Visioni rock - Cineforum del Circolo

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i quaderni del cineforum
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VISIONI ROCK
QUANDO IL ROCK SI FONDE CON IL CINEMA
a cura di ALESSANDRO PERUCCA e MARCELLO PERUCCA
ALESSANDRO PERUCCA - MARCELLO PERUCCA
VISIONI ROCK
Q UANDO LA MUSICA ROCK SI FONDE CON IL CINEMA
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
CINEFORUM DEL CIRCOLO
SETTEMBRE-OTTOBRE 2014
SENZA TREGUA... IL ‘’ROCK’ ’N MOVIE’’
One Two Three O’Clock/ Four O’Clock, Rock!
Sono i primi versi di Rock Around The Clock, una famosa canzone scritta nel 1952 da Max C. Freedman e
James E. Myers e incisa nell’aprile 1954 da Bill Haley & His Comets. Un pezzo rock’ ’n roll dal ritmo travolgente che venne utilizzato sui titoli di testa di due film qusi contemporanei: Il seme della violenza (The Blackboard Jungle) diretto da Richard Brooks nel 1955) e Senza tregua il rock’ ’n roll (in originale Rock Around
The Clock) con la regia di Fred F. Sears l’anno successivo e interpretato dallo stesso Bill Haley. Due film che
ebbero il merito di essere stati i primi, grazie proprio alla presenza della canzone, a permettere alle giovani
generazioni di prendere le distanze da quella dei padri, con una musica propria che li identificasse e li contraddistinguesse. Esemplificativa, a qusto proposito, è la scena de Il seme della violenza nella quale Glenn Ford,
che interpreta la parte di un professore, tenta di comunicare la propria passione agli studenti (fra i quali Sidney
Poitier) facendo ascoltare loro la propria collezione di vecchi 78 giri di jazz. La reazione dei suoi allievi è violentissima: si scagliano contro il docente, impossessandosi dei dischi e frantumandoli. Una ribellione verso i
canoni e la cultura delle vecchie generazioni; è un grido che afferma la voglia di libertà e indipedenza da parte
dei giovani.
Fu un inizio travolgente, sferzante: il cinema scoprì il rock. Si fuse con esso, così come, precedentemente,
aveva fatto con il jazz. Nacque il rock movie, che più che un genere può essere considerato un’idea di fare cinema; un cinema duro, ribelle, frenetico. Così come ribelle era la musica dei vari Little Richard, Jerry Lee
Lewis, Chuck Berry e, soprattutto, Elvis Presley, che a sua volta interpretò numerosi film che divennero veri
e propri oggetti di culto presso la sua moltitudine di fan.
Dopo una breve, immediatamente successiva stagione in cui il rock movie si trasforma in beach movie, con
pellicole in cui il rock utilizzato è una musica ripulita dallo spirito di ribellione e che diventa colonna sonora
per storie di amori con il lieto fine, rendendo stanco e privo di interesse il genere, irrompono sulla scena non
solo musicale, ma anche cinematografica, i Beatles. I quattro ragazzi di Liverpool che raggiunsero il primo
successo con Love Me Do nel 1962 (vedi scheda pag. 8), si dedicarono anche al cinema, sfruttando il loro successo e la loro personalità, per realizzare pellicole piene di humor e nonsense. A questo contribuì molto il
regista statunitense emigrato in Inghilterra Richard Lester, che li diresse in Tutti per uno (A Hard Day’s Night,
1964) e Aiuto! (Help!, 1965). Pellicole che divennero veri e propri cult movie e che riflettevano alla perfezione
l’atmosfera culturale e di rottura della cosiddetta swinging London.
Furono anni, i Sessanta, in cui il rock movie arrivò, ovviamente in ritardo, anche in Italia: Fratelli rivali, Il re
del rock’ ’n roll, Il delinquente del rock’ ’n roll, sono alcuni titoli che giunsero sui nostri schermi, insieme a
Dai, Johnny, dai! che attacca sulle note di Johnny B. Goode e la cui proiezione sugli schermi nostrani venne
fatta precedere da un giovanissimo Adriano Celentano. Il molleggiato, sullo schermo, interpretava Mai mai
mai più poi, una volta terminata a canzone, si voltava verso gli spettatori per dire: “Sicuro ragazzi, sono Adriano
Celentano e sono venuto in America per far riposare un po’ gli italiani… Che paese che è l’America, e che
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musica…”Lo stesso Celentano, insieme a Mina, Gianni Meccia, Umbrto Bindi e il grande jazista Chet Baker,
fu protagonista di Urlatori alla sbarra (Lucio Fulci, 1960), musicarello beat sui giovani e le loro aspettative
nell’Italia dell’epoca,contrapposti ai “vecchi” bacchetoni e benpensanti.
Insomma, sin dai primi anni, il rock entrò a pieno titolo nella storia del cinema. Certo non tutti i rock movie
furono all’altezza e alcuni sono stati dimenticati senza particolare sofferenza. Ma altri fanno a tutti gli effetti
parte del cinema che abbiamo amato e che amiamo. A solo titolo di esempio basti citare Easy Riders (Dennis
Hopper, 1969) che utilizza brani quali Born To Be Wild, interpretato dagli Steppenwolf ; Il laureato (The Graduate, Mike Nichols,1968) con la colonna sonora scritta da Simon & Garfunkel; Pat Garrett & Billy the Kid
di Sam Peckinpah (1973) per il quale Bob Dylan scrisse la famosissima Knockin’ on Heaven’s Door o, ancora,
in tempi molti più recenti, Into The Wild (Sean Penn, 2007) con la splendida colonna sonora originale realizzata
da Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam.
Sul finire degli anni Sessanta i grandi raduni rock iniziano a rappresentare importanti momenti di festa e liberazione collettiva per le giovani generazioni, sull’onda di quanto avvenuto negli anni immediatamente precedenti, con le mobilitazioni di massa, il movimento hippy, i movimenti di liberazione delle donne, degli
afroamericani in America, il Sessantotto. Il cinema non poteva certo rimanere indifferente a tutto ciò. Due
grandi eventi vennero immortalati su pellicola. Il primo è Gimme Shelter (Albert e David Maysles, Charlotte
Zwerin, 1970) sul famoso concerto dei Rolling Stones ad Altmont (California), dove si assistette a un evento
drammatico, con l’uccisione di uno spettatore da parte del servizio d’ordine degli Hell’s Angels. Il secondo,
ancor più famoso, è Woodstock (Woodstock – Tre giorni di pace amore e musica), film anch’esso del 1970 di
Michael Wadleigh, che riprende l’evento musicale che si svolse dal 15 al 18 agosto 1969 presso il borgo di
Woodstock, nello stato di New York. Era l’America pacifista che faceva sentire la propria voce; il concerto
forse più famoso al mondo dove , per quattro giorni (il festival “sforò” la sua programmazione e durò un giorno
in più), migliaia di persone poterono ascoltare, fra gli altri, Jimi Hendrix, Janis Joplin, i Jefferson Airplane,
Carlos Santana, Joan Baez, i Grateful Dead, Crosby, Stills, Nash and Young, Joe Cocker, gli Who.
Saranno proprio gli Who, storico gruppo rock britannico (vedi scheda pag. 12) a dare inizio all’era delle opere rock
con Tommy, che venne scritta dal chitarrista Pete Townshend e presentata prima a teatro e poi trasposta al cinema
nel 1974 da Ken Russell. Gli stessi Who saranno gli autori della colonna sonora di Quadrophenia (Franc Roddam,
1979), sugli scontri fra bande giovanili nella Londra dei primi anni Sessanta..
A partire da Tommy e per circa un decennio, l’opera rock rappresentò , di pari passo col “docu-rock” (o “rockumentary), soprattutto incentrato sulla nascente epoca glam del rock inglese. è una delle branche più importanti del
rock movie; un esempio è Ziggy Sturdust and the Spiders from Mars, di Don Alan Pennebaker (1982), sul concerto
tenuto a Londra nel 1973 da David Bowie, la stella nascente del rock britannico (vedi scheda pag. 17).
Di pari passo, assimilibali alla rock opera, i musical a carattere rock, tra i quali val la pena ricordare The Rocky
Horror Picture Show (Jim Sharman, 1975), Hair (Milos Forman, 1979), entrambe trasposizioni cinematogafiche di apprezzatissime opere teatrali e Il fantasma del palcoscenico (Phantom of the Paradise, 1974), scritto
e diretto da Brian de Palma e liberamente ispirato a famose opere quali Il Fantasma dell’Opera, Il Gobbo di
Notre Dame, Il ritratto di Dorian Gray e Faust.
Sempre di più, quindi il rock si lega al cinema, soprattutto quello autoriale, con registi quali Martin Scorsese
e i suoi Mean Street – Domenica in chiesa lunedì all’inferno (Mean Streets, 1973) e L’ultimo valzer (The Last
Waltz, 1978); Dennis Hopper con Easy Rider (1969); Hal Ashby, con Tornando a casa (Coming Home, 1978);
Francis Ford Coppola con Un sogno lungo un giorno (One From The Hearts, 1982), per fare solo alcuni esempi.
Con gli anni Ottanta e Novanta il rock sembra ripiegarsi su stesso, diventando colonna sonora per il ricordo e la
nostalgia, come avviene ne Il grande freddo (The Big Chill, Lawrence Kasdan, 1983) o resoconto di figure di culto
della storia del rock, da Jim Morrison (The Doors, Oliver Stone, 1991); Nico e i Velvet Underground (J’entende
plus la guitare, di Philip Garrell, 1991); ancora David Bowie (Velvet Goldmine, di Todd Haynes, 1998). Gli anni
Ottanta segnano, inoltre, la nascita del videoclip, cioè del video che ingloba la musica, e quindi anche il rock, rendendolo un prodotto commerciale, televisivo, privato di quella carica trasgressiva che lo caratterizzava. Tuttavia
non tutto è perduto e il cinema è riuscito a non soccombere allo strapotere televisivo. Grazie al vento innovativo
portato da registi del calibro di Jim Jarmush, Spike Lee, i fratelli Coen, ecc., che continuano a regalare pellicole
impreziosite da colonne sonore appassionatamente rock.
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VISIONI
ROCK
Oggi, sicuramente, il rock non è morto. Ciò è dimostrato dagli innumerevoli, validi gruppi oggi sulla scena
(Franz Ferdinand, Arctic Monkeys, Kasabian, Muse, ecc.), così come non è scomparso il rock dal cinema.
Anzi, sempre più registi lo utilizzano per le colonne sonore delle loro opere.
Per questo abbiamo voluto inserire nella programmazione del Cineforum del Circolo una rassegna che affronti
i vari temi e le varie epoche del rock e del rock associato al cinema, un connubio diventato, con il passare degli
anni, sempre più saldo.
Si tratta di cinque film che, a partire da Yellow Submarine (George Dunning, 1968), splendido film d’animazione con protagonisti i quatrro ragazzi di Liverpool, percorreranno la storia della musica rock e del rock
movie. Perciò il secondo film della rassegna sarà la prima opera rock della storia, cioè Tommy, scritta da Pete
Townshend e interpretata da Roger Daltrey, componenti degli Who. A seguire Quasi famosi (Almost Famous,
Cameron Crowe, 2000) sul rock degli anni Settanta; Sid e Nancy, di Alex Cox, 1986, che narra la parabola di
Sid Vicious, storico bassista dei Sex Pistols e, infine, This Must Be The Place, del nostro Paolo Sorrentino
(2011), con un Sean Penn truccatissimo e le splendide sonorità dei Talking Heads.
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I FILM
YELLOW SUBMARINE
Regia George Dunning
Soggetto Lee Minoff
Sceneggiatura Al Brodax, Jack Mendelsonn, Lee Minoff, Erich Segal
Fotografia John Williams
Musiche The Beatles, George Martin
Montaggio Brian J. Bishop
Art Director Heinz Edelmann
Animatori Jack Stokes
Origine Gran Bretagna
Anno 1968
Durata 90’
LA
TRAMA
Pepelandia (Pepperland) è un paese felice: questo è fonte d'invidia per i Biechi Blu che
odiano la bellezza, i fiori e la musica. Con le loro armi essi attaccano l'inerme popolo pietrificandolo dopo aver distrutto la natura circostante. Solo un marinaio si salva, imbarcandosi su di un sottomarino giallo su
cui fa salire, per essere aiutato, i quattro Beatles. Nel loro lungo girovagare per il mondo sottomarino essi incontrano i più
strani esseri e sfuggono a vari pericoli. In un luogo astratto e amorfo trovano un essere svagato e pieno di saggezza che
si unisce alla compagnia. Rinvenuta la strada giusta essi rientrano di nascosto in Pepelandia e preparano un piano per
scacciare i nemici. Armati dei loro strumenti musicali i Beatles riportano la vita nella natura e negli abitanti che, inneggiando
all'amore, prima cacciano e poi convertono al loro modo di vivere i Biechi Blu.
RASSEGNA
STAMPA
Con un sottomarino giallo i Beatles sono in viaggio verso il Paese di Pepperland soggiogato dai Biechi Blu,
nemici della gioia e del colore, che vi hanno instaurato una triste dittatura. I Beatles combattono a suon di canzoni d'amore. Un film festoso da non perdere. Soggetto di Lee Mintoff e disegno animato di H. Edelmann. Canadese approdato a Londra, Dunning ha realizzato questo lungometraggio psichedelico fondato sulla musica
dei Beatles. Ricchezza pittorica, grafica ispirata alle fonti più disparate (A. Beardsley, Art Nouveau, Dali, Rauschenberg, optical art). Indispensabile per sentire (prima di capire) gli anni '60.
Morando Morandini, Il Morandini. Dizionario dei film, Zanichelli
Un film che come tutti i classici non ha perso lo smalto
dell'idea originale e soprattutto una pellicola il cui messaggio - nonostante tutto in maniera molto sorprendente risulta assolutamente attuale e ancora importante. Le
istanze di pace e amore, accompagnate dalla favolosa colonna sonora composta dal gruppo di John Lennon e Paul
Mc Cartney sono ancora attuali, nonostante le citazioni
più o meno velate agli avvenimenti di trenta anni fa e nonostante il mondo stesso abbia seguito il corso del tempo.
Forse, infatti, alcuni riferimenti marcatamente psichedelici agli anni Sessanta potranno fare sorridere, ma quello
che è al di fuori di ogni dubbio Yellow Submarine è un
film ancora pienamente godibile per quel senso di profonda universalità che si respira al suo interno e per quel
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sentimento di affascinato rispetto che si prova nei confronti di un vero e proprio monumento della storia della
musica pop.
www.nautilus.ashmm.com
Yellow Submarine celebra la libertà, la creatività, l’immaginazione, la conoscenza, l’unità fra gli uomini, la
comunione tra uomo e natura, la bellezza dell’arte, della musica, della parola, della poesia, della pittura, dei
colori. Questi elementi vengono contrapposti alla repressione, alla violenza, alla prepotenza, alla volgarità.
Quello del sottomarino giallo è un viaggio alla scoperta di altri mondi e altri popoli che asseconda la sete di
conoscenza. Questi temi sono affrontati nella chiave del surrealismo, dell’onirico, dello stravagante, dell’assurdo, del nonsense. Al surreale si aggiungono i toni della commedia, dell’ironia, dell’umorismo. Il film realizza
un’utopia di dilatazione, di smarrimento nel regno
infinito della fantasia, del sogno, del meraviglioso, della trasformazione incessante. La vita
sta nella metamorfosi, nella mutazione continua di tutte le cose, di tutte le immagini. Sul
piano visivo, il film è un fantasmagorico mosaico, un pastiche di invenzioni, stili, citazioni, riferimenti a pittura, grafica,
fotografia, cinema: troviamo così uniti e
comunicanti pop art, barocco, espressionismo, surrealismo, dadaismo, liberty,
art déco, optical art. Gli stili e le arti
s’intrecciano e si arricchiscono reciprocamente, in un sogno di arte totale: la musica e le parole
diventano immagini, disegni, colori, e viceversa. Il film
esprime la tensione utopica a mostrare e unire gli infiniti aspetti e le
illimitate possibilità dell’immaginabile e del conoscibile, del visibile e dell’invisibile, come a voler creare un’utopica enciclopedia del Tutto. Yellow Submarine può
essere utile per guidare i più giovani a conoscere e comprendere gli anni ’60, la contestazione
studentesca, la swinging London, la musica e lo spirito dei Beatles.
Francesco Rufo, Guida al cinema per ragazzi, Dino Audino Editore
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SC
HE
DA
TUTTO COMINCIO’ DAI BEATLES
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La storia di quello che è probabilmente il gruppo più famoso della storia
della musica leggera comincia a Liverpool nel 1957, quando un sedicenne
John Lennon, leader di un gruppo chiamato The Quarrymen, incontra il bassista e chitarrista Paul McCartney, di due anni più giovane. L’esordio
vero e proprio dei Beatles avviene però nel 1960 ad Amburgo, dopo che nella
band hanno fatto il loro ingresso anche George Harrison, Stuart Sutcliffe
al basso e Pete Best alla batteria (gli ultimi due usciranno però presto
dal gruppo, ed entro il 1962, anno dell’esordio discografico dei futuri
“fab four” con il singolo Love Me Do, la formazione si stabilizzerà con
l’ingresso del nuovo batterista Ringo Starr).
Da questo momento in poi la storia dei Beatles è costellata di successi
che portano al raggiungimento di una fama planetaria che non conosce pari
nella storia della musica, tanto che viene addirittura coniato il termine
di “beatlemania”.
Nel 1963 esce l’LP Please Please Me, la cui importanza non è dettata solo
dall’essere il disco d’esordio del quartetto di Liverpool, quanto dal fatto
che esso è uno dei pochi album del periodo non pubblicato in seguito ad
uno o due singoli di successo semplicemente come operazione commerciale:
da questo momento in poi si inzia ad attribuire una dignità nuova al concetto di album, che diventa un’opera pienamente “autosufficiente” e non
più solo d’appoggio al singolo.
Negli anni successivi i Beatles contribuiscono fortemente a rinnovare il
rock ‘n’ roll, che soprattutto grazie a loro diventa un genere dominante:
sempre nel 1963 pubblicano With The Beatles e l’anno successivo A Hard
Day’s Night, anch’essi di enorme successo. Con l’album del 1965 Help (e
l’omonimo film) iniziano a emergere le differenze caratteriali fra i due
leader: da un lato Lennon, più impegnato politicamente e alla ricerca di
testi più elaborati, dall’altro il disimpegno e la passione per le melodie
di McCartney.
Nei due dischi successivi (Rubber Soul e Revolver) inoltre vengono introdotte alcune importanti novità musicali, come l’utilizzo del sitar o la
presenza di elementi psichedelici che sfociano nella pietra miliare Sgt.
Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967), vera e propria pietra angolare
per l’evoluzione della nascente musica psichedelica.
Le difficoltà per i Beatles emergono nel 1968, che si apre con un viaggio
in India presso un guru locale. Nello stesso anno pubblicano l’album The
Beatles, meglio conosciuto come White Album, che manifesta chiaramente le
divergenze stilistiche e caratteriali fra i due leader John e Paul e l’imporsi del talento compositivo di George Harrison, che toccherà l’apice in
Abbey Road (sua infatti la canzone Here Comes The Sun).
Squarciati dai contrasti interni i Beatles si sciolgono nel 1970, subito
dopo aver rilasciato l’album Let It Be.
L’attività dei Beatles si inserisce in un contesto musicale denominato
“British Invasion” che si sviluppa dalla metà fino alla fine degli anni
sessanta. Verso l’inizio del decennio gli artisti, principalmente americani, che avevano animato la scena rock ‘n’ roll dei fifties, avevano infatti iniziato a perdere seguito, anche per colpa di una sorta di
“restaurazione” operata dalle case discografiche statunitensi ad inizio
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anni sessanta che aveva riportato in auge il cosiddetto fenomeno dei “teen
idols”. Il terreno più fertile per l’innovazione musicale divenne così
l’Inghilterra, dove nacquero gruppi meno legati alla tradizione blues e
strettamente rock ‘n’ roll rispetto ai colleghi americani. Oltre ai Beatles
possiamo citare band del calibro di Rolling Stones, Kinks, Gerry and the
Pacemakers (autori della celebre You Will Never Walk Alone), Animals, Who:
questi e altri artisti divennero molto celebri negli Stati Uniti e nel
resto del mondo, e favorirono la diffusione e la nascita di alri gruppi da
loro fortemente influenzati.
ASCOLTI
CONSIGLIATI
The Beatles, Love Me Do, 1962
The Animals, The House Of The Rising Sun, 1964
The Kinks, You Really Got Me, 1964
Rolling Stones, Satisfaction, 1965
The Beatles, Help!, 1965
The Yardbirds, For Your Love, 1965
The Beatles, Eleanor Rigby, 1966
Rolling Stones, Paint it Black, 1966
The Beatles, Lucy In The Sky With Diamonds, 1967
The Beatles, Helter Skelter, 1968
The Beatles, Come Together, 1969
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TOMMY
Regia Ken Russell
Soggetto Pete Townshend
Sceneggiatura Pete Townshend, Ken Russell
Fotografia Dick Bush, Robin Lehman, Ronnie Taylor
Musiche The Who
Montaggio Stuart Baird
Scenografia John Clark
Interpreti Roger Daltrey, Ann-Margret, Oliver Reed, Eric Clapton, Tina Turner,
Elton John, Jack Nicholson, Keith Moon, Victoria Russell, Barry Winch
Origine Gran Bretagna
Anno 1975
Durata 111’
LA
TRAMA
Diventato cieco e sordomuto a sei anni per aver visto il patrigno che uccideva il padre
- pilota della RAF dato per morto e inaspettatamente tornato -Tommy passa attraverso
il misticismo, la droga, il sesso, la medicina ufficiale, prima di guarire, diventare campione mondiale di flipper, dichiararsi
il nuovo Messia creando migliaia di seguaci che gli sopprimeranno madre e consorte.
RASSEGNA
STAMPA
[…] Nono film di K. Russell, è la versione cinematografica della prima “rock-opera” della storia della musica,
composta dall'inglese Pete Townsend e dal suo gruppo, gli Who. Cineasta visionario e sgangherato, geniale e
volgare, Russell ne ha fatto uno spettacolo assordante, abbacinante, squinternato ma straripante di energia e
vitalità. Tutta da gustare la colonna musicale. Primo film con il sistema Dolby su 4 piste.
Morando Morandini, Il Morandini. Dizionario dei film, Zanichelli
[…] Coloratissima versione dell’omonima opera rock di Pete Townshend e degli Who prodotta da Robert Stingwood, dove Ken Russel usa la sua scatenata fantasia per dare immagini alla voglia di purezza e religiosità
della generazione rock. Ne esce un film ridondante e kitsch, ma anche energico e ritmatissimo, da cui si stacca
la performance di Elton John, che canta Pinball Wizard, Comparsata di lusso per Nicholson come medico specialista. Pete Townshend interpreta se stesso. è il primo film a utilizzare il sistema stereo Dolby.
Paolo Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film, Baldini&Castoldi
è il film opera rock di Ken Russell, tratto dall’omonimo doppio concept-album degli Who. Insomma un incontro al vertice tra gli eroi del rock duro e anfetaminico e il signore del cinema visionario e iconoclasta. E in
verità solo uno come Russell era in grado di mettere in scena lo scontro feroce, tipico di quegli anni, tra
sogno/utopia e realtà. La storia è assai romantica e drammatica. è quella del capitano Walker e della bella Nora,
che si amano e poi lui parte per la guera contro i nazisti, e quando lui muore, il giorno stesso, nasce suo figlio
Tommy. Nora si risposa con il perfido Franck Hobbs, e quando il capitano ritorna (era solo disperso), Hobbs
lo uccide davanti agli occhi di Tommy bambino. Distrutto da quella tragedia, Tommy diventa cieco, muto e
sordo. E con gli anni diventa anche grande, iventa Roger Daltrey. Nora e il suo amante cercano inutilmente di
guarirlo, fino a che Frank non scopre il modo di sfruttare anche le sue menomazioni fisiche... Un film culto,
una sorta di summa ell contraddizioni degli anni Sessanta, la fine del sogno hippy, i nuovi pericoli dell’alienazione e della droga. Nel cast un parterre de dieux, sia come attori, (Ann-Margret, Oliver Reed, Jack Nicholson)
che soprattutto come musicisti (gli Who, Eric Clapton, Elton John, Tina Turner...).
Giandomenico Curi, I frenetici. L’enciclopedia dei film che hanno inventato i giovani, 2 voll. Arcana, 2002
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L’OPERA
Un anno di lavoro, ma ne è valsa la pena. Tommy è il trionfo di Pete Townshend, che sbaraglia la concorrenza in fatto
di Rock Opera (Kinks e Pretty Things ono i due gruppi arrivati poco prima alla pubblicazione di analoghi lavori): nell’arco
di due dischi, è messa in scena l’allegoria esistenziale di un ragazzo dall’incredibile sensibilità benché cieco, sordo e
muto, del quale sono scandite le tappe e i bizzarri incontri dall’adolescenza fino all’età adulta. Lavoro complesso,
l’album mette in mostra la bravura del gruppo a livello strumentale (Ouverture, Amazing Journey/Sparks e Underture)
e consegna a futura memoria alcuni titoli divenuta leggendari: The Acid Queen, Pinball Wizard, Christmas, Cousin
Kevin, I’m Free, Sally Simpson e We’re Not Gonna Take It. Nel ‘72 l’opera debutta sui palcoscenici teatrali (addirittura
con l’accompagnamento della London Shymphony rhstra) e nel ‘75 il regista Ken Russell appronta una applaudita riduzione cinematografica).
Enzo Gentile, Alberto Tonti, Il Dizionario del Pop-Rock, Zanichelli, 2013
SC
HE
DA
THE WHO E L’OPERA ROCK
2
Uno dei gruppi più importanti e influenti della storia della musica
rock. Gli inglesi Who sono stati fondamentali per il passaggio dagli
anni sessanta agli anni settanta, e sono stati uno dei pochi gruppi a vivere da protagonisti entrambi i decenni.
Essi nascono nel 1962, ma la formazione classica che vede Pete Townshend
(1945, chitarra solista), Roger Daltrey (1944, voce), John Entwistle (19442002, basso) e Keith Moon (1946-1978, batteria) si forma solo nel 1964.
Gruppo di straordinaria potenza dal vivo (con i concerti che culminano con
la distruzione degli strumenti), grazie ad una infuocata partecipazione al
festival di Woodstock (1969) e soprattutto a un nuovo modo di concepire il
33 giri lascerà una traccia indelebile nel panorama musicale successivo.
Il primo disco della band è anche il manifesto di un’epoca: The Who Sings
My Generation è, appunto, un inno generazionale, come chiaramente espresso
nella canzone che dà il nome all’opera: “spero di morire prima di diventare
vecchio”. Piuttosto influenzati dai connazionali Rolling Stones e Kinks,
hanno però una loro decisa personalità, come emerge nel secondo disco dei
quattro A Quick One (1966), che lascia intravedere i futuri concept album
che caratterizzeranno l’operato degli Who (da notare a questo proposito la
suite di oltre nove minuti di A Quick One, While He Is Away).
L’anno successivo, che tra l’altro vede l’esplosione della psichedelia
(cfr. scheda 1), è di capitale importanza per il gruppo, che pubblica il
capolavoro The Who Sell Out, primo vero e proprio concept album (i brani
sono organizzati come una trasmissione radiofonica, con dei finti stacchi
pubblicitari fra una canzone e l’altra) dal sapore vagamente psichedelico
(Armenia City In The Sky e I Can See For Miles, due fra le più grandi creazioni degli Who).
Ma la rivoluzione per il gruppo (e per tutto il rock) arriva due anni dopo,
nel 1969: in questa data viene pubblicato
l’epico Tommy, prima celebre rock opera (disco con un organico impianto
narrativo, che generalmente racconta una storia). Esso narra le vicende di
Tommy, ragazzo sordo, cieco e muto che diventa un campione di flipper e
poi una sorta di messia.
Dopo la leggendaria partecipazione a Woodstock (documentata nell’omonimo
documentario), Pete Townshend e i suoi si presero un anno di pausa per lavorare ad un nuovo progetto, che secondo le intenzioni del leader avrebbe
dovuto essere una nuova rock opera chiamata Lifehouse. Essa si rivela però
troppo complessa, e viene presto accantonata. Da quel progetto si salvano
però due canzoni: Baba O’Riley e Won’t Get Fooled Again (entrambe impostate
su
un’innovativa intro elettronica) che entrano a far parte del nuovo disco
Who’s Next (1971), anch’esso destinato a far epoca.
L’ultimo grande album del quartetto è ancora una rock opera. Quadrophenia
(1973) è la celebrazione dell’ambiente Mod di metà anni sessanta, da cui
essi stessi provengono. Negli anni successivi le pubblicazioni studio diventano sempre più rarefatte, e nel 1978 si chiude il periodo “classico”
del gruppo con la morte del batterista Keith Moon (il gruppo però non si
scioglierà, continuando ad offrire ottime prestazioni live fino ad oggi).
Gli Who non sono però gli unici portabandiera delle opere rock: molti artisti (in particolare progressive) si sono cimentati con questo genere di
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disco. Da citare sono sicuramente David Bowie (Ziggy Stardust), Genesis
(The Lamb Lies Down On Broadway), Jethro Tull (Thick As A Brick), Yes
(Tales From Topographic Oceans) e Pink Floyd (The Wall). In tempi più recenti si possono notare anche Green Day (American Idiot) e Tenacious D
(The Pick Of The Destiny).
ASCOLTI
CONSIGLIATI
THE WHO
My Generation, 1965
A Quick One, While He’s Away, 1966
Armenia City In The Sky, 1967
I Can See For Miles, 1967
Pinball Wizard, 1969
Sally Simpson, 1969
We’re Not Gonna Take It, 1969
Baba O’Riley, 1971
Won’t Get Fooled Again, 1971
The Real Me, 1973
Love Reign O’er Me, 1973
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QUASI FAMOSI - ALMOST FAMOUS
Regia Cameron Crowe
Soggetto Cameron Crowe
Sceneggiatura Cameron Crowe
Fotografia John Toll
Musiche Nancy Wilson
Montaggio Joe Hutshing, Saar Klein
Scenografia Clay A. Griffith, Clayton Hartley
Interpreti Billy Crudup, Patrick Fugit, Frances McDormand, Kate Hudson, Jason
Lee, Anna Paquin, Philip Seymour Hoffman, Zooey Deschanel, Noah TaylorMichael
Angarano, Fairuza Balk
Origine Usa
Anno 2000
Durata 122’
LA
TRAMA
Nel 1969 William Miller ha undici anni, sebbene sia convinto di averne uno di più. Vive a San Diego con una madre salutista
e iperprotettiva e una sorella ribelle che non può resistere al richiamo della libertà che caratterizza il periodo. Ricevuti in
eredità i dischi della sorella, che se n’è andata a scoprire il mondo, Willy diventa un grande appassionato di rock. Entrato
in contatto con Lester Bangs, un famoso giornalista musicale indipendente, riceve l’incarico di recensire un concerto dei
Black Sabbath. Fa così conoscenza con gli Still Water, una formazione emergente, e in particolare diventa amico e confidente del chitarrista della band, Russell, e di Penny Lane, la giovane groupie innamorata di lui. La realizzazione di un’intervista esclusiva porta Willy a seguire il gruppo in un tour attraverso l’America, alla fine del quale il ragazzo ritornerà a
casa profondamente disincantato.
RASSEGNA
STAMPA
Quasi famosi è la storia romanzata del giornalista e futuro regista Cameron Crowe raccontata con una buona
dose di nostalgia e incastonata in quegli anni Settanta in cui il rock si trasforma da fenomeno contro-culturale
in grande progetto di marketing. Abbiamo un gruppo alle prese con le esigenze del business, e un giovanotto
alle prime armi ignaro di rappresentare la testa di ponte dell’industria mediatica. Il cinema si è occupato molte
volte della fenomenologia giornalistica, con successo alterno: questo prodotto di Crowe ricorda il più ambizioso
e meno riuscito Perfect di James Bridges per struttura e dinamiche drammaturgiche. Come quello glissa sugli
aspetti davvero oscuri dell’ambiente, lasciando poi agli occhiali rosa di una colonna sonora da favola il compito
di rileggere un passato svanito, il quale forse nemmeno era mai stato esattamente in quel modo. Ma Crowe, si
sa, è il più ottimista dei registi mainstream, e non poteva comportarsi altrimenti. Da segnalare Philip Seymour
Hoffman nella caratterizzazione del leggendario critico musicale Lester Bangs.
www.raimovie.rai.it
Almost famous è un film attualismo sulle difficoltà di crescere e sul perverso, misterioso rapporto con
la divinità del successo. La nostalgia emerge a volte in una canzone di Simon & Garfunkel o di Cat Stevens. Non è solo il rimpianto della giovinezza di William, tanto simile a quella di tanti quarantenni di
oggi, americani o europei. Piuttosto la nostalgia per la giovinezza di una società dove diventare adulti
non significava, ancora, come oggi, mettere da parte ogni speranza di cambiare il mondo. E forse per
questo diventare adulti era molto più attraente.
Curzio Maltese, D, 15 maggio 2001
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Ispirata all’esperienza concreta dell’autore, collaboratore durante l’adolescenza della famosa rivista “Rolling
Stone”, la storia di William Miller è un viaggio attraverso uno dei periodi più esaltanti della storia della musica
rock. Presentato sin dall’inizio come troppo piccolo per gli ambienti che frequenta, Willy rappresenta infatti
una chiave particolare per descrivere un mondo chiuso e apparentemente irraggiungibile. Coronando in giovane
età il sogno di diventare un giornalista rock, il personaggio realizza il suo apprendistato alla vita concentrandolo
nel percorso compiuto all’interno di quello specifico ambiente musicale. Una serie di situazioni ripropone tutti
i topoi narrativi dell’immaginario rock, dalla devozione dei fan all’autodistruttività tipica dei leader, dalle rivalità all’interno delle band alla promiscuità sessuale praticata dai musicisti, dagli incidenti aerei che hanno
nutrito la mitologia alla polemica nei confronti dello star system.
Il viaggio che si svolge dalla costa occidentale a quella orientale degli States, da San Francisco a New York,
si pone come evidente metafora dell’ampiezza e della complessità dell’esperienza realizzata dal protagonista,
al termine della quale ha avuto luogo una vera e propria desacralizzazione di quel divismo rock che spesso e
volentieri rappresenta per gli adolescenti un modello da imitare. Willy è infatti una sorta di spettatore in scena,
che da buon giornalista sa mescolarsi in mezzo ai personaggi che devono diventare i protagonisti del suo pezzo,
con i quali costruisce un clima di confidenza e fiducia. Ma è proprio sul piano della confusione tra l’attività
professionale e la vita privata che si consuma la delusione del personaggio, che imparerà a proprie spese il carattere interessato dei rapporti che si stabiliscono tra i musicisti e i rappresentanti dei mass media. Gli Still
Water hanno bisogno di Willy come Willy ha bisogno di loro.
Partire per seguire la tournée degli Still Water significa per il personaggio affrancarsi dalla presenza invadente
di una madre ossessionata dalle nuove mode giovanili, incentrate sulla libertà sessuale e sull’uso delle droghe.
E quindi iniziare un percorso di crescita e formazione alla vita, all’interno del quale c’è posto anche per una
relazione esclusiva, sospesa tra l’amicizia e l’innamoramento, nei confronti della giovane Penny Lane. La ragazza è un personaggio che ha già svolto pressoché interamente il suo apprendistato all’interno di quell’ambiente e che adesso desidera nuovamente mettersi in viaggio, ma questa volta per conoscere il mondo reale.
è significativo che il film si concluda con il ritorno a casa del protagonista profondamente prostrato, un approdo
al quale non viene attribuito un ruolo esclusivamente negativo. Esso segna infatti il ristabilimento di una serie
di rapporti personali (con la sorella, con la madre, con lo stesso musicista) che restituiscono dignità alla frequentazione di un ambiente che non sarà più quello delle prime pagine dei giornali, ma che è certamente più
autentico.
Umberto Mosca, Aiace, Torino
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C’è aria da Nashville in giro; e aria da American Graffiti. Come eravamo e come non saremo mai più, con tenerezza critica e consapevolezza distante. Ma Quasi famosi non è un film sulla nostalgia dei "favolosi Settanta"
(prima furono i Sessanta e tra un po' saranno gli Ottanta e i Novanta), non tesse il rimpianto della giovinezza.
É piuttosto un film sulla "Coming of Age", sulla maturazione di un ragazzo e sulla consunzione di un sogno,
il sogno del rock che libera l'anima e la testa, e che invece, piano piano, finisce per sottostare ai piccoli e grandi
tradimenti delle convenzioni, alla fascinazione del mercato. C'è un personaggio del film di Cameron Crowe
che ha già capito tutto: il critico Lester Banqs, misantropo e scontento, sempre chiuso in casa, che dà al giovane
William i suoi consigli. Quello fondamentale (“Devi farti una reputazione essendo soprattutto sincero e molto
spietato”), quello storico (“Sei arrivato in un momento pericoloso per il rock: la guerra é finita e hanno vinto
loro”), quello esistenziale (“L'unica moneta forte in questo mondo in bancarotta é ciò che scambi con un altro
sfiqato”). Nelle parole di Lester Bangs c'è tutto il senso del film, dall'euforia alla crescente disillusione, c'è la
sensazione che, certo, hanno vinto loro, ma noi siamo ancora qua. Crowe ricorda, non solo la sua storia (quando
nel '73, quindicenne, si mise al seguito di un gruppo musicale per fare un reportage per "Rolling Stone") ma
anche la "sua" musica e il "suo" cinema, e ritrova la meraviglia di quel mondo, il ritmo di quelle assonanze, la
cadenza impagabile di quelle immagini. Un film di due ore e due minuti che fugge via con una leggerezza e
una ricchezza che abbiamo dimenticato: storie, volti, telefonate, tappe dell'Almost Famous Tour 73 si intrecciano in un affresco che non cade mai nella maniera. L'autore agguanta un’immagine suggestiva (l'attacco di
un concerto o una ragazza che balla da sola in una sala vuota), la incornicia, le da spazio, ma subito l'abbandona.
Non c'è un metro di pellicola sprecato in Quasi famosi, né una battuta, un sorriso, una lacrima. É il cinema
come dovrebbe essere.
Emanuela Martini, FilmTV, 2 maggio 2001
Anche Hollywood produce “film di nicchia”: sembra una contraddizione in termini, ma non troveremmo un
modo migliore per definire Quasi famosi, che pure é stato candidato a numerosi Oscar e ha portato Cameron
Crowe alla statuetta per il miglior copione, già sfiorata con il precedente Jerry Maguire interpretato da Tom
Cruise. Quei film aveva “sdoganato” Crowe a Hollywood, dopo l'esordio giovanilista di Singles: la presenza
di un divo e il tema molto “nazional-popolare” (lo sport professionistico e i suoi legami con i media e il mondo
del business), avevano portato questa curiosa figura di ex reporter, inguaribilmente rockettaro e legato alla memoria dei “gloriosi” anni '70, ad un successo che non avrebbe mai osato immaginare quando scriveva piccole
recensioni musicali per i quotidiani di San Diego. Quando ha iniziato a lavorare nei cinema, Crowe non ha
rinnegato il passato: ha continuato ad avere la mentalità del cronista, realizzando un bellissimo libro-intervista
con Billy Wilder, e poi ha deciso che a 43 anni avrebbe scommesso sui film della sua vita. Quasi famosi è spudoratamente autobiografico, e questo è uno dei tre, fondamentali motivi per cui lo definiamo “di nicchia”; alla
grande industria di Hollywood interessano davvero poco le storie personali dei suoi subordinati, e nemmeno
registi onnipotenti come Spielberg, Lucas e Coppola hanno mai messo in scena la propria infanzia (c'è andato
vicino Scorsese, ma in modo più mediato). Gli altri due motivi sono il cast (non ci sono star, in un film che
racconta anche la vita delle star) e l'argomento. Tutto può accadere, ma é difficile immaginare che Quasi famosi
piaccia anche a chi odia il rock'n'roll. Chi invece era ragazzo negli anni 70, e impazziva per Paul Simon, Neil
Young, Led Zeppelin, Allman Brothers (tutti gruppi ampiamente presenti in colonna sonora) si identificherà
in Crowe e nella sua storia, e troverà in Quasi famosi il film che aspettava da anni. L'unico pudore dei regista
consiste nei cambiarsi nome: si chiama William Miller, nel film. Per il resto, proprio come il piccolo Cameron,
William se ne va di casa a 15 anni, con il permesso di mammà, per seguire la tournée di un gruppo rock che
nel film ha l'immaginario nome di Stillwater (nella realtà furono gli Allman ). Il tour é un romanzo di formazione: girando l'America con quella gabbia di matti, il ragazzino viene svezzato moralmente, culturalmente e
sessualmente. L'amore per una “groupie” - chiamata Penny Lane (come la canzone dei Beatles) lo segnerà per
sempre, ma non mancherà neppure la riconciliazione con la madre. Toccante nel rievocare l'epoca, pieno di riferimenti che faranno la gioia dei fans, Quasi famosi ha due difetti: é fin troppo, orgogliosamente, privato; e
ha molte cadute buoniste, che finiscono per trasformarlo in un sogno. Di un rock che forse non è mai esistito,
di un'America che vorrebbe tanto esser così “umana”.
Alberto Crespi, l'Unità, 5 maggio 2001
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SC
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L’APOTEOSI DEL ROCK: GLI ANNI SETTANTA
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Gli anni Settanta si aprono per il rock in modo assai funesto. Nel
giro di tre anni (fra il 1969 e il 1971), scompaiono infatti quattro
fra i più importanti musicisti che avevano animato la fine del decennio
precedente: Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison e Brian Jones (polistrumentista e fondatore dei Rolling Stones). Questo costituisce non solo
un discrimine rispetto agli anni Sessanta, ma causa anche un vero e proprio
rinnovamento generazionale nel panorama musicale. Inoltre molti dei gruppi
che erano stati protagonisti fino a pochi anni prima o si sciolgono (come
i Beatles o i Cream) o comunque non riescono più a raggiungere in termini
di qualità e popolarità i picchi del decennio precedente (come i Jefferson
Airplane, leader del movimento psichedelico della west coast americana).
Questo rinnovamento porta anche a un frazionamento del rock vero e proprio
in una miriade di sottogruppi (tuttavia per certi versi una divisione in
generi esisteva già anche nei Sixties) con grandi differenze fra di loro.
I più importanti che si sviluppano negli anni Settanta sono l’hard rock,
il progressive rock e il glam rock.
L’hard rock, che ha le sue radici soprattutto nel filone del blues rock e
nel garage rock (rock “sporco”, spesso con suoni distorti), è, come intuibile dal nome, un tipo di rock molto duro e aggressivo, caratterizzato dal
pressocché totale predominio della chitarra elettrica con vari effetti di
distorsione. Esso nasce verso la metà degli anni Sessanta ad opera di band
come Kinks (You Really Got Me), Who (My Generation), Beatles (Helter Skelter) e Rolling Stones, ma la vera e propria evoluzione indipendente del
genere si ha nel biennio ’68-’69 grazie soprattutto ai tre gruppi principali del genere: Deep Purple, Black Sabbath e soprattutto Led Zeppelin.
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Costoro, grazie ad alcuni album leggendari, definiscono chiaramente i canoni dell’hard rock: i Led Zeppelin (Jimmy Page, Robert Plant, John Bonham,
John Paul Jones), nati dalle ceneri degli Yardbirds, grazie ai primi quattro album (Led Zeppelin, 1969; II, 1969; III, 1970; IV, 1971) e a canzoni
come Whole Lotta Love, Immigrant Song e Stairway To Heaven, sono considerati i primi pionieri del genere. I Deep Purple dopo un esordio indeciso
(i primi tre album sono una via di mezzo fra progressive, hard rock e psichedelia) sfornano i due capisaldi In Rock (1970) e Machine Head (1972),
che contiene la celeberrima Smoke On The Water), nonché Made In Japan
(1972), forse il più grande disco live della storia. I Black Sabbath sono
il gruppo che maggiormente ha contribuito alla trasformazione dell’hard
rock in heavy metal, grazie soprattutto alle atmosfere più pesanti e
oscure, a un’aura “diabolica” e ad album come Paranoid (1970) e Master Of
Reality (1971).
Il progressive rock è invece un genere che “contamina” il rock con la musica “colta”, in particolare musica classica e in diverse occasioni jazz.
Le altre caratteristiche di questo genere di rock sono una propensione per
le suite di decine di minuti e una ricerca della perfezione tecnica e formale. Nonostante esso sia stato completamente abbandonato dopo l’uragano
punk e oggi sia di solito visto come pesante e “serioso”, il progressive
ha avuto un notevole seguito e influenza negli anni settanta, e alcuni
gruppi come Genesis e soprattutto Pink Floyd hanno avuto anche un enorme
riscontro commerciale.
Tre sono i gruppi più importanti di questo genere (anche se non gli inventori): King Crimson, Yes e i già citati Genesis. I primi, guidati dal genio
visionario di Robert Fripp, hanno offerto sin dalla fine degli anni Sessanta una musica dura, sperimentatrice e spesso di difficile ascolto, fortemente influenzata dal jazz. Il capolavoro del gruppo è il disco d’esordio
In The Court Of The Crimson King (1969), che si apre con la futuristica
21st Century Schizoid Man, ed è uno degli album più importanti dell’intero
panorama progressive. Gli Yes sono il gruppo che maggiormente sintetizza
l’immagine successiva del genere come pretenzioso, virtuosistico fino
all’inverosimile ed eccessivamente magniloquente. In effetti i due dischi
più importanti del gruppo (Fragile e Close To The Edge, entrambi del 1972)
sono un’esplosione di effetti speciali, tecnicismi e virtuosismi a non finire che spiegano in parte questo pregiudizio.
I Genesis, almeno nella prima parte di carriera (prima del pop da classifica), sono il gruppo più melodico e di successo del trittico prog, e sfornano alcuni album raffinati, ambiziosi ma comunque morbidi e piacevoli
all’ascolto fra cui spiccano Foxtrot (1972) e il celebre Selling England
By The Pound (1973).
Il glam rock è infine un genere che si sviluppa per la maggior parte in
Inghilterra (così come il progressive), ed è caratterizzato da una particolare cura nel look dei musicisti, che vestono in modo oltraggioso, spesso
androgino e straordinariamente appariscente. Sono numerosi i gruppi che
sono stati inseriti in questa corrente, che dal punto di vista strettamente
musicale è molto varia, dal semplice revival rock ‘n’ roll a un rock sinfonico e complesso. Gli artisti più conosciuti sono David Bowie, i T. Rex,
i Roxy Music, i Queen e negli Stati Uniti Lou Reed e i New York Dolls.
In realtà fra questi, quelli che maggiormente rientrano in questa corrente
sono i primi due citati, che in qualche modo hanno anche definito chiaramente i canoni del glam rock.
David Bowie (1947) è uno degli artisti pop più influenti e conosciuti del
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‘900, e come nessun altro ha utilizzato la provocazione e l’ambiguità come
strumenti artistici. Nel corso del decennio egli è protagonista di un percorso creativo che lo porta fino all’estrema sperimentazione di Heroes
(1977), ma che transita per pietre miliari come Hunky Dory (1971), The
Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars (1972), che segna
la nascita del personaggio di Ziggy Stardust, e Diamond Dogs (1974).
Nello stesso periodo agiscono i T. Rex, capitanati dal carismatico leader
Marc Bolan (1947-1977), che più di ogni altro hanno contribuito a forgiare
l’estetica glam rock. Da notare i due ottimi dischi Electric Warrior
(1971), che contiene la celebre Get It On, e The Slider (1972). Bolan purtroppo morirà precocemente nel fatidico 1977, anno dell’esplosione del
punk.
ASCOLTI
CONSIGLIATI
Hard Rock
Led Zeppelin, Whole Lotta Love, 1969
Black Sabbath, Iron Man, 1970
Black Sabbath, Paranoid, 1970
Deep Purple, Child In Time, 1970
Led Zeppelin, Stairway To Heaven, 1971
Deep Purple, Smoke On The Water, 1972
Progressive Rock
King Crimson, 21th Century Schizoid Man, 1969
Jethro Tull, Aqualung, 1971
Van Der Graaf Generator, Man-Erg, 1971
Yes, Roundabout, 1972
Genesis, Firth Of Fifth, 1973
Pink Floyd, Time, 1973
Glam Rock
David Bowie, Changes, 1971
T. Rex, Get It On, 1971
David Bowie, Starman, 1972
New York Dolls, Personality Crisis, 1973
Roxy Music, Street Life, 1973
Queen, Bohemian Rhapsody, 1975
SID E NANCY
Regia Alex Cox
Soggetto Alex Cox, Abbe Wool
Sceneggiatura Alex Cox, Abbe Wool
Fotografia Roger Deakins
Musiche Joe Strummer, Pray for Rain, The Pogues
Montaggio David Martin
Scenografia Linda Burbank, J. Rae Fox, Andrew McAlpine
Interpreti Gary Oldman, Chloe Webb, David Hayman, Debby Bishop, Andrew
Schofield, Xander Berkeley, Perry Benson, Tony London, Biff Yeager, Courtney
Love, Rusty Blitz, Anne Lambton
Origine Usa
Anno 1986
Durata 112’
LA
TRAMA
Sid Vicious fu il secondo bassista dei Sex Pistols, famosa band londinese che diede i natali al punk britannico. Proprio a
Londra incontra Nancy Spungen, una groupie di Philadelphia dapprima interessata a Johnny Rotten, che la presenterà all'amico, ma successivamente lei si lega a Sid e non lo lascerà più. Sid Vicious, proprio durante la relazione con la Spungen,
si lascerà trascinare nel baratro della droga. Dopo una tournée negli Stati Uniti e lo scioglimento della band, i due si trasferiscono a New York. In seguito, il giovane fu imputato per l'assassinio della Spungen, accusa che lo porterà alla totale
autodistruzione.
RASSEGNA
STAMPA
Criticato molto all’uscita dalle sale cinematografiche, la pellicola non ha riscosso molto successo. Anche
qui in Italia è molto difficile da reperire. è tata valutata positiva l’interpretazione di Gary Oldman, l’atore
che veste i panni di Sid ma non si perdona al regista di aver collaborato con i Clash e con i Pogues per
la colonna sonora. Sempre Johnny Rotten accusa Alex Cox di non averlo contattato per una collaborazione o un contributo.
C’è però un merito al regista. Ha saputo riportare sugli schermi l’autenticità dell’amore fra Sid e Nancy.
Due personaggi molto particolari e tormentati che si sono amati davvero, nonostante la sregolatezza e il
disordine delle loro vite.
Valentina Fadda, www.saiphawebradio.com
Nel 1977 Sid incontra Nancy. Da questo punto in poi comincia la fine dei due, fine già preannunciata però
dalle tentazioni autodistruttive di Sid, ragazzetto londinese e maldestro bassista (ma chissenefrega) dei Sex
Pistols, proprio il gruppo da cui il punk nacque e con cui il punk morì. Nancy è invece una ragazza americana,
arrivata nella capitale inglese grazie al forte richiamo degli eccessi del punk. Nancy, oltre che di musica, era
appassionata anche di eroina. La ragazza non tardò quindi a presentare la sua fedele amica a Sid. I due si scambieranno amore, dosi e morte. Finiranno tutti e due proprio da dove avevano iniziato.
Nel 1986 è ora di raccontare questa storia. Sono passati quasi dieci anni da quel momento e tutto è finito. Sono
finiti i Sex Pistols, è finita l'anarchia, è finito il punk con la sua musica e i suoi eccessi. Il regista Alex Cox
pensa a raccontare questa storia per immagini e musica, tenendo un po' da parte le parole (sebbene alcuni dialoghi siano ben scritti). Il film è intitolato semplicemente Sid e Nancy, un titolo sincero, sentito, da amico.
La regia di Cox ha il pregio di non farsi sentire pur riuscendo a mantenere un ritmo narrativo veramente im23
LA REAZIONE DI JOHN LYDON (dalla sua autobiografia)
[…] Non riesco proprio a capire come si faccia a voler girare un film come Sid & Nancy e a non preoccuparsi neanche
di interpellarmi; Alex Cox, il regista, non lo fece minimamente. Usò come suo punto di riferimento - tra tutte le persone
di questa Terra - Joe Strummer! Il gutturale cantante dei Clash? Che cazzo ne poteva sapere lui di Sid e Nancy? Probabilmente lui è tutto ciò che riuscì a trovare, il che equivale a raschiare il fondo del barile. L'unica volta in cui Alex Cox
cercò un approccio nei miei riguardi fu quando mandò il tizio che doveva interpretarmi a New York dove stavo io.
Questo attore mi disse che voleva parlare del copione. Durante i due giorni nei quali rimase, non fece altro che dirmi
che ormai il copione non si poteva più cambiare e che il film era pressoché completato. L'intera questione era una vergogna. Fu semplicemente un tentativo di avere l'autorizzazione per usare il mio nome nel film, in modo da promuoverlo
meglio.
Per me il film è la forma più bassa di vita che esista. In tutta onestà credevo veramente che celebrasse i tossicodipendenti d'eroina. Il film glorifica la droga nel finale idiota quando quello stupido taxi vola in cielo. Totalmente senza senso.
Le scene nello squallido hotel di New York sono buone, anche se avrebbero dovuto essere ancora più squallide. Tutte
le scene a Londra con i Pistols sono assurde. A nessuno importava niente della realtà dei fatti. Il tipo che interpreta
Sid, Gary Oldman, penso fosse abbastanza bravo. Ma persino lui recita la parte del "Sid personaggio" e non quella del
"Sid persona reale". Non la considero una colpa di Gary Oldman perché lui è un attore dannatamente bravo. Se solo
avesse avuto l'opportunità di parlare con qualcuno che conosceva veramente Sid. Non penso che abbiano mai cercato
di fare un film seriamente accurato. Fu fatto solo per i soldi, no? Veder sminuire così la vita di qualcuno - riuscendoci
in pieno - mi fece davvero arrabbiare. L'ironia finale è che mi chiedono ancora del film. Devo spiegare ogni volta che
è tutto sbagliato. Si tratta della fottuta fantasia di qualcun altro, qualche laureato ad Oxford che si è perso l'epoca del
punk rock. Il bastardo.
Quando tornai a Londra, mi invitarono alla proiezione privata del film in anteprima. Così andai a vederlo e rimasi completamente sconvolto. Dissi ad Alex Cox, che era la prima volta che incontravo in vita mia, che avrebbero dovuto sparargli, e che poteva ritenersi fortunato che non lo avessi già fatto io. Ho ancora oggi la più bassa stima di lui come
persona.
E per quanto riguarda come venni impersonato sullo schermo, beh, senza offesa. Era così "fuori" e ridicolo. Era assurdo.
Champagne e fagioli a colazione? Per favore. Io non bevevo champagne. L'attore non parla neanche come me. Ha un
accento scozzese. Peggio ancora, viene insinuato nel film che io fossi "geloso" di Nancy, che io invece trovavo ripugnante. C'è questo sottinteso torbido che penso proprio abbiano voluto deliberatamente inserire. Direi che così Alex
Cox rivelò le sue radici borghesi. Tutto troppo liscio, tutto troppo facile. […]
Tratto da: Rotten: No Irish, No Blacks, No Dogs by John Lydon, with Keith & Kent Zimmerman. (1994, Hodder
& Staughton Ltd) pp.150-151.
peccabile. La macchina da presa diventa invisibile e fa parlare soprattutto le immagini stesse, composte mirabilmente grazie a buone inquadrature. Immagini che sono composte da delle ambientazioni davvero ben realizzate, e dai movimenti e dalle espressioni degli attori protagonisti che ci regalano un'ottima performance.
Bravo (come sempre) Gary Oldman nei panni di Sid Vicious, fragile a autodistruttivo come il ruolo richiedeva,
ma brava anche Chloe Webb (Nancy Spungen). Il film ha poi il merito di non descrivere e raccontare solamente
la storia dei due, ma con uno sguardo più ampio, riesce ad inquadrare il periodo storico che circonda i nostri
protagonisti e che, nel bene e nel male, hanno anch'essi plasmato. La Londra degli anni '70 esplode in una visione scura, crepuscolare, perennemente rinchiusa in una cappa di nebbia e buio, sentimenti di autodistruzione,
di anarchia verso il proprio corpo, verso il proprio mondo.
Nonostante il genere del biopic sia solitamente terreno impervio anche per i registi più abili e navigati, Alex
Cox dirige un film coerente che non scade né il banalita né tanto meno in una più pericolosa agiografia.
Per conoscere un'epoca, per capire i suoi protagonisti, per immergersi in sentimenti estranei che in fondo ci
appartengono.
Matteo Contin, www.pellicolascaduta.it
Sappiamo tutti che i Sex Pistols furono un gruppo costruito a tavolino dalla mente diabolica di Malcom McLaren, il manager che non creò solo un gruppo leggendario, ma una vera moda, uno stile di vita. No, non inventò
il punk. Quello arrivò nel momento stesso in cui Iggy Pop si mostrò al mondo. Sfruttò invece tutta l’essenza
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di quel genere ribelle per pigliare per il culo il popolo britannico guadagnano flotte di denaro. Tolse dalla strada un
gruppetto di ragazzi debosciati, senza arte né parte, offrì
loro il successo e l’inconsapevole possibilità di autodistruggersi. Nacquero così i Sex Pistols, nel 1975.
Nel 1986 Alex Cox dirige Sid e Nancy, racconto non proprio veritiero sulla burrascosa relazione tra il bassista dei
Sex Pistols e la sua compagna. Il 12 ottobre 1978 il cadavere di Nancy Spungen venne trovato in una stanza del
Chelsea Hotel accanto a Sid Vicious, drogato e in stato catatonico. L’accusa di omicidio lo porterà inevitabilmente
all’autodistruzione.
Ebbene, Sid e Nancy è un film perfetto, il cui fulcro è la
storia tremenda tra questi due giovani disperati che si incontrano, si riconoscono e che vivranno il loro amore malsano fino alla tragedia finale. Nello stesso
tempo è un film imperfetto, poiché lascia
sullo sfondo personaggi fondamentali trattati
in modo indegno, tra tutti il cantante dei Sex
Pistols, Johnny Rotten, carismatico leader
dalla personalità decisa, qui ridotto a pagliaccio per nulla somigliante, neppure esteticamente. Rimane opaca la musica, nonostante
l’impegno di Joe Strummer nel seguire la colonna sonora. L’oscenità sbeffeggiante di Vicious e compagni non viene, a mio parere,
mostrata come mi sarei aspettata. Ma qui
gioca molto il fatto che io amo i Sex Pistols,
li amo più dei Clash. Sì, lo so che i Clash sono meglio. Ma io non ho mai amato il meglio. E amo quella gran
canaglia di Johnny Rotten, con quei denti marci e la risata malefica. Mille volte superiore ai suoi colleghi, lo
dimostrerà nell’ultimo concerto dei Sex Pistols del ’78, salutando i fan così: “A-ha-ha! Avete mai avuto la sensazione di essere stati imbrogliati?! Buonanotte“. Chiude baracca e burattini e fonda quel gruppo fantastico
che probabilmente amiamo in quattro gatti sulla terra: i Public Image Ltd (Pil). Ma prima di tutto Rotten era
amico di Sid. Un amico vero. Purtroppo nel film ciò non viene considerato a dovere.
Tuttavia quello che realmente conta in questo prodotto sono, appunto, Sid e Nancy. Cox sceglie di seguire la
teoria dell’omicidio di Nancy da parte di Sid, omicidio raccontato in chiave romantica. Nancy supplica Sid di
ucciderla, in un delirante stato di dolore causato dall’astinenza, una follia tossica che finisce per avere la meglio
e distruggere entrambi. E qui arriva il momento di parlare di due interpretazioni a dir poco straordinarie, quella
di Gary Oldman nei panni di Sid e quella di Chloe Webb nei panni di Nancy. Oldman è mostruoso, si fonde a
tal punto col personaggio da farsi ricoverare per l’eccessiva perdita di peso. Da applausi la scena in cui si esibisce sulle famose scalinate cantando My Way, praticamente identico. La Webb non è da meno, psicotica e
tremendamente dipendente dalla droga e da Sid, riesce ad essere intensa e assolutamente credibile. Sicuramente
non è un film totalmente biografico, ma che importa? Se l’intenzione era quella di costruire una storia potente
su una tragedia leggendaria, Cox ci è riuscito egregiamente. Quei due si amano, tra parolacce, botte, coccole,
sesso, crudeltà, dipendenza. E’ un amore malato, che ci inorridisce e ci fa anche un po’ pena. Due esseri deboli,
patetici nel loro marciume. Eppure, in me prevale una profonda tristezza, la disperazione nel momento in cui
Nancy pretende di morire per mano di Sid è così forte da farmi stare male. E il finale onirico è così bizzarro e
romantico da commuovermi.
Quella pazza furiosa di Courtney Love fece il provino per Nancy esclamando: Io sono Nancy! Cox fu molto
colpito, ma aveva già promesso alla Webb la parte e concesse alla Love un piccola particina nel film. E’ curioso
come anche la storia d’amore, qualche anno dopo, tra la Love e il cantante dei Nirvana Kurt Cobain avesse
delle connotazioni drammatiche piuttosto simili. Solo che la Love è ancora viva e purtroppo con una faccia
vomitevole quasi quanto quella di Donatella Versace. Sid e Nancy è fondamentalmente una tragica storia
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d’amore shakespeariana. Perfettamente messa in scena da due attori giganteschi e da quell’alone di leggenda
che funziona sempre. Difetti a parte, un racconto doloroso, profondo e suggestivo.
www.combinazionecasuale/blogspot.it
Straziante ritratto della relazione bizzarra, autodistruttiva e curiosamente irresistibile fra il musicista punk inglese Sid Vicious (dei Sex Pistols) e la groupie americana Nancy Spungen negli anni Settanta. Cox ragiunge
un ottimo livello di realismo documentaristico, poi lo impreziosisce con immagini allegoriche e oniriche, con
risultati sorprendenti. Al centro del film ci sono le due notevoli interpretazioni di Gary Oldman e della Webb,che
non sembrano affatto recitare: loro “sono” Sid e Nancy. Deprimente, senza dubbio, ma affascinante.
Leonard Maltin, Guida ai film, Zelig editore, 2009
[…] Il regista, arrabbiato di professione, trasforma i suoi protagonisti in eroi dell’amour fou e martiri della società occidentale: prendere o lasciare. La storia di ascesa e decadenza (scenegiata dal regista con Abbe Wool)
è comunque girata con uno stile indiavolato, sopra la media dei film biografici, e le musiche del gruppo sono
utilizzate in maniera intelligente. Coati Mundi (Andy Hernandez) è l’uomo che spiega la teoria della diffusione
della droga.
Paolo Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film, Baldini&Castoldi
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SC
HE
DA
I SEX PISTOLS E IL PUNK
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Il 1977 rappresenta una vera e propria cesura in tutta la storia
della musica dalla seconda metà del Novecento. L’esplosione della cultura punk è un avvenimento che segna indelebilmente lo sviluppo del rock
e più in generale di tutta la musica di massa. Un’intera generazione di
musicisti viene letteralmente travolta da questo fenomeno che cambia radicalmente la storia del rock.
Le ragioni di questa diffusione (a proposito della nascita ci soffermeremo
più avanti) sono sia musicali che sociali: le prime sono essenzialmente
date da una reazione alla musica degli anni Settanta, in particolare il
progressive rock (vedi scheda 3), sempre più complessa, kitsch e magniloquente, e considerata troppo lontana dalla gente nonché autocelebrativa.
Le ragioni sociali sono invece date da una crescente insoddisfazione giovanile, in particolare in Gran Bretagna, causata dalla crisi economica e
soprattutto dalla disoccupazione.
Tuttavia si ritiene che le origini musicali del punk siano da ricercarsi
nei primi anni Settanta a New York e Detroit. In queste due città nacquero
una serie di gruppi o artisti fondamentali per il successivo sviluppo del
punk fra cui MC5, Iggy Pop & The Stooges, Patti Smith e New York Dolls che
offrivano un rock scabro, privo di fronzoli o virtuosismi e, anzi, spesso
con canzoni composte solo da due o tre accordi.
Tuttavia la vera e propria nascita del punk rock avviene fra il 1975 e il
1976 fra New York e Londra. Nella città americana i Ramones (Joey, Johnny,
Dee Dee e Tommy Ramone), che contribuiscono alla formazione della definizione di punk rock, ovvero una corrente musicale caratterizzata da canzoni
brevi, semplici, veloci e spesso politiche (anche se non è il caso dei Ramones). Essi pubblicano il primo disco, omonimo, nel 1976, e in esso appaiono già consolidate queste caratteristiche.
Più che negli States tuttavia il punk si diffonde a livello capillare soprattutto in Europa e in particolare in Inghilterra. Qui nascono i gruppi
più importanti per un vero sviluppo autonomo del genere: Sex Pistols, The
Clash, The Damned, Generation-X e Buzzcocks.
I Sex Pistols sono sicuramente il gruppo più rappresentativo del punk britannico, anche se probabilmente non quello musicalmente più valido. Essi
nascono nel 1975 intorno alla controversa figura di Malcolm McLaren, e
sono formati da musicisti carismatici ma di scarso talento: Johnny Rotten,
Steve Jones, Paul Cook e Glen Matlock (sostituito nel 1977 dal famigerato
Sid Vicious). I Sex Pistols pubblicarono nell’arco della loro brevissima
carriera solo quattro singoli e un LP, Never Mind the Bollocks, Here’s the
Sex Pistols, contenente le famosissime Anarchy In UK e God Save The Queen,
per colpa delle quali (oltre che dei comportamenti considerati incivili)
verranno profondamente osteggiati dalle autorità. I Sex Pistols si scioglieranno solo nel 1979, l’anno dopo l’abbandono del leader Johnny Rotten.
Altro gruppo fondamentale del punk rock inglese sono i Clash (Joe Strummer,
Mick Jones, Paul Simonon e Topper Headon). Formatisi a Londra nel 1976
essi propongono una musica più politica rispetto alla furia nichilista dei
Sex Pistols. Il primo album del gruppo, The Clash, è attento alle tematiche
sociali e al rapporto fra proletariato bianco e immigrati neri (White Riot
e White Man In Hammersmith Palais) e musicalmente presenta in alcuni episodi (Police And Thieves) una certa commistione con il raggae che si farà
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sempre più forte negli anni successivi. Ma è nel 1979 la vera svolta del
gruppo: la pubblicazione dell’indimenticabile London Calling, segna in
qualche modo la fine del punk, poiché ne supera e ne riscrive i limiti.
In effetti il punk come genere di rivolta difficilmente supera il 1977,
infatti già dall’anno successivo esso viene “assorbito” dalle case discografiche e si trasforma in un mero fenomeno di costume. Musicalmente nel
1978 avviene il vero e proprio passaggio verso i generi “figli”, come il
post-punk, la new wave e più tardi il dark, generi che domineranno la prima
metà degli anni Ottanta.
ASCOLTI
CONSIGLIATI
New York Dolls, Personality Crisis, 1973
Patti Smith, Gloria, 1975
Ramones, Blitzkrieg Bop, 1976
Ramones, Sheena Is A Punk Rocker, 1977
Iggy Pop, The Passenger, 1977
Sex Pistols, Anarchy In The UK, 1977
Sex Pistols, God Save The Queen, 1977
The Clash, White Riot, 1977
The Clash, (White Man) In Hammersmith Palais, 1977
The Damned, Neat Neat Neat, 1977
Buzzcocks, Boredom, 1977
The Clash, London Calling, 1979
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THIS MUST BE THE PLACE
Regia Paolo Sorrentino
Soggetto Paolo Sorrentino
Sceneggiatura Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Fotografia Luca Bigazzi
Musiche David Byrne, Will Oldham
Montaggio Cristiano Travaglioli
Scenografia Stefania Cella
Interpreti Sean Penn, Frances McDormand, Judd Hirsch, Eve Hewson,
Kerry Condon, Harry Dean Stanton, Joyce Van Patten, Olwen Fouere,
Shea Whigham, Heinz Lieven, David Byrne
Origine Italia, Francia, Irlanda
Anno 2011
Durata 118’
LA
TRAMA
Cheyenne, ricco e annoiato ex divo del rock che conduce una vita più che benestante a Dublino, alla morte del padre
torna a New York. I due hanno perso i contatti da anni ma, dopo aver letto i diari paterni, Cheyenne decide di continuare
la ricerca di un criminale nazista che suo padre ha ossessivamente tentato di trovare per oltre trent'anni. Sicuro del fatto
che quell'uomo si sia rifugiato come molti altri negli Stati Uniti, Cheyenne, accompagnato da un'inesorabile lentezza e da
nessuna dote da investigatore, inizia il suo viaggio alla ricerca di un tedesco novantenne, probabilmente morto di vecchiaia.
RASSEGNA
STAMPA
La (ex) rockstar Cheyenne, un tempo mitico simbolo del gothic rock, si ritrova a passare le sue giornate fra la
sua gigantesca dimora, condivisa con l’amata moglie, e il bar con cui si ritrova a parlare di musica ed economia
con la sua giovane amica Mary. Incontra persone, tenta di mantenersi vagamente in forma praticando improbabili esercizi fisici, ogni tanto ripensa al suo passato senza neanche ricordare (almeno apparentemente) il perché non faccia più musica. Di certo è depresso, annoiato, fuori dal tempo, schiavo del personaggio che è stato
e che tenta di mantenere vivo. Capelli cotonati, rossetto, cerone, abbigliamento nero, smalto scuro: sembra a
ogni sortita pronto a risalire sul palco. La sua monotonia apatica, interrotta da numerosi incontri umani di varia
natura nella sua vita da eremita irlandese, viene interrotta dalla tragica notizia dell’aggravarsi della condizione
del padre, che vive in America: deciderà di attraversare l’oceano per andare a fargli visita, sperando di fare in
tempo prima che il vecchio passi a miglior vita.
La prima metà del film, la prima fatica americana di Sorrentino, proprio lui, il Paolo nazionale del nostro cinema, l’autore più talentuoso e sorprendente del Belpaese, finisce qui. E finisce dopo aver regalato momenti
di grande intensità: emotiva, visiva, comica. Il film, che pareva un affresco grottesco virato sull’umorismo da
sophisticated comedy di una stella del rock incapace di riciclarsi in una nuova epoca, si trasforma improvvisamente e inspiegabilmente in un road movie alla ricerca dell’essenza della propria vita. Un vagare per le strade
d’America che porterà Cheyenne a imbattersi in una serie interminabile di inconcludenti (quanto spesso sfiancanti) incroci di varia natura. Dalla ragazza madre bisognosa di affetto agli sfrontati giocatori di pingpong in
un bar sperduto lungo il cammino, da un sedicente uomo d’affari con la fissazione per il proprio pick up a una
vecchia professoressa che usa un’oca come animale da guardia.
Il tutto per inseguire il criminale nazista che ad Auschwitz fu l’aguzzino di suo padre. L’avventura del musicista
decaduto è messa in scena con i pregi tecnici e creativi del miglior cinema di Sorrentino, portati fino al loro
eccesso non più tollerabile. C’è davvero tutto, ogni forma di virtuosismo estetico, ogni possibile escamotage
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di regia per rendere ogni frammento di pellicola una scena madre. C’è anche un’altra estremizzazione: un tentativo di fusione fra musica e immagini che, alla lunga, finisce invece per togliere significato alla colonna
sonora di David Byrne, che dà anche il titolo al film.
Sbarcato in America, il regista napoletano ha inseguito il sogno. La ricerca della perfezione in ogni istante, in
ogni inquadratura, in ogni primo piano. Inseguire l’effetto surreale ha però portato a sacrificare la sceneggiatura
che, nel tentativo di puntare soprattutto su una fitta simbologia (ogni personaggio incontrato da Cheyenne dovrebbe avere il senso di far progredire il cammino di consapevolezza del protagonista), finisce per rendere
futile e inerme la trama principale, provocando anzi l’effetto di trasfigurare il volto della star, uno Sean Penn
mai così caricaturale, in un “tipo” anziché in un vero personaggio cinematografico.
E se la fotografia fulgida di Luca Bigazzi riesce nel clamoroso intento di ritrarre la provincia americana così
come l’abbiamo sempre vista nel cinema della New Hollywood, le scelte registiche di Sorrentino, soprattutto
nella seconda parte del film, lasciano perplessi. Così come non può non deludere, dopo tanto clamore e attesa,
riscontrare che il protagonista è ridotto da un punto di vista fisico a una mera imitazione di Robert Smith dei
Cure e da un punto di vista psicologico è invece incomprensibilmente svilito a un compromesso fra l’uomo affranto dai propri sensi di colpa e una sorta di nuovo “Rain Man” con il talento per il rock.
Il frutto di quest’opera è una netta scissione tra una prima parte “preliminare” in Irlanda, affascinante nel ritmo
e nelle premesse grottesche, e una seconda parte statunitense criptica e pretenziosa. Così come, volendo tentare
dei paragoni con alcuni colleghi, il lavoro di Sorrentino pare voglia somigliare negli intenti a qualcosa di molto
simile al cinema d’immagini e accostamenti del più stralunato giovane autore americano, il Wes Anderson dei
Tenenbaum e di Steve Zissou. Ma in realtà, a conti fatti, assomiglia ai più inspiegabili scivoloni in giro per il
mondo di Wim Wenders. Un’ulteriore dimostrazione che anche il più preparato e dotato cineasta, com’è il regista de “Il divo”, rischia di naufragare al cospetto delle sacre regole che miscelano arte e industria in quel misterioso mondo parallelo chiamato Hollywood.
Giancarlo Usai, www.ondacinema.it
[…] Ritratto di un personaggio che non si sente in sintonia con i propri tempi (si trascina il peso del suicidio
di due fan, istigati dalle sue canzoni “pessimistiche”) e che decide di scavare nel passato del padre per trovare
la ragione di un’ossessione più forte dello scorrere del tempo, il film di Sorrentino (sceneggiato insieme a Umberto Contarello) finisce per venire sopraffatto da una specie di “compiacimento estetico” che sfarina la trama
in una serie di scene e immagini fini a se stesse. Negli incontri, nella scelta dei luoghi, nei movimenti di macchinasi sente soprattutto il piacere di mostrare un mondo che ha cancellato le differenze tra normalità e follia,
dove la stranezza si confonde con la banalità (l’indiano che si fa lasciare in un luogo senza senso, la statua del
pistacchio gigante, l’inventore [Stanton] della valigia con le rotelle), mentre il senso del reale lascia il posto
alla sorpresa e al fascino dell’inessenziale. Ma in questo modo non si capisce la necessità di truccare Sean
Penn come il Robert Smith dei Cure e tutta la sua recitazione strascicata e compiaciuta diventa un gioco senza
ragione. Mary, la giovane amica di Cheyenne, è interpretata dalla figlia di Bono, Eve Hewson. David Byrne,
già omaggiato nel titolo che cita una sua celebre canzone, poi “rivisitata” dal figlio di Rachel alla chitarra, ap-
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pare nella parte di se stesso, in un concerto. Fotografia di Luca Bigazzi.
Paolo Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film, Baldini&Castoldi
Rapsodico e anti-psicologico certamente. Saturo di grande musica, grandi inquadrature e grandi paesaggi, è
scontato. Dialogato sul filo del compiacimento sarcastico, c'era da aspettarselo. Recitato sottraendo anziché
aggiungendo, senza dubbio. Messo in maschera con la memoria rivolta ai classici del minimalismo on the road,
lo capiamo subito. Quello che, però, bisogna dire prima d'ogni altra osservazione è che This Must Be the Place
trasuda intellettualismo da tutti i pori dello schermo: un procedimento voluto, certo, che costituisce un po' la
cifra dell'autore, Paolo Sorrentino, diventato talmente bravo da stupirsi di se stesso. […] La perizia del cesellatore d'immagini, corroborata dalla strenua applicazione del direttore della fotografia Bigazzi, è sicuramente
impressionante. […] Sean Penn, musa ispiratrice dell'impresa, è doppiato in italiano da Massimo Rossi, ma
non sapremmo dire - proprio come fa il regista - se quel flebile falsetto, talvolta risucchiato da un risolino demenziale, conferma l'audacia del grande attore o accompagna il suo incedere tra il catatonico e lo psicotico
con un costante sberleffo. Non a caso This Must Be the Place si sviluppa con un ritmo stop-and-go: Sorrentino
coglie la strana, infinita bellezza dell'iperrealtà yankee (...), teme che gli si trasformi tra le mani in 'estetica' e
ci dà dentro con i tic (Cheyenne/Penn che storce la bocca per scostare il ciuffo), i flash di minima comune alienazione, gli atti gratuiti intrisi di pensierosa insensatezza e le sue fatidiche battute a effetto. Bravo, bravissimo;
ma col pericolo che gli si rivolti contro una delle frasette biascicate dal suo antieroe: «Ci hai fatto caso che
nessuno lavora più e tutti fanno un lavoro artistico?».
Valerio Caprara, Il Mattino, 14 ottobre 2011
Sul finire degli Anni '70 si impose nel rock un filone dark-gotic. Sul modello di Robert Smith, leader dei Cure,
è ritagliato la figura di Cheyenne, ex-rockstar protagonista di This Must Be the Place. Occhi bistrati, cerone
bianco, rossetto vermiglio, capelli cotonati: fa un certo effetto vedere un cinquantenne conciarsi così. (...) Realizzando This Must Be the Place , che prende il titolo da una canzone di David Byrne autore delle musiche che
felicemente attraversano il film, Sorrentino ha rischiato di cadere in varie trappole - far accettare al pubblico
un protagonista tanto insolito, girare all'estero senza sembrare un turista per caso - ma è riuscito a evitarle tutte.
Ha messo su un cast eccellente di nomi più o meno noti, da Frances McDormand a Kerry Condon, calandoli
in ruoli congeniali, con dialoghi ben scritti e spiritosi. Al centro dell'affresco uno straordinario Penn che, recitando su una corda sola con vocetta cantilenante e immerso in una sorta di torpore depressivo, riesce a far
emergere del personaggio, al di là dell'aspetto grottesco, la gentilezza, la sensibilità, l'umorismo. Quanto ai
luoghi, il regista li ha trasfigurati in chiave pittorica, con un occhio al cinema on the road di Lynch e Wenders
e tocchi di fiaba surreale alla Tim Burton. E' un risultato importante, maturo che conferisce a Sorrentino una
sicura collocazione sulla scena internazionale. Rimane in piedi un'osservazione. Il fatto che il tema dell'Olocausto resti una trovata più che un motivo sentito, va a scapito di quello che doveva essere il nucleo emozionale
del film, ovvero il tema di un riavvicinamento alla figura paterna e del ritrovamento di una propria identità."
Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa, 14 ottobre 2011
This Must Be The Place, il sogno americano di Paolo Sorrentino. La parola giusta è questa. Sogno. Dopo incubi
a occhi aperti (L’amico di famiglia, L’uomo in più) e amori sotto vetro (Le conseguenze dell’amore), un film
in cui si torna finalmente liberi. Di affacciarsi fuori, di cantare, di ballare, di ricordare, di piangere. Di rifare
l’amore con il mondo. Sorrentino rifà il trucco ai fantasmi delle sue ossessioni. Un po’ di fard, un’ombra di
rossetto e un trolley. Un semplice, banale, meraviglioso trolley. Un oggetto da passeggio, un amico fedele, un
diario intimo che cavalca marciapiedi e highway, malinconie e distanze incolmabili. è su questa meravigliosa
invenzione di sceneggiatura (ad opera dello stesso Sorrentino e del bravissimo Umberto Contarello) che si
compie un viagio, una traversata, una missione purificatrice.
Perchè This Must Be The Place è il fuoco che arde nel deserto del New Mexico, le lacrime di una madre che
guarda il figlio crescere, una piscina che non ha mai conosciuto l’acqua, una sigaretta riaccesa dopo vent’anni.
Ma è anche un ritorno a casa.Tornare sui propri passi, ammettere i propri errori e ricominciare daccapo, guardando la vita negli occhi, dandole finalmente del tu, come con una vecchia amica. Un film che non è solo un
film, ma un progetto di vita, , una preghiera sommessa, un gemito di ribellione. Cheyenne ci restituisce fiducia
nell’uomo. Lo nobilita. Lo esalta. Lo magnifica. è il rimpianto che genera un’esistenza nuova, lo struggimento
che si scansa per lasciare posto a nuove vite e a nuove idee. Un mosaico di volti e di vissuti che si intercciano
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in un abbracio infinito e commovente. Con uno sguardo che ci racconta gli Stati Uniti come in una lunga e ipnotica trance dominata da un homeless sciamano che si truca il viso, denudandosi la coscienza, Che vuole
reimparare a vivere, imparando a morire giorno dopo giorno.
This Must Be The Place porta in scena la resurrezione.Senza il bianco e nero devastante di Dreyer di Ordet,
senza la catarsi splatter dello Schrader/Scorsese di Taxi Driver. Basta un sorriso, un semplice, inarrivabile, disarmante soriso.
Quello con cui Paolo Sorrentino intreccia Olocausto e talking Heads, dramma familiare e cinema on the road,
campi lunghi e primi piani esplosivi. Quello con cui chiude il suo capolavoro.
Cheyenne si toglie trucco e parrucca. Il debito l’ha saldato. Dietro la maschera c’è un nuovo inizio.
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SC
HE
DA
I TALKING HEADS E GLI ANNI OTTANTA
5
33
VISIONI
CONSIGLIATE
Il seme della violenza (The Blackboard Jungle), Richard Brooks, 1955
Senza tregua il rock’ ’n roll (Rock Around The Clock) Fred F. Sears, 1956
Jailhouse Rock (Il delinquente del rock and roll), Richard Thorpe, 1957
Urlatori alla sbarra, Lucio Fulci, 1960
Tutti per uno (A Hard Day’s Night) Richard Lester, 1964
Aiuto! (Help!), Richard Lester, 1965
Don’t look back, Donn Alan Pennebaker, 1967
ll laureato (The Graduate) Mike Nichols, 1967
Monterey pop, Don Alan Pennebaker, 1968
Yellow Submarine, George Dunning, 1968
Alice’s Restaurant, Arthur Penn, 1969
Easy Rider, Dennis Hopper, 1969
Gimme Shelter, Albert e David Maysles, Charlotte Zwerin, 1970
Woodstock – Tre giorni di pace amore e musica (Woodstock), Michael Wadleigh, 1970
Zabriskie Point, Michelangelo Antonioni, 1970
Pink Floyd a Pompei (Pink Floyd at Pompei), Adrian Maben, 1972
American Graffiti, George Lucas, 1973
Jesus Christ Superstar, Norman Jewison, 1973
Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (Mean Streets), Martin Scorsese, 1973
Pat Garrett & Billy the Kid, Sam Peckinpah, 1973
Il fantasma del palcoscenico (Phantom of the Paradise), Brian De Palma, 1974
The Rocky Horror Picture Show, Jim Sharman, 1975
Tommy, Ken Russell, 1975
Festival del proletariato giovanile al parco Lambro di Milano, Alberto Grifi, 1976
Nudi verso la follia – Festival di Parco Lambro, Angelo Rastelli, 1976
The Song Remains the Same, Peter Clifton, Joe Massot, 1976
L’ultimo valzer (The Last Waltz), Martin Scorsese, 1978
Rinaldo e Clara (Renaldo and Clara), Bob Dylan, 1978
Tornando a casa (Coming Home), Hal Ashby, 1978
Hair, Milos Forman, 1979
Quadrophenia, Franc Roddam, 1979
La grande truffa del rock ‘n’ roll (The great rock ‘n’ roll swindle, Julien Temple, 1979
Uragano Who (The Kids Are Alright), Jeff Stein, 1979
Rude Boy, Jack Hazan, David Mingay, 1980
The Blues Brothers, John Landis, 1980
Pink Floyd ‒ The Wall, Alan Parker, 1982
Time Is on Our Side - The Rolling Stones
Let’s Spend the Night Together, Hal Ashby, 1982
Un sogno lungo un giorno (One From The Hearts), Francis Ford Coppola, 1982
Ziggy Sturdust and the Spiders from Mars, Donn Alan Pennebaker, 1982
ll grande freddo (The Big Chill), Lawrence Kasdan, 1983
Stop making sense, Jonathan Demme, 1984
Sid e Nancy, Alex Cox, 1986
Il grande Lebowski (The Big Lebowski), Joel e Ethan Coen, 1988
U2: rattle and hum, Phil Joanou, 1988
J’entende plus la guitare, Philip Garrell, 1991
Lupo solitario (The Indian Runner), Sean Penn, 1991
The Doors, Oliver Stone, 1991
Backbeat - Tutti hanno bisogno d’amore (Backbeat), Iain Softley, 1993
L’eau froide, Olivier Assayas, 1994
Pulp Fiction, Quentin Tarantino, 1994
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Le onde del destino (Breaking the Waves), Lars Von Trier, 1996
Trainspotting, Danny Boyle, 1996
Lola corre (Lola rennt), Tom Tykwer, 1998
Radiofreccia, Luciano Ligabue, 1998
Velvet Goldmine, Todd Haynes, 1998
SOS Summer of Sam - Panico a New York (The Summer of Sam), Spike Lee, 1999
Quasi famosi – Almost Famous (Almost Famous), Cameron Crowe, 2000
Sex Pistols – Oscenità e furore (The Filth and the Fury), Julien Temple, 2000
Hedwig ‒ La diva con qualcosa in più (Hedwig and the angry inch), John Cameron Mitchell, 2001
Lavorare con lentezza, Guido Chiesa, 2004
Romance & Cigarettes, John Turturro, 2004
No Direction Home: Bob Dylan (No Direction Home), Martin Scorsese, 2005
Across the Universe, Julie Taymor, 2007
Into the Wild - Nelle terre selvagge (Into the Wild), Sean Penn, 2007
Shine a Light, Martin Scorsese, 2008
A Serious Man, Joel e Ethan Coen. 2009
I Love Radio Rock (The Boat That Rocked), Richard Curtis, 2009
George Harrison: Living in the Material World, Martin Scorsese, 2011
Pearl Jam Twenty, Cameron Crowe, 2011
This Must Be The Place, Paolo Sorrentino, 2011
Celebration Day, Dick Carruthers, 2012
The Rolling Stones - Crossfire Hurricane (Crossfire Hurricane), Brett Morgen, 2012
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