: la maggiore diffusione sembra infatti riguardare solo le piccole imprese, mentre l’incidenza delle imprese estere nelle ultime due classi dimensionali risulta più bassa di quella italiana (meno del 10% tra le imprese medie; 18,6% tra le grandi). Nei restanti paesi, invece, le imprese estere sono più frequenti: incidenze relativamente alte emergono non soltanto, come atteso, nei due paesi più piccoli (Ungheria e Austria), ma anche nel Regno Unito e in Francia (rispettivamente 14,2% e 10,2%), dove diventano peraltro rilevanti tra le grandi imprese (rispettivamente 44,5% e 41,3). Si conferma importante il ruolo delle imprese familiari, definite come imprese controllate direttamente o indirettamente da un individuo o da una famiglia. Com’è noto, infatti, la proprietà non costituisce l’unico mezzo di controllo di un’azienda: accanto ad essa possono esistere altre forme di controllo, che si originano sia da strumenti di natura contrattuale (accordi di voto, patti parasociali) sia semplicemente da rapporti di natura informale (legami di parentela o di fiducia, ecc.). L’indagine prevedeva dunque una domanda finalizzata a cogliere il numero di imprese familiari, definite come sopra. I risultati confermano l’ampissima diffusione di questa tipologia di impresa. Oltre il 75% delle imprese italiane ha dichiarato infatti di essere controllato da individui o famiglie, con percentuali che raggiungono l’80% nel segmento delle imprese più piccole (10-19 addetti). Trova conferma infatti la netta correlazione inversa tra diffusione del modello familiare di impresa e dimensione aziendale: tra le grandi imprese, la percentuale delle family business scende a poco meno del 47%. Non si tratta di un’anomalia italiana, come si è portati a pensare quando si parla di capitalismo familiare nel nostro paese. L’impresa familiare, al contrario, è il modello di governance prevalente in tutti i paesi osservati: in ciascuno di essi, la percentuale di imprese familiari supera sempre - e spesso di molto - il 50%. Il peso risulta molto elevato in Germania (83,5%), Austria (82,4%) Spagna (76,5%) e perfino Regno Unito (64,1%); è relativamente più basso in Francia (57,6%) e Ungheria (55%). La sua rilevanza è in parte ridimensionata solo tra le grandi imprese, come si è già visto per l’Italia: guardando infatti alle percentuali medie di imprese familiari per classi dimensionali, si osserva ovunque che esse scendono al di sotto del 50% nelle imprese con oltre 250 addetti, con le uniche eccezioni della Germania e dell’Austria, dove rimangono invece su valori ampiamente superiori al 60%. L’indagine rende possibile un’analisi dettagliata dell’assetto proprietario e organizzativo dell’azienda familiare: il riquadro contenuto in questo capitolo ne traccia un rapido profilo. Organizzazione Le informazioni relative all’organizzazione non attenuano l’idea di un modello d’impresa fortemente centrato sulla figura dell’imprenditore. Nell’85% dei casi, è Rapporto Corporate Efige I 19 Rapporto Corporate l’amministratore delegato (o capo azienda) a prendere le decisioni strategiche che riguardano tutte le aree di business in cui è impegnata l’azienda. Solo nel restante 15% dei casi, l’impresa sceglie un modello di organizzazione decentralizzato, dove il management è delegato a prendere decisioni autonome in alcune aree di business. La percentuale delle imprese che adottano un modello centralizzato tende ovviamente a ridursi man mano che le imprese crescono in termini di dimensione, assumendo strutture più complesse (poco meno del 70% tra le imprese con oltre 500 addetti). La scelta di questo modello organizzativo è inoltre influenzata dalla natura del soggetto proprietario: la frequenza più alta si osserva, come atteso, quando il socio di maggioranza è una persona fisica (87% dei casi), mentre tende ad attenuarsi quando il principale azionista è una holding (70,6%) o un’altra impresa manifatturiera (78,8%) o quando si tratta, significativamente, di un’azionista con nazionalità estera (68,7%). Il confronto internazionale restituisce infatti un quadro delle imprese italiane sotto il profilo organizzativo piuttosto diverso da quello degli altri paesi e paragonabile solo all’Ungheria e, in minor misura, alla Francia. Negli altri paesi prevale in media il modello centralizzato, ma non in misura così netta come in Italia. La media semplice tende infatti a differenziarsi in misura maggiore al variare della dimensione aziendale e, soprattutto, dei soggetti proprietari. In particolare, in Germania e nel Regno Unito - dove sono emersi assetti proprietari molto concentrati e fortemente fondati sulla persona fisica (quindi molto simili a quello italiano) - i risultati dell’indagine evidenziano con chiarezza che il modello organizzativo basato sulla decentralizzazione delle decisioni viene comunque adottato con frequenza largamente maggiore. Nelle imprese medie e grandi, ad esempio, la percentuale di imprese che dichiara che le 20 I Rapporto Corporate Efige XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Imprese con modello organizzativo centralizzato (%) Italia Media 7 paesi 100 80 60 40 20 0 10-19 addetti 20-49 50-249 oltre 250 Individuo/i Impresa manif Holding Estere Imprese che appartengono ad un gruppo (%) Italia Grandi imprese 100 80 60 40 20 0 Germania Italia Spagna decisioni strategiche sono prese in parte dai propri manager è prossima - e supera in alcuni casi (grandi imprese tedesche) il 50%. Diventa invece il modello prevalente, per ciascuna classe dimensionale osservata, nei casi in cui il soggetto proprietario è una holding o un’altra impresa manifatturiera. Gruppi In media, sono meno del 15% le imprese italiane che appartengono ad un gruppo. La percentuale, tuttavia, varia significativamente al variare della dimensione Ungheria Austria Regno Unito Francia aziendale, data la forte correlazione positiva esistente tra le due variabili. Tra le piccole imprese, meno del 10% appartengono ad un gruppo; tra le grandi imprese, invece, la percentuale sale ad oltre il 79%. La maggiore incidenza della forma gruppo tra le grandi imprese si spiega, oltre che come risposta organizzativa ad aree di business più ampie, anche come strumento di controllo diretto e indiretto delle imprese appartenenti al gruppo da parte dell’impresa capogruppo. Una struttura piramidale consente infatti la separazione tra controllo e diritti di voto. Guardando alla posizione gerarchica delle singole imprese nella compagine del gruppo, non è un caso che le aziende capogruppo siano poco meno del 7% tra le imprese più piccole (dove invece abbondano, in maniera complementare, le controllate: quasi l’80%), mentre raggiungano una quota prossima al 25% tra le grandi imprese (dove le controllate si riducono invece a circa il 40%). L’analisi delle quote medie di proprietà, d’altra parte, rafforza l’idea del gruppo utilizzato come mezzo di controllo di un’azienda. Qui, la dimensione media della quota di capitale sociale detenuta dal primo azionista raggiunge il 74,1%, decisamente più alto rispetto al 57,4% rilevato per l’intero campione Italia. Guardando, infine, alla tipologia dei soggetti che compongono i soci di maggioranza, i risultati dell’indagine rilevano che nel mondo dei gruppi la persona fisica perde il suo ruolo prevalente di soggetto proprietario a favore delle società finanziarie di gruppo. Le holding rappresentano infatti oltre il 39% dei soggetti designati come azionisti principali, mentre gli individui o i gruppi di individui ne rappresentano solo il 28,2%; seguono le altre imprese manifatturiere, con una quota ampiamente superiore al 25%, mentre rimangono trascurabili gli altri soggetti (banche, investitori istituzionali, enti pubblici). Il confronto internazionale fa emergere, ancora una volta, una somiglianza con la Germania. In entrambi i paesi, ed anche in Spagna, i gruppi di imprese non sono particolarmente diffusi. A questo modello, sembra contrapporsene un altro - diffuso soprattutto in Francia e, in minor misura, nel Regno Unito - che si caratterizza per una preferenza più convinta verso i gruppi. Acquisizioni e Spin-off Le operazioni di acquisizioni e spin-offs riguardano un piccolo numero di imprese. Nel triennio 2007-2009, solo il 7,1% delle imprese manifatturiere con oltre 10 addetti ha acquisito o incorporato altre società, per lo più italiane (6%). Sotto questo profilo, le nostre imprese appaiono meno dinamiche delle imprese tedesche (10,3%), francesi (8,3%) e, soprattutto, inglesi (13,5%). Come atteso, esiste una relazione diretta molto forte con la dimensione: oltre il 32% delle grandi imprese ha effettuato acquisizioni, contro il 6,3% delle piccole imprese. In generale, come si è detto, si preferisce acquisire imprese nazionali rispetto a quelle estere; ciò è vero per tutti i paesi osservati, anche se Germania e Regno Unito risultano essere i paesi con un interesse relativamente più elevato verso l’estero. contratti di affiliazione - si scopre però che la disparità rispetto agli altri paesi dipende soprattutto dallo scarso uso che le piccole imprese fanno di questo strumento. Viceversa, l’incidenza dei legami di affiliazione tra le medie e le grandi imprese pari rispettivamente al 33,5% e al 59,2% - risulta in linea con quella degli altri paesi più grandi. Rispetto alla nazionalità delle imprese affiliate, in media le imprese nazionali risultano nettamente superiori a quelle estere, ma il rapporto si inverte quando si guarda alle imprese medie e grandi. Nello stesso periodo, hanno dichiarato di essere state acquisite o incorporate solo il 2,7% delle imprese. Anche qui, le più coinvolte sono le imprese grandi, con una percentuale di poco superiore al 9%. Le operazioni sono state condotte da imprese prevalentemente italiane; guardando alle grandi imprese, il 6,6% delle acquisizioni è stato effettuato da aziende nazionali, il restante 2,5% da imprese estere. Più significativa è la quota di imprese che hanno legami di affiliazione con altre imprese (13%), anche se il confronto internazionale restituisce comunque una situazione in cui la diffusione di questo tipo di contratto risulta inferiore rispetto a quella in essere nei principali paesi concorrenti (Francia e Germania), dove quasi un quinto delle imprese dichiara di avere tali legami. Guardando alla dimensione aziendale - che impatta significativamente sull’uso dei Rapporto Corporate Efige I 21 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Le imprese familiari a cura di di Luigia LuigiaMirella MirellaCampagna Campagnae eAttilio AttilioPasetto Pasetto In questo In questoriquadro riquadro analizziamo analizziamo più dettagliatamente più dettagliatamente le imprese familiari le italiane, imprese definite familiari come italiane, imprese definite come controllate direttamente imprese ocontrollate indirettamente direttamente da un o indirettamente individuo o da una dafamiglia. un individuo o da una famiglia. L’analisi intende cogliere le peculiarità di questa forma di impresa rispetto alle imprese non familiari in merito alla proprietà e agli aspetti gestionali/organizzativi. Relativamente al primo aspetto e guardando alla distribuzione del capitale sociale tra i primi tre azionisti, non si colgono differenze significative rispetto alle imprese non familiari: la concentrazione della proprietà risulta solo lievemente più elevata, come emerge dall’osservazione della quota cumulata media dei primi tre azionisti (93,4% contro 92,4% delle aziende non familiari); non emergono inoltre differenze di rilievo tra le diverse classi dimensionali. La quota media di capitale in mano al primo azionista supera ampiamente il 50%, assicurandogli così il controllo diretto dell’azienda; essa risulta solo lievemente più elevata (57,8%) rispetto a quella delle imprese non familiari (57,4%) e aumenta - come quest’ultima all’aumentare della dimensione aziendale. È interessante però osservare che quando si guarda alle quote medie per classi dimensionali, esse risultano moderatamente più ampie nelle imprese piccole (10-49 addetti), mentre la situazione si capovolge nelle imprese medie e grandi, dove le quote del socio di maggioranza risultano inferiori a quelle delle aziende non familiari (di circa tre e cinque punti percentuali, rispettivamente). La spiegazione di questa differenza va ricercata con ogni probabilità nella diversa tipologia dei soggetti proprietari. Nell’impresa familiare prevalgono le persone fisiche, che risultano essere soci di maggioranza in oltre il 90% dei casi; la centralità del soggetto imprenditore si mantiene elevata in tutte le classi dimensionali, comprese quelle delle medie e grandi imprese, diversamente da quanto si rileva nelle imprese non familiari (nelle aziende con oltre 250 addetti, ad esempio, le persone fisiche rappresentano oltre il 40% dei soci di maggioranza, mentre raggiungono appena il 27% circa nelle imprese non familiari). Questa caratteristica - la prevalenza delle persone fisiche sulle 22 I Rapporto Corporate Efige altre tipologie di proprietari - impatta sulla scelta degli strumenti di controllo: in generale, l’imprenditore tende ad avere un controllo diretto sulla propria azienda e a basarsi in misura relativamente maggiore su rapporti di natura informale (legami di parentela o di fiducia, ecc.), mentre gli altri soggetti proprietari - imprese, società finanziarie o altri investitori - utilizzano soprattutto strumenti formali. A conferma di ciò, non sembra casuale che tra le imprese familiari è meno diffuso il gruppo, qualora questo possa essere utilizzato come strumento di controllo e non solo organizzativo. In media, infatti, fanno ricorso al gruppo solo il 9,8% delle imprese familiari, contro il 14,3% dell’intero campione; la percentuale sale al crescere della dimensione aziendale, ma in ciascuna classe dimensionale si mantiene comunque inferiore a quella dell’intero campione (nelle grandi imprese raggiunge il 71% contro oltre il 79% dell’intero campione). Relativamente agli altri soggetti proprietari, si osserva come nelle aziende non familiari - che le holding sono più diffuse rispetto alle altre imprese manifatturiere: in media, esse rappresentano il 4,3% dei soci di maggioranza, contro il 3,7% delle seconde. Il loro peso aumenta sensibilmente tra le grandi imprese, dove l’incidenza raggiunge il 48,7% del totale. Le holding rappresentano dunque l’assetto proprietario più diffuso anche tra le grandi imprese familiari. Il confronto internazionale non rileva differenze significative nell’assetto proprietario. La quota cumulata media dei primi tre azionisti nei sette paesi europei osservati risulta peraltro più alta di quella italiana, indicando che il grado di concentrazione della proprietà è elevato ovunque. Analoghe considerazioni valgono per la quota media del primo azionista. In merito al modello gestionale/organizzativo, si osserva, come atteso, che nelle imprese familiari l’amministratore delegato (o capo azienda) è un componente della famiglia medesima nel 95% dei casi. Tale quota, negativamente correlata con la dimensione aziendale, scende solo all’81% nella grande impresa, dove comunque trovano uno spazio maggiore i manager selezionati all’interno dell’azienda (11,3%) rispetto a quelli assunti dall’esterno (7,8%). Questo modello gestionale, fortemente centrato sulla figura dell’imprenditore familiare, è largamente condiviso nell’impresa familiare tedesca e austriaca, mentre negli altri paesi europei considerati nell’indagine, il modello risulta relativamente più aperto al management non familiare, soprattutto tra le grandi imprese. Analizzando, in particolare, questa classe dimensionale, si osserva infatti che nel Regno Unito l’amministratore delegato è un componente della famiglia solo nel 27% dei casi, in Francia nel 48,5% dei casi e in Spagna nel 66%. Nella grandi imprese britanniche, peraltro, i manager esterni prevalgono ampiamente su quelli interni, mentre il contrario accade negli altri due paesi. Tutto questo tende a ripercuotersi sul modello organizzativo. Nelle imprese familiari italiane le decisioni strategiche sono fortemente accentrate nelle mani del capo azienda (88,2% dei casi); emerge una correlazione negativa con la dimensione aziendale, ma l’impatto sul grado di accentramento risulta tutto sommato contenuto (si passa dal 90,3% delle aziende con 10-19 addetti al 79% delle grandi imprese). Il confronto internazionale segnala invece che su questo punto le imprese familiari europee si differenziano in misura significativa da quelle italiane e il divario tende ad aumentare con la dimensione: nella grande impresa, infatti, il modello organizzativo prevalente nella media dei 7 paesi rimane quello centralizzato, ma in generale la diffusione del modello organizzativo opposto - cioè quello dove il management è chiamato a prendere decisioni strategiche in alcune aree di business - è molto ampia. In Germania dove, come in Italia, abbiamo visto prevalere la figura del familiare come capo azienda - in media una impresa su quattro sceglie di adottare un modello decentralizzato; tale percentuale sale al 55,3% tra le grandi imprese. Modello organizzativo decentralizzato per paesi (% sul totale delle imprese familiari) Italia Grandi imprese 70 60 50 40 30 20 10 Regno Unito Spagna Austria Germania Francia Ungheria Italia In conclusione, le principali differenze tra imprese familiari e non familiari che emergono dall’indagine riguardano, a livello di proprietà, il più forte ruolo della persona fisica rispetto agli altri soggetti proprietari e, a livello organizzativo, la preferenza per un modello fortemente accentrato delle decisioni strategiche, associato ad un management dove è rilevante la presenza dei componenti della famiglia. Il confronto internazionale rivela che il primo aspetto è comune anche alle imprese familiari degli altri grandi paesi europei osservati, mentre l’assetto organizzativo è una peculiarità delle aziende italiane. Va inoltre sottolineato come nelle imprese familiari non solo l’amministratore delegato tenda ad essere un membro della famiglia proprietaria/controllante, ma che anche nella composizione del management la quota dei familiari dirigenti è più elevata: essa si attesta al 6,1% del totale degli addetti nell’impresa familiare, contro il 4,8% del totale imprese del campione. A livello europeo, le stesse quote sono pari, rispettivamente, al 5% e al 3,8%. La percentuale dei familiari dirigenti tende però a diminuire al crescere della dimensione aziendale, passando dall’11,6% nelle imprese più piccole allo 0,6% nelle grandi. Rapporto Corporate Efige I 23 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane OCCUPAZIONE, QUALITA’ DEL CAPITALE UMANO, FORMAZIONE a cura di Attilio Pasetto La qualità del capitale umano rimane piuttosto bassa, come dimostrano la quota elevata di operai comuni, il basso numero di laureati e la modesta partecipazione ai corsi di formazione. Nel management prevalgono i dirigenti provenienti dalla famiglia controllante con un’età generalmente più avanzata rispetto alla media europea. Grazie agli ammortizzatori sociali la crisi non ha penalizzato i lavoratori italiani in misura maggiore rispetto agli altri paesi europei. 24 I Rapporto Corporate Efige L’indagine conferma molte caratteristiche ben note della struttura occupazionale delle imprese italiane. Innanzitutto, il peso della piccola impresa e la dimensione media inferiore agli altri paesi europei. In secondo luogo, il ruolo della famiglia proprietaria nella gestione, oltre che nel controllo, dell’impresa. Dalla ripartizione per mansioni emerge come il peso degli operai, e in particolare degli operai non qualificati, sia più alto della media europea. A questa suddivisione per mansioni corrisponde una coerente ripartizione del personale per titolo di studio, in cui la quota dei laureati nelle imprese italiane risulta più bassa della media europea. Inoltre, tra le modalità d’impiego degli addetti, la percentuale di occupati che svolge attività di ricerca e sviluppo appare piuttosto modesta. La non eccelsa qualità del capitale umano è confermata dall’impiego di forza lavoro straniera, che si presume in gran parte low skilled, in misura superiore alla media europea, soprattutto nelle piccole imprese, nel Nord Est e nei settori tradizionali e di scala. Risulta invece meno rilevante il ricorso al lavoro a tempo determinato e part-time. L’indagine è ricca di molte indicazioni relative al management aziendale. I manager delle nostre imprese hanno mediamente un’età più avanzata rispetto ai loro colleghi europei e sono quasi tutti italiani, con scarse esperienze lavorative all’estero. L’imprenditoria femminile appare però più diffusa, soprattutto nella piccola dimensione, a ulteriore conferma - probabilmente - dell’importanza del capitalismo familiare nel nostro paese. Le difficoltà ad innalzare la qualità del capitale umano si spiegano anche con la modesta attenzione dedicata alla formazione del personale. Il gap italiano con l’Europa è evidente in tutte le classi dimensionali, soprattutto nelle grandi e nelle medie imprese, da cui ci si aspetterebbe invece uno sforzo maggiore per il miglioramento degli skill professionali. Le domande sugli effetti della crisi mettono indirettamente in evidenza il buon funzionamento degli ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione, che ha saputo attutire i contraccolpi occupazionali un po’ meglio rispetto ad altri paesi. Nello stesso tempo però emerge l’immagine di un sistema industriale “ingessato”, in cui le imprese in grado di andare controcorrente, assumendo in tempo di crisi, sono poche. La composizione della forza lavoro per classi di addetti evidenzia il forte ruolo della piccola impresa nel sistema manifatturiero italiano, con un peso degli occupati nelle imprese da 10 a 49 addetti che sfiora il 50% contro il 28,2% della media dei sette paesi considerati. La quota degli addetti delle medie imprese (50-249) appare perfettamente in linea con la media dei sette (25,2%), mentre il ruolo delle grandi imprese (oltre 249 addetti) è decisamente inferiore alla media (25% contro 46,6%). Sono queste caratteristiche ben note del sistema industriale italiano, che l’indagine Efige conferma in pieno. Tra i paesi considerati la Spagna è quella che si avvicina di più all’Italia come struttura occupazionale, con un’incidenza delle piccole imprese del 40%, mentre all’estremo opposto troviamo il Regno Unito (15,4%), dove predomina decisamente la grande impresa (65,6%). Abbastanza simili tra loro sono Francia e Germania, con un peso delle piccole imprese di circa il 23%; la principale differenza fra le due nazioni è che in Francia il ruolo della grande impresa è più rilevante (53,7% contro 47,8%). Per dimensione media le imprese italiane compaiono all’ultimo posto tra i sette paesi considerati, con 42,4 addetti contro i 67,2 del totale del campione. Anche qui è la Spagna il paese che si avvicina di più all’Italia, mentre il Regno Unito presenta il valore maggiore (110,5) e Francia e Germania mostrano una dimensione media molto simile attorno ai 77 addetti. Da notare però che nella piccola dimensione il numero medio degli addetti delle nostre imprese è leggermente più alto rispetto alle altre nazioni, specie nella fascia minore (10-19 addetti). Peculiarità tipiche della struttura occupazionale italiana emergono anche dalla ripartizione per mansione degli addetti. Innanzitutto, nel management, in cui i dirigenti non familiari assumono Ripartizione per mansione degli addetti (%) Operai comuni Operai qualificati Impiegati Management non familiare Management familiare 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Francia Germania Italia Spagna Regno Unito Media 7 Paesi Regno Unito Media 7 Paesi Percentuale dei laureati sugli occupati (%) 12 10 8 6 4 2 0 Francia Germania Italia un ruolo decisamente meno rilevante (3% contro il 6,2% della media dei sette paesi considerati), mentre il management familiare presenta un’incidenza maggiore (4,8% contro 3,8%). Non si può però non notare che complessivamente il peso del management all’interno delle imprese italiane è meno rilevante rispetto alla media dei sette paesi considerati (7,8% contro 10%), mentre la quota degli impiegati, con il 25,5%, è in linea con la media europea. Per quanto riguarda invece gli operai, complessivamente il peso che essi assumono nella struttura occupazionale delle imprese italiane è più Spagna alto della media europea (66,7% contro 64,8%). Al contrario di Germania (62,9%) e Francia (56,2%) che si attestano su valori inferiori. Qui è possibile cogliere un’altra importante differenza: la quota degli operai qualificati è la più bassa tra i sette paesi (32,2% contro 39,6%) e quella degli operai comuni e apprendisti la più alta (34,5% contro 25,2%). Questi ultimi assumono un peso ancora superiore nel Mezzogiorno (38,3%) e nel Centro (35,4%). In Germania il peso degli operai qualificati supera il 43% e quello degli operai comuni scende al di sotto del 20%. Rapporto Corporate Efige I 25 Rapporto Corporate A questa ripartizione per mansioni - che vede nelle imprese italiane un maggior ruolo dei colletti blu rispetto ad altri paesi - corrisponde una coerente ripartizione del personale per titolo di studio. La quota dei laureati nelle imprese italiane risulta infatti più bassa della media europea (6,4% contro 8,8%). Le differenze maggiori si colgono nelle piccole imprese, con più di due punti di differenza; man mano che si sale nella dimensione il gap si riduce fino ad arrivare ad un perfetto allineamento nelle grandi imprese con una quota del 13%. Anche in questo caso la Germania presenta un’incidenza più alta rispetto a quella dei suoi principali concorrenti, sfiorando l’11%, seguita dalla Spagna con il 10,4%. Ciò che accomuna questi due paesi è anche la maggiore omogeneità per classi di addetti, con una quota di laureati nelle piccole imprese non lontana rispetto alle grandi. Tra le modalità d’impiego degli addetti, la percentuale di occupati che nel 2008 hanno svolto attività di ricerca e sviluppo è al di sotto della media (6,7% contro 8,1%) ed inferiore rispetto a tutti i sette paesi considerati tranne l’Ungheria (3%). La Germania è il paese che da questo punto di vista viene al primo posto (11,2%), XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane mentre i valori di Austria, Francia, Spagna e Gran Bretagna appaiono molto simili (attorno al 7% o poco più). Merita però di essere sottolineato che il gap italiano emerge in tutte le classi dimensionali, con una importante eccezione rappresentata dalle medie imprese, che presentano un dato superiore alla media (7,2% contro 6%). Un valore tra l’altro vicino a quello tedesco (7,6%) e più alto degli altri paesi. Tra le aree geografiche, la percentuale di addetti alla ricerca scende in misura proporzionale al grado di industrializzazione, passando dal 7,5% del Nord Ovest al 4,1% del Mezzogiorno. Tra i settori, valori sopra la media si riscontrano negli strumenti medicali, nella farmaceutica, nella chimica, nella meccanica, negli apparecchi elettrici, nei trasporti e nel tessile. Un tema importante toccato dall’indagine riguarda il personale straniero, proveniente sia da altri paesi UE sia da paesi non UE, nelle imprese. La percentuale media della forza lavoro straniera sugli occupati si attesta nelle imprese italiane all’8,1%, una quota più alta della media dei sette paesi considerati (7,3%) e inferiore soltanto a quelle dell’Austria (11,8%) e della Germania (9,5%). Valori più bassi presentano il Regno Unito (6,8%), Occupati coinvolti nella R&S (%) 12 10 8 6 4 2 0 Austria Francia 26 I Rapporto Corporate Efige Germania Ungheria Italia Spagna Regno Unito la Spagna (6%), la Francia (4,1%) e l’Ungheria (0,7%). Dalla nostra rilevazione emerge inoltre che in Italia i lavoratori stranieri sono maggiormente presenti nelle piccole imprese, nel Nord Est e nei settori tradizionali e di scala. Questi aspetti vengono affrontati più dettagliatamente in uno specifico approfondimento. Venendo alle forme di flessibilità, il questionario focalizza l’attenzione su due aspetti: i contratti a tempo determinato e i contratti part-time. La percentuale media di forza lavoro impiegata con contratti a termine nelle imprese italiane è del 7,2% contro una media dei sette paesi considerati del 21,4%, dato quest’ultimo che però è fortemente influenzato da quello della Spagna e del Regno Unito, che presentano – soprattutto la prima – valori molto elevati. Limitando il confronto a Francia e Germania, il dato dell’Italia è superiore a quello della Germania (4,7%), ma inferiore a quello della Francia (12%). Sia per la Germania che per l’Italia la percentuale tende ad aumentare al crescere della dimensione aziendale. In Italia si passa dal 5,5% delle imprese più piccole al 13,8% delle grandi. I valori aumentano passando dal Nord Ovest (5,1%) al Mezzogiorno (10,8%). Relativamente al part-time, la quota in Italia è la più bassa (3,3% contro una media dei sette paesi considerati del 6%), con un’incidenza crescente all’aumentare della dimensione. Nelle grandi imprese si sfiora il 6% contro il 3% delle piccole. La principale differenza con gli altri paesi consiste nella maggior diffusione del fenomeno nelle piccole imprese. In Germania ad esempio l’incidenza del part-time tocca l’8,4% nella fascia 10-19 addetti e l’8% nelle grandi imprese. Tornando alle caratteristiche del management, nel questionario sono contenute alcune domande relative al management straniero e all’età, al genere e alle esperienze lavorative all’estero dell’amministratore delegato. Nel nostro paese l’incidenza del management straniero sullo staff manageriale complessivo appare ancora modesta, pari ad appena lo 0,7% contro una media dei sette paesi del 2,8%. Questo dato è fortemente influenzato dalle piccole e medie imprese, mentre nelle grandi si arriva al 3% contro una media dei sette paesi del 5,4%. In Germania l’incidenza media è del 4,4% (con il 7,6% nelle grandi imprese) e in Francia è del 5,3% (con il 5% nelle grandi imprese). Età media dell’amministratore delegato (%) fino a 44 anni Nelle imprese industriali italiane si ha una maggiore presenza delle donne nel ruolo di amministratore delegato, con quasi l’11% contro l’8,6% della media dei sette paesi e il 7,8% della Germania. Soltanto l’Ungheria ha una quota maggiore di management rosa (11,5%). Ciò può dipendere dal forte ruolo del capitalismo familiare nella realtà italiana. In tutti i paesi tranne l’Austria la quota di manager femminili decresce all’aumentare delle dimensioni aziendali. Il fenomeno risulta particolarmente accentuato in Italia, in cui la presenza delle oltre 64 anni 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Francia In generale emerge che l’età media dell’amministratore delegato (o del capo azienda) è più elevata nelle imprese italiane rispetto alla media dei sette paesi. In Italia il 52% degli a.d. ha più di 54 anni contro il 41,2% della media degli altri paesi e il 37,2% della Germania. Ma soprattutto il 21,7% ha più di 64 anni contro il 12% della media dei sette paesi e il 9% della Germania. Al contrario, la quota degli a.d. al di sotto dei 45 anni è il 19,3% contro il 23,6% dei sette Paesi e il 23,8% della Germania. Nella fascia compresa tra i 45 e i 54 anni la quota dell’Italia è appena il 28,7% contro il 34,9% della media dei sette paesi e il 38,4% della Germania. A livello territoriale, il Mezzogiorno e il Nord Est sono le aree in cui il management è relativamente più giovane. da 45 a 64 anni Germania Italia Spagna Regno Unito Media 7 Paesi Spagna Regno Unito Amministratore delegato femminile (%) 14 12 10 8 6 4 2 0 Austria Francia Germania Ungheria donne nel ruolo di amministratore delegato si abbassa all’1,9% nelle grandi imprese, contro una media generale del 3,4%. Come prevedibile, i manager e dirigenti italiani che hanno lavorato almeno un anno all’estero non sono molti, appena l’11,4% contro una media dei sette paesi del 19,4%. L’Italia figura all’ultimo posto di questa graduatoria, in cui Austria (33,1%) e Germania (26,6%) occupano le prime posizioni. Grandissime differenze esistono tra piccole e grandi imprese: si passa infatti dall’8% della fascia 11-20 addetti al 62,3% della fascia con oltre Italia 249 addetti. Si deve sottolineare come le distanze con le imprese europee siano particolarmente forti nelle due fasce intermedie, ossia da 20 a 49 addetti e 50-249 addetti, con rispettivamente 7,1 e 10,2 punti percentuali. Invece, nelle grandi imprese la quota italiana è più alta della media dei sette paesi, che si attesta al 59,1%. In questo caso l’Italia batte anche la Germania (61,1%) ed appare inferiore soltanto ad Austria (68,2%) e Spagna (68,8%). Dolenti note per le imprese italiane vengono dalla partecipazione dei lavoratori Rapporto Corporate Efige I 27 Rapporto Corporate a corsi di formazione. La percentuale media della forza lavoro che ha partecipato nel 2008 a corsi di formazione si ferma per le imprese italiane all’11,9% contro il 21% della media dei sette paesi. Ciò appare coerente con quanto rilevato dall’Isfol, che sottolinea come solo un’impresa su quattro preveda corsi di formazione per i propri dipendenti.1 La partecipazione ai corsi di formazione aumenta al crescere della dimensione (si passa infatti dal 10,3% delle imprese più piccole al 24,1% delle grandi), ma il gap italiano è evidente in tutte le classi dimensionali, soprattutto nelle grandi e nelle medie imprese, da cui ci si aspetterebbe invece uno sforzo maggiore per il miglioramento degli skill professionali. La stessa cosa può dirsi a livello settoriale, dove comunque i comparti in cui sono più diffusi i corsi di formazione sono la farmaceutica, l’alimentare, la chimica, i mezzi di trasporto, i minerali non metalliferi, gli strumenti medicali e ottici. Tra i sette paesi i valori più elevati sono quelli della Spagna (28,6%), seguita dal Regno Unito (25,5%) e dalla Germania (24,7%). I corsi tenuti all’esterno dell’impresa prevalgono leggermente rispetto a quelli interni. Ciò vale sia per l’Italia che per la media dei sette paesi, anche se in qualche caso (Francia, Spagna XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane e Regno Unito) avviene il contrario. Gli effetti della crisi si sono fatti pesantemente sentire sull’occupazione, comportando in quasi il 42% delle imprese italiane una riduzione della forza lavoro, percentuale in linea con la media dei sette paesi. Circa il 9% delle imprese segnala comunque un aumento nel 2008 degli occupati, valore in questo caso inferiore di quattro punti percentuali rispetto alla media dei sette paesi. Sia per l’Italia che per il totale del campione il numero di imprese che hanno diminuito l’occupazione aumenta al crescere della dimensione. In media la riduzione della forza lavoro è stata per le imprese italiane del 15,6%, valore inferiore di oltre un punto percentuale rispetto alla media dei sette paesi. Anche la percentuale di aumento, pari al 10,4%, è più bassa rispetto alla media dei sette paesi (11,6%). Non sembra quindi che la crisi abbia penalizzato in misura maggiore i lavoratori italiani rispetto a quelli degli altri paesi, almeno per quanto riguarda l’industria. Sotto questo punto di vista gli ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione, hanno dimostrato di funzionare, tamponando, quanto meno nel breve periodo, gli effetti della recessione. Nello stesso tempo però è più frequente trovare all’estero imprese che pure in Percentuale media della forza lavoro che ha partecipato a un corso di formazione (%) 35 30 25 20 15 10 5 0 Francia Germania 28 I Rapporto Corporate Efige Italia Spagna Regno Unito Media 7 Paesi tempi di crisi hanno assunto e in maniera anche più consistente. Nella maggior parte dei casi la diminuzione dell’occupazione è considerata dalle imprese come definitiva, sia per l’Italia che per il campione nel suo complesso. Ad essere colpiti sono stati soprattutto gli operai, specie in Italia. Infatti a ridurre i colletti blu è stato il 36% delle imprese italiane contro il 27% del campione nel suo complesso. Per i colletti bianchi invece le percentuali che si riscontrano per l’Italia sono più basse rispetto alla media dei sette paesi, pari rispettivamente a 4,3% contro 12,3% per gli impiegati e a 0,1% contro 1% per i quadri e dirigenti. Nei casi in cui è avvenuto un aumento della forza lavoro, la quota di imprese che lo considera temporaneo si posiziona in Italia al 3,5% contro il 2,5% del totale del campione, mentre la percentuale di imprese che lo ritiene definitivo risulta pari al 3,5% contro il 10,5% del totale del campione, a conferma di quanto sottolineato sopra. Le assunzioni hanno riguardato in misura maggiore i colletti blu rispetto a quelli bianchi, ma con uno scarto maggiore tra i primi e i secondi nel caso italiano rispetto al totale del campione. 1 Rapporto Isfol 2009, p. 18. Rapporto Corporate Efige I 29 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Management femminile e management familiare a cura di Elena d’Alfonso Imprese familiari e amministratore delegato: differenze tra classi dimensionali (%) 10-19 >250 50-249 20-49 60 50 I dati analizzati lungo la sezione identificano come l’Italia il paese con una maggiore presenza di donne al vertice delle imprese manifatturiere. Come si è visto, nelle imprese industriali italiane la presenza delle donne nel ruolo di amministratore delegato rappresenta l’11% contro l’8,6% della media dei sette Paesi e il 7,8% della Germania. Facilmente questo si lega alla struttura proprietaria delle imprese italiane che è tipicamente familiare: come si è visto altrove in questo lavoro, infatti, oltre il 75% delle imprese italiane ha dichiarato infatti di essere controllato da individui o famiglie. In generale, guardando a livello internazionale, è più facile che le donne che assumono posizioni di dirigenza siano al vertice di imprese familiari: in effetti la media tra paesi indica che circa l’82% delle donne manager sono a capo di un’azienda familiare. L’Italia non si distanzia molto da queste, mostrando una percentuale di poco più alta, pari all’84% circa. Molto probabilmente l’effetto si lega alla maggiore facilità che le donne siano al vertice qualora ereditino la guida dell’azienda o facciano comunque parte della famiglia proprietaria; in effetti, nella stragrande maggioranza dei casi, le donne a capo di un’azienda familiare sono membri della famiglia 40 30 20 10 0 AD donna impresa familiare membro della famiglia AD uomo impresa familiare membro della famiglia AD donna impresa familiare esterno alla famiglia AD uomo impresa familiare esterno alla famiglia proprietaria, mentre sono pochi i casi di manager donne scelte esternamente alla famiglia. In Italia, in particolare, le imprese familiari scelgono una donna praticamente solo se fa parte della famiglia; questa regola vale infatti nel 97% dei casi. Se questa evidenza vale anche a livello cross country, tuttavia, è interessante notare che in quasi tutti gli altri paesi non è indifferente la quota di donne esterne alla famiglia al vertice di questo tipo di imprese: ad esempio nel totale il 4,7% delle imprese familiari sceglie manager donne esterni oppure cresciuti all’interno dell’impresa, ma non appartenenti alla famiglia, contro l’1,1% delle imprese italiane. La differenza più alta si registra in particolare sulle donne AD che non fanno parte necessariamente della famiglia, ma sono cresciute all’interno dell’azienda; quota che arriva al 7,5% nel Regno Unito e che come media del Amministratore delegato donna: criteri di scelta all’interno delle imprese familiari (%) MEMBRO DELLA FAMIGLIA MANAGER PRESO AL DI FUORI DELL'AZIENDA MANAGER CRESCIUTO ALL'INTERNO DELL'AZIENDA Austria 91,8 2,3 6,0 Francia 94,8 0,7 4,5 Germania 93,6 1,2 5,2 Ungheria 93,7 0,0 6,3 Italia 98,9 0,8 0,3 Spagna 92,5 2,2 5,4 Regno Unito 91,3 1,2 7,5 Totale 95,3 1,1 3,6 30 I Rapporto Corporate Efige totale campionario si aggira intorno al 3,6%. Questo livello medio è però influenzato proprio dall’Italia, che ne riduce il livello, poiché qui le donne scelte all’interno dell’azienda familiare come amministratore delegato scendono allo 0,3%. ricambio generazionale più che a una maggiore apertura dei vertici aziendali alle donne. Anche all’interno delle imprese familiari, in ogni caso, al crescere della dimensione diminuiscono drasticamente le donne amministratore, in particolare quando vengono scelte al di fuori della famiglia. In generale si può dire pertanto che è più facile trovare donne che operano in posizione dirigenziale se le imprese che dirigono sono familiari e, in particolare, se esse appartengono alla famiglia. Questo implica fondamentalmente che sia in atto un ricambio generazionale all’interno delle imprese familiari, che favorisce la possibilità di una dirigenza femminile. In effetti guardando all’età dell’amministratore delegato, si nota che le donne sono mediamente più giovani degli uomini: la totalità del campione mostra che il 36% delle donne amministratore delegato sono al di sotto dei 44 anni, mentre gli uomini al di sotto dei 44 anni rappresentano il 22,5% della totalità degli amministratori delegati. In Italia questa differenza è ancora più evidente, visto che gli uomini sotto i 44 anni rappresentano il 18% circa, contro il 30,7% delle donne. Questo ricambio sembra però funzionare prevalentemente sulle imprese piccole; anche le imprese familiari, che sembrano essere più propense delle altre ad esprimere amministratore delegato donna non lo fanno sulle dimensioni maggiori, soprattutto se scelgono di assumere al di fuori della famiglia. Di nuovo questa evidenza, che è presente anche a livello internazionale, è particolarmente lampante sulle imprese italiane, dove le donne membri della famiglia nel ruolo di amministratore delegato nelle imprese grandi (con un numero di addetti superiore a 250) sono lo 0,2% del totale delle imprese a gestione femminile, mentre per gli uomini questa sale allo 0,9%. È interessante poi notare che non ci sono nel nostro Paese casi di donne a capo di un’impresa di grandi dimensioni qualora l’amministratore sia scelto all’esterno dell’azienda. Viceversa è più probabile che per le grandi dimensioni, quando viene scelto esternamente, l’amministratore sia uomo. In conclusione i dati mostrano che qualcosa sta cambiando, le imprese al femminile iniziano ad essere una quota non trascurabile della totalità. Probabilmente però questo è imputabile al Rapporto Corporate Efige I 31 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane INVESTIMENTI, INNOVAZIONE TECNOLOGICA E R&S a cura di Silvia Giannangeli Le imprese italiane mostrano di possedere una buona dotazione di ICT di base, ma investono relativamente meno della media dei paesi considerati in nuove infrastrutture, macchinari ed impianti durante il triennio 2007-2009. Più vivace appare invece l’investimento in innovazione e in R&S, sebbene supportato da strategie di finanziamento più sbilanciate verso strumenti di debito tradizionale e più indifferenziate rispetto agli obiettivi finali dell’investimento. Le infrastrutture tecnologiche di base hanno raggiunto ormai nel tessuto industriale italiano, così come negli altri paesi considerati, una diffusione ampissima. Meno diffuso in Italia risulta essere invece l’utilizzo avanzato dell’ICT. Sotto il profilo degli investimenti in impianti, macchinari ed ICT nel triennio 2007-2009, le imprese italiane risultano essere meno attive rispetto alle altre imprese del campione (sia in termini di numero che di intensità sul fatturato). La minore propensione all’investimento dell’Italia non appare tuttavia associarsi ad una più forte reazione delle imprese italiane alla crisi del 2009: il 28% di queste ultime dichiara infatti di aver ridotto nel 2009 i propri piani di investimento in beni materiali, contro il 33,1% nel campione complessivo. Sotto il profilo dell’innovazione tecnologica, l’Italia registra, al contrario, un’attività complessivamente al di sopra della media dei sette paesi considerati. Un’ampia parte delle imprese è coinvolta in innovazioni di prodotto e processo, sebbene la complementarietà fra queste ultime e cambiamenti di tipo organizzativo siano meno evidenti nel nostro Paese. In aggiunta, le imprese italiane risultano in larghissima misura impegnate in attività di R&S, confermando di privilegiare l’utilizzo di strutture interne (R&S in-house), ma dimostrando di essere più propense del campione complessivo verso l’outsourcing dei servizi di ricerca e sviluppo. Ancora poco valorizzata appare invece la ricerca universitaria: sono molto poche, anche nel confronto internazionale, le imprese italiane che si avvalgono degli atenei in qualità di fornitori di servizi di ricerca. Sul fronte dei finanziamenti, l’autofinanziamento si conferma essere in tutti i paesi considerati la modalità preferita dalle imprese per gli investimenti in macchinari, impianti ed ICT. In Italia, tuttavia, esso copre una quota della spesa per investimenti minore rispetto alla media del campione. Peculiarità italiana è invece il consistente utilizzo di strumenti quali il leasing ed il factoring. Poche, in Italia come negli altri paesi, le imprese che dedicano alle spese in R&S una strategia di finanziamento specifica. Quelle che in Italia lo fanno, inoltre, sembrano utilizzare un menu di strumenti finanziari “ridotto” rispetto alle imprese degli altri paesi, Francia, Germania ed Austria in testa. 32 I Rapporto Corporate Efige Dotazione tecnologica e investimenti in impianti, macchinari ed ICT Come già emerso dalle rilevazioni Istat sull’uso delle ICT nelle imprese, la diffusione nel tessuto industriale italiano delle tecnologie informatiche di base è ormai molto ampia: più dell’82,4% delle imprese possiede infatti una connessione Internet a banda larga. L’adozione è maggiore fra le imprese di grandi dimensioni (la possiede il 93,1% nelle imprese con più di 250 addetti) ma resta al di sopra dell’80% anche nelle PMI. Il confronto internazionale, tuttavia, mostra un modesto divario fra l’Italia e la media dei paesi inclusi nell’indagine, che riguarda sia le grandi imprese che le PMI (la diffusione media nei sette paesi osservati è pari a 89,2%). A frenare l’ulteriore diffusione della banda larga fra le imprese italiane non risulta essere il costo della connessione (indicato solo dal 7,3% delle imprese quale fattore di ostacolo all’adozione) quanto piuttosto la percezione da parte delle imprese che la banda larga non sia necessaria alla loro attività (fattore indicato dal 34,4% delle imprese che non hanno la banda larga) e, a conferma che il digital divide è ancora un tema da affrontare nel nostro Paese, la mancanza di copertura del territorio (indicata dal 23,1%). Ancora poco diffuse rispetto alle imprese degli altri paesi europei considerati sono invece le tecnologie ICT più complesse, come ad esempio i sistemi informativi finalizzati al commercio elettronico, adottati soltanto dal 13,9% delle imprese italiane, contro il 33,1% delle imprese austriache, il 28,5% delle tedesche e più del 50% delle imprese del Regno Unito. Nel triennio 2007-2009 la percentuale di imprese italiane che ha effettuato investimenti in impianti, macchinari ed ICT è stata pari all’80,5%, collocandosi decisamente al di sotto della media dei sette paesi considerati (pari a 87,8%). Nel ranking internazionale, la Germania, Imprese che hanno effettuato investimenti in impianti, macchinari ed ICT nel triennio (%) 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Austria Francia Germania Ungheria Italia Spagna Regno Unito Media 7 Paesi Spesa per investimento in impianti, macchinari ed ICT nel triennio (% su fatturato) Italia Media 7 Paesi massimo minimo 20 15 10 5 0 10-19 addetti 20-49 addetti 50-249 addetti l’Austria e la Spagna si collocano ai primi posti, con una quota di imprese impegnate in attività di investimento pari, rispettivamente, a 97,1%, 94,7% e 91,4%. Anche in termini di quota sul fatturato, gli investimenti delle imprese italiane risultano inferiori al campione complessivo (9% contro 10,5%).1 Questa tendenza riguarda soprattutto le imprese più piccole: la distanza fra le imprese italiane e la media del campione complessivo è pari a circa due punti percentuali nella classe al di sotto dei 20 addetti, e si riduce al crescere della dimensione fino a raggiungere i pochi >250 addetti Totale decimi di punto nella classe dimensionale con più di 250 addetti. La minore propensione delle imprese italiane ad investire non appare tuttavia collegata ad una più acuta reazione alla crisi. Meno di un terzo delle imprese italiane (il 27,8%) dichiara di aver ridotto nel 2009 i propri piani di investimento in beni materiali, contro una il 33% nel campione complessivo. Fra i paesi che sembrano aver sofferto di più della crisi, spiccano la Spagna (dove le imprese a dover ripianificare i propri investimenti sono state il 47,3%), la Francia (42,8%), e l’Ungheria (35,4%). Rapporto Corporate Efige I 33 Rapporto Corporate Innovazione e R&S Sotto il profilo dell’innovazione, le imprese italiane risultano più attive rispetto alla media del campione complessivo: il 66,4% delle imprese italiane ha introdotto innovazioni o di prodotto o di processo nel triennio 2007-2009, contro una media del 64,3% (percentuali più alte si registrano solo in Austria e Spagna).2 L’integrazione fra prodotto e processo è la tipologia più diffusa di innovazione, introdotta dal 66,4% delle imprese italiane (un dato di poco superiore alla media del campione, pari al 64,4%). Il 22,6% degli innovatori italiani si è concentrato esclusivamente sui prodotti mentre il 18,6% ha introdotto soltanto innovazioni di processo (contro una media nel campione complessivo, rispettivamente, del 21,7% e del 15,9%). Lo sviluppo combinato di innovazione di prodotto e processo è più frequente nelle imprese di dimensione superiore: all’aumentare della dimensione si riduce, corrispondentemente, la quota di innovatori che adottano esclusivamente innovazioni di processo. XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Imprese che hanno introdotto innovazioni nel triennio per tipologia (%) solo prodotto solo processo prodotto e processo Media 7 Paesi Italia >250 addetti 50-249 addetti 20-49 addetti 10-19 addetti 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 Fatturato realizzato dalla vendita di prodotti innovativi nel triennio (%) Italia Media 7 Paesi massimo minimo 40 35 30 25 Fra gli innovatori, il 28,7% ha introdotto anche cambiamenti di tipo organizzativo: un dato al di sotto della media del campione (31,7%). Una maggiore complementarietà fra le scelte di innovazione di prodotto o processo ed organizzative si osserva, ad esempio, nelle imprese austriache o tedesche, dove la quota di imprese che combina questi diversi tipi di cambiamento sale, rispettivamente, al 50,2% ed al 41,1%. Le imprese italiane che hanno introdotto innovazioni di prodotto nel corso del triennio realizzano una quota di fatturato legata alla vendita di tali prodotti mediamente superiore rispetto al campione complessivo (24% contro 21,3%). La distinzione per classi dimensionali evidenzia come le piccole imprese (al di sotto dei 50 addetti) così come le grandi (al di sopra dei 250) tendano a “concentrare” maggiormente il proprio giro d’affari sui prodotti innovativi. Inoltre, in circa un terzo dei casi (il 33,4%) il prodotto innovativo introdotto dalle imprese italiane 34 I Rapporto Corporate Efige 20 15 10 5 0 10-19 addetti 20-49 addetti 50-249 addetti risulta essere nuovo anche per il mercato (la media dei sette paesi considerati è pari al 30,7%). Le imprese italiane mostrano un utilizzo degli strumenti di protezione dei diritti di proprietà intellettuale in linea con la media delle imprese complessivamente intervistate. Il 22,2% delle imprese italiane ha dichiarato di aver protetto le proprie innovazioni con brevetto, disegno industriale, marchio, o copyright (la media del campione è pari al 22,5%). La forma di protezione più utilizzata risulta essere il brevetto, di cui il 12,6% delle imprese italiane ha inoltrato >250 addetti Totale domanda nel triennio 2007-2009, seguito dal marchio (utilizzato dal 12,5% delle imprese). Scarso appare invece l’utilizzo del disegno industriale e del copyright. Mentre quest’ultimo, per sua natura idoneo a proteggere le opere d’ingegno “immateriali”, è ragionevolmente poco utilizzato da imprese manifatturiere, il distacco registrato nell’utilizzo del disegno industriale fra le imprese italiane (3%) ed il campione complessivo (7%) è ragguardevole. La distanza appare ancora più evidente confrontando l’Italia con la Germania, dove l’11,5% delle imprese ha inoltrato richiesta per un disegno industriale nel triennio. Poche, infine, in Italia e all’estero, sono le imprese che hanno ceduto brevetti nel triennio di riferimento: l’1,8% in Italia, contro il 2% nel campione complessivo. Il paese in cui le imprese hanno ceduto più brevetti è l’Austria, con il 3,6% delle imprese interessate dal fenomeno. Guardando alla tipologia di ricerca svolta, in Italia il 75,2% delle imprese che svolge R&S si avvale esclusivamente di strutture interne (in-house), il 9,1% l’acquista interamente da strutture esterne, mentre il 15,7% combina R&S in-house ed esterna3. Rispetto alla media del campione complessivo, in Italia è più elevata la quota di imprese che fa outsourcing completo delle attività di ricerca e sviluppo (il 9,1% contro il 7,6%). Le imprese di dimensione superiore (nella classe al di sopra dei 250 addetti) dimostrano di essere più propense ad integrare l’attività svolta al proprio interno con servizi di ricerca e sviluppo acquistati all’esterno. Fra le imprese appartenenti a gruppi industriali, che in Italia rappresentano quasi il 15% del campione, l’11,4% acquista R&S da altre imprese all’interno del proprio gruppo. Nel triennio 2007-2009 il 52,8% delle imprese italiane ha svolto attività di ricerca e sviluppo (R&S), una percentuale al di sopra della media dei sette paesi considerati, pari al 46,2%. Solo le imprese austriache mostrano una maggiore partecipazione alle attività di R&S, con il 49,2%. In Italia e negli altri paesi la quota di imprese coinvolte in attività di R&S aumenta al crescere della dimensione aziendale. Anche in termini di intensità di R&S, le imprese italiane si collocano al di sopra della media del campione, con una quota di spese in R&S pari al 7,5% del fatturato. Meglio delle imprese italiane soltanto quelle tedesche, in cui la spesa in R&S è stata pari al 7,9% del fatturato (7,3% nel campione complessivo). A differenziare l’Italia dalla Germania risulta in particolar modo l’intensità di R&S delle imprese di maggiore dimensione: nelle imprese con più di 250 addetti, in Germania si è investito in R&S circa l’8% del fatturato, contro il 5,1% dell’Italia. Anche in termini di quota sulla spesa, la ricerca svolta all’interno dell’impresa è preponderante (assorbe il 62,7% della spesa in ricerca in Italia ed il 66,6% in media). Fra le imprese maggiormente “concentrate” sulle attività svolte in-house spiccano le tedesche, in cui la ricerca interna assorbe quasi il 72% della spesa totale, il valore in assoluto più elevato del campione. Fra i fornitori esterni di servizi legati alla ricerca, le imprese italiane prediligono quelli Imprese che hanno svolto attività di ricerca nel triennio per tipologia (%) solo R&S esterna solo R&S interna R&S interna ed esterna Media 7 Paesi Italia >250 addetti 50-249 addetti localizzati nel paese di origine: ad essi va il 30,1% della spesa dedicata alla R&S esterna (23,8% nel campione complessivo). Fra i fornitori preferiti dalle imprese italiane non c’è l’università. In Italia l’utilizzo in ambito industriale della ricerca svolta all’interno del sistema universitario è infatti il più basso fra i paesi considerati: solo il 22,3% della R&S esterna è acquistato dagli atenei, contro una media nei sette paesi considerati pari al 29,4%. All’estremo opposto dell’Italia, si collocano l’Ungheria e l’Austria, in cui, rispettivamente, il 57,6% ed il 51,4%, della ricerca che non si svolge internamente è acquistato dal sistema universitario. Il fattore di ostacolo all’innovazione riportato con più frequenza dalle imprese italiane è la mancanza di strumenti finanziari adeguati (indicato dal 47,6% delle imprese intervistate). Un significativo fattore di ostacolo all’innovazione risulta anche essere la percezione di un rischio economico eccessivo, indicato dal 39,4% delle imprese italiane, e la mancanza di personale qualificato (indicata dal 16,6%). In generale, nell’ordinamento dei fattori di ostacolo all’innovazione, non emergono differenze sostanziali fra le risposte fornite dalle imprese italiane e quelle degli altri paesi considerati. Infine, guardando alla reazione alla crisi, la percentuale di imprese italiane che hanno posticipato gli investimenti in innovazioni di prodotto e di processo durante il 2009 è pari al 35,6%, contro una media del campione complessivo del 34,5%. Come già osservato per gli investimenti in macchinari, impianti ed ICT, fra le imprese che risultano aver posticipato con più frequenza si trovano quelle spagnole (il cui 50,2% dichiara di aver rinviato le proprie attività innovative). 20-49 addetti 10-19 addetti 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 Rapporto Corporate Efige I 35 Rapporto Corporate Il finanziamento degli investimenti in beni materiali ed in R&S La fonte di finanziamento per le attività di investimento in macchinari, impianti ed ICT preferita dalle imprese italiane si conferma essere l’autofinanziamento. La quota di investimenti autofinanziati dalle imprese italiane è pari al 49,5%, un valore più basso rispetto alla media dei sette paesi considerati (pari a 53,6%), più elevato soltanto della Spagna (in cui l’autofinanziamento copre il 39,6% degli investimenti). Al più basso ricorso all’autofinanziamento si associa in Italia un utilizzo superiore alla media degli strumenti di debito, fra cui i prestiti bancari ed il leasing e factoring. I prestiti bancari coprono in Italia il 23% degli investimenti (contro una media del campione complessivo di 24%), meno di quanto registrato in Spagna (31,3%) e Francia (32,5%), e non molto di più rispetto alla Germania (22,7%). Il leasing ed il factoring hanno un peso considerevole nel finanziare gli investimenti del nostro sistema industriale: queste forme coprono infatti il 24,3% degli investimenti materiali in Italia, il valore più alto fra i paesi considerati, in cui tale percentuale si attesta intorno al 15% in media. La finanza infragruppo è praticamente assente in Italia: essa finanzia lo 0,5% degli investimenti del triennio. Al contrario, ai trasferimenti infragruppo è legato il 5,5% degli investimenti delle imprese austriache ed il 4,6% delle tedesche (2,8% la media nei sette paesi considerati).4 Anche il contributo della finanza pubblica, cui si deve il finanziamento dell’1,6% degli investimenti delle imprese italiane, è inferiore rispetto agli altri paesi europei, con l’eccezione del Regno Unito e della Francia (1,5%). L’apporto di finanza da venture capital è infine scarso in tutti i paesi considerati. La media della quota di investimenti finanziati attraverso questa fonte si attesta infatti attorno allo 0,5% nel campione complessivo. Nelle imprese italiane tale quota raggiunge il livello minimo dello 0,1%. 36 I Rapporto Corporate Efige XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Le fonti di finanziamento degli investimenti in impianti, macchinari ed ICT nel triennio (%) Autofinanziamento Finanza infragruppo Finanziamento pubblico Leasing e Factoring Venture Capital e Private Equity Prestiti bancari Altre fonti 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Austria Francia Germania A livello dimensionale, sono soprattutto le PMI a finanziarsi attraverso il ricorso al debito bancario e al leasing e factoring: la quota di investimenti legata a questi strumenti si riduce all’aumentare della dimensione aziendale, mentre cresce la quota di investimenti autofinanziata, e quella basata sulla finanza infragruppo. Nelle imprese con più di 250 addetti la quota di autofinanziamento supera in Italia il 64%, a fronte di una media del campione complessivo pari al 60,7%. L’incidenza della finanza infragruppo, benché maggiore rispetto alle imprese più piccole, rimane Ungheria Italia Regno Unito Totale nelle imprese al di sopra dei 250 addetti decisamente inferiore della media dei sette paesi considerati (3,9% contro il 13%). Poche, infine, le imprese italiane che nel 2009 hanno beneficiato di agevolazioni fiscali per gli investimenti: il 17,4%, contro il 19,8% nel campione complessivo. Analizzando le scelte di finanziamento degli investimenti in R&S, la maggior parte delle imprese italiane (il 68,3%) dichiara di non adottare una strategia di finanziamento specifica, ma di adottare invece gli stessi strumenti utilizzati per Le fonti di finanziamento della R&S svolta nel triennio (%) Autofinanziamento Finanziamento pubblico Finanza infragruppo Leasing e Factoring Venture Capital e Private Equity Prestiti bancari Altre fonti 100 80 60 40 20 0 Austria Francia Germania Ungheria Italia Regno Unito finanziare la spesa per investimenti in beni materiali. Nell’ambito dei paesi considerati, la Francia (39%) registra una percentuale decisamente inferiore rispetto alla media (66,4%), mostrando una maggiore propensione da parte delle imprese ad applicare strategie di finanziamento differenziate a seconda dell’obiettivo degli investimenti. Nelle imprese che adottano una strategia di finanziamento della R&S ad hoc, l’autofinanziamento continua a giocare la parte del leone in tutti i paesi considerati5. In Italia l’autofinanziamento copre l’86,4% della spesa in R&S, contro l’83,8% nel campione complessivo. L’importanza dei prestiti bancari si riduce al 5,3% in media nei sette paesi considerati, ma in Italia è più elevata (6,6%). Il ruolo della finanza pubblica, al contrario, è più rilevante nel finanziamento della R&S rispetto agli investimenti in beni materiali, coprendo in media il 5% della spesa. In Italia, tuttavia, la quota di spese in ricerca finanziate grazie al ricorso alla finanza pubblica è la più bassa del campione (3,9%) ad esclusione dell’Ungheria. Infine, è scarso in Italia l’utilizzo della finanza infragruppo e di venture capital, che coprono, rispettivamente, lo 0,5% ed lo 0,1% della spesa in R&S, nettamente al di sotto della media del campione complessivo, pari al 2,2% e 0,3%. Infine, il 17,3% delle imprese italiane ha beneficiato di agevolazioni fiscali per la ricerca e lo sviluppo, contro una media nei sette paesi considerati pari al 14,2%. Il paese in cui è più elevato il numero di imprese beneficiarie di incentivi fiscali è l’Austria, con il 20,5% delle imprese. In generale, dunque, le imprese italiane che dedicano alle spese in R&S una strategia di finanziamento specifica, sembrano utilizzare un menu di strumenti finanziari “ridotto” rispetto alle imprese degli altri paesi, e soprattutto rispetto alla Francia, la Germania e l’Austria. Un moderato tasso di investimento si evidenzia per il nostro Paese anche a livello aggregato. I dati di gross fixed capital formation dai conti trimestrali nazionali pubblicati da Eurostat confermano ad esempio che, fra i paesi considerati nell’Indagine, l’Italia registra il minor tasso di crescita degli investimenti nel quadriennio 2004-2008: +0,4%, contro il 4% della Germania, il 2,9% della Francia ed il 3,2% nell’Area Euro. 2 In questo ambito, i risultati dell’indagine EU-EFIGE/BruegelUniCredit differiscono sostanzialmente da quanto emerge dalla 6th Community Innovation Survey (CIS), che fotografa l’innovazione nelle imprese dei paesi della UE27 nel triennio 2006-2008. Una delle discrepanze più evidenti è la posizione relativa nella propensione ad innovare delle imprese spagnole e tedesche, che appare essere, rispettivamente, sovra- e sotto-stimata dalla nostra indagine, rispetto a quanto riportato nella CIS. Per quanto attiene alle imprese italiane, l’indagine tende a sovrastimare moderatamente l’incidenza delle imprese che hanno introdotto innovazioni nell’universo di riferimento, congiuntamente ad altri aspetti dell’attività innovativa delle imprese (fra cui, ad esempio, la quota di fatturato realizzata dalla vendita di prodotti innovativi e l’utilizzo di IPR). 3 La R&S è definita esterna allorché svolta da strutture “esterne” all’impresa che l’acquista, indipendentemente dal fatto che siano altre imprese appartenenti allo stesso gruppo industriale, oppure società o enti al di fuori di eventuali gruppi di appartenenza. 4 Il dato medio è calcolato utilizzando come base il totale delle imprese intervistate. Guardando al sottoinsieme delle imprese appartenenti a gruppi industriali, la finanza infragruppo risulta coprire il 2,6% degli investimenti delle imprese italiane, molto al di sotto di quanto accade nelle imprese appartenenti a gruppi nel complesso del campione (11,9%). 5 I dati sul finanziamento della R&S in Spagna non sono affidabili a causa dell’elevato numero di missing values, e pertanto non sono commentati. 1 Rapporto Corporate Efige I 37 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Innovazione e trasformazione organizzativa delle imprese italiane ed europee a cura di Silvia Giannangeli Sotto il profilo dell’innovazione, le imprese italiane risultano più attive rispetto alla media del campione complessivo. In aggiunta, esse risultano in larghissima misura impegnate in attività di R&S. Tale quadro non corrisponde, tuttavia, con quanto emerge da fonti informative diverse fra cui, in primo luogo, la sesta Community Innovation Survey (CIS) che, guardando alle attività di innovazione e ricerca svolte dalle imprese europee nel triennio 2006-2008, denuncia un certo grado di arretramento delle imprese italiane rispetto a quelle degli altri paesi europei considerati nell’indagine EU-EFIGE/Bruegel-UniCredit. Per avere un’idea più precisa sulle caratteristiche dei processi di innovazione intrapresi nel triennio dalle imprese del nostro Paese, è utile tuttavia combinare alcune informazioni provenienti da diverse domande dell’indagine. In particolare, guardando alle imprese che nel triennio dichiarano di avere introdotto innovazioni, sia di prodotto che di processo, quelle italiane risultano meno propense del campione complessivo ad associare innovazioni tecnologiche e non-tecnologiche, come ad esempio quelle di tipo organizzativo. Cambiamenti organizzativi complementari alle innovazioni tecnologiche sono stati introdotti dal 43,2% delle imprese italiane innovative, una quota molto inferiore rispetto alla media dei sette paesi considerati (49,3%). Allo stesso modo, le imprese italiane sembrano più restie a strutturare attività di ricerca in-house con Caratteristiche delle imprese della manifattura che hanno introdotto innovazioni nel triennio (%) Italia Media 7 paesi 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Innovazioni organizzative 38 I Rapporto Corporate Efige Occupati in R&S Utilizzo di protezione degli IPR addetti dedicati: solo il 64,7% del campione italiano di imprese innovative dichiara di avere addetti coinvolti in attività di R&S, mentre la quota sale a 71% nel campione complessivo1. Al contrario, le imprese italiane non sembrano caratterizzarsi per un ricorso alla proprietà intellettuale inferiore a quanto registrato in media negli altri paesi: il 29,5% degli innovatori italiani fa uso di almeno uno strumento di protezione della proprietà intellettuale (brevetto, marchio, copyright o disegno industriale). Si tratta di una percentuale non dissimile da quanto registrato nel campione complessivo, dove il 30,8% delle imprese innovative fa uso di IPR. Dietro alla diffusa spinta innovativa delle imprese italiane, si cela dunque una “strategia dell’innovazione” potenzialmente meno incisiva, in quanto meno basata su cambiamenti strutturali delle imprese. L’investimento in alcune attività immateriali, quali appunto l’organizzazione e le competenze incorporate nel capitale umano dell’azienda, è meno forte fra chi si dichiara “innovatore” in Italia rispetto a quanto accade, ad esempio, in Germania, dove ben il 66% delle imprese innovative introduce anche cambiamenti organizzativi, ed il 79% dedica risorse umane alle attività di ricerca e sviluppo. Si tratta di un “effetto paese” o ha piuttosto a che fare con fattori legati alla composizione settoriale del paese? Forse quest’ultima è la risposta più giusta. È interessante notare infatti che nei settori industriali high-tech2, il divario fra le imprese innovative italiane ed il resto del campione sia pressoché scomparso sia sotto il profilo delle innovazioni organizzative che sotto quello degli addetti dedicati alla R&S. Nei settori basati sulla conoscenza, quindi, la disparità fra l’Italia e gli altri paesi europei considerati nell’indagine si riduce. Caratteristiche delle imprese high-tech che hanno introdotto innovazioni nel triennio (%) 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Italia Media 7 paesi Innovazioni organizzative Occupati in R&S Utilizzo di protezione degli IPR Come discusso nel capitolo precedente, la percentuale di occupati che nel 2008 hanno svolto attività di R&S nel campione totale formato da innovatori e non innovatori è in Italia al di sotto della media del campione complessivo (6,7% contro 8,1%) ed inferiore rispetto a tutti i sette paesi considerati tranne l’Ungheria. 2 Per la classificazione dei settori industriali riconducibili all’high-tech in base alla classificazione NACE rev. 1.1 si veda OECD Science, Technology and Industry Scoreboard 2009, p. 32. 1 Rapporto Corporate Efige I 39 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane L’INTERNAZIONALIZZAZIONE COMMERCIALE E PRODUTTIVA DELLE IMPRESE ITALIANE a cura di Luigia Mirella Campagna e Attilio Pasetto Si confermano elevati sia il numero delle imprese esportatrici sia la quota di fatturato esportato. Come numero di mercati di destinazione l’Italia si colloca dietro Germania e Gran Bretagna, alla pari con la Francia e davanti alla Spagna. L’internazionalizzazione produttiva delle nostre imprese avviene più tramite gli accordi con partners locali che non attraverso gli investimenti esteri diretti. Con gli IDE le imprese privilegiano strategie di insediamento stabile sui mercati di vendita, mentre puntando sugli accordi la strategia è orientata prevalentemente all’outsourcing. 40 I Rapporto Corporate Efige Il numero delle imprese esportatrici italiane (margine estensivo) appare più elevato rispetto ai paesi considerati nell’indagine. Anche il margine intensivo (quota di fatturato derivante dall’export) è relativamente alto, ma la differenza è meno forte. Sia il margine estensivo sia quello intensivo variano significativamente al variare della dimensione aziendale, data la forte correlazione positiva esistente tra propensione ad esportare e dimensione: le grandi imprese, potendo affrontare meglio gli elevati costi fissi, si rivolgono con più facilità ai mercati esteri. Le imprese italiane raggiungono in media 11 mercati, collocandosi - insieme alla Francia - in una posizione intermedia tra paesi che differenziano maggiormente i mercati di sbocco (Germania, Regno Unito e Austria) e paesi che esportano verso un minor numero di paesi (Spagna e Ungheria). L’indagine conferma inoltre la tendenza delle imprese italiane ad andare all’estero da sole, in quanto molto scarso è il ricorso agli incentivi. Ciò pone un problema di policy. La percentuale di imprese italiane che acquistano servizi e beni intermedi dai mercati esteri è più bassa della media dei sette paesi considerati. Tra i servizi acquistati dall’estero, i più rilevanti sono i trasporti e servizi assicurativi, i servizi ICT, i servizi finanziari, la R&S e i servizi di ingegneria. Per quanto riguarda i beni intermedi, le imprese italiane acquistano materie prime in percentuale maggiore rispetto alla media, mentre sui componenti troviamo percentuali inferiori. Il grado di internazionalizzazione produttiva delle nostre imprese è inferiore alla media dei sette paesi quanto a investimenti esteri diretti (IDE), ma superiore alla media quanto ad accordi tecnico-produttivi e contratti stipulati con imprese locali. Questo risultato appare coerente con la minore dimensione media delle imprese italiane, che preferiscono un modello di internazionalizzazione leggera. Dal confronto fra IDE e accordi si nota che, mentre gli IDE sono destinati soprattutto a servire, attraverso la vendita dei prodotti, i mercati o del paese in cui sono effettuati o di paesi terzi, gli accordi obbediscono principalmente a una logica di delocalizzazione. Attraverso gli accordi si producono infatti beni, che sono importati nel paese di origine o per essere impiegati nella produzione o per essere rivenduti come prodotti finiti. Le tematiche dell’internazionalizzazione sono affrontate nell’indagine in maniera molto estesa ed approfondita. La sezione del questionario che le analizza è suddivisa in tre parti: la prima contiene domande relative alle esportazioni; la seconda si occupa di acquisti all’estero di materie prime, beni intermedi e servizi; la terza indaga il tema della realizzazione di attività produttive all’estero. L’obiettivo è di riuscire ad avere una visione ampia e completa del grado di internazionalizzazione dei sistemi produttivi dei sette paesi considerati nella survey. Qui di seguito l’analisi dei principali risultati delle tre parti. LE ESPORTAZIONI Imprese esportatrici Le imprese manifatturiere che vendono all’estero rappresentavano nel 2008 oltre i due terzi del totale delle imprese con oltre 10 addetti (67%). In questo insieme sono comprese tutte le imprese attive sui mercati esteri, incluse quelle che producono in Italia ma vendono all’estero tramite un intermediario (4,9%) e quelle che producono in paesi terzi per vendere successivamente all’estero (2,9%). Le imprese esportatrici in senso stretto, cioè quelle che vendono direttamente sui mercati esteri merci prodotte in territorio nazionale, costituiscono il gruppo più numeroso. Nel 2008 si attestavano al 63,5% del totale. Questa percentuale (margine estensivo), indiscutibilmente elevata esprime con evidenza la forte vocazione all’export dell’industria manifatturiera italiana. proporzionale alla dimensione aziendale: essa risulta cioè più intensa tra le imprese più piccole. Questa osservazione può trovare una spiegazione nel processo di profonda ristrutturazione che ha interessato il sistema produttivo italiano nell’ultimo decennio, che - come è stato evidenziato da molti lavori - ha portato all’esclusione tra le imprese esportatrici di quelle meno efficienti, soprattutto in alcune delle produzioni tipiche del made in Italy, anche in conseguenza dalla pressione competitiva esercitata dai paesi emergenti. La diminuzione delle imprese esportatrici non è un fenomeno solo italiano, ma ha interessato tutti i paesi oggetto dell’indagine. L’indagine indica anzi che l’Italia – insieme al Regno Unito - è il paese dove il numero delle imprese esportatrici è calato meno che altrove: il fenomeno, infatti, ha riguardato più del 17% delle imprese tedesche e una percentuale intorno all’11% in Francia e Spagna. Va precisato però che la flessione si è realizzata per la maggior parte a danno di un particolare gruppo di imprese, per le quali la vendita sui mercati esteri non rappresentava una scelta strategica di rilievo: tra le imprese che esportavano prima del 2008, infatti, in ogni paese c’era una percentuale intorno al 25-30% che lo faceva in maniera saltuaria e non regolare. Il margine estensivo varia significativamente al variare della dimensione aziendale, trovando riscontro la forte correlazione positiva esistente tra propensione ad esportare e dimensione. Guardando al numero degli addetti, le imprese esportatrici rappresentano il 55,5% del totale delle imprese più piccole (10-19 addetti), contro una media dei sette paesi osservati pari al 41,9%; la percentuale sale ad oltre l’87% tra le grandi imprese (69,7% la media dei sette paesi). La stessa informazione si ottiene guardando al fatturato: tra le imprese con un fatturato inferiore ad un milione di euro, le imprese esportatrici sono in media meno del 30%; raddoppiano ed anzi superano i due terzi del totale nello strato di imprese che dichiarano un fatturato compreso tra 2 e 10 milioni di euro, mentre raggiungono il 90% tra le imprese con un fatturato superiore ai 250 milioni. La dimensione aziendale impatta anche sull’intensità dell’attività di esportazione, misurata dalla quota di fatturato derivante dall’export sul fatturato complessivo (margine intensivo). Anche questa percentuale tende a salire man mano che aumenta la dimensione, sebbene le differenze tra le diverse classi dimensionali siano meno pronunciate rispetto a quelle osservate per il margine estensivo: nella Imprese esportatrici per dimensione aziendale (% sul totale imprese) prima del 2008 2008 differenza (sn) 10 90 8 75 La differenza positiva tra il numero delle imprese che esportavano prima del 2008 e il numero delle imprese che hanno esportato nel 2008 indica che negli ultimi anni le imprese esportatrici sono diminuite, confermando la tendenza alla flessione emersa fin dall’inizio del decennio. La diminuzione, pari in media a 6,8 punti percentuali, risulta inversamente 60 6 45 4 30 2 15 0 0 10-19 addetti 20-49 50-249 >250 Rapporto Corporate Efige I 41 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane interno; le grandi, all’opposto, tendono ad avere comportamenti più omogenei. Imprese esportatrici - Margine estensivo e intensivo per dimensione (%) mg estensivo mg intensivo 90 75 60 45 30 15 0 10-19 addetti 20-49 50-249 >250 Imprese esportatrici - Margine estensivo ed intensivo per paese (%) mg estensivo mg intensivo 70 60 50 40 30 20 10 0 Germania Francia Spagna Ungheria Austria Regno Unito Il confronto internazionale consente di cogliere alcuni aspetti peculiari del nostro sistema di esportazione1. Il numero delle imprese esportatrici italiane, misurato in termini di margine estensivo, è il più elevato tra i sette paesi osservati. Ciò è spiegato dalla enorme frammentazione produttiva che caratterizza il nostro sistema produttivo, fatto soprattutto di micro imprese: basti pensare che in Italia le imprese manifatturiere con oltre 10 addetti – l’aggregato di riferimento del nostro campione, che viene utilizzato come denominatore nel margine estensivo – rappresentano meno del 20% delle imprese attive; lo stesso aggregato sfiora in Germania il 40%. Per quanto riguarda il margine intensivo, anch’esso elevato in termini relativi, si osserva che le differenze rispetto ai principali paesi sono tuttavia meno ampie di quanto si è osservato per il margine estensivo. Ciò segnala che in Italia vi sono un gran numero di imprese che vendono all’estero, ma l’intensità delle esportazioni varia sensibilmente tra loro: accanto ad imprese molto impegnate nell’attività di export, ve ne sono evidentemente altre che esportano solo piccole quantità della loro produzione. Italia Strategie di esportazione classe più piccola (10-19 addetti), la percentuale si attesta poco al di sopra del 30% (26,9% la media dei sette paesi), mentre tra le grandi imprese, la stessa percentuale raggiunge il 52,6% (43,1%). In conclusione, i dati disponibili mostrano con chiarezza che, per riuscire ad esportare, bisogna essere più grandi: le imprese grandi, potendo affrontare con maggiore facilità gli elevati costi fissi, si rivolgono con più facilità ai mercati esteri. Nel valutare l’informazione, bisogna tener conto che la grande dimensione è associata in genere ad altre caratteristiche aziendali, quali: 42 I Rapporto Corporate Efige maggiore intensità di capitale e lavoro qualificato, maggiore spesa in innovazione, ricerca e sviluppo e, in generale, più elevata produttività. Non è un caso, quindi, che la deviazione standard associata al valore medio del margine intensivo delle imprese esportatrici decresca al crescere della loro dimensione: questo indica che la variabilità dei comportamenti verso i mercati esteri è maggiore tra le imprese più piccole, dove è più facile che si mescolino imprese con caratteristiche molto diverse tra loro, tra le quali è possibile trovare indifferentemente imprese con elevata propensione all’export ed imprese che vendono solo sul mercato La strategia di internazionalizzazione commerciale di un’impresa può variare fortemente in relazione ad alcuni parametri che ne identificano il livello di sofisticazione. In particolare, essa si qualifica per il numero dei mercati di destinazione raggiunti dall’impresa e la loro prossimità al mercato domestico, per le quote di esportazioni collocate su ciascun mercato, per il numero delle linee di prodotto esportate. La diversificazione verso un numero elevato di mercati di sbocco segnala un certo grado di dinamicità delle imprese in quanto, oltre a differenziare il rischio svincolando i risultati aziendali dagli andamenti di pochi partner commerciali, è indice di successo competitivo e permette anche di ottenere vantaggi di scala relativi alla produzione, distribuzione e commercializzazione del prodotto. Le imprese italiane raggiungono in media 11 mercati, collocandosi – insieme alla Francia - in una posizione intermedia tra paesi che risultano differenziare in misura maggiore i mercati di sbocco (Germania, Regno Unito e Austria) e paesi che risultano invece legati ad un minor numero di mercati (Spagna e Ungheria). Su questa variabile, la dimensione impatta moltissimo, coerentemente con l’ipotesi che ogni mercato estero comporta costi fissi aggiuntivi. La polarizzazione su un numero relativamente limitato di mercati di sbocco delle esportazioni resta quindi una caratteristica delle imprese di dimensioni minori: le piccole imprese mostrano in media 10 mercati di sbocco, le grandi ne raggiungono in media 29. Relativamente alle aree di destinazione, quasi il 90% delle imprese esporta una parte della propria produzione nei paesi UE-15, mentre i restanti paesi UE ne attraggono poco più del 40%. Il secondo mercato di sbocco per le nostre esportazioni è rappresentato dai paesi europei non-UE, specialmente Russia e Turchia, dove quasi il 50% delle imprese vende una parte delle proprie merci. Gli altri mercati di riferimento per le nostre imprese sono, nell’ordine, Stati Uniti e Canada, paesi emergenti dell’Est Asiatico, America Latina, Cina e India, accogliendo essi una percentuale di imprese esportatrici che va dal 30,5% nella prima area al 17,7% nell’ultima. Le quote medie di export – ottenute uguagliando a 100 le esportazioni totali - riflettono il diverso grado di “presenza” sui mercati: la quota maggiore (58,2%) viene collocata nei paesi UE-15; seguono a notevole distanza i paesi europei non-UE (11,2%), chiudono i mercati cinesi e indiani, dove la quota di esportazioni rimane molto bassa (2,8%) e inferiore a quella del campione complessivo (3,1%). Mercati di destinazione delle esportazioni (%) quota media export n. di imprese (%) 100 80 60 58,2 40 20 11,2 9,2 6,3 Altri paesi UE USA e Canada 5,1 4,4 2,9 2,8 0 Paesi UE15 Europa non-UE Dal confronto internazionale emerge una sostanziale somiglianza con i paesi europei più grandi, con qualche differenza legata probabilmente alla prossimità geografica dei mercati di sbocco. L’Italia, ad esempio, è il paese con una presenza nei mercati UE-15 relativamente più bassa rispetto ai grandi paesi concorrenti (in Germania, il 93% delle imprese colloca in questa area una quota media pari al 60,8%; in Francia, le stesse percentuali sono, rispettivamente, 92,5% e 61,2%; in Spagna 92,6% e 70,2%); questa “minor presenza” nei paesi UE-15 è compensata però da una attività relativamente maggiore nelle “altre Aree” (specialmente Africa), dove il 24,2% delle imprese colloca una quota media di esportazioni pari al 5,1%. Per quanto riguarda le economie emergenti a crescita più rapida, le imprese italiane sono relativamente attive nei paesi asiatici (esclusa Cina e India, dove invece accusano un ritardo rispetto ai principali concorrenti europei) e in America Latina. E’ interessante osservare che la quota di imprese esportatrici sui mercati più lontani è tendenzialmente inferiore a quella rilevata in Germania, Francia e Regno Unito; non si osserva invece la stessa cosa per le quote medie di export. Sembrerebbe quindi che un minor numero di imprese collochi quote simili, o in qualche caso anche superiori, a Altre aree Altri paesi Centro e Cina asiatici Sud America e India quelle dei paesi concorrenti; osservazione, questa, che rimanda alla dimensione aziendale, mediamente maggiore per le imprese italiane che vanno sui mercati esteri più lontani. Incentivi e credito alle esportazioni Malgrado i vantaggi, andare all’estero costituisce ancora un passo non facile per la maggior parte delle imprese, soprattutto di piccola e media dimensione. I problemi più comuni sono spesso legati semplicemente alla mancanza dei contatti che potrebbero informarle sull’esistenza di adeguate opportunità di affari, possibili soci o potenziali aperture sui mercati esteri. A parte questi ostacoli di natura informativa, spesso segnalati dalle nostre aziende, vi sono poi ostacoli legati alla capacità dell’impresa di migliorare l’accesso all’innovazione e all’alta tecnologia. Infine, un altro ostacolo significativo è rappresentato dall’investimento finanziario necessario per lanciarsi nell’arena internazionale. Il questionario prevede tre domande finalizzate a cogliere l’esistenza o meno di strumenti mirati a superare l’ostacolo finanziario all’internazionalizzazione. Poiché una parte significativa degli attuali programmi pubblici di sostegno Rapporto Corporate Efige I 43 Rapporto Corporate all’internazionalizzazione si concentrano sulla promozione delle esportazioni mediante strumenti come benefici fiscali, crediti alle esportazioni, assicurazioni sul credito alle esportazioni, si è chiesto alle imprese se hanno beneficiato di incentivi fiscali o finanziari all’esportazione. Il 97% delle imprese ha risposto negativamente alla domanda e solo il 3% affermativamente. I risultati dell’indagine hanno peraltro confermato lo svantaggio delle piccole imprese nell’accesso ai programmi di sostegno: la percentuale di coloro che hanno beneficiato di incentivi all’esportazione scende all’1,4% tra le imprese più piccole (10-19 addetti), mentre la stessa percentuale sale al 6,2% fra le imprese grandi (oltre 250 addetti). La scarsa diffusione degli incentivi tra le PMI può essere collegata qualche volta alla mancanza di conoscenza dei programmi di sostegno da parte delle stesse imprese e alla confusione creata dall’esistenza di troppi regimi di sostegno che si sovrappongono e che disorientano le imprese. Qualunque sia la ragione specifica, però, sarebbe auspicabile un impegno maggiore del legislatore su una più capillare diffusione degli incentivi all’internazionalizzazione. Il confronto internazionale consente di cogliere qualche differenza tra i grandi paesi. In generale, i programmi di sostegno all’internazionalizzazione sembrano riguardare ovunque piccole quote di imprese, ad eccezione della Spagna, dove si osserva una percentuale relativamente alta di imprese che usufruisce di incentivi pubblici (13%), soprattutto tra le medie e le grandi imprese (circa 20% e 24%, rispettivamente). E’ interessante però notare che la Francia risulta relativamente più attiva nel sostegno alle PMI rispetto a quanto lo sia per le grandi imprese: guardando alle risposte, emerge infatti che usufruisce di incentivi all’esportazione il 6,5% delle piccole imprese e il 9% delle grandi, contro appena il 4,2% delle grandi. Analogo discorso vale per il Regno Unito, sebbene su numeri molto più piccoli. 44 I Rapporto Corporate Efige XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Relativamente al credito alle esportazioni, dall’indagine emerge che un numero relativamente alto di imprese italiane ne usufruisce (18%, contro una media del campione complessivo del 10,4%). Anche qui si osserva una correlazione diretta con la dimensione aziendale: in media, le imprese medie e grandi utilizzano più frequentemente questo strumento di finanziamento (22% circa, contro il 15% circa delle piccole). I principali paesi concorrenti ne fanno invece un uso molto più limitato (Germania 4,4% Francia 4,3%- Regno Unito 5,6%). Diversi ma in senso opposto sono invece i comportamenti rispetto alla sottoscrizione di un’assicurazione sul credito per le esportazioni o comunque per il commercio. Le imprese italiane, pur utilizzando in misura maggiore questa modalità di finanziamento rispetto alle imprese concorrenti di altri paesi, sottoscrivono assicurazioni sul credito in misura minore rispetto agli altri. In media, solo il 19% delle nostre imprese ha dichiarato di aver beneficiato o sottoscritto una polizza assicurativa su questa tipologia di credito, contro il 40,4% della Germania, il 34% del Regno Unito e oltre il 32% di Francia e Spagna. Si conferma così la bassa “sensibilità” delle nostre imprese ad una gestione dinamica del rischio collegato ai crediti commerciali e alle esportazioni, spiegata forse da una scarsa conoscenza della materia e, in generale, da una scarsa cultura assicurativa. ACQUISTI DI SERVIZI E BENI INTERMEDI PER LA PRODUZIONE In questa parte si intende misurare il grado di internazionalizzazione delle imprese in termini di importazioni, analizzando le operazioni di acquisto di beni (materie prime e semilavorati) e servizi dall’estero. Come per le esportazioni, anche per le importazioni questo aspetto dell’internazionalizzazione si può vedere come margine estensivo (quota delle imprese che fanno acquisti sui mercati esteri sul totale delle imprese) e come margine intensivo (incidenza della quota estera sugli acquisti totali di beni e servizi). Il questionario consente di analizzare l’incidenza del margine estensivo in riferimento sia al momento della rilevazione sia prima del 2008, l’anno di scoppio della crisi. Per il margine intensivo occorre invece fare riferimento al momento della rilevazione. Acquisto di servizi Il 65,4% delle imprese italiane nel 2008 ha acquistato servizi per la produzione nazionale sul mercato interno, una percentuale superiore rispetto alla media dei sette Paesi considerati (59,8%). Soltanto la Francia presenta, con il 70,8%, una quota più alta. Invece la percentuale di imprese italiane che ha acquistato servizi dai mercati esteri (7,1%) è più bassa della media dei sette paesi considerati (8,2%). Unicamente Spagna (5,7%) e Regno Unito (6,1%) presentano valori inferiori. Queste percentuali aumentano al crescere della dimensione d’impresa. Soprattutto la quota di servizi acquistati dall’estero subisce un forte aumento, passando dal 3,8% delle piccole imprese (contro il 4,7% della media dei sette paesi) al 38% delle grandi (contro il 30,2% della media dei sette paesi). Ma vi è anche una percentuale rilevante di imprese che non ha acquistato servizi né dall’interno né dall’estero (34%), un valore comunque inferiore rispetto alla media europea (39,4%). Qui la quota decresce all’aumentare della dimensione. L’incidenza in termini di fatturato degli acquisti di servizi è in linea, con l’11%, con la media generale. Ma mentre la quota delle piccole imprese è leggermente più bassa della media generale, l’incidenza nelle medie (13,4% contro 11,1%) e nelle grandi imprese (13,5% contro 12,6%) è maggiore. Il principale riferimento per le imprese italiane rimane comunque il mercato interno, se è vero che la quota media sui servizi totali dei servizi acquistati all’estero è più bassa per l’Italia (15,4%) rispetto alla media dei sette paesi considerati (19,4%), e questo si verifica per tutte le classi dimensionali. Per depurare questi dati dagli effetti della crisi, è stato chiesto agli intervistati di indicare i loro comportamenti prima del 2008. Le imprese che hanno dichiarato di acquistare servizi regolarmente è risultata pari al 6,6%; a questa percentuale va aggiunto un 14% di imprese che acquistava saltuariamente. La quota maggiore (79,4%) non acquistava mai servizi dall’estero. Sommando le prime due componenti si arriva a una percentuale del 20,6%, superiore al 7,1% che ha dichiarato di aver acquistato servizi nel 2008. La quota italiana, in media, è perfettamente allineata a quella europea (20,5%), ma va segnalato che nella media del campione è più alta la quota che acquistava regolarmente (8,4%) e più bassa quella che acquistava saltuariamente (12,1%). Diversità emergono inoltre a livello d’impresa. Infatti, nelle piccole e medie imprese il dato italiano è al di sotto di qualche punto percentuale a quello europeo, mentre nelle grandi imprese è al di sopra di oltre dieci p.p. (63,4% contro 53,2%). Quota dei servizi acquistati dall’estero sui servizi totali acquistati (%) 30 25 20 15 10 5 0 Francia Germania Italia Spagna Regno Unito Media 7 Paesi Modalità di acquisto dei servizi acquistati dall’estero prima del 2008 (%) Regolarmente Qualche volta Sommatoria delle due modalità 30 25 20 15 10 5 0 Tra i paesi da cui sono acquistati i servizi prevale nettamente per le imprese italiane l’Europa dei 15 (89,6% contro l’83,2% della media dei sette paesi), mentre relativamente all’incidenza delle altre aree la quota dell’Italia è generalmente più bassa rispetto alla media dei sette paesi. Tra i servizi acquistati dall’estero, i più rilevanti appaiono i trasporti e servizi assicurativi sia per l’Italia (79,3%) che per la media dei sette paesi (72,9%), seguiti dalle comunicazioni e servizi IT (13,5% contro 21,4%), dai servizi finanziari (6,8% contro 10,2%), dalla R&S e servizi di ingegneria (15% contro 21,9%) e dagli altri servizi (35,5% contro 36,7%). Come Francia Germania Italia si vede, si hanno percentuali più alte per l’Italia riguardo ai trasporti e più basse per gli altri tipi di servizi. Acquisto di beni intermedi componenti o semilavorati per la produzione Considerazioni analoghe valgono per gli acquisti di beni intermedi. Anche qui, sul totale, le imprese italiane che acquistano dall’interno è superiore rispetto alla media dei sette paesi (83,2% contro 69,4%), mentre il contrario avviene per gli acquisti dall’estero (32,4% contro 36,3%). Per questi ultimi l’unica importante eccezione Spagna Regno Unito Media 7 Paesi è rappresentata dalle grandi imprese (70% contro 63,1%). Nel 2008 i beni intermedi acquistati hanno rappresentato nelle nostre imprese il 32% del fatturato, una quota stabile per tutte le classi dimensionali, tranne che per le grandi imprese in cui si arriva al 37,3%. Sono valori un po’ superiori rispetto alla media dei sette paesi, che si colloca attorno al 30% con differenze minime tra le classi dimensionali. La quota dei beni intermedi provenienti dall’estero sul totale dei beni intermedi acquistati non differisce molto per l’Italia Rapporto Corporate Efige I 45 Rapporto Corporate (26,2%) rispetto alla media dei sette paesi (27,2%). Anche in questo caso le grandi imprese hanno una quota maggiore (32,5% contro 30,7%). Analogamente a quanto fatto per i servizi, anche qui si è chiesto alle imprese il loro comportamento in materia di acquisti di prodotti intermedi prima del 2008. Il 22,4% delle imprese ha dichiarato di aver acquistato beni intermedi regolarmente e un altro 19,4% ha dichiarato di aver acquistato saltuariamente. Come per i servizi, nella media del campione la quota delle imprese che ha acquistato regolarmente appare leggermente più alta (25,5%) e invece la quota di chi ha acquistato solo qualche volta più bassa (17,8%). Sommando le due componenti si hanno quote abbastanza simili (41,8% per l’Italia contro il 43,3% della media dei sette paesi). Anche qui troviamo percentuali più alte di quelle relative agli acquisti dall’estero per il solo 2008. E anche in questo caso le quote, sommate assieme, di chi ha acquistato regolarmente e saltuariamente sono più alte per le grandi imprese italiane rispetto alla media dei sette paesi (82,5% contro 72,1%), mentre il contrario vale – con differenze però molto minori – nelle altre classi dimensionali. Per quanto riguarda i paesi di provenienza dei beni acquistati, si verifica una situazione un po’ diversa rispetto ai servizi, in quanto la quota dell’Europa dei 15, pur essendo la più rilevante, assume un peso leggermente inferiore rispetto alla media dei sette paesi (78 contro 81%), mentre il contrario si verifica per le altre aree geografiche. Le imprese italiane acquistano materie prime in percentuale maggiore rispetto alla media dei sette paesi (79 contro 74%), mentre sui componenti generici/standardizzati (23 contro 41%) e sui componenti specifici/personalizzati (24 contro 37,7%) si riscontrano percentuali inferiori. Questa caratteristica si ripete in tutte le classi dimensionali. Questa parte si conclude con una domanda sugli effetti della crisi, che in un certo 46 I Rapporto Corporate Efige XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Quota dei beni intermedi acquistati dall’estero sui beni intermedi totali acquistati (%) 40 35 30 25 20 15 10 5 0 Francia Germania Italia Spagna Regno Unito Media 7 Paesi Modalità di acquisto dei beni intermedi prima del 2008 (%) Regolarmente Qualche volta Sommatoria delle due modalità 60 50 40 30 20 10 0 Francia Germania Italia modo integra le due domande relative ai comportamenti prima del 2008. La domanda riguarda la quota di imprese che hanno ridotto il volume degli acquisti dall’estero e l’entità della riduzione. La quota delle imprese italiane risulta superiore al totale del campione (il 53,4% delle imprese che importano contro il 38,6% della media dei sette paesi), mentre la riduzione media dei beni acquistati è stata del 31,4%, valore molto prossimo alla media generale del 30%. Sia a livello dell’Italia che degli altri paesi l’incidenza della riduzione si riduce all’aumentare della dimensione. Per il nostro paese si passa dal 34% delle imprese più piccole al 26,9% delle grandi. Spagna Regno Unito Media 7 Paesi INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE La terza parte della sezione è dedicata alle forme più evolute di internazionalizzazione, ossia allo svolgimento all’estero dell’attività produttiva. In estrema sintesi, emerge che il grado di internazionalizzazione produttiva delle imprese italiane è inferiore alla media dei sette paesi considerati quanto a investimenti esteri diretti (IDE), ma superiore alla media quanto ad accordi tecnico-produttivi e contratti stipulati con imprese locali. Questo risultato appare coerente con la minore dimensione media delle nostre imprese, che preferiscono un modello di internazionalizzazione leggera, in cui accanto alle esportazioni recitano un ruolo più importante gli accordi rispetto agli IDE. D’altra parte, il modello di internazionalizzazione delle grandi imprese non si discosta molto da quello delle grandi imprese europee in cui gli IDE assumono una dimensione rilevante. Cominciando ad analizzare più nel dettaglio gli IDE, la percentuale di imprese italiane che attualmente realizza parte dell’attività produttiva all’estero in questa forma si posiziona al 2,5%, contro una media dei sette paesi considerati del 4%. La quota di imprese che detengono IDE sale a crescere della dimensione, passando dallo 0,6% delle aziende più piccole al 6,2% delle medie fino al 25,9% delle imprese con oltre 250 addetti. La distanza rispetto alla media dei sette paesi considerati passa dagli 0,5 p.p. delle aziende minori ai 2,3 punti delle medie per scendere a soli 0,7 p.p. nelle grandi imprese. Si direbbe quindi che sono le medie imprese quelle che si differenziano maggiormente sotto questo punto di vista con l’Europa. Se facciamo il confronto con le imprese tedesche, in quest’ultime riscontriamo valori superiori alla media per tutte le classi dimensionali, con un totale complessivo del 5,8%, il più alto fra i sette paesi considerati, se si esclude l’Austria (7,2%). Il quadro cambia se si fa riferimento agli accordi e ai contratti tecnico-produttivi. La media complessiva delle imprese italiane si posiziona al 4,1%, contro il 3,8% dei sette paesi. Qui l’Italia supera la Germania (3,6%), mentre viene sopravanzata dalla Francia (5,8%), che a sua volta presenta una quota di IDE (3,9%) leggermente al di sotto del totale generale. Anche negli accordi le percentuali di imprese che li hanno effettuati aumenta al crescere della dimensione aziendale, in quanto si passa dal 3,2% delle aziende minori al 7,1% delle medie e all’8,6% delle grandi. Come si può notare, nel passaggio dalle medie alle Imprese che svolgono parte della produzione all’estero (%) IDE Accordi con imprese locali 7 6 5 4 3 2 1 0 Francia Germania Italia grandi non c’è quello “scatto” visto negli IDE. Interessante è anche seguire lo scarto con la media dei sette paesi considerati: si va dagli 0,4 punti percentuali delle imprese più piccole agli 1,7 punti delle medie imprese ai soli 0,1 punti percentuali delle grandi. Si può concludere che, nel caso italiano, gli accordi rappresentano la forma di internazionalizzazione produttiva più adatta alle piccole e medie imprese, mentre gli IDE lo sono per le grandi. Osservando la quota del fatturato proveniente sia dagli IDE che dagli accordi (margine intensivo), possiamo constatare come le imprese italiane non siano molto lontane dalle imprese europee. La quota media di fatturato realizzata nel 2008 attraverso gli IDE si posiziona per le imprese italiane al 26,5% del fatturato totale, contro il 28,4% della media dei sette paesi considerati, il 27,4% della Germania e il 25,2% della Francia. Per quasi tutti i paesi l’incidenza del fatturato prodotto all’estero appare inversamente correlata alla dimensione aziendale. L’Italia non fa eccezione, per cui si passa da un’incidenza del 38,4% delle aziende minori al 24,4% delle medie fino al 20% delle grandi imprese. La quota del fatturato realizzata attraverso gli accordi appare più alta sia per il Spagna Regno Unito Media 7 Paesi campione in generale (30,6%) che per le imprese italiane (29%). Fa eccezione la Germania, che presenta una quota di fatturato proveniente dagli accordi del 25%, non la Francia che arriva al 30,6%. Anche in questo caso l’incidenza del fatturato tende a diminuire al crescere della dimensione, raggiungendo i valori più elevati nelle piccole imprese. Per l’Italia in particolare si raggiunge un picco del 32,5% nella fascia da 20 a 49 addetti per scendere al 21,8% nelle medie imprese e al 17,5% nelle grandi. La quota maggiore del fatturato prodotto all’estero sotto forma di IDE viene realizzato sia per l’Italia che per i sette paesi considerati (tranne l’Ungheria) nell’Europa dei 15. L’Italia però presenta una quota più bassa (28,7%) della media dei sette Paesi (35,9%) e della Germania (39,3%), mentre mostra quote più elevate della media in quasi tutte le altre aree geografiche, tra cui in particolare Cina e India (18,9% contro 15,7%). Decisamente più in linea con la media dei sette paesi la distribuzione per Paese delle quote di fatturato provenienti dagli accordi e contratti, con i Paesi UE dei 15 al primo posto (33,8%), seguiti da Cina e India (23,6%) e dagli altri Paesi UE (19,1%). Rapporto Corporate Efige I 47 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Quota del fatturato realizzata attraverso IDE e contratti (%) IDE contratti 50 45 40 35 30 25 20 15 10 5 0 Francia Germania Italia Spagna Regno Unito Media 7 Paesi Destinazione della produzione effettuata all’estero dalle imprese italiane (% sulle imprese che hanno investito o concluso accordi) IDE Accordi 70 60 50 40 30 20 10 di internazionalizzazione più orientato all’outsourcing, a differenza del modello seguito dalla maggior parte delle imprese tedesche. Tra i principali tipi di attività svolte all’estero, la produzione di prodotti finiti viene nettamente al primo posto, con percentuali per l’Italia del 68,3% negli IDE e di oltre il 75% negli accordi, contro rispettivamente il 73,8% e il 74,9% della media dei sette paesi considerati. Al secondo posto viene la produzione di semilavorati e componenti, con circa il 46% per gli IDE e il 61% per gli accordi, valori sostanzialmente in linea con la media dei sette paesi considerati. Si nota invece una certa differenza riguardo la ricerca e sviluppo, l’ingegneristica e la progettazione e, più in generale, gli altri servizi, con percentuali per l’Italia più basse rispetto alla media dei sette paesi. Negli IDE la percentuale relativa alla R&S e all’engineering si ferma al 10,6% contro il 15,7% della media dei sette paesi considerati. Sempre negli IDE per gli altri servizi la quota dell’Italia è pari all’8,3% contro l’11,8% della media dei sette paesi. Valori più bassi si notano negli accordi, ma sempre con percentuali inferiori rispetto alla media generale. 0 venduta nel paese estero di produzione importata nel paese di origine per essere impiegata nella produzione Particolarmente interessante è l’analisi della destinazione della produzione effettuata all’estero. Qui emerge un quadro composito ma anche netto allo stesso tempo. Dal confronto fra IDE e accordi si nota che, mentre gli IDE sono destinati soprattutto a servire, attraverso la vendita dei prodotti, i mercati o del paese in cui sono effettuati o di paesi terzi, gli accordi obbediscono principalmente a una logica di delocalizzazione. Essi rispondono allo scopo di produrre beni che sono importati nel paese di origine o per essere impiegati 48 I Rapporto Corporate Efige importata e venduta nel paese di origine importata per essere riesportata in paesi terzi venduta direttamente in un paese terzo nella produzione o per essere venduti sia nel paese di origine sia - attraverso la riesportazione - in paesi terzi. Questa distinzione, che vale sia per l’Italia sia per gli altri paesi, tra cui la Germania, trova riscontro in letteratura2, in cui si sottolinea come IDE e accordi corrispondano a strategie alternative, più complesse e volte all’insediamento stabile per i primi e principalmente finalizzate all’outsourcing per le seconde. Il maggior ricorso da parte delle imprese italiane agli accordi rispetto agli IDE indica il prevalere di un modello Per quanto riguarda gli effetti della crisi, la percentuale di imprese italiane che hanno subito una riduzione del fatturato proveniente dagli IDE per la contrazione dell’attività produttiva supera il 50%, contro il 37% del totale del campione. Valori sopra la media si riscontrano anche per Austria, Francia e Regno Unito, mentre il dato della Germania è allineato al totale generale. La crisi ha comportato nel 4,7% dei casi la cessazione dell’attività all’estero, un valore comunque inferiore alla media dei sette paesi considerati (5,9%). Anche gli accordi hanno risentito degli effetti della crisi, con il 50,2% di imprese che hanno subito una contrazione del fatturato, contro il 44,3% della media dei sette paesi considerati. Ultimo tema affrontato in questa sezione della survey è quello dell’assistenza da parte di enti pubblici e privati per l’internazionalizzazione delle attività all’estero. L’Italia, come previsto, si colloca con l’1,1% di imprese esportatrici che hanno ricevuto assistenza al di sotto sia della media generale (1,3%) sia di paesi come la Germania (1,8%) e la Spagna (2,2%). Sono le piccole imprese le più penalizzate, mentre nelle medie e nelle grandi imprese si hanno percentuali superiori alla media. Vale la pena di rilevare che le imprese estere ottengono assistenza da enti esteri, oltre che nazionali, mentre le imprese italiane non utilizzano quasi per niente questo importante canale. L’Italia nel 2008 ha contribuito per l’8,0% alle esportazioni intraUE-27. I contributi degli altri paesi sono stati: Germania 22,9%; Francia 9,8%; Regno Unito 6,6%; Spagna 4,9%; Austria 3,3%; Ungheria 2,1%. Per quanto riguarda le esportazioni extra UE-27, l’Italia ha contribuito per l’11,6%. I contributi degli altri paesi sono stati: Germania 27,5%; Francia 11,6%; Regno Unito 10,3%; Spagna 4,4%; Austria 2,6%; Ungheria 1,2% (Eurostat). 2 Vedi in particolare AA.VV. The global operations of European firms, Progetto Efige, versione preliminare, 18 giugno 2010. 1 Rapporto Corporate Efige I 49 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane CONCORRENZA E MERCATI a cura di Andrea Brasili L’approccio delle imprese italiane al mercato evidenzia alcune specificità del tessuto produttivo italiano: poco ruolo di committenza per il settore pubblico elevato di imprese estere senza che a questo corrisponda una percezione della concorrenza che sia globale. L’altro punto da sottolineare è quello della percezione della qualità: non c’è particolare evidenza di una fitta presenza di medie e piccole imprese qualitativamente alla frontiera; chiamate a valutare su una scala da 1 a 100 il proprio prodotto dove a 100 c’è il meglio disponibile sul mercato le imprese italiane si descrivono in media a 80 contro l’87,1 del campione complessivo. Come si relazionano le imprese italiane con il loro mercato di riferimento? Da questa sezione emergono alcuni segnali contraddittori su cui val la pena di riflettere, certo si tratta di indicazioni più qualitative di quanto lo siano quelle provenienti dalle altre sezioni qui molto si fonda sulle percezioni delle imprese più che su risposte dicotomiche di caratteristiche che hanno o non hanno. Le imprese italiane producono su commessa più di quanto avvenga all’estero, e tra i committenti figurano più spesso che nel campione complessivo ed in linea con quanto evidenziato in relazione alle esportazioni, imprese estere (e tra i committenti vengono segnalati meno che altrove i consumatori e la pubblica amministrazione). Nel contempo però i produttori italiani considerano loro concorrenti imprese localizzate relativamente vicino. C’è una certa percezione della problematica della scala dimensionale ma non in maniera dirompente, e in special modo concentrata tra le grandi imprese (che si percepiscono evidentemente troppo piccole rispetto ai competitors). Permane invece in maniera molto più spiccata che altrove la percezione che vi siano ostacoli alla crescita legati a questioni burocratico-regolamentari o di rigidità del mercato del lavoro. Aggiunte a queste vengono segnalate la debolezza della domanda e le difficoltà di accesso al credito; queste ultime sono ovviamente sensibili alle dimensioni d’impresa, cioè le imprese più piccole manifestano difficoltà maggiori, in particolare per le imprese con fatturato inferiore ai 2 mln di Euro. C’è da dire però che l’aumentare delle difficoltà al ridursi della dimensione d’azienda è più marcato nel resto del campione, rispetto a quanto avvenga in Italia. In termini di posizionamento qualitativo, le imprese italiane si valutano un po’ più distanti dalla best practice di quanto facciano le altre imprese intervistate, e in modo maggiormente dipendente dalla dimensione (le grandi sono più simili alle imprese grandi di altri paesi). 50 I Rapporto Corporate Efige Il mercato di riferimento quota di prodotto su commessa, in modo molto più marcato di quanto avvenga per gli altri paesi, e quindi contribuisce a spiegare anche il differenziale tra imprese italiane ed europee. Da dove provengono queste commesse? Per il 5,8% il cliente è un’impresa appartenente allo stesso gruppo, per il 44,6% gli ordini provengono da imprese della stessa regione, per il 72,1% da imprese italiane in genere, per il 46,8% da imprese straniere (è il 69,5% nel caso delle imprese più grandi); solo l’8% vende alla PA e il 24,5% vende anche al dettaglio (cioè direttamente al consumatore finale). Questa sezione dell’indagine è dedicata all’analisi del mercato di riferimento dell’impresa e delle modalità con cui l’impresa si relaziona con la domanda, nonché all’esame dei suoi clienti, dei suoi concorrenti e del suo posizionamento competitivo. Le imprese italiane intervistate affermano di produrre su commessa l’82,7% del loro fatturato1, un valore più elevato di quello del totale delle imprese (non dissimile però da quanto dichiarato dalle imprese francesi e ungheresi che si attestano sugli stessi valori). Questa caratteristica si relaziona in senso inverso alla dimensione d’impresa, cioè più piccola l’impresa più elevata la Anche in relazione alla tipologia di clientela c’è una ovvia relazione con la dimensione. Imprese che producono su commessa (%) 10 - 19 ADDETTI 20 - 49 ADDETTI Italia 84,3 82,9 79,4 61,6 82,7 Media 7 paesi 71,6 70,7 66,8 59,7 70,7 ITALIA 50 - 249 OLTRE 250 ADDETTI ADDETTI TOTALE Principali tipologie dei clienti per cui l’impresa lavora su commessa (%) 10 - 19 ADDETTI 20 - 49 ADDETTI 50 - 249 OLTRE 250 ADDETTI ADDETTI TOTALE Intra gruppo Altre imprese nella stessa regione Altre imprese nel resto del paese 3,4 5,5 12,0 28,8 5,8 48,0 44,8 34,9 20,9 44,6 68,9 74,0 75,5 61,8 72,1 Altre imprese straniere 37,6 49,3 63,7 69,5 46,8 8,0 7,6 9,0 8,5 7,9 25,9 23,4 24,9 25,9 24,5 10 - 19 ADDETTI 20 - 49 ADDETTI 50 - 249 OLTRE 250 ADDETTI ADDETTI TOTALE 5,3 9,6 18,9 29,6 10,4 54,8 53,0 45,4 45,8 52,1 Amministrazione pubblica Clienti privati MEDIA 7 PAESI Intra gruppo Altre imprese nella stessa regione Altre imprese nel resto del paese Altre imprese straniere 61,9 67,9 69,6 67,2 66,1 30,9 41,5 54,3 61,8 40,7 Amministrazione pubblica 16,4 15,5 15,4 18,5 15,9 Clienti privati 40,5 33,5 26,2 21,6 34,3 Però è interessante sottolineare che sembra esserci una chiara soglia sopra i 50 addetti in relazione all’ampiezza del mercato di riferimento. Infatti all’incirca il 65% delle imprese sopra questa dimensione ha come committenti imprese straniere, mentre questo avviene solo per il 46,8% del totale delle imprese italiane. Misurando la dimensione con la classe di fatturato, si può notare come la soglia alla quale si assiste ad un balzo netto sia sui 10 milioni, anche se già oltre i 2 milioni di fatturato il ruolo di committenti esteri diviene rilevante (oltre metà delle imprese lo segnala). Il ruolo di committente svolto da imprese estere è meno spiccato per le imprese del campione europeo, che nel contempo sembrano avere una clientela molto più locale (la voce “altre imprese della stessa regione” è indicata dal 52,1% contro il 44,6% delle imprese italiane) anche per le imprese di grandi dimensioni (commesse provenienti da altre imprese dell’area sono indicate dal 45,8% delle grandi imprese europee, ma solo dal 20,9% delle italiane). Un’altra caratteristica che emerge dal campione europeo è che il ruolo delle commesse pubbliche è molto più rilevante. La dimensione d’impresa gioca un ruolo rilevante anche in riferimento alla localizzazione dei principali concorrenti. L’89,4% delle imprese italiane vede il proprio principale concorrente posizionato all’interno dei confini nazionali (è l’86,2% per il totale del campione, la risposta multipla era consentita). Il principale concorrente è percepito fuori dal Paese e fuori dall’Europa dal 30,7% delle imprese del campione, ma solo dal 28,7% delle piccole imprese e dal 45,2% delle grandi (il dato per il campione complessivo è molto simile). Va sottolineato che, nonostante la maggiore presenza internazionale (come evidenziato nella sezione precedente, le imprese italiane considerano loro concorrenti imprese localizzate relativamente vicino. Ci sono nel questionario due domande relative alla percezione dell’impresa in relazione al Rapporto Corporate Efige I 51 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Localizzazione dei principali concorrenti delle imprese (%) NEL TUO PAESE IN ALTRI PAESI EU IN ALTRI PAESI EUROPEI NON EU Italia 89,5 31,8 9,3 Media 7 paesi 86,2 36,5 13,0 proprio posizionamento competitivo: la prima riguarda la scala dimensionale dell’impresa, la seconda la qualità del prodotto. In riferimento alla dimensione “competitiva” le imprese italiane che percepiscono la propria scala produttiva come inadeguata in relazione a quella dei competitors sono relativamente poche: il 12% circa. Sono un po’ più numerose nelle categorie estreme, tra le imprese più piccole (12,8%) e quelle più grandi (13%). Nel campione complessivo invece, pur essendo simile la quota totale (12,6%), essa è chiaramente decrescente con la dimensione: tra le imprese con più di 250 addetti solo l’8,9% ritiene di avere una scala dimensionale troppo piccola confrontata ai competitors (le grandi imprese italiane sono in media più piccole che nel resto del campione: in termini di addetti, la media di quelle che hanno più di 250 addetti è di 674,6 contro 800 per il totale del campione). La seconda riguarda invece il posizionamento competitivo dal punto di vista qualitativo: posto pari a 100 lo standard qualitativo più elevato disponibile sul mercato per il prodotto principale dell’azienda, alle imprese è richiesto di indicare il livello del proprio prodotto. La media delle risposte per le imprese italiane si assesta a quota 80, contro l’87,1 dell’intero campione. Alla tematica della qualità è dedicato il box che segue. ALTRI PAESI ASIATICI (ESCLUSO CINA E INDIA) USA E CANADA CENTRO E SUD AMERICA ALTRE AREE 22,1 6,2 6,3 2,8 1,9 20,8 8,8 10,4 4,3 4,2 CINA E INDIA Non c’è uno spiccato carattere dimensionale invece nelle indicazioni dei fattori che limitano o vincolano la crescita dell’impresa, fatta eccezione in modo abbastanza ovvio per i vincoli di natura finanziaria, che “mordono” più le imprese di dimensioni inferiori (questo vincolo è indicato dal 33,1% delle imprese fino a 19 addetti, e dal 22,7% di quelle oltre i 250). Incrociando la domanda con la dimensione in termini di fatturato c’è evidenza di difficoltà di accesso al credito soprattutto per le imprese delle prime due classi dimensionali (fino a due milioni di fatturato) e poi via via a diminuire. Comunque l’accesso alle risorse finanziarie non costituisce l’elemento di maggiore difficoltà segnalato dalle imprese: in questa fase è di gran lunga superato dalla debolezza della domanda (55,3% contro 31,5% su tutto il campione), ed è avvicinato dai vincoli di natura burocratico-legislativa (26,2%) o di regolamentazione del mercato del lavoro (27,1%). Guardando al resto del campione si nota come la “forma” del vincolo finanziario alla crescita sia più ripido in relazione alla dimensione, colpendo di più le imprese più piccole (si nota in particolare escludendo le imprese italiane dal set complessivo). In aggiunta questa dei vincoli finanziari è la domanda più “gettonata” a livello complessivo, al pari della mancanza di domanda (ed escludendo la categoria residuale “altri”). Molto meno citati sono i vincoli dovuti alla regolamentazione del mercato del lavoro e alla burocrazia in genere. I criteri di fissazione dei prezzi Per quanto riguarda le politiche di pricing attuate dalle imprese nel mercato domestico, il confronto internazionale è particolarmente suggestivo. In generale suggerisce tre differenti approcci: le economie piccole e aperte in cui prevale la percezione dell’esistenza di un prezzo di mercato al quale l’impresa deve adeguarsi (Austria e Ungheria), i grandi paesi dell’Europa continentale (Germania, Francia e Regno Unito), in cui sostanzialmente si equivale il numero di imprese che afferma di fissare il prezzo come margine sui costi totali e quelle che invece percepiscono il prezzo come fissato dal mercato, e i paesi mediterranei (Italia e Spagna) in cui la maggior parte fissa il prezzo come margine sui costi totali. Per l’Italia questa percentuale è pari al 43,1% (il 36,2% fa riferimento al prezzo di mercato). Al crescere della dimensione d’impresa però queste caratteristiche tendono a sfumarsi e sembra prevalere la pressione competitiva “globale” (per le imprese italiane sopra i 250 addetti il 33,8% fissa il prezzo come mark up sul totale costi e il 46,3% lo ritiene fissato dal mercato). Vincoli alla crescita (%) VINCOLI FINANZIARI RIGIDITÀ MERCATO DEL LAVORO RESTRIZIONI BUROCRATICHE O LEGISLATIVE MANCANZA DI RISORSE MANAGERIALI O ORGANIZZATIVE MANCANZA DI DOMANDA ALTRO NESSUN VINCOLO Italia 31,5 27,1 26,2 13,7 55,3 11,2 6,9 Media 7 paesi 31,9 17,6 19,1 10,9 39,3 30,1 9,0 ADDETTI 52 I Rapporto Corporate Efige Vincoli alla crescita (%) MANCANZA DI RISORSE RESTRIZIONI MANAGERIALI BUROCRATICHE O O LEGISLATIVE ORGANIZZATIVE VINCOLI FINANZIARI RIGIDITÀ MERCATO DEL LAVORO 10 - 19 addetti 33,1 28,5 27,3 20 - 49 addetti 31,2 27,5 50 - 249 addetti 28,8 oltre 250 addetti 22,7 ITALIA TOTALE CAMPIONE ESCLUSA ITALIA MANCANZA DI DOMANDA ALTRO NESSUN VINCOLO 12,7 58,3 10,5 5,9 25,7 13,9 55,6 11,8 7,3 20,6 24,3 15,4 60,1 10,7 7,1 26,5 28,0 13,0 53,3 14,5 15,1 MANCANZA DI RISORSE RESTRIZIONI MANAGERIALI BUROCRATICHE O O LEGISLATIVE ORGANIZZATIVE MANCANZA DI DOMANDA ALTRO NESSUN VINCOLO VINCOLI FINANZIARI RIGIDITÀ MERCATO DEL LAVORO 10 - 19 addetti 36,4 15,0 17,8 10,6 34,7 37,2 9,0 20 - 49 addetti 32,2 12,8 15,5 10,3 31,1 39,2 11,0 50 - 249 addetti 26,7 10,4 13,0 7,2 33,1 42,7 9,2 oltre 250 addetti 23,9 13,7 15,3 6,4 32,7 37,7 12,1 L’impatto sui margini stessi della crisi è stato nel senso di una riduzione per il 53,5% dei rispondenti, di stabilità per il 35,4% e di crescita per l’11,1%, percentuali sostanzialmente identiche a quelle del totale del campione. Nel definire l’ampiezza dei margini stessi conta l’elasticità della domanda al prezzo (53,4%) e il margine medio praticato nel settore (32,7%), meno le condizioni macroeconomiche complessive (14%), anche in questo caso con risposte analoghe a quelle complessive. Oltre la metà (il 52,9%) delle imprese che vendono all’estero afferma di praticare un prezzo unico (al netto dei costi di trasporto) per tutti i paesi di destinazione; questa quota però è molto legata alla dimensione aziendale e le imprese più grandi sembrano più capaci di discriminare il prezzo di vendita (sopra i 250 addetti solo il 42,3% delle imprese afferma di vendere ovunque allo stesso prezzo). Per la metà che differenzia il prezzo, a livello di campione complessivo, i motivi sono molteplici, ma ricevono segnalazioni più frequenti quelli legati alla differenziazione per qualità o alla presenza di tariffe o differenti regimi fiscali. Una quota molto limitata (il 4,2%) di imprese fissa i propri prezzi di listino in una valuta differente dall’euro, quota che ovviamente è legata alla dimensione d’impresa e quindi al presidiare molti mercati; per le imprese sopra i 250 addetti infatti la quota è pari al 17,6%. In questo senso è naturale che solo poche imprese facciano regolare uso di strumenti di protezione dal rischio di cambio (solo il 12.4% dei rispondenti nel complesso, ma ovviamente metà delle imprese di grandi dimensioni). Questa quota è, nel totale del campione, pari al 15,8%; andando a guardare i singoli paesi si nota il 20% per Germania e Austria e il 22% per l’Ungheria. Principale criterio di fissazione dei prezzi (%) I prezzi sono fissati come margine del costo totale I prezzi sono fissati come margine del costo variabile I prezzi sono fissati dal mercato I prezzi sono regolati Altro 1 AUSTRIA FRANCIA GERMANIA UNGHERIA ITALIA SPAGNA REGNO UNITO 26,4 40,4 35,3 22,1 43,1 55,9 36,0 14,8 14,5 16,4 10,7 13,1 10,9 22,0 45,1 5,0 6,2 41,2 1,8 2,1 38,8 5,0 3,3 56,3 0,6 10,3 36,2 3,6 4,0 27,2 2,9 3,1 32,2 2,6 3,2 L’84,6% delle imprese italiane intervistate produce su commessa per almeno il 75% del proprio fatturato. La moda del valore indicato è chiaramente il 100% (sono 1954 su 3020 a indicare questo valore, cioè il 65%); nel resto del campione la produzione su commessa riveste un ruolo meno ampio: la quota corrispondente (>=75%) è del 74,7% e il valore pari al 100% è indicato dal 52,3% delle imprese. Rapporto Corporate Efige I 53 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane La percezione della qualità del prodotto nelle scelte delle imprese italiane a cura di Andrea Brasili Come detto, la prima impressione è che le imprese italiane abbiano una percezione di maggiore distanza dalla frontiera della best practice di quella delle imprese degli altri paesi. Val la pena di analizzare più da vicino questo aspetto. La prima curiosità è valutare se vi siano differenziali in termini dimensionali. Utilizzando come variabile dimensionale gli occupati non si notano differenze sostanziali, mentre, guardando al fatturato, si nota che su alcune categorie medie la distanza è molto ampia, per esempio (come mostra il grafico) per la categoria tra i 10 e i 15 milioni di fatturato. Un esame più attento della distribuzione delle risposte conferma questa impressione: le grandi imprese tendono, più delle altre, ad indicare un valore elevato. Viene scelto un valore uguale o maggiore di 90 per il 58% delle imprese con più di 250 addetti, a fronte del 45% delle imprese di piccola dimensione1; sul campione europeo, le distanze sono meno ampie: un valore maggiore o uguale a 90 viene indicato dal 69% delle imprese, con le piccole al 66% e le grandi al 75%. La forma complessiva della distribuzione2 delle risposte in termini di livelli di qualità fornisce un altro punto di vista sul tema, mostrando una presenza chiaramente meno fitta su livelli prossimi a 100 per le imprese italiane e una maggiore densità su livelli bassi (non si direbbe dunque che c’è semplicemente una differente percezione di quale sia il livello “normale”, l’intera distribuzione è spostata a sinistra). Ci sono altre domande in questa sezione del questionario che afferiscono alla qualità: alle imprese è richiesto anche di definire quali siano i driver di competitività più rilevanti per il prossimo futuro. Al di là del peso molto maggiore della voce residuale “altro” per il campione complessivo si nota una più forte attenzione delle imprese italiane alla competitività di costo, indicata dalla maggior parte delle imprese italiane. 54 I Rapporto Corporate Efige Posizionamento “qualitativo” per classi di fatturato (%) Italia Media 7 paesi Posto a 100 il livello qualitativo del miglior prodotto disponibile sul mercato, dove si posiziona il vostro? 92 90 88 86 84 82 80 78 76 74 totale campione 1-2 mln 10-15 mln più di 250 mln Distribuzione delle risposte in termini di livelli di qualità (%) Italia Totale campione (esclusa Italia) 4 3,5 3 2,5 2 1,5 1 0,5 0 50,0 55,6 61,1 66,7 72,2 77,8 83,3 88,9 94,4 100,0 Fattori di competitività più importanti (%) Italia Media 7 paesi 70 60 50 40 30 20 10 0 Ridurre Migliorare Ampliare Accrescere Ampliare costi la qualità la gamma la la rete di del prodotto prodotti riconoscibilità distributiva produzione del marchio Espandere i servizi post-vendita Altro Anche in questo caso è utile chiedersi se vi siano specificità dimensionali: focalizzando l’attenzione solo sulla scelta “migliorare la qualità del prodotto” si nota come essa sia, in Italia, crescente al crescere della dimensione, mentre nel resto del campione la relazione è (quasi) inversa (ma con un’escursione molto limitata, intorno al 2% contro il 7% nelle risposte delle italiane). Andamento del miglioramento della qualità del prodotto in relazione alla dimensione (%) Driver di competitività: migliorare la qualità 64 Italia Media 7 paesi (sc. dx) ulteriori analisi, suggeriscono che l’idea, accreditata dai case studies, dell’impresa medio-piccola che, pur nella sua nicchia, opera alla frontiera della tecnologia e della qualità non sembrerebbe suffragata dai dati. 49 61 48 58 47 55 46 52 45 10-19 20 - 49 50 - 249 > 250 Infine, c’è una domanda che è rivolta ad indagare i comportamenti delle imprese in termini di pricing che è di interesse per il tema in questione. Qui si chiede se le imprese pratichino prezzi differenziati rispetto alla qualità del prodotto in differenti mercati di sbocco: le imprese italiane in genere rispondono affermativamente con molta più frequenza di quelle del campione nel suo insieme; andando a scomporre per “percezione qualitativa” si nota come le imprese del campione che si situano sulla frontiera3 tendono a differenziare poco (5,2%), mentre è più ampia la quota di quelle che si situano più distanti dalla frontiera ad offrire prodotti (e prezzi) differenziati per qualità (13,9%). Per le imprese italiane vale il contrario, lasciando l’impressione che anche per le imprese capaci di proporre prodotti di livello qualitativo elevato vi sia una quota di attività esposta alla competizione sui costi/prezzi. Prezzo differente per differenziazione qualitativa MEDIA 7 PAESI ITALIA 8,3 23,2 PC>99 5,23 26,7 PC<80 13,88 21,95 Tutte le risposte PC = percezione qualità In generale sembra che l’approccio strategico, in relazione al perseguimento della qualità, da parte delle imprese italiane sia differente da quello del campione complessivo. Queste indicazioni, assolutamente preliminare e da sottoporre ad Per l’intero campione italiano il dato è del 46,4%. Guardando alle classi di fatturato si trova un gradino netto sopra i 15 milioni di fatturato. Infatti, se il fatturato è sotto quella soglia il valore indicato in termini di propria prossimità alla frontiera è maggiore o uguale a 90 per il 46% delle imprese; lo stesso balza a 52% per imprese con più di 15 milioni di fatturato. 2 Ottenuta tramite una stima di densità non parametrica. 3 In tabella sono presentate le frequenze delle risposte complessive, quelle delle imprese che affermano che il loro prodotto è pari al meglio che si può trovare sul mercato (PC>99) e quelle il cui prodotto, fatto 100 il prodotto disponibile migliore è sotto quota 80 (PC<80). 1 Rapporto Corporate Efige I 55 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane FINANZIAMENTO DELL’IMPRESA E RUOLO DELLA BANCA a cura di Elena d’Alfonso Le imprese italiane utilizzano molto debito esterno, principalmente basato su debito bancario. Ciononostante il rapporto con la banca principale non è più stretto in Italia che altrove: al contrario, rispetto agli altri paesi su cui sono state effettuate le interviste, le imprese italiane hanno in media rapporti con un maggior numero di banche e una quota di debito con la banca principale più basso. Questa sezione mira a valutare quali sono le caratteristiche finanziarie delle imprese, al di là di ciò che emerge dall’esclusivo utilizzo dei dati di bilancio. Il questionario si occupa quindi di capire le attitudini delle imprese rispetto al finanziamento esterno, sia in termini di strumenti che nel rapporto con le banche. Dai dati emerge che larga parte delle imprese italiane utilizza finanziamento esterno, principalmente basato su debito bancario, che rappresenta la maggior parte delle passività delle imprese, mentre tutti gli altri strumenti, complementari al finanziamento bancario, sono poco, se non del tutto, utilizzati. Anche a livello europeo la banca rimane il principale finanziatore delle passività, ma in generale sembra che la struttura finanziaria sia più articolata nell’utilizzo degli strumenti e meno sbilanciata verso il breve termine. Le differenze si attenuano però sulle imprese più grandi, che sembrano essere meno distanti dalle loro controparti europee. Il fatto che le imprese italiane poggino prevalentemente sul debito bancario non significa, tuttavia che il rapporto con la banca principale sia particolarmente stretto; al contrario, rispetto agli altri paesi su cui sono state effettuate le interviste, le imprese italiane hanno in media rapporti con un maggior numero di banche e una quota di debito con la banca principale più basso. In generale, sono poche le imprese del nostro campione che si considerano finanziariamente razionate, indicazione che delinea un rapporto con la banca di riferimento che non pone problemi di accesso al credito, ma che, tuttavia, potrebbe essere efficacemente potenziato. Probabilmente, avendo poche fonti di altro tipo, le imprese saziano la sete di credito attingendo da più istituti bancari: in effetti, i luoghi alternativi di raccolta di risorse finanziarie, come il mercato dei capitali, sembrano essere utilizzati da una quota estremamente piccola di imprese, e molte poche manifestano l’intenzione di entrare in borsa nel prossimo periodo. 56 I Rapporto Corporate Efige Il finanziamento delle imprese italiane Le imprese italiane rivelano di avere una maggiore propensione a utilizzare finanziamento esterno, rispetto all’utilizzo esclusivo di autofinanziamento: nel 58% dei casi, infatti, le imprese tra il 2008 e il 2009 hanno utilizzato risorse esterne, una percentuale ben al di sopra di quella europea (42,3%) e, tra i Paesi, inferiore solo alla Spagna (64,5%). Struttura delle passività delle imprese (%) Italia Media 7 paesi 60 50 40 30 20 10 Le passività si compongono prevalentemente di debito nei confronti delle banche, in linea con la media europea (sempre valutata come media dei sette paesi inclusi nel campione), tuttavia, come il grafico mette bene in luce, le imprese italiane sono tendenzialmente più esposte a breve nei confronti delle banche rispetto agli altri paesi (il breve rappresenta per le imprese italiane il 39,9% del debito versus il 34,3% delle imprese europee). Il medio lungo è comunque la componente più importante delle passività (ne rappresenta il 47,6%), mentre le emissioni di obbligazioni sono una quota quasi irrilevante del debito: quelle a breve e a lungo ne rappresentano insieme l’1,1%, ben al di sotto della media dei sette Paesi, in cui queste due voci insieme rappresentano in media il 3,3% del debito. Non ci sono grandi differenze tra classi dimensionali nella struttura del debito: in generale anche per le imprese di maggiore dimensione il debito bancario rimane comunque la voce prevalente delle passività. 0 Debito bancario a breve Debito bancario a Medio Lungo Obbligazioni a breve termine Tuttavia, la classe di imprese grandi (con un numero di addetti superiore a 250) si distanzia in qualche modo dalle altre per un più largo utilizzo del debito a lungo nei confronti della banca (52,8%) e per un maggior ricorso all’emissioni di obbligazioni, sempre a lungo termine (3,42%). Nel corso del 2009 l’utilizzo di finanziamento esterno è aumentato per il 41,5% delle imprese intervistate. Tra queste, quelle italiane sembrano avere aumentato il finanziamento esterno poco meno degli altri paesi europei (il 40,3% ha incrementato il finanziamento esterno), e in maniera differenziata a seconda della dimensione: sono le imprese medio-grandi (50-249 addetti), infatti, quelle che più delle altre hanno incrementato il ricorso a finanziamento esterno (44%). Obbligazioni a Medio Lungo termine Altro L’aumento di finanziamento esterno era dovuto alle necessità di liquidità per il 58,9% delle imprese italiane: gli effetti della crisi hanno pesato principalmente sul cash flow – anche da legarsi ai tempi di pagamento che si sono ulteriormente dilatati durante la fase più dura della crisi. Tale necessità colpisce principalmente le piccole imprese (10-19), che segnalano il cash flow come obiettivo del finanziamento nel 67% dei casi. A livello europeo l’Italia è seconda solo alla Spagna (67,8%) per numero di imprese che hanno segnalato le esigenze di cassa come ragione principale del ricorso al finanziamento esterno, mentre per tutte le altre nazioni questa motivazione è stata sì importante, ma non necessariamente la prioritaria. Un altro obiettivo rilevante del finanziamento esterno è risultato essere l’aumento della Struttura delle passività delle imprese italiane per dimensione (%) DEBITO BANCARIO A BREVE DEBITO BANCARIO A MEDIO LUNGO OBBLIGAZIONI A BREVE TERMINE OBBLIGAZIONI A MEDIO LUNGO TERMINE ALTRO 10-19 40,2 47,0 0,3 0,9 11,6 20-49 39,8 47,9 0,3 0,6 11,4 50-249 40,1 47,2 0,6 1,1 11,0 250 e oltre 36,4 52,8 0,0 3,4 7,3 Totale 39,9 47,6 0,3 0,8 11,4 ADDETTI Rapporto Corporate Efige I 57 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Numero di imprese che aumentano il finanziamento esterno (%) ITALIA MEDIA 7 PAESI 10-19 37,7 38,9 20-49 41,2 43,0 50-249 44,0 43,7 250 e oltre 39,4 40,4 Totale 40,3 41,8 ADDETTI Strumenti utilizzati per il finanziamento (%) Italia Media 7 paesi 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Debito bancario a medio lungo Debito bancario a breve Leasing or Factoring produzione attraverso investimenti fissi, segnalato dal 22% delle imprese italiane, dato inferiore alla media dei sette paesi (24,2%), e crescente al crescere della dimensione. Infine, un numero non indifferente di imprese (10,36%), superiore a tutti gli altri paesi europei coinvolti nell’indagine, ha utilizzato le risorse esterne per ristrutturare la propria situazione finanziaria, segnalando che, almeno in parte, la crisi potrebbe essere stato un fattore di stimolo a riequilibrare la propria situazione finanziaria. Tale ristrutturazione viene fatta in un numero di imprese crescente al crescere della dimensione. In generale, per aumentare il ricorso al finanziamento esterno durante il 2009 le imprese hanno utilizzato, nella maggior parte dei casi, credito a medio-lungo termine da parte delle banche (79,5%), seguito 58 I Rapporto Corporate Efige Capitale proprio Finanziamenti pubblici Incentivi fiscali dal credito a breve (49,6%) e dal leasing o factoring (30,5%). L’allargamento della compagine o delle quote societarie attraverso nuovi contributi in termine di capitale è stato scelto dal 12% circa delle imprese: è da notare che a livello europeo questa possibilità è stata utilizzata da una quota di imprese maggiore (16,4%), in particolare in Francia (29,6%) e Germania (33,7%). All’interno di questo quadro il ranking degli strumenti finanziari utilizzati dalle imprese italiane si differenzia solo marginalmente da quanto si nota sull’intero database: tuttavia nel complesso appare un utilizzo meno variegato degli strumenti a disposizione delle imprese. In effetti, il debito bancario e strumenti come leasing e factoring sono stati utilizzati da una quota di imprese addirittura maggiore di quanto si vede sulla totalità del database, mentre equity, venture capital e emissione di obbligazioni, sono poco o per nulla utilizzate. Altri strumenti finanziari Venture Capital Obbligazioni Alcune differenze di maggior rilievo si riscontrano, tuttavia, al crescere della dimensione, in particolare sulle imprese grandi, in cui la struttura finanziaria sembra essere più complessa, con un utilizzo più vario degli strumenti finanziari a disposizione. Per quanto riguarda l’utilizzo di strumenti derivati, delle imprese rispondenti, solo il 6,6% delle imprese li utilizzano, contro l’8,3% medio internazionale. Tendenzialmente sono le imprese di maggiore dimensione, con una complessità pertanto più elevata, a farne un uso maggiore: addirittura il 40% (nella totalità delle imprese è il 33,2%) delle imprese con un numero di addetti superiore a 250 ha infatti sottoscritto un derivato, contro il 3,7% delle imprese di tra 10 e 19, il 6,1% di quelle tra 20 e 49 e il 12,5% di quelle tra 50 e 249. Utilizzo degli strumenti finanziari (%) 10-19 20-49 50-249 250 E OLTRE TOTALE Debito bancario a medio lungo 78,4 81,6 83,6 81,8 80,8 Debito bancario a breve 51,0 51,0 50,4 40,7 50,8 Leasing o Factoring 24,4 34,6 25,2 31,1 29,9 Capitale proprio 9,7 11,6 15,3 16,5 11,5 Finanziamenti pubblici 3,1 5,1 5,5 7,9 4,6 Incentivi fiscali 1,8 3,8 8,8 2,0 3,8 Altri strumenti finanziari 3,4 2,1 4,4 2,8 2,9 Venture Capital 0,4 0,2 0,0 8,9 0,4 Obbligazioni 0,0 0,3 0,0 2,7 0,2 Rapporto con la banca principale 90 Quota di debito con la banca principale (%) Nel complesso, ci sembra di potere concludere che in termini di varietà di strumenti utilizzati e di strategie di finanziamento le imprese italiane sono un po’ meno elaborate delle loro simili europee. La distanza sembra attenuarsi solo per dimensioni molto grandi, ma il finanziamento esterno, anche indipendentemente dalla dimensione, poggia per larga parte sul debito bancario. In questo quadro è particolarmente rilevante continuare il monitoraggio, utilizzando le indicazioni dell’indagine, relativamente al rapporto banca e impresa. Come prima cosa guardiamo, pertanto alle variabili fondamentali per identificare le principali caratteristiche del rapporto con le banche: innanzitutto multiaffidamento e quota di debito con la banca principale. Le imprese italiane per il finanziamento della loro attività si appoggiano ad un numero di banche in genere maggiore rispetto alle REGNO UNITO 80 70 AUSTRIA UNGHERIA 60 GERMANIA FRANCIA SPAGNA 50 ITALIA 40 30 20 10 0 0 1 2 3 4 5 Numero di banche loro controparti estere: sono 4 in media le banche di riferimento, un numero che resta in linea con le ultime tornate dell’indagine, da quando cioè, la struttura del mercato finanziario si è stabilizzato dopo il periodo delle grandi fusioni. A livello europeo, invece, la media ruota intorno alle 3 banche per impresa, e l’Italia è preceduta solo dalla Tipologia dell’attività e scelta della banca (%) Italia ATTIVITÀ DOMESTICA ATTIVITÀ ESTERA Banche locali 68,7 42,7 Banche nazionali 83,6 80,75 3,3 10,78 Banche locali 64,0 33,6 Banche nazionali 68,1 55,7 5,3 9,7 Banche internazionali Media 7 paesi Banche internazionali Rapporto Corporate Efige I 59 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Fattori alla base della scelta della banca principale (%) AUSTRIA Servizi competitivi FRANCIA GERMANIA UNGHERIA ITALIA SPAGNA REGNO UNITO MEDIA 7 PAESI 27,4 69,1 5,7 19,9 69,9 74,8 52,9 42,2 Servizi tramite internet 0,0 42,8 0,6 1,2 18,8 33,7 5,5 14,4 Trasparenza 9,2 71,8 1,7 14,4 50,0 35,4 6,6 26,5 Collocazione 19,8 74,2 6,6 10,3 37,4 42,2 14,1 26,7 Rete internazionale 3,1 41,3 0,6 0,7 14,7 16,6 2,8 10,4 Consulenza 5,2 46,1 1,4 1,1 20,2 19,5 4,4 13,2 Durata della relazione 22,8 80,1 6,1 17,2 61,3 64,7 40,2 38,6 Flessibilità 15,3 47,2 2,1 15,0 42,3 28,1 13,6 21,9 5,3 17,0 0,9 2,3 6,6 11,5 6,4 5,8 44,1 21,6 9,1 35,7 3,4 11,2 55,0 13,2 Gruppo Bancario Altro Spagna (4, 3 banche per impresa). Tutti gli altri paesi stanno in una media di rapporti tra 1,7 (per le imprese del Regno Unito) e 2,5 (Francia e Germania). Come in passato, il numero di banche a cui l’impresa si appoggia cresce al crescere della dimensione: nelle imprese con meno di 20 addetti le relazioni con la banca sono in media 3,25, nelle imprese con un numero di addetti tra 20 e 49 sono 4, quelle con un numero di addetti tra 50 e 249 sono 5,9 e per le imprese con un numero di dipendenti superiore a 250 sono 7,4. La quota del debito nei confronti della banca principale è poco meno della metà, il 46,1%: livello significativo, ma inferiore alla media del campione (58,3%), in cui si passa dal 55,7% della Spagna al 78,6% del Regno Unito. In tutti i paesi la quota diminuisce al crescere della dimensione, segnalando un rapporto meno intenso con la banca principale per le imprese più grandi, probabilmente anche a causa delle differenti e più complesse operazioni che devono compiere. Nel caso italiano, le imprese con un numero di addetti tra 10 e 19 ha una quota di debito nei confronti della banca principale di 49,5%, per le imprese tra 20 e 49 la quota è di 45,5%, per quelle tra 50 e 249 di 40,3% e, infine per le imprese con più di 250 addetti la quota si riduce a 38,2%. 60 I Rapporto Corporate Efige In effetti, incrociando le informazioni relative a queste due variabili - il numero di banche con cui le imprese hanno relazioni e la quota di debito nei confronti della banca principale - si può dare una complessiva valutazione dell’intensità del rapporto: dal grafico si nota che le imprese spagnole ed italiane si distanziano dalle altre per avere, in media un numero di banche superiore agli altri paesi e un livello di intensità del debito con la banca principale inferiore. Il numero degli anni di rapporto nei confronti della banca principale è, invece, solo di poco al di sotto della media europea, sono 16,1 contro il 16,6 totale, cosa che evidenzia che la stabilità del rapporto è un elemento di scelta importante nei confronti della banca. Ma non è l’unico. Innanzitutto la tipologia di banca scelta si differenzia a seconda dell’attività che si deve finanziare; non è indifferente la struttura della banca rispetto al tipo di servizio che deve dare. Vi è una domanda, in particolare, che mette in luce questo aspetto; si chiede alle imprese se utilizzano banche locali, nazionali o internazionali, e per quale tipo di attività. Risulta che le imprese prediligono in generale la banca nazionale alle altre, e che comunque utilizzino tendenzialmente di più le banche estere per le attività estere e viceversa le banche locali siano utilizzate molto poco per le attività all’estero. In particolare, nel caso si facciano attività all’estero, la percentuale di imprese che usano banche straniere arriva al 10% (dal 3,3% di utilizzo di banche straniere per attività sul territorio nazionale). Da un certo punto di vista il dato evidenzia anche la percezione da parte delle imprese di una certa segmentazione del mercato finanziario. Nel confronto con gli altri paesi quello che salta più all’occhio è il tasso di risposte: tendenzialmente in tutte le categorie le percentuali per l’Italia sono più alte che quelle estere, probabilmente per via del multiaffidamento di cui si diceva prima. Al di là della tipologia dell’attività vi sono poi alcune caratteristiche principali sulla base delle quali le imprese scelgono la banca principale: i primi quattro segnalati dalle imprese sono la competitività dei servizi (69,9%), la durata della relazione (61,3), la trasparenza (49,9%) e la flessibilità (42,3%). Per quanto riguarda l’accesso al credito, il 59,9% delle imprese ha segnalato di non avere avuto necessità di maggior credito nel 2009, valore in linea con la media che si riscontra nei sette paesi (60,4%). Tra le imprese intervistate sono, in particolare, le medio grandi (tra 50 e 249), a non avere esigenze di natura finanziaria insoddisfatte, Incentivi finanziari e fiscali per classe dimensionale (%) ADDETTI ITALIA INCENTIVI FINANZIARI INCENTIVI FISCALI MEDIA 7 PAESI INCENTIVI INCENTIVI FINANZIARI FISCALI 10-19 10,6 14,5 14,0 11,8 20-49 14,4 23,4 17,6 16,8 50-249 19,4 34,8 22,2 21,2 250 e oltre 28,8 46,4 20,9 24,6 Totale 13,8 21,8 17,3 16,1 il 65% circa, infatti, non ha manifestato l’esigenza di aumentare il credito. Del 40% circa di imprese che desideravano maggiore credito, il 48% lo ha ottenuto, il 20,6%, pur avendo desiderato maggior credito, non ne ha fatto richiesta, il 30,5 % è, infine, vincolato, in quanto pur richiedendolo non gli è stato concesso. Tra queste ultime, si definisce strettamente vincolato chi, pur essendo disposto a pagare un tasso più alto nell’ottenere credito, non è stato comunque soddisfatto: fanno parte di questa categoria il 48% delle precedenti. Sulla totalità di imprese italiane rispondenti a queste domande, possiamo dire che il 29,8% è vincolato e il 6,3% è razionato in senso stretto, un po’ più del campione complessivo dove queste proporzioni sono rispettivamente il 23,1% e il 5,1%. Tra quelli che hanno ottenuto credito, il costo, nel corso del 2009, è aumentato per il 45,5% delle imprese rispondenti, valore poco più alto della media dei sette paesi (45%): sono le imprese di piccole e medie dimensioni ad avere sperimentato maggiormente l’incremento del costo (45,8% e 45,1% rispettivamente le classi 10- 19 e 20-49), mentre le più grandi hanno quote del 43,6% e del 40,9% (rispettivamente le classi 50-249 addetti e oltre 250). Come garanzia a fronte del credito, per la maggior parte, le imprese italiane dichiarano di fornire alla banca dati di bilancio (94%) e collateral (46%), di natura personale nel 65,3% dei casi o su asset di impresa nel 65,1% dei casi. Al di là del debito bancario, come si è visto, non vengono utilizzate molte altre forme di finanziamento. E anche andare sul mercato dei capitali sembra ben poco perseguito dalle imprese del nostro paese. Infatti, per quanto riguarda la quotazione, le imprese italiane sono sempre ben al di sotto delle loro controparti europee, solo lo 0,5 % degli intervistati sono quotati, contro l’1,6% della totalità delle interviste: tale quota è più alta, infatti, in ognuno dei paesi considerati, dallo 0,87% dell’Ungheria al massimo di 5,7% del Regno Unito, mentre Francia e Germania hanno una percentuale pari rispettivamente all’1,9% e all’1,4%. Nei prossimi tre anni, si quoterà poi con certezza lo 0,06% delle imprese, mentre un altro 0,8% prende in considerazione la possibilità: anche sommandoli, ci possiamo aspettare un aumento delle imprese quotate nell’ordine dello 0,86% contro l’1,1% del campione generale. del 17,5% della media del campione. Gli incentivi fiscali, invece, vengono assegnati al 21,8% delle imprese, contro il 16,1% del totale delle imprese intervistate: di questa tipologia di incentivi, il 3,5% viene attribuito a livello europeo e il 96,4% a livello nazionale. Entrambe le categorie di incentivi tendono comunque ad essere più diffuse al crescere del numero di dipendenti, sottolineando come anche in questo caso la dimensione renda le imprese maggiormente in grado di accedere anche alle risorse messe a disposizione dal pubblico. In termini di incentivi, che possono essere considerati una diversa fonte di finanziamento, l’indagine suddivide tra incentivi finanziari e incentivi fiscali: le imprese italiane sembrano essere più propense a utilizzare i primi rispetto ai secondi, dato in controtendenza almeno parziale con quanto emerge a livello europeo. Gli incentivi finanziari vengono ricevuti dal 13% delle imprese, ben al di sotto del 17% del campione. Fatto 100 il valore totale degli incentivi finanziari, quelli nazionali pesano per l’87,7% e quelli europei per il 12,2%, valore ben al di sotto Rapporto Corporate Efige I 61 Rapporto Corporate XI Indagine sulle imprese manifatturiere italiane Gli strumenti derivati come copertura e i rischi delle attività internazionali a cura di Elena d’Alfonso e Silvia Giannangeli L’indagine Efige-UniCredit, ci dà modo di avere, direttamente da parte delle imprese, alcune informazioni anche sulle strategie in termini di copertura dei rischi, cosa che ci pare essere di particolare rilevanza in una fase in cui le esportazioni sembrano essere il vero traino della ripresa. Al di là delle forme assicurative (in molti casi fornite da agenzie pubbliche come la SACE), tra gli strumenti finanziari che permettono la copertura dei rischi i principali sono i derivati, che hanno tra i loro obiettivi proprio quello di fare hedging. Iniziamo allora con il guardare quali sono le imprese che dichiarano di farne uso e quali caratteristiche le accomunano. In Italia, delle 1860 imprese che rispondono, solo 145, il 7,8%, hanno utilizzato strumenti derivati; non sembrano quindi essere strumenti che utilizzati comunemente. Su queste imprese sembrano poi pesare più gli effetti firm specific, non ultimo la dimensione di impresa, che quelli legati al settore. Non vi è, ad esempio, una concentrazione in alcuni settori in particolare, ma la distribuzione tra branche è piuttosto diffusa, fatto salvo una certa sovrarappresentazione del settore alimentare e della chimica. L’utilizzo di strumenti derivati sembra essere invece legato a caratteristiche individuali e scelte strategiche delle singole imprese: quelle che li usano sono, infatti, sensibilmente più grandi, con 257 addetti in media contro i 65,5 del campione complessivo. Ma non sono solo più grandi e generalmente più complesse: spesso, ad esempio, sono organizzate in gruppi (nel 38,6% dei casi versus il 17,5 del totale nazionale) ed internazionalizzate. La maggior parte delle imprese che hanno derivati, infatti, ha scambi con l’estero: il 90% esporta, percentuale che sale al 95,8% considerando anche quelle che importano. Queste sono infatti per definizione esposte al rischio di apprezzamento o deprezzamento dell’euro rispetto alle valute estere su cui sono basate le loro transazioni. Le fluttuazioni del cambio possono incidere, anche 62 I Rapporto Corporate Efige significativamente, sui margini di operatività delle aziende, sia riducendo i ricavi dalle vendite sia aumentando i costi produttivi a causa di variazioni del prezzo del portafoglio ordini. I dati suggeriscono però che gli strumenti derivati solo in parte vengono utilizzati come strumento di copertura del rischio di cambio, e sono, per altra parte, da legare alle più articolate esigenze di finanziamento delle aziende più grandi e complesse. Di fatto, il 40% delle imprese che usano derivati dichiara anche di adottare strategie per coprirsi dal rischio di cambio. Allo stesso tempo, tuttavia, il 45% dichiara di non essere interessato ad adottare alcuna copertura di questo tipo, oppure di non affrontare alcun rischio poiché gli scambi avvengono nella propria valuta. Il mercato finanziario e assicurativo offre però molteplici strumenti per la protezione contro il rischio cambio. In generale, tali strumenti di protezione dovrebbero essere più appetibili per le imprese maggiormente impegnate in attività con l’estero: dall’indagine emerge che, a livello internazionale (media IT, FR, DE e SP), il 7,4% delle imprese in cui meno del 10% del fatturato è legato all’export utilizza strumenti per la copertura del rischio cambio; tale percentuale sale al 15,5% nelle imprese in cui l’export conta fra il 10 ed il 50% del fatturato, e raggiunge il 27,1% nelle imprese in cui più della metà del fatturato è legata alle esportazioni. Distinguendo tra paesi si notano alcune differenze interessanti. Se, infatti, ovunque la propensione ad utilizzare strumenti Percentuale di imprese che utilizzano forme di protezione contro il rischio di cambio, distinte per intensità di export (% di export sul fatturato totale) 35 Italia Germania Francia Spagna Media 30 26,0 25 20 15,5 15 10,5 10 5 0 7,4 3,5 <10 10-50 >50 27,1 di copertura cresce al crescere della quota export, tale propensione appare strutturalmente più bassa per le imprese italiane in generale, ed in particolare in quelle in cui la quota export è minore. La distanza fra l’Italia e gli altri paesi considerati nel confronto internazionale è chiara soprattutto nel gruppo dei micro-esportatori (imprese che esportano meno del 10% del fatturato): in Italia soltanto il 3,5% in questo gruppo dichiara di proteggersi contro il rischio di cambio, a fronte del 5,3% in Germania, il 10,2% in Spagna e quasi l’11% in Francia. Fra le imprese che vendono i propri prodotti e servizi fuori dai confini nazionali, il 55% importa fattori produttivi dai mercati esteri. Come è da attendersi, fra gli importatori, la propensione ad attivare strategie di copertura del rischio è maggiore rispetto a quelle che non acquistano dall’estero (19% contro 11%): questo conferma che scegliere di coprirsi rispetto al rischio cambio può anche essere dettato dall’esigenza di proteggere la liquidità contro avverse rivalutazioni dei propri ordinativi. L’export dell’Italia, più di quello di altri paesi europei, si fa attraverso una frammentata e numerosa schiera di micro-esportatori. È ragionevole che, quando la quota di export su fatturato è bassa, le imprese siamo meno motivate a proteggersi contro i rischi legati alle fluttuazioni del valore dell’euro verso le valute estere. L’analisi svolta mostra come nel nostro paese esista, tuttavia, un potenziale disallineamento fra esposizione ai rischi e copertura. Un elemento chiave sembra essere, invece, quello dimensionale: l’utilizzo di strumenti finanziari pensati come copertura da rischi, non solo di cambio, è più frequente nelle imprese più grandi, dove la maggiore complessità organizzativo-produttiva si traduce in strategie, anche finanziarie, più articolate. Date le caratteristiche dell’export italiano, è importante che passi importanti vengano compiuti nella direzione di estendere l’utilizzo degli strumenti finanziari più adeguati a proteggere la redditività delle imprese che, ancorché di piccole dimensioni, dimostrano di avere le capacità di raggiungere i mercati più lontani. Rapporto Corporate Efige I 63 APPROFONDIMENTI Rapporto Corporate Approfondimenti CRISI E INNOVAZIONE: IL RUOLO DELLE STRATEGIE PER IL FINANZIAMENTO DELLA R&S a cura di Elena d’Alfonso e Silvia Giannangeli La risposta delle imprese alla recente crisi economica sotto il profilo della spesa per l'innovazione può dipendere dalle caratteristiche strutturali e delle strategie delle imprese in tema di ricerca e di finanziamento. Le scelte su come finanziare la spesa in R&S e sulla composizione fra ricerca in-house e ricerca esterna risultano infatti moderare l'impatto della crisi sull'innovazione delle imprese, ed in particolare sulla decisione di ridurre le spese dedicate all'innovazione tecnologica durante il 2009. 66 I Rapporto Corporate Efige Il ritardo nella crescita della maggior parte dei paesi europei è stato al centro del dibattito economico dell’ultimo decennio. Gli economisti hanno identificato nella lenta crescita della produttività e nella scarsa attività innovativa delle imprese europee uno dei fattori principali di questo rallentamento. La perdita di competitività delle imprese italiane in termini di produttività è stata peggiore di quanto registrato nelle altre grandi economie e lo scarto dell’Italia in termini di innovazione rispetto a queste realtà è significativo. I policy makers hanno intrapreso azioni rivolte al superamento del gap, introducendo strategie – anche a livello europeo (la Lisbon Strategy) per incoraggiare l’innovazione all’interno delle imprese. Nonostante questo impegno, l’attività innovativa in Europa rimane debole: i dati disponibili più recenti confermano che, nonostante le differenze a livello internazionale siano di non trascurabile entità, esiste un gap significativo fra le imprese europee e quelle degli Stati Uniti nella spesa in R&S. Nel 2008 la spesa del settore privato in ricerca e sviluppo è stata pari allo 0,65% del PIL in Italia, contro l’1,32% della Francia, l’1,86% della Germania, e il 2,01% degli Stati Uniti. La profonda recessione che ha seguito la crisi bancaria del 2007 ha posto nuovi interrogativi e rinnovato l’interesse degli economisti e dei policy makers per il “ritardo europeo”. La maggior parte dei governi europei ha affermato con fermezza l’importanza dell’innovazione e della ricerca quali motori della crescita dei paesi all’indomani della crisi e ha assunto l’impegno ad attuare misure in grado di sostenere queste attività. Non è, tuttavia, ancora chiaro quale sia stato l’effetto della recessione sull’attività innovativa già in corso. Nell’aprile del 2009, un’analisi esplorativa della Commissione europea stimava che il 22% delle imprese europee avesse ridotto la propria spesa in R&S a causa della crisi (24% in Italia). Guardando alle imprese più focalizzate sull’innovazione, questa percentuale scendeva al 9% (Commissione europea, 2009). Tale differenza suggerisce che la risposta delle imprese alla crisi in termini di investimento in innovazione possa differire anche significativamente fra imprese e dipendere, in ultima analisi, dalle caratteristiche specifiche delle imprese stesse. In particolare il lavoro sviluppa e indaga l’ipotesi che le condizioni finanziarie generali possano esercitare un effetto negativo sull’innovazione, che agisce attraverso le scelte delle imprese in termini di R&S. La riduzione degli investimenti in innovazione in risposta alla restrizione del credito e alla debolezza della domanda indotte dalla crisi può infatti differire anche considerevolmente a livello di impresa e dipendere, tra gli altri fattori, dalla struttura della “funzione di innovazione” (Crépon, Duguet e Mairesse, 1998; Hall, Lotti e Mairesse, 2008) delle imprese. Le decisioni da parte delle imprese su come finanziare le proprie attività di ricerca e sviluppo e sul fatto di svolgere tali attività in-house, o piuttosto di acquistarle da strutture esterne sono considerate importanti fattori in grado di “moderare” il potenziale impatto della crisi sull’attività innovativa delle imprese, misurato attraverso la decisione da parte delle imprese di posticipare a causa della crisi attività innovative già programmate. Guarderemo pertanto a questo tema verificando innanzitutto l’impatto della crisi sulla scelta di posporre l’investimento in innovazione e legandolo alla modalità con cui si è investito nel corso del triennio in ricerca e sviluppo. Mostreremo poi come la scelta di produrre ricerca interna o esterna sia legata anche alla natura del finanziamento alla ricerca. La composizione della R&S e la probabilità di ridurre la spesa in innovazione La crisi economica e finanziaria può aver avuto un impatto sull’innovazione attraverso canali diversi: in primo luogo, un peggioramento generale del credito può aver accresciuto i vincoli finanziari agli investimenti in ricerca. In secondo luogo, la scarsa liquidità dovuta alla debolezza della domanda ha ridotto la redditività delle imprese e quindi la loro capacità di autofinanziamento. Benché tali problemi abbiano investito tutte le imprese impegnate in attività innovative, le reazioni di queste ultime possono differire anche significativamente. Infatti, ridurre l’investimento in R&S può risultare meno costoso per le imprese che si avvalgono di strutture di ricerca esterne: per queste imprese la dismissione di progetti innovativi comporta di fatto l’interruzione di un rapporto di committenza. La nostra ipotesi è quindi che l’input mix scelto dalle imprese per innovare sia un fattore importante nel determinare la decisione di dismettere la ricerca e l’innovazione stessa durante la crisi. In particolare, le imprese per cui il ricorso R&S esterna è maggiore sono potenzialmente più inclini a distogliere risorse dagli investimenti in innovazione e ricerca quando le condizioni economiche diventano particolarmente difficili. In aggiunta, la crisi finanziaria può aver colpito di più le imprese più vincolate dal punto di vista del credito. La crisi è nata infatti nell’ambito delle banche, e ha determinato da subito un rapido irrigidimento delle condizioni del credito. Le indagini sul credito a livello europeo condotte dalla Banca Centrale Europea hanno registrato un brusco peggioramento già nel tardo 2008, e le condizioni si sono mantenute difficili per tutto il 2009. Sia per ragioni di “facilità di dismissione” che di maggiori vincoli finanziari a causa della crisi, è quindi ipotizzabile che le imprese che acquistano servizi di ricerca da strutture esterne siano più propense a dismettere progetti in corso rispetto alle imprese che svolgono tutta la ricerca al loro interno. Per sottoporre a verifica empirica tale ipotesi, utilizziamo un campione di 9.013 imprese manifatturiere localizzate in Italia, Francia e Germania e stimiamo la relazione tra la scelta di dismettere progetti innovativi in seguito alla crisi e le strategie in termini di produzione della ricerca attraverso il seguente modello probit: Stima del modello probit [1] VARIABILE INDEPENDENTE: POSTINNOV extRD (I) (II) 0,001* 0,001 DUextRD 0,150*** 0,043 finconstr 0,459*** 0,450*** 0,053 0,052 0,495*** 0,492*** 0,033 0,033 0,013*** 0,013*** 0,002 0,002 0,073** 0,103*** 0,036 0,083 - 0,027 - 0,020 0,036 0,036 Pseudo R2 0,045 0,046 LR chi2 504,7*** 518,75*** reducton RD ITA FRA Note: le dummy di settore (Nace 2 digit level) sono state incluse nel modello, ma non sono mostrate nella tabella. I risultati sono disponibili su richiesta da parte degli autori. * significatività dei coefficienti al 10%. ** significatività dei coefficienti al 5%. *** significatività dei coefficienti all’1%. I numeri in corsivo rappresentano gli standard errors. Rapporto Corporate Efige I 67 Rapporto Corporate PostInnovit è un indicatore che assume valore 1 se l’impresa i dichiara di avere posticipato, e quindi ridotto, la spesa per l’innovazione durante il 2009. Il set di variabili esplicative wit include, alternativamente, la quota di ricerca commissionata al di fuori dell’impresa sulla spesa totale in R&S (extRDit, modello i) e un indicatore binario che assume valore 1 quando l’impresa ha acquistato ricerca da strutture esterne (DUextRD, modello ii). Sono poi state inserite alcune variabili che catturano la presenza di vincoli finanziari stringenti (finconstr2), una dummy che indica perdita di fatturato durante il 2009 e l’intensità dell’attività di ricerca (misurata dalla quota di spesa complessiva in R&S sul fatturato nel triennio 2007-2009), oltre che le dummy per paese e settore. I risultati della stima confermano che la scelta di ridurre l’innovazione è una reazione a vincoli di natura finanziaria e alla riduzione del fatturato durante il 2009, entrambi positivamente e significativamente correlati con PostInnov. La scelta di fare outsourcing, totale o parziale, delle attività di ricerca risulta, infine, essere associata in modo significativo alla decisione di ridurre l’impegno in innovazione nel corso del 2009. La quota di R&S investita al di fuori dell’impresa risulta essere positivamente correlata con la decisione di posticipare l’innovazione (modello i), anche se l’impatto, misurato dal coefficiente della variabile extRD è piuttosto basso. Al contrario la dummy DUextRD non solo è correlata positivamente con PostInnov, ma l’effetto marginale è rilevante. La scelta di esternalizzare l’attività di R&S è dunque una variabile chiave nell’identificare quelle imprese che hanno reagito “peggio” in termini di spesa per l’innovazione, alla crisi economica del 2009. L’interpretazione di questa evidenza non è, tuttavia, ovvia. Da un lato, infatti, si potrebbe ipotizzare che le attività “esternalizzate” 68 I Rapporto Corporate Efige Approfondimenti risultino più facilmente dismettibili, anche temporaneamente, in quanto meno legate al core business dell’azienda e meno mirate ad acquisire conoscenze e tecnologie “firmspecific” di quelle, ad esempio, conseguibili attraverso la sola attività di ricerca in-house. Dall’altro lato non è da sottovalutare il fatto che avvalersi di R&S esterna può permettere alle imprese di essere più flessibili sul versante dei costi a fronte di shock esterni, fornendo quindi un grado di libertà alle imprese potenzialmente utili nelle fasi cicliche negative. Scelte di finanziamento e composizione della ricerca Se l’avvalersi di R&S esterna sembra dunque essere un importante volano in grado di favorire l’aggiustamento dei costi in risposta alla crisi, è interessante indagare se questa sia una scelta “non vincolata” delle imprese o se invece l’input mix derivi da altri fattori strutturali, primo fra tutti la strategia di finanziamento dell’innovazione. Un’ampia letteratura teorica ed empirica ha documentato che finanziare l’innovazione è più difficile che finanziare gli investimenti ordinari. Come mostrato chiaramente da Hall (2002) e Hall e Lerner (2009), uno dei problemi principali per un investitore o finanziatore esterno all’impresa innovatrice riguarda l’incertezza sul rendimento dell’investimento in innovazione. La presenza di asimmetrie informative e di problemi di azzardo morale fra l’impresa e i suoi finanziatori può rendere difficile per questi ultimi un’appropriata valutazione dei rischi e il monitoraggio sui risultati dell’investimento. Queste difficoltà possono tradursi in un maggior costo a carico delle imprese per la finanza esterna, rispetto al costo dell’autofinanziamento, e in ultima analisi possono vincolare l’investimento in innovazione. L’asimmetria informativa e i costi di monitoraggio sono più alti quando l’attività di ricerca è svolta interamente in-house, poiché in questo caso sia gli obiettivi che le fasi di realizzazione dei progetti innovativi sono meno chiari ai finanziatori esterni, i limiti fra l’attività ordinaria dell’impresa e l’innovazione finanziata sono più labili e l’incertezza sui risultati è superiore. Al contrario, quando la ricerca è svolta da strutture esterne all’impresa, l’obiettivo finale del progetto e le fasi di realizzazione sono stabilite più chiaramente ex ante, cioè al momento della commessa. In aggiunta, sia i costi che l’orizzonte temporale di realizzazione del progetto devono essere in questo caso esplicitati chiaramente nel contratto di outsourcing verso i fornitori della ricerca. È quindi probabile che i finanziatori esterni considerino meno “rischioso” il finanziamento di progetti nella cui realizzazione siano coinvolti, almeno parzialmente, strutture esterne all’impresa. Dal punto di vista dell’impresa innovatrice, inoltre, alcuni strumenti finanziari possono risultare potenzialmente più idonei a rispondere alle esigenze finanziarie legate agli investimenti in ricerca esterna, piuttosto che in-house. Una caratteristica importante degli strumenti finanziari è, ad esempio, l’orizzonte temporale di riferimento. Per poter svolgere ricerca al proprio interno, ad esempio, un’impresa deve costituire una struttura dedicata, e assumere personale qualificato. Si tratta quindi di un progetto di medio-lungo termine con riflessi sull’intera organizzazione e sulle modalità di gestione dell’azienda. In questo tipo di progetti l’incertezza sui rendimenti futuri è tipicamente elevata, anche in ragione del fatto che la conoscenza generata è spesso non separabile dal capitale umano che l’ha prodotta, cioè dai dipendenti che in ogni momento potrebbero lasciare l’impresa. In questo caso si potrebbero privilegiare fonti finanziarie interne, per non incorrere in costose rinegoziazioni con i finanziatori esterni in caso si allunghino i tempi di realizzazione dei progetti di ricerca. Al contrario, i progetti in cui parte della ricerca risulti acquistata al’esterno, sono potenzialmente associati a orizzonti temporali più certi: in questo caso il finanziamento esterno, come ad esempio il prestito bancario, potrebbe soddisfare le esigenze dell’impresa innovatrice. In sintesi, esiste più di una ragione per ipotizzare che la strategia finanziaria delle imprese, ovvero la scelta degli strumenti attraverso cui coprire il fabbisogno finanziario degli investimenti in ricerca, sia profondamente legata al tipo di R&S attuata dall’impresa. La compagine dei finanziatori esterni non è tuttavia formata esclusivamente da attori mossi da incentivi privati. Un’altra importante fonte di finanziamento per le spese in ricerca è costituita dal supporto pubblico. Benché sia parte della ampia categoria degli strumenti di “finanziamento esterno” della ricerca, il finanziamento pubblico differisce profondamente dal prestito bancario sotto molti aspetti. Ai fini della nostra analisi basta evidenziare che anche l’uso del finanziamento pubblico potrebbe essere legato alla decisone delle imprese di svolgere in-house la ricerca o acquistarla all’esterno. Infatti, l’eventuale specificità del piano di ammortamento e la più lunga scadenza temporale dei prestiti agevolati potrebbero rendere questi ultimi strumenti idonei a coprire le spese di progetti di ricerca interni e di lungo periodo. D’altro canto, se il contributo pubblico fosse veicolato da contributi a fondo perduto3 o, in generale, misure una tantum, esso potrebbe tradursi in un aumento del ricorso a ricerca esterna, più facilmente dismettibile a esaurimento delle risorse. Per valutare il ruolo degli strumenti finanziari sugli investimenti in R&S, stimiamo un modello à la Heckman (Heckman, 1979), in cui viene tenuta in considerazione la selezione, espressa implicitamente, di allocare all’esterno almeno parte di un’attività così importante come quella di ricerca. In altre parole, la decisione di allocare esternamente la ricerca viene vista come “concettualmente separata” dalla decisione di quanto investire in essa. L’effetto di selezione, incluso nella procedura di stima, viene qui introdotto separatamente per facilitare la comprensione del modello. Seguendo Piga e Vivarelli (2004) stimiamo la scelta di usare ricerca esterna come segue: DUextRDit = 1 se DUextRDit*=xitα + εit>c [2] 0 se DUextRDit*=xitα + εit≤c Dove DUextRDit è una variabile che assume valore 1 se l’impresa i dichiara di avere utilizzato strutture esterne di ricerca nel periodo osservato, DUextRDit* è una variabile latente4, xit rappresenta un set di variabili esplicative e εit rappresenta il termine di errore. Le variabili esplicative includono la quota di spesa in R&S finanziata attraverso debito bancario nel periodo 2007-2009 (BANK) e la quota finanziata invece attraverso sovvenzione pubblica (PUBLIC). Le altre variabili esplicative includono poi l’intensità di R&S (RD), il fatto di avere dato in outsourcing (OUTSOURCING) altre parti della produzione, l’utilizzo di strumenti di protezione alla proprietà intellettuale (PROT), l’appartenenza a un gruppo (GROUP). Si controlla, infine, per la dimensione d’impresa (SIZE), misurata come logaritmo del numero totale di occupati nel 2008, e per gli effetti paese, specificati attraverso dummy. supporto pubblico e include l’intensità di R&S (introdotta in forma quadratica) e una dummy che indica se l’impresa è capogruppo come variabile esplicativa aggiuntiva (HEAD). Infine l’analisi controlla per il settore di attività, definito sulla base della classificazione OECD in settori high-tech (HTECH), medium high-tech (MHTECH), medium low-tech (MLTECH) e low-tech (LTECH)5. Le variabili non significative sono state quindi eliminate dall’analisi e i risultati inclusi nella tab. 3 mostrano solo la specificazione finale del modello. In particolare, gli strumenti finanziari (BANK e PUBLIC) non risultano significativi nella stima della [2] e sono, pertanto, stati eliminati dall’equazione di regressione della quota di R&S esterna. Una volta che le imprese decidono di acquisire la ricerca da strutture esterne, viene deciso l’ammontare della spesa da investire in essa. Questa fase della scelta è dunque modellata come segue: extRDit = extRDit*=zitβ + eit se DUextRDit=1 [3] 0 se DUextRDit=0 La stima econometrica dell’equazione [2] considera, in prima battuta, tra le variabili esplicative, zit la quota di spesa in R&S finanziata attraverso il credito bancario o il Rapporto Corporate Efige I 69 Rapporto Corporate Approfondimenti Risultati della stima del modello di selezione di Heckman [2]-[3] VARIABILE INDIPENDENTE: EXTRD (I) (II) GROUP SIZE RD OUTSOURCING PROT BANK BANK*GER 0,288 0,058 -0,008 0,021 0,000 0,001 0,241 0,054 0,324 0,045 0,000 0,001 *** *** *** BANK*FRA BANK*ITA PUBLIC PUBLIC*ITA 0,005 0,002 *** -1,213 *** 0,585 3,521 0,527 33,812 17,803 135,250 6,630 24,310 2,420 *** *** 0,291 0,058 0,003 0,022 0,000 0,001 0,231 0,055 0,308 0,047 *** -0,005 0,002 -0,001 0,001 0,004 0,001 0,005 0,002 *** PUBLIC*FRA PUBLIC*GER constant /athrho /lnsigma rho sigma lambda Wald LR test of indep. eqns. (rho = 0) test bankita=bankger=bankfra test pubita=pubfra=pubger VARIABILE INDEPENDENTE: DUEXTRD RD RDsqr SIZE HEAD FRA ITA MHTECH MLTECH LTECH constant (I) -0,927 0,215 0,008 0,003 -3,233 1,012 -10,088 4,711 13,405 2,723 18,017 2,643 -2,900 3,484 9,600 3,484 5,998 3,537 28,757 11,985 *** *** *** *** *** *** ** *** *** *** * ** -1,239 0,091 0,468 3,481 0,437 32,503 14,189 155,780 4,640 (II) -0,929 0,215 0,008 0,003 -3,395 1,004 -10,720 4,694 13,684 2,752 19,354 2,683 -2,813 3,489 9,667 3,488 5,933 3,537 33,752 12,043 (III) 0,285 0,058 -0,008 0,021 0,000 0,001 0,241 0,054 0,324 0,044 0,000 0,001 *** 0,008 0,003 0,002 0,003 0,004 0,003 *** -1,212 0,090 *** 0,623 *** 3,534 0,553 34,263 18,944 135,330 7,860 *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** ** *** *** *** * *** (III) -0,926 0,215 0,008 0,003 -3,145 1,014 -9,892 4,709 13,286 2,730 18,174 2,647 -2,840 3,483 9,599 3,482 6,053 3,536 26,799 11,729 *** *** *** *** *** *** ** *** *** *** Note: nella stima della [1] sono state incluse dummy di settore al livello NACE 2 digit. Il paese base considerato è la Germania. Il settore base della [2] è high-tech (HTECH). Anche nel modello [2] sono state incluse dummy di settore NACE 2 digit, ma non sono state mostrate nell’analisi. I risultati sono disponibili su richiesta agli autori. * significatività dei coefficienti al 10%. ** significatività dei coefficienti al 5%. *** significatività dei coefficienti all’1%. I numeri in corsivo rappresentano gli standard errors. 70 I Rapporto Corporate Efige * ** I risultati mostrano come nel complesso la scelta su come finanziare la spesa in R&S non sia neutrale rispetto alla decisione dell’impresa di commissionare esternamente parte dell’attività di ricerca, evidenziando anche una certa eterogeneità tra paesi. Al contrario, le strategie finanziarie non significativo sembrano rilevanti nello spiegare l’ammontare investito in ricerca esterna in nessuno dei paesi considerati6. Focalizzando l’attenzione sulla scelta di comprare esternamente la ricerca, l’evidenza suggerisce che l’outsourcing è correlato positivamente con il finanziamento pubblico. In ogni caso, le stime mostrano che questo risultato è vero in Italia, ma non in Germania e Francia. Analogamente, una specificità italiana appare anche nella relazione positiva riscontrata tra la quantità di spesa in R&S finanziata dalle banche e l’uso di ricerca esterna. Infatti mentre in Francia, non emerge alcuna correlazione tra la quota finanziata dalle banche e la scelta di comprare la ricerca all’esterno, in Germania tale relazione è negativa7. Come ipotizzato, far parte di un gruppo aumenta la propensione delle imprese ad acquistare ricerca esterna. Analogamente, il fatto che l’impresa dia in outsourcing parte dell’attività la rende più propensa a utilizzare la stessa modalità anche nel caso della ricerca. È interessante notare poi che l’intensità di R&S e la dimensione d’impresa non sono significative nello spiegare la decisione di outsourcing, mentre lo sono nella scelta della quantità di spesa da allocare all’esterno. Contrariamente alle aspettative, l’uso di strumenti di protezione della proprietà intellettuale aumenta la propensione ad acquistare R&S all’esterno. Anche se sarebbe necessario un ulteriore approfondimento su questo aspetto, tale risultato sembra suggerire la presenza di effetti di complementarietà tra attività di ricerca interna e esterna. Infatti, un più alto livello di protezione può essere considerato come prerequisito necessario per beneficiare di ricerca esterna in settori con alti spillover tecnologici, al fine di garantire l’appropriabilità dei risultati finali. Una spiegazione alternativa è, invece, che l’utilizzo di strumenti per la difesa della proprietà intellettuale sia appannaggio delle imprese che abitualmente fanno ricerca e la comprano: in questo caso il risultato della correlazione positiva può essere semplicemente un effetto di sorting. Come discusso, la quota di credito bancario e di finanziamento pubblico alla ricerca, non contribuisce a spiegare l’ammontare di ricerca esterna effettivamente acquistato dall’impresa. Al contrario, la variabile che sembra essere determinante a tal riguardo è la quota totale di fatturato investito in ricerca e sviluppo: la relazione però non è lineare. Il fatto che il coefficiente a RD sia negativo e quello a RDsqr positivo suggerisce che per bassi livelli di spesa in ricerca prevalga un effetto sostituzione: in questo caso un aumento della quantità di fatturato da investire in ricerca diminuisce la quantità investita esternamente, fino a un punto di minimo oltre il quale la relazione cambia. Per livelli superiori di intensità della ricerca, infatti, la relazione positiva suggerisce che predomini un effetto di complementarietà tra le due tipologie di ricerca. Ma per l’Italia in particolare, questo tipo di effetto potrebbe risultare in qualche modo “rafforzato” dalla correlazione positiva e significativa tra il finanziamento esterno, in particolare debito bancario, e l’acquisto della ricerca al di fuori dell’impresa. Questo può dunque innescare un effetto moltiplicativo in caso di condizioni finanziarie agevoli difficili, contribuendo pertanto ad amplificare gli aggiustamenti dell’investimento in innovazione a fronte della crisi. Le specificità a livello di paese sono probabilmente l’effetto di una pluralità di fattori, sia istituzionali che culturali, tra cui le prevalenti caratteristiche del rapporto bancaimpresa e la struttura del sistema finanziario. In particolare, la mancanza di correlazione individuata in Francia e la relazione negativa riscontrata invece in Germania suggeriscono una considerevole eterogeneità sia nella domanda che nell’offerta di strumenti finanziari per l’innovazione a livello europeo. Riferimenti bibliografici Commissione Europea, 2009. Innobarometer 2009. Brussels, DG Enterprise and Industry. Crépon B., Duguet E., Mairesse J. 1998. Research and development, innovation and productivity: an econometric analysis at the firm level. Economics of Innovation and New Technology, 7 (2): 115-158. Hall B.H. 2002. The financing of research and development. Oxford Review of Economic Policy, 18 (1): 35-51. Hall B.H., Lotti F., Mairesse J. 2008. Innovation and productivity in SMEs: empirical evidence for Italy. NBER Working Paper 14202. Hall B.H., Lerner J. 2009. The financing of R&D and innovation. NBER Working Paper 15325. Heckman J. 1979. Sample selection bias as a specification error. Econometrica, 47 (1): 153-161. OECD, 2009. OECD Science, Technology and Industry Scoreboard 2009, OECD Publishing. doi: 10.1787/sti_scoreboard-2009-en Piga C.A., Vivarelli M. 2004. Internal and external R&D: a sample selection approach. Oxford Bulletin of Economics and Statistics, 66 (4): 457-482. Conclusione L’esercizio empirico svolto suggerisce che la scelta di posporre l’innovazione a seguito degli effetti della crisi può essere il risultato non solo delle cattive condizioni economiche in generale, ma anche di un effetto indiretto dato dalle scelte delle imprese in termini di composizione della ricerca e finanziamento all’innovazione. Le imprese che fanno outsourcing di ricerca, infatti, secondo il nostro approccio, sono le più propense a rimandare l’innovazione: è più semplice interrompere un accordo di fornitura esterna che affrontare i costi di chiusura di una struttura di ricerca interna e di dismissione del personale e dei macchinari in essa impiegati. Questa ipotesi è, in effetti, confermata dalle analisi in tutti i paesi oggetto di osservazione. Dati Eurostat. Finconstr è un indicatore che assume valore 1 quando l’impresa dichiari di essere stata finanziariamente vincolata durante il 2009. 3 Nella banca dati a disposizione non à possibile distinguere la forma tecnica attraverso cui il finanziamento pubblico è erogato alle imprese beneficiarie. 4 Si dice latente una variabile inosservabile stimabile attraverso una serie di variabili manifeste. 5 OECD, 2009. 6 Alcuni caveat sono necessari: la variabile indipendente e le esplicative nella [1]-[2] sono osservate contestualmente. Quindi, in questo contesto, noi non stimiamo tanto la causalità della relazione, bensì la presenza di correlazione tra variabili. 7 Il likelihood ratio test rigetta l’ipotesi di uguaglianza dei coefficienti della variabile BANK nei tre paesi. 1 2 Rapporto Corporate Efige I 71 Rapporto Corporate Approfondimenti LA FORZA LAVORO STRANIERA IN ITALIA: ALCUNE EVIDENZE A LIVELLO D’IMPRESA a cura di Attilio Pasetto e Antonio Riti Dall’analisi empirica emerge che la presenza di lavoratori stranieri in Italia è più forte nel Nord Est, nei settori di scala e nella piccola dimensione nonchè nelle imprese prevalentemente rivolte al mercato interno. Si riscontra inoltre una correlazione inversa tra quota di personale straniero e quota di laureati. Ciò conferma la prevalenza in Italia di forza lavoro straniera low skilled in misura probabilmente superiore rispetto ad altri paesi europei. Abbiamo visto nel commentare i risultati relativi all’occupazione (sezione B del questionario) che la quota della forza lavoro straniera sugli occupati si attesta nelle imprese italiane (8,1%) a un livello più alto della media dei sette paesi considerati (7,3%) e inferiore soltanto a quelli dell’Austria e della Germania. Intendiamo approfondire ora come la presenza di lavoratori stranieri si distribuisca nel nostro paese a livello geografico, settoriale e dimensionale. Prenderemo poi in considerazione il rapporto esistente tra quota di lavoratori stranieri, da un lato, ed esportazioni e internazionalizzazione produttiva, dall’altro. Questi aspetti saranno esaminati dapprima attraverso una analisi descrittiva e successivamente attraverso alcune verifiche econometriche. Dati e analisi descrittiva Il Nord Est è l’area del nostro paese in cui è più forte la presenza di lavoratori stranieri in rapporto agli occupati, con l’11,7% della forza lavoro, seguita dal Nord Ovest (8,1%) e dal Centro (6,5%), mentre la quota del Mezzogiorno è molto più bassa (2,2%), forse anche a causa di una presumibile componente di lavoro nero1. La maggior incidenza di lavoratori stranieri nel Nord 72 I Rapporto Corporate Efige Est - confermata peraltro da altre fonti2 - è ampia e riscontrabile in tutte le classi dimensionali. Soltanto nelle grandi imprese si attenua il divario tra il Nord Est e le altre macroaree, mentre la quota del Centro sopravanza quella del Nord Ovest. L’incidenza dei lavoratori stranieri varia da settore a settore, raggiungendo i valori più alti nell’alimentare, nel legno, nella gomma e plastica, nei minerali non metallici, nella metallurgia e nei prodotti in metallo. Sono tutti settori tradizionali o a economie di scala, in cui la quota dei laureati, sempre secondo i dati Efige, è inferiore alla media, indicatore questo che segnala la maggior presenza di personale low skilled. Al contrario, la presenza di lavoratori stranieri è bassa nella carta, nella chimica, nella farmaceutica, nei macchinari, negli apparecchi elettrici e negli strumenti di precisione, settori in cui la quota dei laureati è al di sopra della media. La tabella qui riportata mostra che queste evidenze settoriali si ripropongono con una certa regolarità in quasi tutti i paesi. Come evidenziato dalla prima tabella, nelle imprese italiane l’incidenza degli stranieri appare inversamente correlata alla dimensione: si scende infatti dall’8,3% della fascia 10-19 addetti al 6,5% delle grandi imprese . Un andamento opposto mostra la quota dei laureati, che aumenta al crescere della dimensione, passando dal 6% delle piccole imprese al 13% delle grandi. Ciò appare coerente con la prevalenza nella forza lavoro straniera impiegata dalle imprese italiane di personale low skilled. Nelle grandi imprese si ha la concomitante presenza di più laureati e meno stranieri in rapporto agli occupati, mentre il contrario avviene nelle piccole imprese3. In media nei sette paesi considerati nella survey troviamo una quota minore di lavoratori stranieri e una percentuale maggiore di laureati. Del resto, i dati Eurostat mostrano che gli immigrati residenti in Italia sono generalmente meno istruiti rispetto agli immigrati presenti negli altri paesi UE-15. Il 48% della popolazione straniera di età compresa tra i 25 e i 55 anni residente nel nostro Paese tra il 2005 e il 2007 possedeva un titolo di studio corrispondente al massimo alla scuola dell’obbligo, contro il 19,3% del Regno Unito, il 27,5% della Germania, il 31% dell’Austria, il 37,7% della Spagna e il 42,5% della Francia. All’opposto, la quota di stranieri laureati residenti in Italia era pari nello stesso periodo al 14% contro il 56,4% del Regno Unito, il 41,1% della Germania, il 28,5% dell’Austria, il 30,2% della Spagna, il 27,6% della Francia4. L’indagine consente di analizzare anche il rapporto esistente tra personale straniero e apertura internazionale delle imprese. La Banca d’Italia rileva come la presenza di lavoratori extracomunitari sia più elevata, oltre che nelle imprese più piccole e a più bassa produttività, anche in quelle meno aperte al commercio internazionale5. L’analisi condotta da Bettin, Lo Turco e Maggioni sui dati 2001-2003 della nona indagine sulle imprese manifatturiere Quota media di lavoratori stranieri sugli occupati per addetti e area geografica (%) NORD OVEST NORD EST CENTRO MEZZOGIORNO TOTALE 10-19 addetti 8,6 12,3 6,4 2,3 8,3 20-49 addetti 8,1 11,2 7,1 2,2 8,1 50-249 addetti 7,2 12,4 4,0 1,8 7,7 oltre 249 addetti 6,1 8,5 6,4 2,0 6,5 Totale 8,1 11,7 6,5 2,2 8,1 Percentuale media dei lavoratori stranieri sugli occupati per settore e paese (%) AUSTRIA FRANCIA GERMANIA ITALIA SPAGNA REGNO UNITO MEDIA 7 PAESI Alimentari 14,3 4,9 9,6 8,3 9,6 18,7 9,0 Tessile 15,3 4,2 9,5 6,0 3,3 9,6 6,1 1,9 9,1 6,1 3,3 15,3 5,6 Pelli e cuoio Legno 12,2 3,1 10,6 11,5 8,9 7,0 8,9 Carta 10,0 3,7 7,2 4,6 3,5 5,5 5,1 6,0 3,5 8,6 7,3 4,1 6,4 6,1 4,1 7,9 3,0 3,6 16,5 5,9 Chimica Farmaceutica Gomma e plastica 15,7 4,5 13,6 12,4 7,4 8,2 9,9 Minerali non metallici 12,8 4,4 9,4 9,8 7,4 5,1 7,9 Metallurgia 19,2 8,7 14,7 16,9 6,2 5,3 11,8 Prodotti in metallo tranne macchinari 16,1 5 11,5 10,6 6,1 4,6 8,6 Macchinari e impianti 6,5 3,7 8,7 5,7 4,6 3,9 6,0 Apparecchi elettrici 8,7 3,2 6,9 4,3 3,8 5,8 5,0 12,6 1,9 6,2 2,9 3,9 4,0 5,0 4,8 3,7 15,3 6,6 4,3 3,0 6,9 11,8 4,1 9,5 8,1 6,0 6,8 7,3 Strumenti di precisione Mezzi di trasporto Media settori Rapporto Corporate Efige I 73 Rapporto Corporate conferma che la quota di lavoro straniero è più alta nelle imprese che non esportano. I risultati di una regressione probit avvalorano la significatività della relazione negativa tra percentuale di occupati stranieri ed imprese esportatrici6. Altri studi, come quello di Barba Navaretti, Bertola e Sembenelli (2008) 7, sottolineano come, almeno a livello italiano, esista una relazione di tipo inverso tra impiego di forza lavoro straniera e internazionalizzazione. In altre parole, le imprese che internazionalizzano parte della produzione tenderebbero ad impiegare quote molto più basse di personale scarsamente qualificato e di immigrati. I dati dell’undicesima indagine in effetti confermano che per l’Italia la percentuale media della forza lavoro straniera è più alta nelle imprese che non esportano rispetto a quelle che esportano (8,6% contro 7,8%). Ciò si riscontra in tutte le classi dimensionali. Analoga la posizione della Spagna, dell’Austria e della Francia. La stessa relazione non vale invece per la Germania e per il Regno Unito. Considerazioni molto simili valgono per le imprese che internazionalizzano. La quota di lavoratori stranieri impiegata sia nelle imprese che hanno effettuato investimenti esteri diretti (5,3%) sia nelle imprese che hanno concluso accordi di produzione all’estero (4,6%) risulta per l’Italia ampiamente al di sotto della media nazionale (8,1%). Anche la Spagna si comporta come l’Italia. Non così Austria, Regno Unito e Francia, in cui la quota Approfondimenti Quota media di lavoratori stranieri e laureati sugli occupati per classe di addetti (%) Stranieri Laureati 14 12 10 8 6 4 2 0 10-19 20-49 50-249 di lavoratori stranieri nelle imprese che producono all’estero nell’una o nell’altra forma è sempre più alta. Nelle imprese tedesche invece la quota di lavoro straniero è più alta della media nazionale per gli IDE, ma non per gli accordi. Se però consideriamo congiuntamente IDE e accordi, la quota di lavoratori stranieri nelle imprese tedesche appare più alta della media nazionale. Verifica empirica Vediamo ora se quanto emerso dalla statistica descrittiva può essere confermato dall’analisi di regressione, effettuando alcune stime condotte su 1.755 casi di imprese italiane, che hanno dichiarato di occupare personale straniero. oltre 249 Media Italia Media 7 Paesi Abbiamo cercato di spiegare la presenza della forza lavoro straniera in Italia (quota_fw) in funzione della localizzazione dell’impresa, della componente dimensionale, della quota di laureati sul totale della forza lavoro, del fatto che l’impresa sia esportatrice, della realizzazione di IDE o accordi produttivi, dei settori merceologici di appartenenza. Dopo aver valutato singolarmente la significatività di ciascuna delle variabili elencate, si è proceduto ad un approccio di tipo incrementale, aggiungendo progressivamente alla relazione iniziale quota_fw=∂+βiarea - una variabile alla volta fino ad ottenere la relazione completa rappresentata da Percentuale media della forza lavoro straniera sugli occupati per tipo di impresa e Paese AUSTRIA FRANCIA GERMANIA ITALIA SPAGNA REGNO UNITO MEDIA 7 PAESI esportatrici 11,2 4,0 10,3 7,8 5,7 7,0 7,3 non esportatrici 12,5 4,3 9,0 8,6 6,3 6,4 7,3 internazionalizzate 15,8 4,2 11,7 5,1 4,7 9,3 8,0 di cui con IDE 16,6 4,3 13,5 5,3 5,2 8,6 9,3 di cui con Accordi 14,9 4,5 8,8 4,6 3,9 9,6 6,5 Tutte le imprese 11,8 4,1 9,5 8,1 6,0 6,8 7,3 IMPRESE 74 I Rapporto Corporate Efige quota_fw=∂+βiarea+βiaddetti+βiquota_ laureati+βiexport+βiIDE+βisettore. All’aumentare delle variabili all’interno della relazione, i coefficienti delle variabili sono rimasti statisticamente significativi ed è cresciuta la bontà di adattamento della relazione specificata all’ipotesi teorica sottostante; abbiamo considerato inoltre anche i test di robustezza per valutare se la presenza di qualche valore estremo potesse distorcere i risultati della regressione. Qui di seguito viene riportata la specificazione finale. La regressione lineare utilizzata prevede tre variabili categoriali, rappresentate rispettivamente da tre variabili politomiche - quattro macroaree (Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud), quattro classi di addetti (10-19, 20-49, 50-249, oltre 249) e 18 settori merceologici - due variabili binarie, export e IDE, che assumono i valori uno o zero, e una variabile continua costituita dalla quota di laureati sul totale della forza lavoro. A livello di macroarea i coefficienti esprimono il divario che esiste con il Nord Est, l’area dove sono maggiormente presenti i lavoratori stranieri: come si può osservare, gli scostamenti in termini di quota media di lavoratori stranieri aumentano passando dal Nord Ovest al Centro e al Sud. A livello dimensionale, la regressione, i cui coefficienti sono tutti significativi, conferma che sono le imprese di minor dimensione quelle che occupano mediamente una quota maggiore di Analisi di regressione QUOTA_FW COEF. STD. ERR. T P>T Nord Ovest -3,149 0,691 -4,56 0,000 Centro -4,827 0,892 -5,41 0,000 Sud -9,376 1,289 -7,27 0,000 Addetti 21-49 -4,015 0,708 -5,67 0,000 Addetti 50-249 -5,347 0,945 -5,66 0,000 Addetti oltre 249 -7,962 1,346 -5,91 0,000 Quota laureati -0,041 0,008 5,17 0,000 export -2,188 0,672 -3,25 0,001 IDE -2,860 1,162 -2,46 0,014 0,461 1,462 0,32 0,753 Tessile -1,612 1,407 -1,15 0,252 Pelli e cuoio -1,776 1,848 -0,96 0,337 Legno 1,695 1,919 0,88 0,377 Carta -3,035 1,732 -1,75 0,080 Coke -1,570 6,318 -0,25 0,804 Chimica -0,964 1,962 -0,49 0,623 Gomma-plastica 4,350 1,530 2,84 0,005 Min. non metallici 3,465 1,626 2,13 0,033 Metallurgia 7,689 1,900 4,05 0,000 Macchine -3,494 1,319 -2,65 0,008 Apparecch. Elettriche -4,537 1,600 -2,84 0,005 Mezzi trasporto -1,496 2,561 -0,58 0,559 Prodotti metallici 2,255 1,192 1,89 0,059 Strumenti precisione -8,064 2,482 -3,25 0,001 Farmaceutica -6,272 3,509 -1,79 0,074 costante 20,809 1,248 16,68 0,000 Alimentari N.osservazioni:1755 R =13,1 2 Rapporto Corporate Efige I 75 Rapporto Corporate occupati stranieri. I coefficienti della regressione esprimono il divario che esiste con la prima classe di addetti (10-19): lo scostamento maggiore si ha per la classe dimensionale più grande, mentre differenze minori si hanno per le classi intermedie. Per quanto riguarda la quota di laureati, la presenza nelle imprese di laureati si dimostra essere correlata negativamente alla quota di lavoratori stranieri. All’incremento dell’1% di laureati corrisponde una diminuzione dello 0,04% della quota di lavoratori stranieri. La relazione che considera l’effetto esportazione evidenzia una legame inverso tra la capacità dell’impresa di competere sui mercati esteri e al contempo occupare la forza lavoro straniera: il coefficiente della regressione esprime il fatto che la quota di lavoro straniero di un’impresa esportatrice dovrebbe risultare mediamente inferiore del 2,2% rispetto ad un impresa che opera nell’ambito del mercato domestico. Merita inoltre di essere ricordato - sebbene non ne riportiamo l’esercizio statistico - che la significatività di questo legame si rafforza, se si prendono in considerazione le imprese che esportano anche nei mercati extra-UE, suggerendo in qualche modo una maggiore complessità nella relazione con l’estero, mentre si indebolisce, se si considerano le imprese che esportano soltanto verso i mercati dell’Unione europea. Considerando l’internazionalizzazione produttiva, la variabile IDE rappresenta globalmente sia gli investimenti esteri diretti sia gli accordi produttivi con partners stranieri. Anche in questo caso la statistica descrittiva riceve piena conferma. Il coefficiente della variabile IDE è significativo e negativo, e mostra che un’impresa internazionalizzata ha mediamente una quota di lavoratori stranieri inferiore del 2,9% rispetto ad un impresa non internazionalizzata. 76 I Rapporto Corporate Efige Approfondimenti L’introduzione di una dummy settoriale ci consente infine di valutare la significatività delle relazioni esistenti tra i settori considerati e la quota di lavoratori stranieri. Nei settori evidenziati in grassetto i risultati appaiono significativi. Possiamo osservare come ci sia un legame positivo con la quota di lavoratori stranieri, a un elevato livello di significatività, nella gomma e plastica, nei minerali non metallici e nella metallurgia, confermando i risultati dell’analisi descrittiva. Si osserva invece un legame negativo nelle macchine, nelle apparecchiature elettriche e negli strumenti di precisione. Anche queste evidenze sono in linea con la statistica descrittiva. Non appare invece significativa la relazione tra forza lavoro straniera e settori tradizionali, che emerge dalle tavole di base. Conclusioni Le verifiche empiriche qui condotte attestano come in Italia la forza lavoro straniera sia maggiormente presente - oltre che nel Nord Est, nei settori di scala e nella piccola dimensione – anche nelle imprese prevalentemente rivolte al mercato interno, ossia che non esportano e che non internazionalizzano parte della produzione. Emerge inoltre una correlazione inversa tra quota di personale straniero e quota di laureati sul totale degli occupati nell’impresa. Sulla base di ulteriori regressioni, anche se qui non riportate, risulta che questo legame di tipo inverso appare significativo, tra i principali paesi dell’indagine, oltre all’Italia, solo per la Germania. Per Francia e Spagna il coefficiente è negativo, ma non significativo, mentre per il Regno Unito è positivo e non significativo. Abbiamo così la conferma della prevalenza in Italia di forza lavoro straniera low skilled in misura probabilmente superiore rispetto ad altri paesi europei. Da una parte, le imprese tendono principalmente ad impiegare i lavoratori stranieri in mansioni scarsamente qualificate, che gli italiani non sono disposti a fare; dall’altra parte, il capitale umano straniero più qualificato tende a privilegiare altre destinazioni, in cui riesce a trovare maggiori opportunità in termini sia retributivi sia professionali8. Ciò significa che una nazione come l’Italia corre il rischio di chiudersi all’apporto di energie fresche e dinamiche in grado di innalzare il livello qualitativo del capitale umano complessivo del Paese, con la conseguenza di avvitarsi sempre più in una spirale negativa. Dalla quale si può uscire soltanto puntando a una maggiore qualificazione degli occupati attraverso adeguati percorsi formativi sia nella scuola che nel mondo del lavoro. Su questo punto vedi Venturini A., L’effetto dell’immigrazione sui mercati del lavoro dei Paesi di destinazione, Economia Italiana, n. 3, 2004, pp. 645-666. 2 Si vedano in particolare: - l’indagine Confindustria sul mercato del lavoro nel 2009 (p.6), pubblicata il 23/7/2010; - il già citato contributo di Venturini A. (2004). 3 La maggior presenza di lavoratori stranieri nelle piccole imprese è confermata da Confindustria nello studio sopra citato (p.6) e da Banca d’Italia (2009) in L’immigrazione nelle regioni italiane, p. 66, approfondimento contenuto nella pubblicazione “L’economia delle regioni italiane nel 2008”. 4 Questi dati, di fonte Eurostat, sono tratti dalla Relazione 2008 della Banca d’Italia (pp. 125-126). 5 Vedi il già citato approfondimento contenuto in “L’economia delle regioni italiane nell’anno 2008”. 6 Bettin G., Lo Turco A. e Maggioni D., A firm level perspective on migration, presentato al workshop “I cambiamenti della manifattura italiana visti attraverso l’indagine UniCredit”, organizzato da UniCredit, Centro Studi Luca d’Agliano, Università di Milano, Milano, 8/3/2010. 7 Barba Navaretti G., Bertola G. e Sembenelli, Offshoring and Immigrant Employment: Firm-level Theory and Evidence”, 2008, CEPR Discussion Papers 6743. 8 Visco I., Invecchiamento della popolazione, immigrazione, crescita economica, 49ma Riunione Scientifica Annuale della Società Italiana degli Economisti, Università di Perugia, 25/10/2008. 1 Rapporto Corporate Efige I 77 Rapporto Corporate Approfondimenti L’IMPATTO DELLA CRISI SULLE ESPORTAZIONI ITALIANE NEL 2009. CARATTERISTICHE D’IMPRESA E STRATEGIE DI ESPORTAZIONE a cura di Luigia Mirella Campagna e Antonio Riti La caduta del commercio estero nel 2009 ha avuto un forte impatto negativo sull’interscambio dell’Italia. L’esercizio statistico svolto rileva che il sistema manifatturiero italiano è più esposto alla crisi rispetto a quello tedesco e coglie qualche peculiarità. Un ruolo dominante nella caduta delle nostre esportazioni spetta al modello di specializzazione, mentre le strategie di esportazione e le caratteristiche aziendali pesano rispettivamente il 25% e il 15% circa. 78 I Rapporto Corporate Efige Le tensioni sui mercati internazionali, aggravatesi dalla metà del 2008, hanno prodotto una serie di effetti a catena che si sono ben presto trasmessi agli scambi internazionali, diminuiti nel 2009 del 12,2% rispetto all’anno precedente. Nello stesso periodo, l’economia italiana ha attraversato la più profonda recessione dal dopoguerra, che l’ha sospinta indietro verso livelli di PIL del passato, più di quanto sia accaduto in altri paesi europei. In Italia, la crisi si è propagata in primo luogo attraverso il canale esterno e ha colpito soprattutto le esportazioni. La drastica caduta della domanda mondiale ha determinato però situazioni disomogenee tra le diverse unità produttive, con imprese che hanno visto ridursi in misura significativa le proprie vendite all’estero, altre che ne hanno sofferto meno, altre che non ne hanno sofferto affatto ma, al contrario, ne hanno tratto beneficio. I risultati dell’indagine colgono questa disomogeneità e, pur confermando il quadro descritto dalla contabilità nazionale, contribuiscono a gettare luce sui fattori che hanno comportato maggiori o minori disagi per le imprese nella risposta alla crisi. In primo luogo, i dati segnalano che il 55% delle imprese intervistate ha dichiarato di aver sofferto una flessione delle esportazioni nel corso del 2009 rispetto all’anno precedente; il 31% circa non ha accusato variazioni di rilievo; il restante 13,5% ha registrato invece un aumento. Si conferma però che l’industria manifatturiera italiana ha sofferto più di quella della maggior parte dei paesi osservati e, in particolare, più di quella tedesca: in Germania, infatti, sono state meno della metà le imprese che hanno sperimentato una riduzione delle esportazioni (43,5%), a fronte di una buona percentuale che non ha subito variazioni rilevanti (37,6%) e di quasi un quinto che le ha aumentate (18,9%). Sotto il profilo settoriale, trova riscontro il dato che le imprese più penalizzate sono state quelle che producono beni di investimento (impianti e macchinari, macchine elettriche, mezzi di trasporto per uso industriale) e intermedi (elettronica, chimica, gomma e plastica, metalli di base), dove la percentuale di imprese che hanno riportato cali delle esportazioni ha superato in molti casi il 60%. Viceversa, hanno sofferto meno le imprese che producono beni di consumo non durevoli, potendo contare comunque su una domanda a carattere anticiclico: nella farmaceutica, le imprese che hanno registrato una diminuzione delle esportazioni sono state meno di un quarto; nel settore alimentare, non hanno superato il 30%. Si osservano relazioni interessanti con la dimensione aziendale: in Italia, sono state colpite con più frequenza le imprese grandi (63,8%), mentre l’incidenza scende a poco più della metà tra le imprese più piccole (52,3%). Questa relazione diretta tra variazione negativa delle esportazioni e dimensione aziendale non si ritrova in tutti i paesi osservati: ad esempio non emerge in Germania e Spagna. Essa però si inverte quando si guarda all’entità della flessione: a fronte di una caduta media delle esportazioni di circa il 30%, le grandi imprese hanno registrato cali più contenuti (24%), mentre le maggiori flessioni (32,9%) sono state riportate dalle imprese più piccole. Quest’ultima relazione, contrariamente alla prima, trova riscontro in ciascuno dei sette paesi osservati. Il legame con la dimensione non è dunque univoco e rinvia, in linea con la letteratura più recente sulle determinanti delle esportazioni, ad una serie di altre caratteristiche aziendali, quali l’età, la qualità del capitale umano, l’intensità dell’investimento materiale, la capacità di innovare, la qualità del prodotto, l’organizzazione. Questi elementi, non sempre associati al numero degli addetti e al volume del fatturato, possono infatti avere un ruolo importante e autonomo nello spiegare la strategia di internazionalizzazione scelta dall’impresa e, soprattutto, la sua performance all’export. L’analisi descrittiva supporta l’idea che le caratteristiche dell’impresa hanno Riduzione delle esportazioni nel 2009 (%) % imprese riduzione media 80 60 40 52.1 33.0 60.8 58.7 54.4 29.7 27.5 23.8 20 0 10-19 addetti 20-49 50-249 effettivamente giocato un ruolo nella risposta alla crisi. I valori medi assunti da alcune di queste variabili sono riportati nella tabella seguente, dove le imprese sono state raggruppate in tre gruppi, definiti sulla base del tipo di variazione subita dalle vendite all’estero nel corso del 2009 diminuzione, aumento, nessuna variazione. Come atteso, si osservano caratteristiche “migliori” nel secondo e terzo gruppo di imprese. In generale, le imprese che hanno retto meglio l’impatto della crisi sono più giovani, dispongono di una forza lavoro più qualificata e hanno una più elevata 250 e oltre intensità di investimento. Meno chiaro è il ruolo giocato dall’innovazione di prodotto e dalla qualità del prodotto; un’osservazione analoga può essere fatta con riferimento al modello organizzativo, sia sotto il profilo dell’appartenenza ad un gruppo sia sotto quello del grado di accentramento delle decisioni strategiche. La relativa opacità del ruolo giocato dalle caratteristiche d’impresa nelle variazioni dell’export è coerente con l’idea che sia stata la drastica caduta della domanda mondiale il canale principale attraverso il quale si è manifestata la crisi. Da ciò deriva che un importante elemento di discriminazione tra Variazioni delle esportazioni e caratteristiche dell’impresa Esportazioni nel 2009 diminuite aumentate invariate età 30,4 28,2 28,9 appartenenza ad un gruppo 53,9 14,4 31,8 organizzazione accentrata (% imprese) 83,2 76,7 84,7 6,8 8,2 7,7 quota laureati su forza lavoro investimenti/fatturato 9,5 11,7 11,2 innovazione di prodotto (% imprese) 58,2 64,8 54,3 qualità di prodotto (indice) 79,6 79,0 80,8 Rapporto Corporate Efige I 79 Rapporto Corporate le imprese è stato senz’altro il loro grado di dipendenza dalla domanda estera: la crisi dovrebbe aver colpito più severamente le imprese maggiormente esposte sui mercati internazionali, mentre le meno esposte avrebbero dovuto risultare meno vulnerabili. Va aggiunto che la caduta della domanda non si è realizzata nella stessa misura e nello stesso tempo in tutte le aree geografiche. In questo senso, è utile guardare alle strategie di esportazione delle imprese nella loro complessità, in termini cioè di quota del fatturato esportato, numero dei mercati di sbocco e loro distanza. Sono state quindi individuate delle misure di “intensità” sia per la quota di fatturato esportato, o margine intensivo, sia per il numero dei mercati di sbocco. Per il primo, sono state fissate tre soglie, che consentono di misurare il grado di esposizione delle imprese alla domanda estera: basso (margine intensivo inferiore al 25%), medio (2550%), alto (superiore al 50%). Per i secondi, invece, si sono individuate quattro classi, che esprimono altrettanti livelli di complessità della presenza all’estero: basso (l’impresa serve fino a 3 mercati esteri), medio-basso (4-6), medio-alto (7-15), alto (oltre 15). Infine, per osservare la distanza geografica dei mercati esteri, si è guardato alla distribuzione delle quote medie del fatturato estero nei singoli mercati di destinazione. Nella tabella seguente riportiamo i risultati emersi per i tre gruppi di imprese prima definiti. Si osserva una evidente correlazione diretta tra quota del fatturato estero e contrazione delle esportazioni: come atteso, il calo delle esportazioni diventa tanto più diffuso quanto più aumenta la propensione alle esportazioni. Medesima relazione con il numero dei mercati di sbocco: le imprese che esportano un numero elevato di linee di prodotto soffrono di più. Per quanto riguarda i mercati di sbocco, si osserva infine che le imprese più colpite sono quelle presenti con quote maggiori sui mercati UE-15 e con quote relativamente basse di export sui mercati più lontani. 80 I Rapporto Corporate Efige Approfondimenti Variazioni delle esportazioni e strategie di vendita all’estero Esportazioni nel 2009 diminuite aumentate invariate % di imprese export/fatturato (fino al 25%) 47,8 14,0 38,3 export/fatturato (26%-50%) 60,4 14,7 24,9 export/fatturato (oltre 50%) 62,3 11,7 26,0 n° prodotti esportati (0-3) 33,6 15,3 51,0 n° prodotti esportati (4-6) 45,6 14,8 39,6 n° prodotti esportati (7-15) 52,0 13,4 34,6 n° prodotti esportati (oltre 15) 60,4 13,0 26,6 quote medie di export per mercati di sbocco Paesi UE-15 59,0 55,3 57,7 Altri paesi UE 8,6 10,2 9,6 32,4 34,4 32,6 10,7 10,7 11,0 Cina India 3,4 2,4 2,4 Altra Asia 3,9 5,7 4,9 USA Canada 6,8 5,7 6,0 Altra America 3,1 3,4 2,9 Altro 4,6 6,5 5,4 Paesi extra-UE, di cui: Europa non UE Le evidenze fin qui descritte rappresentano però semplici correlazioni e non ci aiutano a capire l’importanza relativa che i diversi fattori hanno svolto nel determinare una variazione delle esportazioni. Per fare ciò è necessario fare un passo aggiuntivo e cercare di capire quali tra i suddetti elementi sia effettivamente dominante nello spiegare gli effetti della crisi sulle imprese esportatrici. Per fare ciò, ricorriamo ad un’analisi di regressione, che illustriamo nella sezione successiva. Vi sono due domande cui vorremmo tentare di offrire una risposta. La prima è: rispetto ad altri sistemi produttivi, il sistema manifatturiero italiano è più esposto alla crisi attuale? La seconda è: in che misura il settore di appartenenza, le caratteristiche dell’impresa, le strategie di internazionalizzazione impattano sulla diminuzione delle esportazioni che le nostre imprese sopportano a seguito di una caduta della domanda mondiale? Verifica empirica In questa sezione ci proponiamo di valutare l’importanza relativa che i vari fattori fin qui menzionati hanno avuto sulla flessione delle esportazioni nei sette paesi osservati nel corso del 2009 rispetto all’anno precedente. Per fare questo, utilizziamo un modello di linear probability model1 (LPM), che consente di valutare il contributo di ogni variabile alla spiegazione della varianza della variabile dipendente. La nostra variabile dipendente è espressa tramite una variabile dummy, che assume valore 1 quando l’impresa ha registrato una riduzione delle esportazioni e valore 0 quando l’impresa non ha subito alcuna variazione delle esportazioni o le ha addirittura aumentate. Il modello può essere espresso nel modo seguente: Y = β0 +β1X1+β2X2+....+βkXk+ε dove i coefficienti βk rappresentano la probabilità di ottenere Y=1 al variare delle variabili indipendenti Xk. Seguendo un approccio incrementale, i risultati della regressione sono riportati nella tabella 1. In una prima specificazione del modello, introduciamo solamente le dummies paese. Rispetto alla Germania, il nostro paese di controllo, tutti i paesi osservati risultano più vulnerabili sui mercati esteri. In particolare, la Francia e l’Ungheria mostrano la probabilità più alta di riportare una diminuzione delle esportazioni (16.7% e 16,5%, rispettivamente); seguono l’Italia (11,6%) e la Spagna (10,9%). Per quanto riguarda il Regno Unito e l’Austria, il segno risulta positivo, ma il valore non è statisticamente significativo. In questa specificazione del modello, l’R2 – il parametro che esprime la capacità delle variabili indipendenti di spiegare il fenomeno osservato - è molto contenuto, pari all’1,6%. Le dummies paese, quindi, spiegano soltanto in piccola parte la diminuzione delle esportazioni registrata nel 2009. Successivamente, abbiamo inserito nel modello altre variabili, cominciando dalle dummies settoriali: i settori sono stati definiti sulla base della classificazione ATECO 2002-NACE rev. 1.1 a due digit. Il potere esplicativo della regressione migliora sensibilmente, passando dall’1,6% al 4,2%. La specializzazione settoriale spiega dunque in misura non trascurabile la probabilità di contrazione delle esportazioni. In particolare, si osserva che in Italia e Francia uno sfavorevole assetto settoriale impatta sulla probabilità di registrare cadute delle esportazioni, diminuendo l’impatto dell’effetto paese. I risultati sono interessanti anche per un’analisi a livello settoriale. Utilizzando il settore alimentare come variabile di controllo, si è ottenuta per ciascun settore una misura della probabilità di registrare contrazioni del fatturato estero. Come atteso, i settori che producono beni di investimento e beni intermedi sono più vulnerabili ad una caduta della domanda estera, con coefficienti che superano sempre il 20% e in alcuni casi si attestano intorno al 30%. Ugualmente alta è risultata la probabilità di caduta delle vendite all’estero in alcuni settori tradizionali (pelli e cuoio, legno e prodotti in legno). Minore probabilità di caduta è emersa invece nell’industria della carta e nel settore della chimica e farmaceutica. A questo punto, abbiamo inserito alcune variabili relative alle caratteristiche aziendali: dimensione, età, quota dei laureati sul totale della forza lavoro, intensità degli investimenti materiali, innovazione di prodotto, organizzazione. A parte l’innovazione che, pur mostrando l’atteso segno negativo, non risulta statisticamente significativa, le altre variabili aggiungono tutte qualcosa alla spiegazione della varianza della variabile dipendente. In particolare, benché nella tabella 1 non siano riportati, è interessante citare i risultati della regressione quando si è inserita la dimensione, espressa tramite il logaritmo degli addetti: l’R2 è migliorato solo di poco (4,4%) ma, al di là della frazione di varianza spiegata, l’inserimento ha esercitato un impatto non trascurabile solamente sulle dummies paese di Italia e Spagna, cogliendo evidentemente l’effetto della loro struttura produttiva, fortemente sbilanciata verso le imprese piccole (il coefficiente paese dell’Italia è aumentato di oltre un punto percentuale). Per quanto riguarda le altre variabili, si è osservato che l’intensità dell’investimento, molto bassa in Italia soprattutto se confrontata con quella tedesca, impatta molto negativamente sulla probabilità di caduta delle esportazioni. L’effetto negativo derivante dagli scarsi investimenti è assorbito quasi interamente dal modello organizzativo accentrato, largamente diffuso in Italia. Considerando le caratteristiche aziendali nel loro complesso, comunque, l’R2 sale al 5%. Un miglioramento significativo – l’R2 raggiunge il 6,9% - lo otteniamo aggiungendo le variabili di strategia: quota di fatturato estero, numero dei mercati di sbocco, distanza (espressa con una variabile dummy che assume valore 1 quando le imprese sono presenti sui mercati extra-UE), qualità del prodotto. In particolare, è il grado di esposizione sui mercati esteri che contribuisce per oltre un punto percentuale al miglioramento della regressione, mentre l’altra variabile importante si rivela essere il numero dei mercati di sbocco, che contribuiscono per lo 0,7% al miglioramento. Guardando nuovamente alle dummies paese, è interessante notare come in questa ultima specificazione del modello, l’effetto paese in Italia si sia ridotto molto (all’8,1%), assorbito dalla componente “strategica”. In conclusione, dato un R2 uguale a 6,5% e scomponendo questo valore per singole componenti, si può approssimativamente dire che la porzione maggiore della varianza totale della variabile dipendente - definita in termini di numero di imprese che hanno accusato flessioni delle vendite all’estero rispetto all’anno precedente - è spiegata dalla composizione settoriale (il 37,7% circa). Seguono la strategia di internazionalizzazione (27,5%), l’effetto paese (23,2%) e le caratteristiche dell’impresa (11,6%). Infine, abbiamo applicato la medesima regressione alle sole imprese esportatrici italiane, per indagare quale sia stato nel nostro paese il peso relativo delle tre componenti esaminate: composizione settoriale, caratteristiche aziendali e strategie di internazionalizzazione. I risultati sono illustrati nella tabella 2. Rapporto Corporate Efige I 81 Rapporto Corporate Conclusioni La caduta del commercio estero nel 2009 ha avuto un forte impatto negativo sull’interscambio dell’Italia. L’esercizio statistico svolto ci ha consentito di rilevare che il sistema manifatturiero italiano è risultato più esposto alla crisi rispetto al sistema produttivo tedesco e di cogliere qualche eterogeneità rispetto agli altri paesi osservati. L’indagine dei punti di debolezza del nostro sistema produttivo suscita particolare interesse perché, prima della crisi, erano emerse molte evidenze che segnalavano che il processo di selezione competitiva imposto dal nuovo paradigma tecnologico e dalla crescente integrazione dei mercati globali stava generando anche in Italia un miglioramento del tessuto produttivo, rivelando una significativa capacità di reazione delle imprese. In primo luogo, tra le ragioni del declino delle esportazioni italiane, un ruolo dominante spetta al nostro modello di specializzazione, evidentemente orientato verso settori la cui domanda globale è caduta in misura maggiore rispetto ad altri settori ovvero verso prodotti caratterizzati da una bassa elasticità rispetto al reddito. La regressione condotta solo sulle imprese italiane ci segnala infatti che l’effetto-settori pesa per quasi il 60% sulla diminuzione delle esportazioni registrata dalle nostre imprese. L’altra questione che merita una riflessione è quella sulla dimensione aziendale, spesso indicata come uno degli elementi strutturali più importanti del nostro sistema produttivo per spiegare il ritardo di crescita dell’economia italiana e i problemi di competitività delle nostre imprese: l’eccessiva frammentazione produttiva impedirebbe cioè alle imprese di raggiungere quelle soglie minime necessarie a sostenere i costi e i rischi delle innovazioni e a competere sui mercati internazionali. Rovesciando la tendenza degli anni più recenti, invece, la caduta delle esportazioni 82 I Rapporto Corporate Efige Approfondimenti italiane nel 2009 ha colpito soprattutto le grandi imprese: le evidenze hanno segnalato, infatti, una precisa correlazione inversa tra dinamica delle esportazioni e dimensioni aziendali. Al fenomeno ha contribuito certamente un effetto di composizione, dovuto alla maggiore presenza relativa di grandi imprese nei settori in cui la caduta delle esportazioni è stata più forte, ma esso si è manifestato nettamente anche all’interno della maggior parte dei settori. È normale quindi chiedersi perché ciò sia avvenuto, se si sia trattato di un fatto eccezionale o meno, se è opportuno tornare a ragionare sulla relazione tra dimensioni aziendali e competitività internazionale delle imprese. L’esercizio statistico svolto consente una prima riflessione. La variabile dimensionale, che in una prima specificazione del modello è significativa e con segno positivo, perde significatività quando si implementa il modello con variabili che descrivono le modalità con cui le imprese sono presenti sui mercati internazionali. Pur tenendo conto che il risultato è certamente influenzato dalla correlazione positiva esistente tra dimensione aziendale e complessità delle attività internazionali, non può non colpire il risultato che le strategie di internazionalizzazione - espresse in termini di quota di fatturato esportato, numero e distanza dei mercati di sbocco – pesano per oltre il 25% nello spiegare la caduta delle esportazioni delle imprese italiane, contro il 15% delle caratteristiche aziendali. Una spiegazione di ciò può essere cercata nell’effetto “contagio”. La caduta della domanda mondiale si è propagata a mercati diversi in tempi diversi: la combinazione di un’ampia propensione all’export e di una elevata differenziazione dei mercati e dei prodotti - che normalmente rappresenta una efficace strategia di diversificazione del rischio - ha tutt’altro che funzionato nella crisi globale del 2008-2009. Verificando per la dimensione, ciò è vero anche per le piccole e medie imprese: la caduta delle esportazioni è stata tanto più diffusa quanto più le aziende avevano perseguito strategie di internazionalizzazione complesse. L’argomento andrebbe ovviamente approfondito prendendo in considerazione sia l’entità della contrazione di fatturato estero sia la capacità di reazione alla crisi. Poiché la crisi ha colpito in misura diversa le diverse aree economiche, è molto probabile infatti che la differenziazione dei mercati abbia comunque contribuito a contenere le perdite; le prime evidenze, inoltre, sembrano indicare che la reazione alla crisi sia stata tanto più tempestiva quanto più le imprese hanno adottato modelli di funzionamento complessi. Tornando alla questione dimensionale, il peso attribuito alle strategie complesse di esportazione attenua senz’altro l’importanza della dimensione nel discorso complessivo sulla caduta delle esportazioni, ma non lo annulla del tutto. Rimangono infatti le evidenze che, a parità di condizioni, le grandi imprese sembrano spesso aver sofferto in misura maggiore rispetto alle piccole. In questo senso è utile guardare ai dati disponibili sulle caratteristiche strutturali delle imprese, aggiornati al 2007. Tali dati confermano che esiste un gap - in termini di dimensione, produttività, intensità di capitale e lavoro qualificato - tra imprese esportatrici e imprese non esportatrici, a favore delle prime; tale gap tende tuttavia a decrescere rapidamente al crescere della dimensione aziendale, fino a rovesciarsi per le imprese grandi, con oltre 250 addetti. In questa classe, le imprese esportatrici si confermano più grandi delle imprese non esportatrici, ma risultano peggiori in termini di valore aggiunto e investimenti per addetto2. Questi dati suggeriscono che la dimensione di per sé non è da sola sufficiente a rendere “robusta” un’azienda ma che, al contrario, è necessario associare alla dimensione scelte strategiche complesse. regressione A 0,167 regressione B 0,145 regressione C 0,144 regressione D 0,143 -0,019 0,019 0,019 0,020 n.s. 0,165 n.s. 0,166 n.s. 0,185 n.s. 0,167 quota laureati 0,035 0,035 0,035 0,037 Italia 0,116 0,109 0,105 0,082 0,018 0,018 0,018 0,019 Inv/fatturato organizzazione accentrata Exp/Fatt (26-50%) n.s. n.s. 0,063 Spagna 0,111 0,121 0,135 0,134 0,019 0,019 0,020 0,030 Exp/Fatt (oltre 50%) 0,073 n.s. n.s. n.s. 0,014 n.s. n.s. n prodotti (4-6) 0,096 n prodotti (7-15) 0,104 n prodotti (oltre 15) 0,142 Francia Austria Ungheria UK laddetti Regressione ITALIA laddetti età ns 0,001 0,001 -0,002 (10%) 0,001 0,030 0,032 0,032 0,005 età quota laureati Inv/fatturato 0,001 0,001 0,000 0,000 -0,002 -0,002 0,000 0,000 -0,002 organiz accentrata -0,001 0,000 0,001 0,055 0,046 0,014 0,016 Exp/Fatt (26-50%) 0,033 0,039 mercati extra-UE 0,000 qualità del prodotto costante Exp/Fatt (oltre 50%) 0,111 n prodotti (4-6) 0,051 n prodotti (7-15) 0,082 n prodotti (oltre 15) 0,097 0,017 0,018 n.s. 0,212 0,075 0,063 0,016 -0,001 Osservazioni R2 1686 7,4 Note: i coefficienti sono significativi all'1%, salvo diversamente specificato; la seconda riga riporta lo standard error 0,018 0,021 mercati extra-UE -0,001 qualità del prodotto -0,001 0,000 0,000 costante Osservazioni R2 0,436 0,245 0,181 0,290 0,014 0,024 0,034 0,053 7785 1,60 7785 3,91 6580 4,70 6300 6,40 Note: i coefficienti sono significativi all'1%, salvo diversamente specificato; la seconda riga riporta lo standard error Regressioni: A= dummy paese; B=dummy paesi + dummy settori C=dummy paesi + dummy settori + caratteristiche impresa D=dummy paesi+ dummy settori + caratteristiche impresa + strategie di esportazione La stima con un modello OLS di una variabile binaria presenta la prerogativa di individuare facilmente il contributo di ciascuna variabile sulla variabile dipendente, ma dall’altro lato presenta anche alcuni problemi di natura statistica. La possibilità che la previsione possa a volte risultare esterna all’intervallo compreso 0-1, indica che la probabilità non può essere espressa mediante una relazione lineare per tutti i possibili valori della variabile indipendente, un’altra caratteristica di questa metodologia è costituita dal fatto che potrebbe venir meno potrebbe venire meno l’ipotesi di omoschedasticità delle varianze degli errori. 2 Vedi anche Rapporto ICE 2009-2010. 1 Rapporto Corporate Efige I 83 Rapporto Corporate Approfondimenti L’EFFETTO DELLA CRISI SULLE IMPRESE DI GRANDI DIMENSIONI a cura di Elena d’Alfonso e Silvia Giannangeli La riduzione del fatturato subita dalle imprese è stata molto diffusa sia fra le grandi imprese che fra le PMI. Nonostante il duro colpo inferto dalla crisi attraverso il canale dell'export, le imprese più grandi hanno sperimentato riduzioni più contenute sia dal lato dell'occupazione che degli investimenti. Il processo di aggiustamento è diffuso e non sempre, però, dipende dalla crisi. Una parte delle grandi imprese ha di fatto continuato a perseguire obiettivi di lungo periodo con investimenti mirati a consolidare la propria posizione in un mercato profondamente mutato. 84 I Rapporto Corporate Efige L’ultimo triennio, in riferimento al quale sono state effettuate le interviste contenute nella indagine qui presentata, è stato segnato, com’è ben noto, dalla più profonda crisi economica dal dopoguerra ad oggi. Nell’indagine sono state incluse alcune domande volte a misurare l’impatto della crisi e le immediate reazioni delle imprese nel fare fronte al brusco peggioramento della situazione economica mondiale. Se infatti le analisi a livello macroeconomico sono state numerose, anche e soprattutto grazie alla quantità di dati disponibili, poche sono state le considerazioni che si sono potute fare a livello micro: in questo approfondimento guarderemo dunque a questa parte della storia. La discussione dei risultati ha evidenziato l’impatto della crisi sui diversi aspetti dell’attività delle imprese italiane, confrontandole con quanto avvenuto negli altri paesi considerati nell’indagine. In questo approfondimento adotteremo un punto di vista diverso e ci concentreremo su quanto avvenuto nel tessuto “large corporate”. La vista sulle grandi imprese ci permette, infatti, di verificare quali sono stati i cambiamenti prodotti dalla crisi su una parte importante del sistema manifatturiero che, come emerge dall’indagine, è anche quella che ha operato negli scorsi anni strategie più elaborate in termini di rapporto con i mercati esteri e che potrebbero pertanto scontare in maniera diversa dalle altre una crisi che è stata a tutti gli effetti globale. L’obiettivo dell’analisi è di valutare se le imprese di grandi dimensioni, per loro natura più attive sui mercati esteri, abbiano subito una caduta del fatturato più intensa a causa del brusco calo delle esportazioni e quali reazioni esse abbiano messo in atto a fronte di un’eventuale diminuzione dell’operatività. In particolare, è interessante valutare quali siano state le decisioni in termini di impiego dei fattori produttivi, sia forza lavoro che investimenti in capitale materiale ed immateriale. In questo contesto, valuteremo se il supporto pubblico abbia influenzato le decisioni di taglio alla spesa delle imprese. Mentre il colpo della crisi è stato forte, infatti, non tutte le grandi imprese sembrano aver reagito in modo “difensivo”, adottando cioè strategie di taglio alla spesa e riduzione degli investimenti. C’è, al contrario, chi ha continuato ad investire nonostante tutto. Indagheremo in particolare queste imprese guardando alla relazione banca-impresa che le caratterizza, e cercando di rispondere alla domanda se ad una migliore risposta alla crisi corrisponda anche una più intensa relazione con la banca, in grado di supportare nel contesto di una profonda crisi economica e condizioni del credito difficili. Analizziamo quindi il database Efige, concentrando l’attenzione sulle imprese con un fatturato superiore a 50 milioni di euro nel 2008. Nel complesso 914 imprese su 14911 intervistate, superano questa soglia, di cui 184 italiane. L’impatto della crisi sulle grandi imprese Guardiamo innanzitutto alle indicazioni che danno le imprese sulla situazione dei loro risultati nel corso del 2009: la crisi ha colpito in maniera diffusa la grande maggioranza del campione, e vi è poca differenza tra imprese di grande dimensione - che hanno sperimentato cadute di fatturato nel 69,1% dei casi - e la totalità delle interviste - in cui ci sono state perdite per il 69,7% delle imprese. Percentuale di imprese che hanno subito perdite di fatturato nel 2009 (%) Grandi imprese Campione complessivo 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Spagna Italia Francia Germania Regno Unito Anche la modalità con cui le grandi imprese operano sui mercati esteri è sensibilmente diversa dalle altre: il business estero conta infatti molto, in media il 42,4% del fatturato è legato alle esportazioni, un livello che supera di oltre 10 punti percentuali quello del campione totale. Ma non solo: le imprese di grandi dimensioni esportano in più paesi - addirittura 25 in media contro gli 11 del campione complessivo - e mediamente raggiungono mercati di sbocco più lontani; sono cioè meno concentrate nell’Europa a 15 e optano per destinazioni meno facilmente raggiungibili. È molto probabile pertanto che il calo diffuso del turnover sia legato in buona parte a un calo nelle esportazioni delle Austria Ungheria Totale imprese. In effetti anche per quanto riguarda le esportazioni il calo sembra essere generalizzato alla maggioranza del campione: il 52% delle grandi imprese segnala di aver perso fatturato da export, anche se - come per il calo di fatturato l’intensità della perdita è meno marcata per le grandi, che segnalano in media di avere subito un calo del fatturato da export pari al 22,3% contro il calo dell’intero campione che è stato indicato pari al 28,3%. Il dettaglio per paese della diffusione e dell’intensità media delle perdite evidenzia che sono l’Italia e la Francia a soffrire di più, mentre il commercio estero è andato meglio in Germania e Regno Unito. Numero di imprese che hanno ridotto le esportazioni e entità della riduzione 27 Intensità della riduzione (% del fatturato) L’Italia ha mostrato una situazione poco diversa dal resto delle realtà europee; le perdite sono state ancora più diffuse - il 72,6% delle imprese ha sperimentato cali di fatturato - con una situazione solo di poco migliore nel caso delle grandi. Le grandi imprese appartenenti al campione non riportano dunque una situazione molto migliore di quanto si vede a livello complessivo. Ciononostante, dal lato dell’entità del calo, le cose sembrano essere andate un po’ diversamente: il numero di grandi imprese che ha perso più del 30% del proprio fatturato è pari al 19,4%, mentre la quota sale a 24,9% nel campione complessivo. Anche per le grandi ci sono state dunque perdite diffuse; esse sono però riuscite a “arginare i danni”, e quindi a limitare la caduta del fatturato. Questo indica una maggiore solidità delle imprese di grandi dimensioni. Nel corso del 2008, il primo canale attraverso cui la crisi ha avuto diffusione è stato il commercio internazionale che ha subito un rapido tracollo - di circa il 20% - tra l’agosto e il gennaio dell’anno successivo. Le imprese internazionali, e le esportatrici in particolare, sono state dunque quelle colpite più duramente, almeno in una prima fase. Al di sopra di una certa soglia dimensionale la larghissima maggioranza delle imprese è presente su mercati esteri; nel nostro campione le imprese con oltre 50 milioni di fatturato sono esportatrici nell’86% dei casi (contro il 67% nell’intero campione), quota che sale ad oltre il 90% (92,6%) in Italia. 25 ITALIA 23 21 FRANCIA SPAGNA GERMANIA AUSTRIA 19 REGNO UNITO 17 15 40 45 50 55 60 Numero di imprese che hanno ridotto l’export (%) Rapporto Corporate Efige I 85 Rapporto Corporate Per verificare il peso relativo delle variabili fino a qui commentate tenendo conto anche della specializzazione settoriale, abbiamo stimato tre modelli probit. Ridi=β0+β1Grandii + γ1Austria + ...+γ6Regno Unito + ω1Settore2+ +ω9Settore10 + εi dove Rid rappresenta, nelle tre varianti stimate e riportate in tabella, una variabile dicotomica che assume valore 1 se l’impresa ha sperimentato un perdita del fatturato nel 2009 nel primo caso, una perdita superiore al 10% nel secondo caso, una perdita invece del fatturato da esportazioni nel terzo caso; Grandi è un indicatore che assume valore 1 quando l’impresa i supera la soglia dimensionale dei 50 milioni di fatturato. Le altre variabili incluse sono dicotomiche e catturano gli effetti fissi legati al paese e al settore industriale di appartenenza. La prima colonna della tabella stima la probabilità di essere incorsi in una perdita del fatturato nel corso del 2009: come visto anche dalle semplici descrittive tale probabilità è positivamente e significativamente correlata all’essere esportatori, caratteristica che impatta in Approfondimenti maniera ancora più elevata sulla probabilità di un calo del fatturato, come si nota dalla seconda colonna della tabella. Le grandi imprese, mostrano inoltre di avere sofferto più delle altre, anche se le imprese con un fatturato superiore a 50 milioni aumenta solo di poco la probabilità di perdite e diventa del tutto non significativa quando si guarda alle perdite superiori al 10%, indicato nella seconda colonna. Nell’ultima colonna viene infine valutato in termini probabilistici il calo delle esportazioni: anche in questo caso le imprese di dimensioni maggiori sono quelle che hanno una più alta probabilità di sperimentare cali nell’export. La regressione mostra inoltre che il coefficiente associato all’essere grandi imprese raddoppia rispetto all’effetto che aveva sulla probabilità di sperimentare perdite di fatturato, risultato che conferma nuovamente il peso che hanno avuto le perdite nelle esportazioni sulle imprese di maggiori dimensioni. Una evidenza comune a tutti e tre gli esercizi è che, anche tenendo conto degli effetti settoriali attraverso l’utilizzo di dummy, gli effetti paese rimangono sempre significativi: posta la Germania come benchmark, i dati evidenziano che sia in termini di fatturato che di esportazioni le imprese di questo paese hanno sofferto meno delle altre. In particolare, una volta depurati i risultati dagli effetti di settore, sono Spagna e Ungheria a segnalare le maggiori perdite nell’export. Questo suggerisce che in Italia, dove si erano notate grosse perdite a livello complessivo, parte del crollo nelle esportazioni sia legato alla composizione settoriale delle imprese manifatturiere. In generale sembra comunque che per le grandi imprese le difficoltà siano legate in maniera rilevante alla loro esposizione all’estero e che, oltre alle specificità settoriali, ci siano delle differenze a livello di paese che potrebbero essere guidate dagli interventi pubblici messi in atti dal governo per fronteggiare la crisi economica. L’indagine include alcune domande specifiche relative al supporto pubblico, che abbiamo utilizzato per vedere se il supporto pubblico - introdotto massicciamente da gran parte dei paesi durante il 2009 - abbia sortito gli effetti benefici per le imprese e contribuisca dunque a spiegare eventuali differenze nella reazione alla crisi delle imprese localizzate in paesi differenti. Anche in questo caso abbiamo stimato una probit1 che evidenzia come le grandi imprese siano quelle che con più probabilità riescono Stime dei modelli probit PROBABILITÀ DI AVERE SPERIMENTATO UN CALO DI FATTURATO IMPATTO SU: PROBABILITÀ DI AVERE SPERIMENTATO UN CALO DI FATTURATO SUPERIORE AL 10% Esportatori + 4.2% + 6.5% Grandi Imprese + 2.7% n.s. + 5.6% Austria = = = Francia + 4.9% + 13.8% + 16.1% Ungheria + 11.6% + 19.8% + 17.2% Italia + 10.3% + 14.9% + 12.2% Spagna + 18.5% + 26.9% + 13.0% + 2.8% + 6.3% = Regno Unito PROBABILITÀ DI AVERE SPERIMENTATO UN CALO DEL FATTURATO DA ESPORTAZIONE Nota: L’analisi include variabili dicotomiche per 10 settori industriali, i cui coefficienti stimati non sono riportati in tabella per brevità. La tabella riporta gli effetti marginali espressi in punti percentuali, anziché i coefficienti stimati dalla procedura econometrica (OLS nel caso la variabile sia espressa in termini percentuali, probit nel caso in cui sia dicotomica). ns: non significativo; =: effetto marginale quasi nullo, benché statisticamente significativo. 86 I Rapporto Corporate Efige ad accedere agli incentivi, ma come atteso, la maggior parte della differenza viene colta dalle dummy di paese che individuano la Germania come il paese dove le imprese accedono a meno incentivi, seguiti dall’Ungheria e dall’Italia. Sono viceversa Spagna ed Austria i paesi in cui un maggior numero di imprese intervistate dichiara di avere ricevuto supporto pubblico. Come si mostrerà nella prossima sezione, però, gli incentivi non sembrano avere avuto un ruolo decisivo nell’impatto della crisi sui profitti delle imprese, probabilmente anche per via del ritardo che è naturale ci sia tra introduzione delle misure di sostegno e effettivo risultato sui dati di impresa. I cambiamenti strategici nelle grandi imprese all’indomani della crisi La capacità delle imprese sembra essere, dunque, quella di adattarsi velocemente alla situazione riorganizzando il proprio input mix. In questo paragrafo verificheremo come le grandi imprese hanno deciso di riorganizzare il capitale - materiale e immateriale - e la forza lavoro e verificheremo quanto su questo hanno pesato gli strumenti di supporto pubblico. Partiamo dall’occupazione: una delle risposte immediate alla crisi, messe in atto dalle grandi imprese italiane ed europee, è stata una considerevole riduzione del numero degli occupati. Le riduzioni della forza lavoro hanno infatti interessato un ampissimo numero di imprese: fra queste vi sono anche imprese che non risultano aver subito perdite di fatturato a causa della crisi. Il processo di riorganizzazione è quindi molto diffuso e talvolta prescinde dall’impatto della crisi. Il calo dell’occupazione registrato nelle grandi imprese appare tuttavia più contenuto: rispetto al campione nel suo complesso, le imprese di grandi dimensioni, sebbene severamente colpite dalla crisi, mostrano una maggior tenuta sotto il profilo della forza lavoro, con un calo dell’occupazione mediamente inferiore (13,5% versus 16,5%) e un maggiore ricorso a riduzioni di carattere temporaneo (26% versus 21%). È da sottolineare, inoltre, che la ristrutturazione della forza lavoro può talvolta non essere una risposta alla caduta del fatturato: il 19,5% delle grandi imprese riduce i propri livelli occupazionali anche se non ha sofferto di alcuna perdita legata alla crisi. Le grandi imprese italiane, in particolare, sono state meno interessate dalla riduzione dei livelli occupazionali, sia in termini di diffusione che di intensità: il 45,9% delle grandi imprese del nostro Paese ha infatti ridotto l’occupazione, contro una media del 48,1% nei sette paesi considerati. Anche l’entità della riduzione è stata in Italia inferiore alla media (12,3%, il livello minimo fra i paesi, contro il 13,5% nel campione complessivo). La riduzione dell’occupazione ha natura permanente nella grande maggioranza dei casi: tuttavia, il 26% delle grandi imprese nei sette paesi considerati dichiara di ridurre il numero dei propri addetti in modo solo temporaneo. A tale proposito, è da sottolineare come la scelta fra riduzioni temporanee e permanenti possa essere determinata, oltre che dalla natura delle esigenze delle imprese, anche dai diversi sistemi di welfare e protezione sociale in essere nei vari paesi. Interessante notare come, ad esempio, in Italia e Germania, dove è agevole ricorrere a strumenti di riduzione solo temporanei, come la Cassa Integrazione Guadagni e il kurtzarbeit programme, le riduzioni di natura temporanea sono più frequenti (rispettivamente il 34,8% e 32,1%), mentre in Spagna tale percentuale si riduce a 17,6% ed in Francia a 13,3%. Le grandi imprese rispondono alla crisi economica non solo riducendo la loro forza lavoro, ma anche ridimensionando gli investimenti, sia in attività materiali (macchinari, impianti e ICT) che immateriali, come la ricerca e sviluppo. Nel complesso, le imprese di grandi dimensioni mostrano nel corso del 2009 una maggiore stabilità, evidenziando una minore contrazione della spesa in investimento in beni capitali in termini di entità, ma di nuovo non di diffusione. Nel 2009 la riduzione dell’investimento in macchinari, impianti ed ICT delle grandi imprese ha interessato infatti una quota elevata di grandi imprese (43,9% contro 39,1% nel campione complessivo). In termini di entità della contrazione, tuttavia, le imprese di grandi dimensioni risultano ridurre la spesa per investimento in media dell’8,1% (contro una media del campione Le variazioni della forza lavoro delle grandi imprese nel 2009 (%) Reduction Equal Increase 70 60 50 40 30 20 10 0 AUT FRA GER HUN ITA SPA UK Total Rapporto Corporate Efige I 87 Rapporto Corporate complessivo pari a 10,5%). Le differenze fra i sette paesi considerati nell’analisi non sono tuttavia trascurabili, soprattutto per quanto riguarda la diffusione delle decisioni di contrarre gli investimenti: in Italia ed in Germania la percentuale di grandi imprese che riduce i propri investimenti in capitale fisico è fra le più basse (rispettivamente, il 37,2% ed il 36,7%), mentre tocca i livelli più alti fra le grandi francesi e spagnole (56,6% e 60,1%). Al contrario, l’entità della contrazione appare simile fra paesi, ed è pari a 7,3% nelle grandi imprese italiane. La quota di imprese al di sopra di 50 milioni di fatturato interessata nel 2009 da riduzioni della spesa per investimento in innovazione appare complessivamente inferiore a quanto registrato sugli investimenti in beni materiali. In aggiunta, le grandi imprese risultano essere meno toccata dai tagli all’innovazione: solo il 30% decide di posticipare progetti innovativi, mentre tale quota sale a 35% nel campione complessivo. Nel contesto dei sette paesi considerati, le italiane mostrano una maggiore tenuta rispetto alla media anche sotto il profilo dell’innovazione, che è stata ridotta dal 27,7% delle imprese di grandi dimensioni. I risultati discussi finora sembrano dunque suggerire che, nonostante il colpo inferto dalla crisi nel biennio 2008-2009 all’attività, soprattutto estera, delle grandi imprese, queste hanno mostrato una capacità di tenuta superiore alle imprese più piccole. Non solo, infatti, il taglio della spesa in investimenti fissi è stato minore, ma anche l’attività innovativa sembra aver subito di meno il colpo della crisi. Questa complessivamente maggiore stabilità negli investimenti può essere legata a costi di aggiustamento potenzialmente elevati nel caso di investimenti su ampia scala. D’altro canto, essa potrebbe essere il risultato di una effettiva capacità delle imprese più grandi di continuare ad investire per costruire o consolidare la propria posizione 88 I Rapporto Corporate Efige Approfondimenti Grandi imprese che riducono gli investimenti in capitale fisico e innovazione nel 2009 (%) Innovazione Macchinari, Impianti ed ICT 70 60 50 40 30 20 10 0 Austria Francia Germania Ungheria sul mercato. Investire in macchinari ed ICT, così come in attività innovative è, di fatto, parte integrante del core business di queste aziende (in Italia, ad esempio, il 91,9% e l’80,8% delle grandi imprese fa investimenti in beni capitali e innovazione nel triennio 2007-2009 contro una media nazionale rispettivamente di 80,5% e 52,8%) ed è quindi possibile che, anche di fronte ad una crisi molto profonda, le regole della competizione internazionale a cui queste imprese sono esposte “domandi” un maggiore committment sulle attività di investimento. Sia le variazioni introdotte nella forza lavoro che negli investimenti presentano tuttavia sostanziali differenze fra paesi. A che cosa sono dovute? Oltre alle specificità nazionali, tipicamente riassunte negli “effetti paese”, è possibile che esistano altri fattori in gioco. Fra di essi, oltre alla riduzione di fatturato sofferta a causa della crisi, vi è ovviamente il settore industriale in cui l’impresa opera. Un altro fattore potenzialmente in grado di moderare l’impatto della crisi sulla riduzione dell’occupazione o degli investimenti è l’utilizzo degli strumenti di supporto messi in campo dalle istituzioni pubbliche. Per valutare se le grandi imprese siano più inclini ad adottare strategie di taglio alla spesa (sia sotto forma di riduzioni del Italia Spagna Regno Unito Totale personale che di taglio agli investimenti materiali o immateriali), controllando per eventuali effetti paese, per la composizione settoriale, per la perdita di fatturato subita e per l’utilizzo di strumenti di supporto pubblico, stimiamo il seguente modello: Ridi=β0+β1Grandii + β2Perditai + β3Pubblicoi + γ1Austria + L +γ6Regno Unito + ω1Settore2 + L +ω9Settore10 + εi dove Rid rappresenta in ognuna delle specifiche una tipologia di taglio alla spesa diverso: nei primi due casi (le cui stime sono riportate nelle prime due colonne in tabella), analizziamo la riduzione in termini percentuali dell’occupazione e della spesa in macchinari ed ICT, mentre nel terzo caso guardiamo ad un indicatore dicotomico che assume valore 1 quando l’impresa i decide di ridurre l’innovazione nel 2009 (terza colonna in tabella); Grandi è un indicatore che assume valore 1 quando l’impresa i supera la soglia dimensionale dei 50 milioni di fatturato; Perdita è una variabile dicotomica che indica se l’impresa i ha subito una riduzione di fatturato nel 2009; Pubblico è una dummy che indica se l’impresa ha ricevuto supporto pubblico. Le altre variabili incluse sono dicotomiche e catturano gli effetti fissi legati al paese e al settore industriale di appartenenza. Per la Stime dei modelli probit RIDUZIONE DELL'OCCUPAZIONE (%) IMPATTO SU: RIDUZIONE DELLA SPESA IN MACCHINARI E ICT (%) DECISIONE DI RIDURRE L'INNOVAZIONE ( 0/1) -3% -3% -4% Perdita del fatturato 4% +5% +19% Supporto pubblico ns ns ns Grandi imprese Prestiti bancari/spesa in macchinari e ICT +4% Prestiti bancari/spesa in R&S = Austria +2% = = Francia = +4% +4% Italia +1% = +16% Spagna +5% = +6% Ungheria +9% +11% +20% Regno Unito +2% = +7% Nota: L’analisi include variabili dicotomiche per 10 settori industriali, i cui coefficienti stimati non sono riportati in tabella per brevità. La tabella riporta gli effetti marginali espressi in punti percentuali, anziché i coefficienti stimati dalla procedura econometrica (OLS nel caso la variabile sia espressa in termini percentuali, probit nel caso in cui sia dicotomica). Ns: non significativo; =: effetto marginale quasi nullo, benché statisticamente significativo. lettura dei risultati della stima, è necessario ricordare che la Germania è assunta come paese di riferimento e gli effetti paese rappresentano quindi la differenza nella decisione di ridurre un certo tipo di spesa rispetto alla media delle imprese tedesche. Nelle specifiche in cui la variabile dipendente è la riduzione della spesa in macchinari ed ICT oppure l’innovazione, il modello include anche una ulteriore variabile (non riportata nell’equazione sopra) che mira a catturare la dipendenza dal credito bancario, e che è data dalla quota di spesa coperta con prestiti bancari nel 2007-2009. Chiaramente, l’ipotesi di lavoro più ovvia era in questo caso l’esistenza di una relazione positiva fra la dipendenza dal credito e le decisioni di ridurre gli investimenti, dato l’impatto che la crisi ha avuto da subito sulle condizioni di accesso al credito per le imprese. La tabella riporta i risultati della stima, effettuata sull’intero campione delle 14911 imprese dell’indagine. I risultati confermano che le imprese di grandi dimensioni sono interessate da riduzioni minori nella forza lavoro e nella spesa per investimenti in beni materiali. Allo stesso modo, sono meno propense a posticipare progetti innovativi nel corso del 2009. L’aver subito una perdita di fatturato risulta essere, non sorprendentemente, un forte driver delle decisioni di disinvestimento di qualsiasi tipo. In linea con quanto evidenziato in precedenza, inoltre, emerge chiaramente come le imprese italiane si comportino in modo abbastanza simile rispetto alle tedesche sotto il profilo della riduzione dell’occupazione e del disinvestimento in macchinari ed ICT (a differenziarle maggiormente, semmai, è la dinamica pregressa degli investimenti nel triennio 2007-2009, assai più debole nelle imprese italiane). Una peggiore performance rispetto alla Germania si osserva invece nella riduzione dell’innovazione, più diffusa fra le imprese italiane, al netto degli effetti settoriali. In aggiunta, è da sottolineare che, come già accennato più sopra in questo lavoro, nessun beneficio sembra associato all’aver usufruito di qualche forma di supporto pubblico. Interessante appare, inoltre, la pressoché inesistente relazione fra la dipendenza degli investimenti dal credito bancario e le decisioni di disinvestimento. La relazione delle imprese con le banche resta tuttavia una questione di interesse primario: in particolare, è interessante analizzare il legame fra le strategie “difensive”, ovvero di taglio alla spesa, messe in atto dalle imprese e l’intensità della loro relazione con la banca di riferimento. La relazione banca-impresa e le strategie delle imprese all’indomani della crisi L’analisi sviluppata sinora ha mostrato che né la riduzione della spesa per investimenti in beni materiali, né in innovazione sono state determinate dall’utilizzo del credito bancario da parte delle imprese nel triennio precedente alla crisi. Questo non risponde, tuttavia, alla domanda se l’intensità della relazione banca-impresa contribuisca a determinare il tipo di reazione delle grandi imprese alla crisi. Di fatto, l’importanza dei prestiti bancari nel coprire la spesa in investimento fotografa la capacità delle imprese ad accedere al mercato del credito, più che qualificare il tipo di relazione stabilito con la banca principale. L’ipotesi di lavoro è, invece, che un più stretto legame con una banca di riferimento possa aiutare le imprese, soprattutto in tempo di crisi Rapporto Corporate Efige I 89 Rapporto Corporate a continuare ad investire, grazie ad una maggiore condivisione degli obiettivi di medio-lungo periodo con i propri finanziatori principali ed una potenziale maggiore capacità da parte di questi di valutare le opportunità ed il potenziale di crescita e profittabilità oltre la crisi (De Mitri et al., 2010)2. È quindi necessario, in primo luogo, definire una misura dell’“intensità” della relazione banca-impresa, considerando tre indicatori di intensità: il numero di banche utilizzate; la quota di indebitamento con la banca principale; la quota di investimenti finanziati con prestiti bancari. In secondo luogo, categorizziamo il tipo di strategie messe in atto dalle imprese in base ad una scala da 0 a 3, dove 0 indica che le imprese non hanno implementato nessuna reazione di tipo “difensivo”, mentre valori da 1 a 3 misurano il grado con cui l’impresa ha perseguito strategie di taglio alla spesa. Le strategie prese in considerazione sono: i) una taglio agli investimenti in macchinari ed ICT; ii) una riduzione dell’innovazione; iii) una riduzione del numero di prodotti offerti. La figura mostra come variano gli indicatori di intensità della relazione banca-impresa nei vari gruppi distinti in base alla scala appena definita. Poiché l’obiettivo dell’analisi è guardare al comportamento delle grandi imprese significativamente colpite dalla crisi, ci concentriamo su quelle che dichiarano una perdita del fatturato superiore al 10% nel 2009. Approfondimenti delle imprese, di fatto, questo può essere indice di una buona strategia finanziaria e capacità di ottenere finanziamento esterno. Da non escludere, inoltre, la maggiore capacità contrattuale delle imprese di grandi dimensioni che potrebbe riflettersi nella possibilità di selezionare fra un numero elevato di potenziali finanziatori ottenendo credito a condizioni vantaggiose. D’altro canto, è da sottolineare come, in un contesto di aumentata rischiosità, una prospettiva di più lungo termine possa “domandare” una più stretta relazione fra la banca e l’impresa. Grazie ad una maggiore comprensione delle esigenze finanziarie di un’azienda, la banca è in grado di offrire un più appropriato portafoglio di servizi e strumenti finanziari. Dal punto di vista degli intermediari creditizi, inoltre, una più stretta relazione con le imprese potrebbe costituire una base appropriate per sviluppare appieno il potenziale di crescita dell’offerta, sia attraverso strategie di cross-selling che attraverso un migliore controllo dei rischi. Tirando le somme di quanto fino a qui visto, ci sembra di potere delineare per le grandi imprese un quadro di moderato ottimismo: a fronte di diffuse perdite trainate principalmente dal calo del commercio mondiale, queste imprese hanno sperimentato riduzioni più contenute sia dal lato dell’occupazione che degli investimenti. Un dato positivo sembra senz’altro essere la diffusione dell’aggiustamento. Non tutto è però legato alla crisi: c’è chi riduce l’occupazione anche se non ha ridotto il fatturato e chi, nonostante severe perdite, continua ad investire. Sembra quindi che la crisi abbia innescato un processo di trasformazione, ma che parte delle imprese abbia comunque continuato a perseguire obiettivi di lungo periodo con investimenti mirati a consolidare la propria posizione in un mercato profondamente mutato. Le imprese, che continuano ad investire nonostante la crisi, mostrano di avere ampio credito dal mercato bancario, senza tuttavia legarsi ad un’unica banca di riferimento. Questo apre una riflessione valida soprattutto per l’Italia che è fra i paesi in cui il rapporto fra l’impresa e la banca è tra i più “diluiti”, come mostrano i dati dell’indagine presentati nel capitolo precedente. La relazione banca-impresa e la reazione delle grandi imprese alla crisi (%) Numero di banche utilizzate Quota di investimenti finanziata con prestiti bancari (%) 25 Quota di indebitamento verso la banca principale (%) 71 20 20 18 90 I Rapporto Corporate Efige 45 50 44 10 6 5 5 5 70 60 16 15 I dati confermano che le imprese che reagiscono meglio alla crisi (raggruppate nella classe 0) hanno ampio accesso al mercato del credito, perché attraverso di esso finanziano una più elevate quota della spesa in investimento. Tuttavia, esse non sembrano avere una relazione particolarmente intensa con una “banca principale”, ma sono anzi caratterizzate da una minore quota di indebitamento verso di essa e da un maggiore numero di banche utilizzate. Dal punto di vista 80 40 36 30 5 20 2 10 0 0 3 2 1 0 P er brevità di esposizione la tabella con i risultati non è riportata nel testo ed è disponibile su richiesta. 2 De Mitri, S., Gobbi, G., Sette, E., 2010, “Relationship lending in a financial turmoil”, Banca d’Italia, Tema di discussione n. 772, Settembre. 1 APPENDICE ASPETTI METODOLOGICI Questo rapporto utilizza la banca dati sulle imprese manifatturiere relativa al progetto Efige (European Firms in a Global Economy), un progetto di ricerca internazionale, sotto l’egida della Commissione Europea, coordinato da Bruegel di Bruxelles, cui partecipa UniCredit, insieme ad altri sei partners: Universidad Carlos III di Madrid, CEPR (Londra), The Institute of Economics of Hungarian Academy of Sciences (Budapest), Institute for Applied Economic Research (Tubinga), Centro Studi Luca d’Agliano (Milano), Centre d’Etudes Prospectives et d’Informations Internationales (Parigi). L’obiettivo del progetto è di disporre di una base dati comune a sette paesi europei (Austria, Francia, Germania, Italia, Ungheria, Spagna, Regno Unito), allo scopo di poter effettuare studi comparati sulla competitività delle imprese di tali paesi e di ricavarne proposte di politica economica. I dati sono stati raccolti da GFK Eurisko attraverso i sistemi CATI (Computer Assisted Telephone Interview) e CAWI (Computer Assisted Web Interview). Il campione è costituito da 14.911 imprese, di cui 3.019 per l’Italia, 482 per l’Austria, 2.973 per la Francia, 488 per l’Ungheria, 2.832 per la Spagna, 2.142 per il Regno Unito. Il disegno campionario adottato ha seguito una stratificazione per settore e per dimensione d’impresa, tenendo conto delle principali aree geografiche di ciascun paese. Al riguardo sono state considerate quattro classi dimensionali: 10-19 addetti; 20-49; 50-249; oltre 249 addetti. I settori considerati (Revisione Nace 1.1) sono i seguenti: DA Alimentari e Tabacco DB + DE Tessile, prodotti tessili + Carta, Stampa, Editoria DC + DI + DL Pelli + Altri minerali non metallici + Apparecchi elettrici ed ottici DD Legno e prodotti in legno DF Coke e prodotti petroliferi raffinati DG Chimica, prodotti chimici e fibre sintetiche DH Gomma e plastica DJ Metalli di base e prodotti in metallo DK Macchinari e attrezzature DM Mezzi di trasporto DN Altri settori non classificati Alle imprese intervistate è stato somministrato un questionario composto da sei sezioni: Struttura dell’impresa; Forza Lavoro; Investimenti, Innovazione tecnologica e Ricerca e Sviluppo; Internazionalizzazione; Finanza; Mercato e Prezzi. Ogni sezione contiene alcune domande sulla crisi. Il periodo preso in esame è il triennio 2007-2009, il che consente - per l’Italia - di stabilire la continuità con le precedenti indagini dell’Osservatorio sulle piccole e medie imprese. Qui di seguito si riporta il piano di campionamento relativo all’Italia. Italia - Piano di campionamento DIMENSIONE TRA 10 E 49 ADDETTI NACE REV 1.1 DA DB+DE DC+DI+DL DD DF+DG DH DJ DK DM DN TOTALE TRA 50 E 249 ADDETTI OLTRE 249 ADDETTI TOTALE CAMPIONE POPOLAZIONE CAMPIONE POPOLAZIONE CAMPIONE POPOLAZIONE CAMPIONE POPOLAZIONE 196 402 452 83 67 133 571 295 53 193 2.445 6.680 13.259 13.939 3.329 1.650 3.663 18.679 8.211 1.775 5.907 77.092 35 57 80 4 35 24 95 60 13 26 429 773 1.481 1.859 212 536 612 1.876 1.599 435 679 10.062 7 22 22 1 14 12 20 25 14 8 145 122 200 248 15 150 71 168 242 137 55 1.408 238 481 554 88 116 169 686 380 80 227 3.019 7.575 14.940 16.046 3.556 2.336 4.346 20.723 10.052 2.347 6.641 88.562 Rapporto Corporate Efige I 91 Rapporto Corporate NOTES 92 I Rapporto Corporate Efige Il Rapporto Corporate è pubblicato come allegato a Scenari Economici: Autorizzazione n. 143 rilasciata il 29 Febbraio 1992 dal Tribunale di Milano. La presente pubblicazione (in seguito Documento) è opera di UniCredit SpA, è impegnata in numerose attività finanziarie aventi ad oggetto strumenti finanziari collegati alle variabili descritte nel Documento. In particolare UniCredit SpA, possono prendere posizione o agire come market maker sugli stessi strumenti finanziari. Il Documento ha finalità puramente informative e non rappresenta né un’offerta né una sollecitazione ad effettuare alcuna operazione di acquisto o vendita di strumenti finanziari. Il Documento è destinato ad essere distribuito via posta, elettronica o ordinaria, e non può essere ridistribuito, riprodotto o pubblicato in alcuna delle sue parti. Le informazioni, le opinioni, le valutazioni e le previsioni contenute nel Documento sono state ottenute o derivano da fonti che UniCredit SpA ritiene attendibili, ma che non costituiscono in alcun modo una forma di garanzia, sia implicita sia esplicita. 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