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ARTICOLI
SOMMARIO - N° 4 – APRILE 2012
Condominio
pag. 2
Il principio dell'apparenza nel condominio
di Baldacci Michele
pag. 17
pag. 3
Reato di oltraggio a pubblico ufficiale
NOTIZIE FLASH
ARTICOLI
RASSEGNA LEGISLATIVA
pag. 8
Oltraggio a pubblico ufficiale
di De Amicis Igor
pag. 17
Sanzioni amministrative
pag. 4
FOCUS
pag. 46
Le Sezioni Unite in tema di sanzioni amministrative
relative al Codice della strada
di Passanisi Silvia
pag. 30
RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA:
CORTI SUPERIORI
RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA:
CORTI DI MERITO
pag. 23
RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA
CORTI SUPERIORI – CIVILE
DIMORA.
Cass. 4 aprile 2012, n. 12763
Condominio
Sostituzione di persona
CONDOMINIO - LAVORI - LIQUIDAZIONE PARCELLA MANDATO ASSEMBLEARE - NECESSITÀ.
Cass. 16 aprile 2012, n. 5984
pag. 2
Famiglia
ADOZIONE - MINORE - DICHIARAZIONE DI
ADOTTABILITÀ.
Cass. 13 aprile 2012, n. 5883
pag. 3
SOSTITUZIONE DI PERSONA - ACCOUNT DI POSTA
ELETTRONICA - FALSE GENERALITÀ
Cass. 3 aprile 2012, n. 12479
pag. 3
CORTI DI MERITO
pag. 2
Lavoro
Diritto del lavoro - Liquidazione del danno non
patrimoniale - Duplicazione o sottostima - Riferimento al
concreto pregiudizio preso in esame dal giudice.
Cass. 2 aprile 2012, n. 5230
pag. 2
Previdenza Forense
PREVIDENZA FORENSE - VERSAMENTO PARZIALE ANNUALITÀ.
Cass. 10 aprile 2012, n. 5672
pag. 2
Osservatorio sul merito:
Speciale Corte d’Appello Napoli
Osservatorio
Speciale
Corte
sul
d’Appello
pag. 4
di
merito:
Napoli
RASSEGNA LEGISLATIVA
La rassegna dei provvedimenti legislativi
di maggiore interesse pubblicati nel
periodo di riferimento, classificati per
argomento
pag. 38
Risarcimento danni
CORRUZIONE E CONCUSSIONE - DANNO ALL'IMMAGINE
DELLO STATO - RISARCIMENTO.
Cass. 12 aprile 2012, n. 5756
pag. 2
CORTI SUPERIORI – PENALE
Immigrazione
IMMIGRAZIONE - IMMIGRAZIONE CLANDESTINA DIVIETO DI INGRESSO - DURATA.
Cass. 2 aprile 2012, n. 12220
pag. 3
Maltrattamento sugli animali
FOCUS
L’approfondimento, curato dalla Redazione
di Lex24, sulle tematiche giuridiche di
maggiore interesse.
In questo numero: “Riforma del lavoro: la
nuova disciplina del contratto a termine”
pag. 46
MALTRATTAMENTO SUGLI ANIMALI - VETERINARIO CORSE CLANDESTINE DI CAVALLI - DIVIETO DI
La presente newsletter è stata chiusa in Redazione
in data 26.04.2012
N. 4 – Aprile 2012 - Pagina | 1
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RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA
CORTI SUPERIORI – CIVILE
CONDOMINIO
Corte di Cassazione, Sezione 6 civile, Sentenza 16 aprile 2012, n. 5984
CONDOMINIO - LAVORI - LIQUIDAZIONE PARCELLA - MANDATO ASSEMBLEARE - NECESSITÀ.
L'amministratore incaricato di nominare un tecnico per eseguire i lavori nel condominio non può liquidare
la parcella se non ha ricevuto un mandato esplicito dell'assemblea. Infatti, laddove si versi in fattispecie di
amministrazione straordinaria, l'iniziativa dell'amministratore senza la preventiva deliberazione
dell'assemblea è consentita solo se tali lavori presentino il carattere dell'urgenza, sicché, difettando tale
presupposto, le iniziative assunte dall'amministratore stesso con riguardo ad attività straordinaria non
creano obbligazioni per i condomini.
FAMIGLIA
Corte di Cassazione, Sezione 1 civile, Sentenza 13 aprile 2012, n. 5883
ADOZIONE - MINORE - DICHIARAZIONE DI ADOTTABILITÀ.
È legittimo il provvedimento di adozione dei minori anche in presenza di familiari che si dichiarano
disponibili ad occuparsene se essi non hanno mai dato prova di un interesse reale verso i minori o non
hanno fatto nulla per alleviarne la condizione di sofferenza. Infatti, l'accertamento dei significativi rapporti
fra i parenti entro il quarto grado e il minore rappresenta un prius, non un posterius, rispetto all'audizione
dei medesimi parenti.
LAVORO
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile, Sentenza 2 aprile 2012, n. 5230
Diritto del lavoro - Liquidazione del danno non patrimoniale - Duplicazione o sottostima - Riferimento al
concreto pregiudizio preso in esame dal giudice.
In tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato
ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio
lamentato dall'attore (biologico, morale, esistenziale) ma unicamente il concreto pregiudizio preso in
esame dal giudice. Si ha pertanto duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia
stato liquidato due volte, sebbene con l'uso di nomi diversi. (Cass. n. 10527/2011, v, anche Cass. n.
15414/2011 cfr., in materia di danno subito dal lavoratore, anche Cass. n. 9238/2010, n. 23053/2009.
(Amb.Dir.)
PREVIDENZA FORENSE
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile, Sentenza 10 aprile 2012, n. 5672
PREVIDENZA FORENSE - VERSAMENTO PARZIALE - ANNUALITÀ.
Anche gli anni non coperti da integrale contribuzione concorrono a formare l'anzianità contributiva e
vanno inseriti nel calcolo della pensione, prendendo come base il reddito sul quale è stato effettivamente
pagato il contributo. Nessuna norma della previdenza forense prevede che la parziale omissione del
contributo determini la perdita o la riduzione dell'anzianità contributiva e della effettività di iscrizione alla
Cassa, giacché la normativa prevede solo il pagamento di somme aggiuntive. Nessuna norma quindi
prevede che venga “annullata” l'annualità in cui vi siano stati versamenti inferiori al dovuto.
RISARCIMENTO DANNI
Corte di Cassazione, Sezioni Unite civile, Sentenza 12 aprile 2012, n. 5756
CORRUZIONE E CONCUSSIONE - DANNO ALL'IMMAGINE DELLO STATO - RISARCIMENTO.
Vanno accolte le richieste di risarcimento per danno alla Pubblica amministrazione che traggono origine da
sentenze penali definitive emesse per i reati di corruzione e concussione ascritti ai convenuti che, nelle
posizioni rispettivamente rivestite nell'ambito della Pubblica amministrazione, abbiano percepito somme
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da case farmaceutiche, producendo un danno erariale derivato dalla ingiustificata lievitazione della
complessiva spesa farmaceutica, determinata dalla violazione degli obblighi di servizio a ciascuno riferibili
e da illecite interferenze nei procedimenti amministrativi di determinazione e revisione dei prezzi dei
farmaci in sede Cip e della loro registrazione e/o classificazione nel prontuario terapeutico.
CORTI SUPERIORI – PENALE
IMMIGRAZIONE
Corte di Cassazione, Sezione 1 penale, Sentenza 2 aprile 2012, n. 12220
IMMIGRAZIONE - IMMIGRAZIONE CLANDESTINA - DIVIETO DI INGRESSO - DURATA.
La durata del divieto di ingresso per i clandestini non può superare i cinque anni. A stabilirlo è la direttiva
comunitaria in materia di immigrazione, la n. 115/2008, che dal 25/12/2010 ha acquistato efficacia diretta
nell'ordinamento interno per via della scadenza del termine di adeguamento da parte dello Stato italiano.
La norma italiana, infatti, ponendo il divieto di reingresso per dieci anni si pone in insanabile contrasto con
la vincolante direttiva europea
MALTRATTAMENTO SUGLI ANIMALI
Corte di Cassazione, Sezione 3 penale, Sentenza 4 aprile 2012, n. 12763
MALTRATTAMENTO SUGLI ANIMALI - VETERINARIO - CORSE CLANDESTINE DI CAVALLI - DIVIETO DI
DIMORA.
Va confermata, in attesa del processo, la misura di prevenzione del divieto di dimora nei confronti di un
veterinario accusato di associazione a delinquere finalizzata all'organizzazione di corse clandestine e di
maltrattamento di cavalli sottoposti ad addestramenti massacranti, dopati con anabolizzanti e impiegati in
corse che ne mettevano a repentaglio l'incolumità. (Nel caso di specie, i giudici di merito hanno
adeguatamente motivato sulla gravità indiziaria, ritenendo, allo stato delle acquisizioni processuali,
sussistere validi elementi di sostegno dell'assunto accusatorio. Quanto alle esigenze di prevenzione, il
divieto di dimora deve permanere perché‚ c'è il rischio di reiterazione dei reati).
SOSTITUZIONE DI PERSONA
Corte di Cassazione, Sezione 2 penale, Sentenza 3 aprile 2012, n. 12479
SOSTITUZIONE DI PERSONA - ACCOUNT DI POSTA ELETTRONICA - FALSE GENERALITÀ.
Integra il reato di sostituzione di persona la condotta di colui che crei un account di posta elettronica,
attribuendosi falsamente le generalità di un diverso soggetto, inducendo in errore gli utenti della rete
internet, nei confronti dei quali le false generalità siano declinate e con il fine di arrecare danno al
soggetto le cui generalità siano state abusivamente spese.
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OSSERVATORIO SUL MERITO:
Speciale Corte d’Appello di Napoli
COMUNIONE E CONDOMINIO
Corte d'Appello di Napoli - Sez. 2 - Sen. n. 575 del 20 febbraio 2012
Immobile sito in uno stabile condominiale - Compravendita - Pagamento oneri da parte
dell'acquirente - Diritto di rivalsa nei confronti del venditore - Solidarietà nei rapporti con il
condominio - Criterio di riparto temporale delle spese - Adozione delle delibere - Atti di
straordinaria amministrazione - Amministrazione ordinaria - Rilevanza del momento di
compimento effettivo dell'attività.
(Disp.att. c.c. art. 63).
L'acquirente dell'immobile posto in uno stabile condominiale che provveda al pagamento degli oneri
condominiali dovuti dal precedente proprietario, ex art. 63 disp.att. c.c., ha nei rapporti interni diritto di
rivalsa nei confronti del venditore, mentre all'esterno, e dunque nei confronti del condominio, vige il
principio di solidarietà. Il criterio di riparto temporale dell'onere delle spese intercorrente tra venditore ed
acquirente dell'unità immobiliare sita in un condominio di edifici, in ogni caso, non può prescindere dal
momento di adozione delle delibere condominiali di distribuzione degli oneri relativi. In tal senso, invero,
ed avuto particolare riguardo ai lavori di manutenzione straordinaria, ristrutturazione o innovazioni sulle
parti comuni dell'edificio, nella descritta circostanza ed in mancanza di accordi di diverso tenore, i relativi
costi devono essere addebitati in capo al soggetto che rivestiva la qualità di proprietario del bene al
momento dell'adozione della delibera assembleare che abbia disposto l'esecuzione dei detti interventi, in
quanto deve attribuirsi a tale provvedimento valore costitutivo della relativa obbligazione. Diversamente,
in caso di spese necessarie per manutenzione ordinaria, conservazione, godimento delle parti comuni e
prestazioni di servizi nell'interesse comune, le spese dovranno essere sostenute dal soggetto proprietario
al momento del compimento effettivo della suddetta attività gestionale. (Fattispecie avente ad oggetto il
richiesto pagamento di somme effettivamente spettanti al venditore e di somme in realtà a carico
dell'acquirente, attuale appellante, in quanto maturate quando era già proprietario del bene).
CIRCOLAZIONE STRADALE
Corte d'Appello di Napoli - Sez. 1 BIS - Sen. n. 588 del 21 febbraio 2012
Sinistro stradale - Responsabilità della P.A. per i danni conseguenti al sinistro - Responsabilità
del custode - Inammissibilità della domanda formulata ai sensi dell'art. 2051 c.c. in sede di
appello - Domanda di prime cure volta all'affermazione della responsabilità da fatto illecito Mutatio lobelli - Petitum e causa petendi diversi.
(c.c., artt. 2043, 2051).
In merito all'azione risarcitoria esperita in relazione ai danni subiti a seguito del sinistro stradale, è
inammissibile la domanda con la quale l'appellante invochi l'operatività dell'art. 2051 c.c., disciplinante la
responsabilità per danno di cose in custodia, laddove in prime cure abbia invocato la responsabilità da
fatto illecito, ai sensi dell'art. 2043 c.c. addebitando il sinistro alla responsabilità della P.A. per la cattiva
manutenzione della strada. Costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui il
danneggiato che in primo grado abbia dedotto la responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c. dell'ente
proprietario della strada, sotto il profilo dell'omessa eliminazione di una situazione di pericolo occulto, non
possa dedurre per la prima volta in appello la responsabilità dell'ente ai sensi dell'art. 2051 c.c.,
configurandosi un'inammissibile mutatio libelli, essendo fondata la domanda sulla violazione dell'art. 2043
c.c., diversa per petitum e causa petendi dell'azione proposta ai sensi dell'art. 2051 c.c. che postuma la
violazione del dovere di sorveglianza gravante sul custode.
FALLIMENTO E PROCEDURE CONCORSUALI
Corte d'Appello di Napoli - Sez. 1 BIS - Sen. n. 585 del 21 febbraio 2012
N. 4 – Aprile 2012 - Pagina | 4
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Bollettino dei protesti - Documentazione - Produzione - Elementi emergenti - Sussistenza di
numerosi protesti - Pubblicazione - Arco di tempo significativo - Revocatoria - Carattere
decisivo ed indispensabile - Carattere dei protesti cambiari - Fattispecie.
(R.D. 16.03.1942, n. 267, art. 67).
La produzione documentale delle risultanze del bollettino dei protesti, che documenti la circostanza che
numerosissimi protesti (nella specie circa 42) furono non solo levati ma anche pubblicati nei confronti
della fallita società lungo un arco di tempo significativo (nella fattispecie coincidente con un periodo di
durata addirittura maggiore di quello rilevante ex art. 67, comma secondo, della legge fallimentare)
assume carattere inequivocabilmente decisivo e certamente indispensabile nel giudizio diretto ad ottenere
la declaratoria di inefficacia dei pagamenti eseguiti e delle operazioni bancarie solutorie effettuate
dall'imprenditore poi fallito. Ciò posto e rilevato che i protesti cambiari, in forza del loro carattere di
anomalia rispetto al normale adempimento dei debiti d'impresa, si inseriscono nel novero degli elementi
indiziari rilevanti, costituenti una presunzione semplice che, in quanto tale, deve formare oggetto di
valutazione concreta da parte del Giudice di merito, è da considerarsi priva di fondamento l'eccezione
(nella specie formulata anche in primo grado) con cui l'istituto di credito contesti la conoscenza degli
stessi, in quanto costituente dato di comune esperienza la circostanza che gli operatori finanziari e
creditizi consultano periodicamente e regolarmente questi mezzi di informazione appositamente previsti
dal sistema per la divulgazione delle necessarie notizie sulla solvibilità dei privati. Nel caso concreto, alla
luce del nuovo dato documentale, devono essere rivisitate le affermazioni contenute nell'impugnata
sentenza in ordine alla ritenuta carenza della scientia decoctionis della banca, dovendosi ragionevolmente
e presuntivamente ritenere che, in presenza di un numero così significativo di protesti pubblicati,
l'attenzione della banca fu, nel periodo di interesse, concentrata anche sugli ulteriori indizi dello stato
d'insolvenza che affliggeva la società fallita. Rilevata, altresì, la sussistenza dell'elemento oggettivo della
formulata azione, la domanda del fallimento, in riforma della gravata pronuncia, merita accoglimento.
PROCEDIMENTO D'INGIUNZIONE
Corte d'Appello di Napoli - Sez. 1 BIS - Sen. n. 587 del 21 febbraio 2012
Decreto ingiuntivo - Opposizione - Pretesa creditoria della struttura sanitaria privata nei
confronti della Asl - Questione di giurisdizione - Tutela di un diritto soggettivo - Devoluzione
della controversia alla giurisdizione del G.O.
(c.p.c., artt. 645, 353).
Merita accoglimento l'appello volto all'affermazione della giurisdizione dell'Autorità Giurisdizionale
Ordinaria, in relazione al decreto ingiuntivo ottenuto dall'Istituto Fisioterapico nei confronti della Asl per il
residuo credito per prestazioni sanitarie dallo stesse rese in regime di accreditamento. Il rapporto sul
quale si fonda la pretesa creditoria in esame, tra soggetti titolari di strutture sanitarie private ed Asl, va
inquadrato nell'ambito del sistema di "accreditamento provvisorio" e postula l'accertamento della
sussistenza o meno in capo al creditore, di un vero e proprio diritto soggettivo. E' tale, infatti, la posizione
giuridica di chi, nella qualità di creditore, chiede alla competente Asl il pagamento delle prestazioni
sanitarie erogate a soggetti assistiti dal SSN, per conto di quest'ultimo ed in virtù del dedotto
accreditamento; ne discende la devoluzione al G.O. delle controversie insorte ai fini dell'accreditamento
delle strutture convenzionate.
Corte d'Appello di Napoli - Sez. 1 - Sen. n. 639 del 23 febbraio 2012
Questioni di giurisdizione - Controversia concernente l'accertamento della sussistenza o meno del diritto
del soggetto titolare di una struttura sanitaria accreditata al pagamento dei corrispettivi per le prestazioni
sanitarie erogate a soggetti assistiti dal SSN - Giurisdizione dell'AGO - Fondamento normativo.
(c.p.c., art. 1; D.Lgs. del 31.01.1998, n. 80, art. 33, co. 1; L. del 21.07.2000, n. 205, art. 7, lett. a).
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, la controversia concernente l'accertamento della
sussistenza o meno del diritto del soggetto titolare di una struttura sanitaria privata, al pagamento dei
corrispettivi per le prestazioni sanitarie da tale struttura erogate a soggetti assistiti dal Servizio Sanitario
Nazionale e per conto ed a carico di quest'ultimo, in forza di accreditamento, anche se temporaneo o
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provvisorio. Ciò sia in base al generale e tradizionale criterio di riparto delle controversie tra la
giurisdizione ordinaria e la giurisdizione amministrativa generale, fondato sulla natura della situazione
giuridica sostanziale soggettiva controversa, sia (nel caso in cui si ritenga che a detto rapporto vada
attribuita la natura di una concessione) secondo il disposto dell'art. 33, co. 1, del D.Lgs. del 31 marzo
1998, n. 80 - come sostituito dall'art. 7, lett. a), della Legge 21 luglio 2000, n. 205 - secondo cui le
controversie concernenti canoni, indennità ed altri corrispettivi relativi a concessioni di pubblici servizi
rientrano nella giurisdizione ordinaria. Tale principio trova applicazione, inoltre, anche nei casi, come
quello di specie, in cui, ai fini della decisione della controversia, occorra incidentalmente risolvere una o
più questioni pregiudiziali che attengano all'esistenza ovvero all'individuazione ed all'interpretazione del
contenuto di atti adottati da pubbliche amministrazioni nell'esercizio dei propri poteri autoritativi.
PRIVACY
Corte d'Appello di Napoli - Sez. 4 BIS - Sen. n. 642 del 23 febbraio 2012
Tutela della riservatezza - Oggetto della tutela: controllo del flusso delle informazioni sul
proprio conto - Necessità di coordinamento con gli altri diritti di spessore costituzionale Diritto di cronaca - Compatibilità con il diritto alla riservatezza quando la notizia e veritiera,
utile ed esposta in forma civile - Fattispecie: pubblicazione sulla stampa del nome, del
cognome e della residenza, delle vittime di un'aggressione - E' esercizio del diritto di cronaca Fondamento normativo.
(D.Lgs. del 3006.2003, n. 196).
La nuova normativa introdotta in materia di tutela della privacy, persegue lo scopo di garantire a tutti i
soggetti la salvaguardia dei propri diritti, delle liberta fondamentali, della dignità della persona, con
particolare riferimento all'identità personale ed alla riservatezza, introducendo, in attuazione di una
specifica direttiva europea, una disciplina sulla protezione dei dati personali ed istituendo un organo di
garanzia del rispetto dei diritti della personalità per quanto attiene alle multiformi attività di trattamento
dei dati stessi. All'interno di tale disciplina, la riservatezza e l'identità personale si pongono in una
dimensione propriamente costituzionale ed assumono una nuova veste: dalla tradizionale concezione della
riservatezza come diritto alla conoscenza di quanto riguarda la vita privata si passa ad una concezione più
dinamica, intesa come controllo del flusso delle informazioni sul proprio conto, da altri detenute, sia in
entrata che in uscita e, quindi, di determinazione delle modalità di costruzione della propria sfera privata.
Ciò premesso, se la tutela della riservatezza, intesa nel senso indicato, deve svolgersi nel rispetto dei
diritti e delle libertà fondamentali, non può prescindersi nell'interpretazione della normativa, dal suo
coordinamento con gli altri diritti di spessore costituzionale che la privacy interseca, quali in primo luogo il
diritto di cronaca. Proprio in relazione alla libertà di stampa la legge avverte la necessità di contemperare
tale diritto con quello della personalità. Orbene, la pubblicazione di notizie a mezzo della stampa
costituisce espressione del diritto di cronaca e, quindi, non è lesiva del diritto alla riservatezza,
allorquando ricorrano tre condizioni: l'utilità o interesse sociale dell'informazione; la verità oggettiva (o in
taluni casi anche solo putativa purché debitamente controllata) della notizia; la forma civile
dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, richiamata dalla norma suddetta attraverso il riferimento
al codice deontologico dei giornalisti. La pubblicazione sulla stampa del nome, del cognome e della
residenza, delle vittime di un'aggressione, rientra nell'esercizio del diritto di cronaca e, perciò, non
costituisce un fatto illecito da cui può originare una responsabilità civile. Ed invero il medesimo Codice per
la protezione dei dati personali legittima tale operato, stabilendo che "la comunicazione e la diffusione dei
dati personali da parte di privati sono ammesse nell'esercizio della professione di giornalista e per
l'esclusivo perseguimento delle relative finalità, fermi restando i limiti del diritto di cronaca posti a tutela
della riservatezza, ed in particolare dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti d'interesse pubblico".
RESPONSABILITA' CIVILE
Corte d'Appello di Napoli - Sez. 4 BIS - Sen. n. 609 del 23 febbraio 2012
Estinzione dei buoni fruttiferi postali - Annullabilità dell'operazione - Vizio del consenso -
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Rivendicazione del risarcimento dei danni - Infondatezza della domanda - Incapacità naturale
dovuta a sordità ed analfabetismo - Inconfigurabilità.
(c.c., art. 428).
E' infondato l'appello volto alla riforma della sentenza con cui il tribunale abbia rigettato la domanda
attorea volta all'annullamento ed al conseguente risarcimento dei danni subiti in seguito all'estinzione di
alcuni buoni fruttiferi postali, operazione eseguita su sollecitazione del reggente dell'Ufficio Postale, a dire
dell'attore in maniera arbitraria e senza il consenso esplicito dello stesso. Al riguardo non merita
accoglimento l'asserita incapacità naturale dell'attore, dedotta in sede di gravame, ai sensi dell'art. 428
c.c., per effetto dell'incapacità di intendere e di volere dello stesso, affetto da sordità e da analfabetismo.
Al riguardo si rileva come le difficoltà uditive, legate alla sordità, rappresentano un limite del tutto fisico
legato alla percezione e non implicano problemi connessi alla sfera di elaborazione concettuale e di
autodeterminazione. Peraltro nel caso di specie la semplicità dell'operazione eseguita, elementare e nitida
ed il fatto che l'appellante si fosse presentato all'Ufficio Postale accompagnato da persona adulta dotata di
adeguata istruzione, induce certamente a ritenere che l'operazione eseguita sia stata del tutto regolare.
Corte d'Appello di Napoli - Sez. 4 BIS - Sen. n. 630 del 23 febbraio 2012
Responsabilità dei precettori - Sussistenza - Requisiti - Danno da illecito - Pregiudizio
procurato da un minore affidato ad un insegnante - Presupposto della responsabilità - Natura
dolosa o colposa della condotta del danneggiante - Conseguenze probatorie presuntive - Danno
ad altri e non a se stesso.
(c.c. art. 2048).
La sussistenza della responsabilità dei precettori delineata dall'art. 2048 c.c., è influenzata da due
requisiti, in quanto da un lato è necessario che si tratti di un danno da illecito e dall'altro che esso sia
procurato da un minore affidato ad un insegnante. La responsabilità indiretta prevista dalla richiamata
norma a carico dei genitori, dei tutori e dei precettori per i danni cagionati dai figli minori, dalle persone
soggette alla tutela o dagli allievi non si estende, invero, a qualsiasi evento pregiudizievole derivante dal
comportamento di questi ultimi. La norma in esame, precisando che il fatto dannoso deve essere
qualificabile come illecito presuppone la natura dolosa o colposa della condotta del figlio, dell'incapace o
dell'allievo, con la conseguenza che, qualora nessun addebito possa essere ascritto agli stessi, per il
verificarsi di un caso fortuito, deve escludersi anche la responsabilità del genitore, del tutore o
dell'insegnante. Quanto alle conseguenze probatorie presuntive di cui al terzo comma (nella specie
invocate da parte attrice), esse trovano, in ogni caso, applicazione limitatamente ai casi in cui l'incapace
cagioni ad altri un danno ingiusto e non anche nell'ipotesi (qui in esame), in cui l'incapace procuri a sé
stesso una lesione. (Fattispecie avente ad oggetto l'infortunio subito dall'alunno in seguito alla perdita di
equilibrio durante l'esecuzione di un esercizio nell'ora di educazione fisica, sotto la sorveglianza e
l'istruzione dell'insegnante presente, laddove il verificarsi di un fortuito causale esclude qualsivoglia ipotesi
di responsabilità ex art. 2048 c.c.).
SANZIONI AMMINISTRATIVE
Corte d'Appello di Napoli - Sez. 1 BIS -Sen. n. 592 del 21 febbraio 2012
Ordinanza ingiunzione di pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria - Indebita
percezione degli aiuti comunitari - Infondatezza dell'appello - Omesso assolvimento dell'onere
della prova posto a carico dell'opponente - Fatturazione fittizia e prova presuntiva dell'indebita
percezione delle sovvenzioni comunitarie.
(c.p.c., art. 186-ter).
E' infondato l'appello esperito ai fini della riforma della sentenza di prime cure con la quale il giudice abbia
rigettato l'opposizione all'ordinanza ingiunzione con cui il Ministero delle Risorse Agricole Alimentari e
Forestali ingiungeva il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria per l'indebita percezione degli
aiuti comunitari al consumo dell'olio d'oliva, laddove l'appellante contesti la violazione del principio
dell'onere della prova per aver ritenuto, il giudice di prima istanza, che egli avesse dovuto provare la
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correttezza del suo operato per il quale aveva percepito l'aiuto. Orbene, la doglianza appare priva di
pregio attesa la particolare disciplina vigente in materia di sovvenzioni comunitarie secondo cui incombe
sul richiedente indicare la provenienza e le ditte fornitrici al fine di garantire la perfetta corrispondenza tra
il prodotto acquistato e quello confezionato e venduto con conseguente conformità dell'erogazione del
contributo all'olio effettivamente destinato al consumo. Nel caso di specie, l'accertamento della polizia
tributaria, in ordine alle fatturazioni fittizie per le forniture di olio oliva, comporta che in applicazione del
principio della prova per presunzioni, deve ritenersi provato l'esistenza del fatto ignoto, ossia della falsa
commercializzazione dell'olio e quindi l'indebita percezione dei contributi comunitari.
NOTIZIE FLASH
PG CASSAZIONE: Mercoledì Napolitano al Csm per la nomina di Ciani
Mercoledì prossimo, 11 aprile, alle 17, il plenum del Consiglio superiore della magistratura, presieduto dal
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si riunirà per la nomina del nuovo procuratore generale
presso la Corte di Cassazione. A succedere all'attuale Pg Vitaliano Esposito, in pensione per raggiunti limiti
d'età, sarà uno dei suoi 'vice' alla Suprema Corte, Gianfranco Ciani, che ha ottenuto il primo via libera
all'unanimità dalla commissione del Csm che si occupa degli incarichi direttivi. Il procuratore generale
della Cassazione assieme al primo presidente della Suprema Corte sono membri di diritto del Csm.
CNF: Regolamento per la Formazione professionale continua
Il Consiglio Nazionale Forense, nella seduta del 24 febbraio 2012, ha deliberato con circolare N. 13-C2012, la modifica del termine di perfezionamento del silenzio assenso, previsto per l’istruttoria delle
istanze di accreditamento dall’art. 3 del Regolamento per la formazione professionale continua.
Il silenzio assenso, come indicato nella citata circolare, si perfezionerà non più in 15 giorni dalla ricezione
dell’istanza di accreditamento delle iniziative formative proposte, bensì in 30 giorni dalla ricezione della
stessa.
Questa decisione soddisfa due esigenze:
- peculiarità dell’istruttoria di accreditamento
- rilievo che questa riveste nel garantire un’adeguata offerta formativa;
Il CNF al fine di poter valutare completamente e con accuratezza i programmi e le iniziative formative
proposte ha reputato necessario prevedere un ragionevole periodo di valutazione.
Pubblicata la delibera Covip sul contributo 2012 dei fondi pensione
Ad integrazione del finanziamento della Covip, per il 2012 è dovuto il versamento di un contributo nella
misura dello 0,5 per mille dell'ammontare complessivo dei contributi incassati a qualsiasi titolo dalle forme
pensionistiche complementari nel 2011. Lo ha stabilito la Commissione di vigilanza sui fondi pensione con
la deliberazione 23 marzo 2012, pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale” del 3 aprile 2012 n. 79, recante
“Determinazione della misura, dei termini e delle modalità di versamento del contributo dovuto alla COVIP
da parte delle forme pensionistiche complementari nell'anno 2012, ai sensi dell'articolo 1, comma 65 della
legge 23 dicembre 2005, n. 266”.
CNF: inaugurato il corso di formazione Cnf-Dipartimento pari opportunità
Sabato 31 marzo 2012 ha avuto inizio il corso il corso Avvocati a tutela delle donne, organizzato dalla
Fondazione avvocatura italiana, dalla Commissione pari opportunità del Consiglio Nazionale Forense e
dall’Ufficio per la parità e le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Susanna Pisano, coordinatrice della commissione Pari opportunità del Cnf, ha chiarito che “Il problema che
si riscontra nei drammatici casi di violenza sulle donne e sui minori è la mancanza di un approccio
sistematico di gestione anche dei risvolti connessi, che sono giuridici ma anche psicologici e sociali. Il
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protocollo mira a formare legali con competenze multidisciplinari che sappiano agire nella fase di
prevenzione e in quella di assistenza giudiziale”.
Il corso è stato finanziato con le risorse comunitarie destinate alle regioni dell’obiettivo Convergenza e
riguarda 80 giovani avvocati (con meno di 5 anni d’iscrizione all’albo professionale), provenienti dalla
Calabria, Campania, Puglia, Sicilia.
Pubblicata l'intesa sull'apprendistato
Documenti e Approfondimenti
È stato pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” del 31 marzo 2012 n. 77 l’accordo siglato il 15 marzo 2012
tra la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le regioni e le province autonome di Trento e
Bolzano relativo all'apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, ai sensi dell'articolo 3, comma
2, del decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167.
CNF - UE: Sì all'intesa per la creazione di un diritto comune della vendita
Si è chiuso con un'intesa per «la creazione di un diritto comune europeo della vendita», l'incontro tra la
vicepresidente della Commissione europea, nonché commissaria per la Giustizia, i diritti fondamentali e la
cittadinanza, Viviane Reding, e il vicepresidente del Consiglio nazionale forense, Ubaldo Perfetti. «Oggetto
dell'incontro, oltre ad un'overview sull'avvocatura in Italia - si legge in una nota - la creazione del
Common European Sales Law (Cesl), tramite il Regolamento comunitario su un diritto comune opzionale
da applicare ai contratti di vendita nelle operazioni transfrontaliere, approvato dalla Commissione Ue in
ottobre scorso».
«La proposta di un diritto comune europeo della vendita - dichiara la vicepresidente Reding - aiuterà la
ripresa, riducendo le barriere per le imprese e aumentando la fiducia dei consumatori. Questo è
importante soprattutto per il commercio elettronico - ha sottolineato - solo il 4% dei consumatori italiani
compra online da altri Paesi Ue. Questo dato è più basso rispetto alla media Ue del 7%. Un diritto
comune europeo dei contratti potrà essere scelto liberamente da consumatori e imprese nei loro rapporti
commerciali come alternativa al diritto nazionale, quando loro vogliono comprare o vendere al di là dei
confine nazionali. Il 75% degli imprenditori italiani ha dichiarato che userebbe un simile strumento».
«L'avvocatura italiana vuole fermamente cooperare al superamento della crisi economica - afferma
Perfetti - e senza dubbio un quadro di regole certe ed uniformi per tutti gli operatori può facilitare questo
scopo. In questo modo - prosegue - sarà rafforzata la tutela dei consumatori e dei cittadini, obiettivo
proprio della missione costituzionale dell'avvocatura. Il Regolamento Ue, infine, stabilendo regole
uniformi da applicare su base volontaria, consentirà ai legali italiani di ampliare le loro potenzialità
professionali in tutti i paesi dell'Unione. Gli avvocati, inoltre, potranno tanto più contribuire all'efficace
applicazione delle regole Ue garantendo certezza e correttezza nei rapporti economici tra operatori,
quanto più saranno autonomi, indipendenti e lontani da potenziali conflitti di interessi», conclude.
DIVORZIO BREVE: Primo sì dalla Commissione giustizia della Camera, il testo in Aula a maggio
Primo sì di Montecitorio alla legge che accorcia i tempi per ottenere lo scioglimento del matrimonio da tre
a un anno (due in caso ci siano figli minori). La commissione Giustizia della Camera, infatti, ha votato
all'unanimità il mandato al relatore del testo Maurizio Paniz (Pdl) a riferire in Aula.
"C'è stata l'unanimità - ha spiegato al telefono lo stesso Paniz - hanno approvato il testo anche Udc e
Lega. Poi in Aula ci sarà libertà piena di voto. Io avrò molto rispetto per il voto di tutti perché si tratta di
situazioni su cui bisogna votare a seconda dei propri convincimenti". Il testo approderà in Aula a maggio.
AUTOVELOX: Decine di multe annullate a Cremona, notifiche in appalto ai privati
I ricorsi contro il comune di decine di automobilisti sanzionati dall'autovelox di Longardore, provincia di
Cremona, sono stati accolti dal giudice di pace del capoluogo che ha annullato le multe, dando ragione agli
automobilisti che contestavano irregolarità nel procedimento di notifica. Le sanzioni, infatti, erano state
notificate da una società privata e non dalla polizia municipale. L'ultima sentenza ha visto il giudice
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Daniela Badini annullare una multa di 500 euro con sospensione della patente per sei mesi. La procedura
sanzionatoria era stata curata da una società di Rimini, ditta esterna alla quale il comune aveva appaltato
il servizio. La legge, però, prevede che le multe debbano essere notificate direttamente dalla polizia
municipale. Il comune è corso ai ripari e si è attivato per risolvere il problema. Ora la notifica è curata da
un organo di polizia.
MINORI: Dal 26 giugno documento individuale per viaggiare
Dal 26 giugno prossimo bambini e ragazzi minorenni non potranno più viaggiare all'estero, compresa
l'Europa, se non hanno un documento di viaggio individuale. Non sarà più sufficiente, dunque, l'iscrizione
sul passaporto del genitore, titolo di viaggio che rimane comunque valido per lo stesso genitore titolare
fino alla sua naturale scadenza.
Per quanto riguarda il passaporto, al minorenne sarà rilasciato il proprio documento dotato di microchip.
Dai 12 anni in su è prevista anche l'acquisizione delle impronte e la firma digitalizzata. In sede di rilascio
del passaporto individuale al minorenne è inoltre necessario l'assenso di entrambi i genitori, anche in caso
di figli minori naturali conviventi con uno solo dei due o di figli legittimi affidati a uno solo dei due genitori
separati, come ricorda in una circolare la Direzione centrale per i servizi demografici del ministero
dell'Interno riportando indicazioni dei dicasteri Esteri e Giustizia.
Lo stesso principio deve ritenersi applicabile, precisa la direzione, anche in caso di rilascio al minore di
carta di identità valida per l'espatrio.
L'ordinamento italiano si conforma così alla normativa europea - precisa la Direzione centrale
dell'immigrazione e della polizia delle frontiere del ministero in una circolare - ovvero a quanto previsto
dal regolamento (CE) n.444/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 maggio 2009 che
modifica il regolamento (CE) n.2252/2004 del Consiglio sulle caratteristiche di sicurezza e sugli elementi
biometrici dei passaporti e dei documenti di viaggio rilasciati dagli Stati membri
CSM: Salvatore Vitello, vice capo di gabinetto alla Giustizia
Il plenum del Csm oggi ha votato all'unanimità il collocamento fuori ruolo del procuratore della repubblica
di Lamezia Terme Salvatore Vitello, che andrà a ricoprire il ruolo di vice capo di gabinetto del ministro
della Giustizia. Vitello era arrivato a Lamezia nell'estate 2009 ed in questi circa tre anni di permanenza ha
portato a segno numerose operazioni contro la criminalità, ma anche contro le truffe ai danni delle
comunità europea e dei fondi pubblici.
SAPPE: Nel 2011 la polizia penitenziaria ha sventato 1.500 suicidi
«Solo l'anno scorso abbiamo sventato 1500 tentativi di suicidio. Dal '92 invece ne abbiamo evitati oltre
sedicimila». Lo ha detto il segretario generale aggiunto del Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria,
Roberto Martinelli, a margine della protesta davanti al ministero della Giustizia a Roma per chiedere più
risorse economiche, il pagamento degli arretrati e più agenti nelle carceri.
«Purtroppo questi numeri non hanno visibilità mediatica - ha aggiunto - perché metterebbero ancor più in
risalto il problema dell'organico nelle carceri: non ci sono agenti nei posti in cui dovrebbero stare e molto
spesso i colleghi sono costretti a fare lavoro doppio, il tutto a discapito della sicurezza».
Illegittimità costituzionale parziale per l’art. 630 C.P.
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA N. 68/2012
La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell'articolo 630 del codice penale Sequestro di
persona a scopo di estorsione, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita
quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell'azione, ovvero per la particolare
tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.
A parere della Corte: “la descrizione del fatto incriminato dall'art. 630 cod. pen. - rimasta invariata
rispetto alle origini ("chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un
ingiusto profitto come prezzo della liberazione") - si presta, peraltro, a qualificare penalmente anche
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episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di
mira dal legislatore dell'emergenza. Si tratta di fattispecie che - a fronte della marcata flessione dei
sequestri di persona a scopo estorsivo perpetrati "professionalmente" dalla criminalità organizzata,
registratasi a partire dalla seconda metà degli anni '80 dello scorso secolo - hanno finito, di fatto, per
assumere un peso di tutto rilievo, se non pure preponderante, nella più recente casistica dei sequestri
estorsivi. “
Il fatto criminoso può assumere, tuttavia connotati ben diversi da quelli delle manifestazioni criminose che
il legislatore degli anni dal 1974 al 1980 intendeva contrastare: ciò, sia per la più o meno marcata
"occasionalità" dell'iniziativa delittuosa (la quale spesso prescinde da una significativa organizzazione di
uomini e di mezzi); sia per l'entità dell'offesa recata alla vittima, quanto a tempi, luoghi e modalità della
privazione della libertà personale; sia, infine, per l'ammontare delle somme pretese quale prezzo della
liberazione.
Sul punto la Corte ribadisce la propria costante giurisprudenza in ordine al sindacato di legittimità
costituzionale sulla misura delle pene:
“Al pari della configurazione delle fattispecie astratte di reato, anche la commisurazione delle sanzioni per
ciascuna di esse è materia affidata alla discrezionalità del legislatore, in quanto involge apprezzamenti
tipicamente politici. La scelte legislative sono, pertanto, sindacabili soltanto ove trasmodino nella
manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra
fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (ex plurimis, sentenze n. 161 del
2009, n. 324 del 2008, n. 22 del 2007 e n. 394 del 2006).”
Pubblicato il Dpcm con il tetto per gli stipendi dei dipenditi pubblici
È stato pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” del 16 aprile 2012 n. 89 il decreto del presidente del Consiglio
dei ministri 23 marzo 2012 recante “Limite massimo retributivo per emolumenti o retribuzioni nell'ambito
di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con le pubbliche amministrazioni statali”. Il decreto, adottato
in attuazione dell'articolo 23-ter del Dl 6 dicembre 2011 n. 201, ("Disposizioni urgenti per la crescita,
l'equità e il consolidamento dei conti pubblici"), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre
2011 n. 214, fissa il livello remunerativo massimo omnicomprensivo annuo degli emolumenti spettanti a
ciascuna fascia o categoria di personale che riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o
retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con le pubbliche amministrazioni
statali (di cui all'articolo l, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), nonché quelli in
regime di diritto pubblico di cui all'articolo 3 del medesimo decreto legislativo.
A decorrere da oggi, dunque, il trattamento retributivo percepito annualmente, comprese le indennità e le
voci accessorie nonché le eventuali remunerazioni per incarichi ulteriori o consulenze conferiti da
amministrazioni pubbliche diverse da quella di appartenenza non può superare il trattamento economico
annuale complessivo spettante per la carica al Primo Presidente della Corte di cassazione, pari
nell'anno 2011 a euro 293.658,95. Qualora superiore, si riduce al predetto limite.
Tribunale di Messina, maltempo: prorogati i termini
È stato pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” del 16 aprile 2012 n. 89 il decreto 26 marzo 2012 del
ministero della Giustizia recante “Proroga dei termini per il mancato funzionamento di tutti gli Uffici
Giudiziari di Messina”. A seguito, dunque, dell'irregolare funzionamento il 22 febbraio 2012 degli uffici
giudiziari “per la grave situazione determinata dalle avverse condizioni metereologi che”, i termini di
decadenza per il compimento di atti presso il tribunale o a mezzo del personale addetto agi uffici, scadenti
nel giorno indicato o nei cinque giorni successivi, sono prorogati di quindici giorni a decorrere dalla data di
pubblicazione del decreto in “Gazzetta”.
RESPONSABILITÀ CIVILE: Consiglio di Stato, Coraggio: si rischia la paralisi
Rischio «paralisi» per i magistrati con la responsabilità civile delle toghe: «si pensi a un magistrato posto
di fronte al rischio di essere esposto a un'azione di risarcimento per cifre come quelle indicate. Significa
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intimidirlo». Lo dice in un'intervista al Sole 24 Ore Giancarlo Coraggio, neo presidente del Consiglio di
Stato che giovedì si insedierà formalmente nel nuovo incarico.
A questo problema, aggiunge, si aggiunge quello «di lungo periodo» delle risorse: «c'è un'inadeguata
destinazione dei fondi alla giustizia in generale - spiega - e in particolare a quella amministrativa,
ripartizione che si riflette sugli organici dei magistrati e del personale amministrativo. Sia in primo grado
sia in appello il numero dei giudici è inadeguato». Coraggio auspica che non si rivedano solo i carichi di
lavoro in termini quantitativi ma sul piano qualitativo, visto che «ci sono sentenze complesse e altre che
hanno un peso minore».
Pubblicato il Dpr con le modifiche al Testo unico in materia di ordinamento militare
È stato pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” n. 87 del 13 aprile 2012, il Dpr 24 febbraio 2012 n. 40:
“Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo
2012, n. 90, concernente il Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento
militare, a norma dell'articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246. L’entrata in vigore del
provvedimento è fissata per il prossimo 28 aprile 2012.
CNF: richiesta di chiarimenti al Ministero della Giustizia sul nuovo tirocinio
L’articolo 9, comma 6, del decreto legge Cresci-Italia, ha ridotto a 18 mesi il periodo di praticantato valido
ai fini dell’esame e lo ha previsto anche durante il corso di studi universitari.
La nuova disciplina (in vigore dallo scorso 24 gennaio) non ha previsto norme transitorie e per tale motivo
diversi Consigli dell’Ordine degli avvocati hanno rappresentato al Consiglio nazionale forense le difficoltà
incontrate da questi dubbi interpretativi.
Il CNF quindi è stato pertanto costretto a rappresentare al Ministero (con lettera formale successiva a
reiterate richieste avanzate per le vie brevi) questa situazione e chiedere chiarimento sui vari punti oscuri
e contraddittori della normativa.
SOVRAFFOLLAMENTO CARCERI: In commissione Giustizia riparte il "Pacchetto Severino"
La Commissione Giustizia riprende oggi la discussione di uno dei provvedimenti contenuti nel cosiddetto
"pacchetto Severino" per attenuare l'emergenza determinata dal sovraffollamento carcerario e avviare
una "deflazione" nell'ingorgo del sistema penale. Si tratta del Ddl 5019 che in 7 articoli delega al Governo
ad attuare una serie di iniziative in materia di depenalizzazione, pene detentive non carcerarie,
sospensione del procedimento per messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. In merito è
programmata un'audizione del Prefetto Angelo Sinesio Commissario delegato per il superamento della
emergenza esistente in vari istituti penitenziari per la presenza di un numero quasi doppio di detenuti
rispetto alle potenzialità ricettive della struttura.
Lavoro detenuti
Dopo i pareri favorevoli espressi da varie Commissioni al testo messo a punto dalla Commissione Lavoro
sul lavoro per i detenuti (già discusso parzialmente in aula e rinviato in Commissione per
approfondimenti), si attende il parere della Bilancio per completare l'iter referente. In questa
Commissione il relatore Gabriele Toccafondi ha rilevato nei giorni scorsi che la previsione degli sgravi
contributivi per i datori di lavoro che assumono detenuti e altre disposizioni contenute nel testo richiedono
un approfondimento sulla compatibilità finanziaria e ha, quindi, chiesto una relazione tecnica al Governo
sulla copertura finanziaria. In attesa di questo via libera il progetto normativo resta per ora in lista di
attesa.
Convenzione penale su corruzione
La Giustizia ha oggi all'ordine del giorno anche il DDL 5058, già approvato dal Senato, di ratifica della
Convenzione sulla corruzione sottoscritta a Strasburgo nel gennaio del 1999 e ancora in attesa di
recepimento nella normativa italiana. È stata rilevata l'esigenza di procedere in merito non solo in sede
consultiva, ma in seduta congiunta con la Esteri che ha già avviato l'esame. La scorsa settimana Manlio
Contento del PdL ha chiesto uno slittamento dei termini per la presentazione di emendamenti.
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Contrasto corruzione nella PA
Giovedì la Giustizia e la Affari Costituzionali torneranno a riunirsi in seduta congiunta per riprendere il
lungo e tormentato iter del Ddl su prevenzione e contrasto della corruzione nella P.A. da tempo approvato
dal Senato e ampiamente rivisto dai deputati. Si attende di conoscere le propose che farà in merito il
Ministro Paola Severino per rimettere in moto il provvedimento di cui da tempo si sottolinea l'urgenza.
ANF: Grave errore l'esclusione degli avvocati dal tavolo ministeriale per la riforma civile
«Due audizioni di due sottosegretari alla Giustizia, sempre sulla medesima questione: la composizione del
tavolo "Doing business: profili regolatori" recentemente istituito presso il Ministero e finito, appunto, sotto
esame della Commissione Giustizia del Senato, vista l’inclusione dei soli rappresentanti delle imprese e la
esclusione di avvocati e magistrati. Quasi un caso di scuola su come non si debba procedere per giungere
ad una riforma della giustizia civile». Lo dichiara il segretario generale dell’Anf Ester Perifano, in merito
all’audizione odierna del sottosegretario Zoppini in Commissione Giustizia del Senato, sul “caso” del tavolo
tecnico predisposto dal Ministero della Giustizia.
“Il fatto che nel tavolo in questione - continua Perifano - siano stati invitati inizialmente solo i
rappresentanti di categorie produttive (come Abi, Ania, Confindustria, Rete Imprese e Alleanza delle
cooperative) e che a questi sarebbe stato affidato il compito di predisporre testi normativi per accelerare i
tempi del processo civile, e in particolare delle procedure di esecuzione, e i giuristi, cioè gli esperti del
diritto, neppure presi in considerazione, ha giustamente suscitato l’attenzione e preoccupazione del
Parlamento. Certo che da un Governo tecnico, ci si aspetterebbe più perizia».
«Ci auguriamo - conclude Perifano - che sia stata una svista , ma pare che il sottosegretario Zoppini oggi
non sia riuscito a dare alla Commissione Giustizia del Senato i chiarimenti necessari. Così sarà il Ministro,
direttamente, ad illustrare il futuro modus operandi del tavolo e del Ministero, che si è già impegnato a
procedere ad una consultazione fattiva di tutti gli attori del sistema giudiziario, riunendo tutte le parti che
hanno voce in capitolo, per giungere rapidamente ad una buona riforma».
TRIBUNALI: La provincia di Avellino contro la chiusura di Ariano Irpino e Sant'Angelo dei
Lombardi
L'amministrazione provinciale di Avellino, guidata dal presidente Cosimo Sibilia, si schiera contro la
chiusura del tribunale di Ariano Irpino. «L'amministrazione - si legge in una nota - ha sempre mostrato
sensibilità ed attenzione rispetto alle problematiche connesse all'ipotesi di chiusura dei tribunali di Ariano
Irpino e di Sant'Angelo dei Lombardi. Basti ricordare - tra le altre azioni - che lo scorso mese di ottobre, a
Palazzo Caracciolo, fu organizzato un incontro con il sottosegretario alla Giustizia, Caliendo, con i
presidenti dei tribunali di Avellino, Ariano Irpino e Sant'Angelo dei Lombardi, con i tre procuratori della
Repubblica, con i presidenti degli ordini degli avvocati e dell'Oua per discutere delle questioni inerenti le
difficoltà e il futuro dei tribunali stessi».
«Il presidente Sibilia - prosegue la nota - anche nel ruolo di senatore della Repubblica, senza particolari
clamori sta lavorando affinché l'Irpinia possa conservare i suoi preziosi presidi di legalità sul territorio
provinciale, che nel corso degli anni hanno dimostrato l'efficienza degli uffici dei tribunali e delle procure.
Un'efficienza che continua ad essere motivo di vanto per la provincia di Avellino».
«L'amministrazione provinciale - si conclude la nota - con i suoi rappresentanti proseguirà nell'azione di
difesa dei tribunali che insistono sul territorio irpino, evitando di evocare il problema senza individuare
soluzioni praticabili ed evitando per questo anche sterili polemiche in cui evidentemente, considerato il
particolare momento, qualcuno tenta invano di trascinare le istituzioni».
CORRUZIONE: Severino presenta l’emendamento in Commissione
Viene aumentata la pena per la corruzione per esercizio della funzione; il nuovo reato di traffico di
influenza non sostituisce il millantato credito, ma si aggiunge ad esso; vengono previste le necessarie
norme di coordinamento con il codice penale. Sono queste le tre novità dell'emendamento al Ddl
anticorruzione presentato ieri in Commissione dal ministro Paola Severino. Un testo che per il resto
conferma l'impianto della bozza consegnata la scorsa settimana ai partiti.
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PRIVACY: I correttivi del Garante sui controlli fiscali dei conti correnti
Passa il vaglio del Garante sia pure con molti “caveat” lo schema provvedimento del direttore dell’Agenzia
delle entrate riguardante le modalità con le quali le banche dovranno comunicare a fini di controllo fiscale
le informazioni relative ai conti correnti bancari (saldo iniziale e finale, importi totali degli accrediti e degli
addebiti delle numerose tipologie di operazioni effettuate).
Il Garante ha innanzitutto evidenziato che non è in discussione l’esigenza di disporre delle informazioni
necessarie per l’azione di contrasto all’evasione fiscale, ma ha rilevato che l’ingente flusso di dati e la loro
concentrazione presso un unico soggetto rende indispensabili misure di sicurezza di natura tecnica ed
organizzativa particolarmente rigorose, sia per la trasmissione dei dati che per la loro conservazione.
L’Autorità ha dunque chiesto all’Agenzia delle entrate di integrare lo schema con una dettagliata serie di
misure di sicurezza. Gli operatori finanziari e le banche dovranno, in particolare: adottare meccanismi di
cifratura durante tutti i passaggi interni, limitare l’accesso ai file ad un numero ristretto di incaricati,
aggiornare costantemente i sistemi operativi e i software antivirus e antintrusione, prevedere solo in
forma cifrata l’eventuale conservazione dei dati. L’Agenzia delle entrate, da parte sua, dovrà predisporre
canali telematici adeguati alla comunicazioni di una elevata quantità di dati, privilegiando
l’interconnessione diretta con i sistemi informativi di banche e istituti finanziari, preoccupandosi di fornire
agli operatori finanziari indicazioni e accorgimenti per la predisposizione dei file da inviare.
I tempi di conservazione dei dati presso l’Anagrafe tributaria dovranno essere specificati e, una volta
scaduti, dovrà essere prevista la cancellazione automatica. Infine, il Garante si è riservato di effettuare
una verifica preliminare sul provvedimento del Direttore dell’entrate con il quale saranno definiti i criteri e
gli specifici tipi di dati che saranno usati per l’elaborazione delle liste di contribuenti a maggior rischio di
evasione.
L’Autorità ha, inoltre, dato parere favorevole ad un altro schema di provvedimento del Direttore
dell’Agenzia delle entrate riguardante le modalità tecniche di accesso da parte dei Comuni alle banche dati
e di trasmissione delle dichiarazioni dei contribuenti ai fini della partecipazione dei Comuni stessi
all’accertamento fiscale e contributivo. L’Autorità ha richiesto l’adozione di misure tecniche e organizzative
a protezione dei dati dei cittadini, e l’integrazione dello schema in particolare con la definizione delle
modalità di accesso alle banche dati dell’Agenzia del territorio e dell’Inps. Limitatamente a questo aspetto,
il Garante ha chiesto che lo schema gli venga nuovamente sottoposto.
Con i due pareri, e ferma restando l’adozione delle misure di sicurezza indicate, il Garante ha dato così via
libera alla piena e completa attuazione del decreto “Salva Italia” nella parte in cui incrementa i dati a
disposizione dell’Agenzia delle entrate per la lotta all’evasione fiscale.
PRIVACY: Elezioni, le misure sul trattamento dei dati per la propaganda
Il garante della privacy detta le disposizioni sul trattamento dei dati per l'attività di propaganda e in
particolare per quanto riguarda l'esonero della informativa per le elezioni di sindaci consigli comunali del 6
e 7 maggio 2012. Con il provvedimento del 5 aprile 2012, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16 aprile
2012, il Garante dispone che in base al Codice, partiti, movimenti politici, sostenitori e singoli candidati
possono prescindere dal rendere l'informativa agli interessati, sino al 30 settembre 2012, solo se:
a) i dati sono raccolti direttamente da pubblici registri, elenchi, atti o altri documenti conoscibili da
chiunque senza contattare gli interessati, oppure, il materiale propagandistico è di dimensioni ridotte che,
a differenza di una lettera o di un messaggio di posta elettronica, non rende possibile inserire un'idonea
informativa anche sintetica;
b) possono continuare, decorsa la data del 30 settembre 2012, a trattare (anche mediante mera
conservazione) i dati personali raccolti lecitamente secondo le modalità indicate nel predetto
provvedimento del 7 settembre 2005, per esclusive finalità di selezione di candidati, propaganda
elettorale e di connessa comunicazione politica, solo se informeranno gli interessati entro il 30 novembre
2012, nei modi previsti dall'art. 13 del Codice;
c) qualora non informino gli interessati entro il predetto termine del 30 novembre 2012 nei modi previsti
dall'art. 13 del Codice, devono cancellare o distruggere i dati.
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MAGISTRATURA: A spasso 325 giudici, mancano i fondi per il tirocinio
Il concorso per entrare in magistratura a cui hanno partecipato è stato bandito nel 2009, sono stati
dichiarati vincitori nel dicembre dell'anno scorso, ma dopo tanto tempo sono ancora a spasso: è la sorte
toccata a 325 giovani giudici, che ora non possono nemmeno cominciare il tirocinio negli uffici giudiziari
perché le casse della giustizia sono vuote. Una situazione paradossale tenuto conto che in magistratura ci
sono 1200 posti scoperti. E che sei giorni fa ha spinto il ministro della Giustizia Paola Severino, sollecitata
dal Csm a risolvere il problema, a prendere carta e penna e a rivolgersi al ministero dell'Economia per
battere cassa: non abbiamo risorse sufficienti per queste assunzioni, ma quelle che servono possono
essere prese dall'aumento del contributo unificato sulle cause, è il succo della missiva.
I conti sono presto fatti: le risorse rimaste alla giustizia - scrive Severino- consentono l'assunzione solo di
83 magistrati; per assumere i 242 rimanenti e provvedere ai loro stipendi sino al 2014, tenuto conto degli
oneri sociali a carico dell'amministrazione e dell'imposta regionale sulle attività produttive, occorrono 55
milioni di euro.
E il Guardasigilli indica chiaramente all'Economia, di cui resta titolare il premier Monti, da dove prenderli:
«le modifiche introdotte in materia di contributo unificato dal decreto legge n.98/2011, relativamente alla
sola giustizia civile, determinano un nuovo gettito annuo stimato prudenzialmente in complessivi 77,13
milioni di euro». Una somma molto più alta di quella che basterebbe per sbloccare le assunzioni dei 325
magistrati ancora senza posto.
Ammessi 35mila stagionali extraUe
Con il decreto del Presidente del consiglio dei ministri 13 marzo 2012, pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale”
n. 92 di ieri, scatta il via libera per l’ingresso nel nostro Paese di 35mila extracomunitari. Gli stranieri
potranno entrare in Italia secondo il programma dei flussi stagionali previsto per il 2012.
GIUSTIZIA: Impennata dei processi pendenti, penali e civili
Giustizia avanti a passo di lumaca . I dati più recenti del ministero della Giustizia rivelano che nei primi
sei mesi del 2011 c'è stata un'impennata dei processi pendenti, penali e civili. E che la durata media nel
civile di un giudizio d'appello è arrivata nel 2010 quasi a 3 anni (986 giorni), con la punta record negativa
di quattro a Reggio Calabria (1688). Mentre nello stesso anno la prescrizione nel settore penale ha fatto
finire nel nulla 141mila procedimenti, tra reati dichiarati estinti prima di arrivare al processo e sentenza di
proscioglimento per il troppo tempo trascorso. La fotografia di questa situazione arriva dalla Direzione
generale di statistica del ministero della Giustizia. I numeri più eclatanti sono quelli del vistoso incremento
dei processi pendenti: se nel 2010 erano nel penale 3.423.368, nei soli primi sei mesi del 2011 si è
raggiunta quasi la stessa quota, 3.408.312; una cifra persino superiore a quella registrata in ciascuno
degli anni compresi tra il 2006 e il 2009. L'aumento riguarda tutti i distretti giudiziari e non risparmia
neppure la Cassazione (nel 2010 il processi pendenti erano 29.381, sono diventati 28.945 nel primo
semestre del 2011) e in alcuni le pendenze dei primi sei mesi del 2011 hanno addirittura superato quelle
registrate nell'interno anno precedente: è il caso per esempio di Venezia (si è passati da 202.605
pendenze del 2010 a 203.077 al giugno del 2011), Palermo (da 98.501 a 102.871), Firenze (da 201.617 a
207.534), Catania (da 106.862 a 109.810). Ed è aumentata anche la giacenza media dei procedimenti
penali presso gli organi giudicanti, cioè la loro durata; anche in questo caso la giustizia è più lenta
soprattutto nelle Corti d'appello (839 giorni nel 2010 contro i 738 dell'anno precedente); nei tribunali la
media è di 326 giorni (323 nel 2009), negli uffici del giudice di pace 220 giorni (203 nel 2009); mentre è
diminuita nelle procure (384 a fronte di 400 del 2009). Confrontando i dati del 2010 con quelli del 2009, è
in calo il numero dei procedimenti che si sono conclusi con la prescrizione: i reati estinti per questa
ragione in Corte d'appello sono stati nel 2010 14.009 (14.063 nel 2009); le sentenze di non doversi
procedere sempre per questa causa sono state 25.419 (29.081), le sentenze di proscioglimento prima del
dibattimento 1134 (1360); i decreti di archiviazione 97.715 (110.624). Sommando le singole voci, però,
si arriva alla montagna dei 141.453 procedimenti finiti nel nulla. Anche nel civile l’aumento delle
pendenze preoccupa: nel primo semestre del 2011 hanno raggiunto quota 5.527.690 a fronte di
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5.629.869 registrate nell'intero 2010. E per quanto riguarda i tempi dei processi, la giustizia fatica in tutti
i gradi di giudizio, visto che la durata media davanti al giudice di pace è di un anno (erano 324 giorni nel
2009), e davanti al tribunale di 468 giorni (456 nel 2009). I processi più lunghi restano però quelli in
appello. E se è Reggio Calabria ad avere la maglia nera, è purtroppo in buona compagnia, visto che in
tutto sono 10 i distretti in cui un processo dura più di mille giorni: tra gli altri Venezia (1239), Bologna
(1202), Napoli (1171) e Roma (1146).
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ARTICOLI TRATTI DALLE RIVISTE GIURIDICHE DE IL GRUPPO 24 ORE
CONDOMINIO
Ventiquattrore Avvocato, 1.4.2012 - n. 4 - p.9, Il principio dell'apparenza nel condominio, di
Baldacci Michele
la QUESTIONE
Cosa succede quando si scopre che il soggetto che tutti credevano condomino, dopo anni di
presenza in assemblea, in realtà non lo è? Che conseguenze possono esserci qualora non paghi
le quote condominiali dell'appartamento che occupa?
l' APPROFONDIMENTO
Il principio dell'apparenza nel diritto
A volte le situazioni di fatto meritano tutela - è il caso dell'istituto del possesso -, ma a volte necessita
tutela chi si rapporta con situazioni di fatto estremamente verosimili eppure contrastanti con la realtà
giuridica. È il cosiddetto caso dell'apparenza nel diritto, ovverosia la circostanza in cui un soggetto pone in
essere una condotta tale da far ritenere ai terzi che lui sia il titolare di un determinato diritto. In tali
fattispecie il terzo fa affidamento su quanto appare lapalissiano e, lungi dal verificare - ove possibile - la
corrispondenza al vero nel mondo del diritto, si interfaccia con il soggetto come fosse il reale titolare di
tale diritto.
Il legislatore riconosce espressamente la .gura dell'erede apparente (art. 534 c.c.) così come quella del
creditore apparente (art. 1189 c.c.); la giurisprudenza e la dottrina sono solite parlare di falsus procurator
(Cass. 13 dicembre 2004, n. 23199 ) e socio apparente (Cass. 9 settembre 1996, n. 8168), e così ancora
nella disciplina dei contratti, l'annullamento di un contratto non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi in
buona fede (art. 1445 c.c.).
Normativa di riferimento
Codice civile: artt. 113, 534, 1117 ss., 1153, 1189, 1445.
Non si può tuttavia dire che esista un principio generale universalmente riconosciuto e applicabile. Anzi,
l'esistenza di un istituto dell'apparenza che abbia carattere generale è esplicitamente negato dalla
Suprema Corte che in molte sentenze si è espressa nei seguenti termini: «Il principio della tutela
dell'affidamento comporta che chi abbia ingenerato nel terzo ancorché senza mala fede il ragionevole
convincimento sulla ricorrenza di una determinata situazione, produttiva di conseguenze giuridiche
risponde dell'ingannevole apparenza posta in essere. È insegnamento consolidato nella giurisprudenza di
questa Corte che al di fuori dei casi particolari di tutela dell'affidamento da essa suscitato, previsti per
legge, l'apparenza del diritto non integra un istituto di carattere generale con connotazioni definite e
precise ma opera nell'ambito dei singoli istituti giuridici secondo il vario grado di tolleranza di questi in
ordine alla prevalenza dello schema apparente su quello reale» (Cass. 21 giugno 2004, n. 11491. Si
vedano anche Cass. 1° marzo 1995, n. 2311 nonché Cass. 17 marzo 1975, n. 1020). Di contrario avviso
parte della dottrina che ritiene l'apparenza un criterio generale dell'ordinamento giuridico, al quale
attingere per sistemare una serie di situazioni.
A ben vedere, quello che viene tutelato è l'affidamento del terzo in buona fede, secondo il principio per il
quale il soggetto che con la sua condotta ha causato tale affidamento ne risponde in termini di
responsabilità. Caso ben diverso quindi dall'istituto dell'errore che comporta il vizio del consenso e il
conseguente annullamento del contratto posto in essere.
La compatibilità tra il principio dell'apparenza e la disciplina condominiale
Nella disciplina condominiale il principio dell'apparenza entra in gioco ogni qualvolta un soggetto si
comporti da condomino partecipando alle assemblee, pagando gli oneri condominiali, o comunque
ponendo in essere una serie di condotte tali da far ritenere, agli occhi degli altri condomini e/o
dell'amministrazione, di essere realmente il condomino. La fattispecie non è tanto rara quanto si potrebbe
immaginare. Si pensi al caso del genitore che compra l'appartamento alla .glia e lo gestisce in proprio,
ovvero al caso del coniuge che, non proprietario, si occupa dei rapporti con i condomini e con
l'amministrazione.
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In tutte queste circostanze il problema non si pone laddove il rapporto di condominio si svolga senza
intoppi, ma se il condomino apparente smette di pagare gli oneri condominiali? Come potrà
l'amministrazione dello stabile riscuotere un credito da un soggetto che, seppure di fatto sia sempre
apparso come condomino, di diritto non è tenuto a pagare?
La questione è se il principio dell'apparenza possa o meno entrare a pieno titolo nella disciplina
condominiale, anche se non espressamente sancito dalla normativa in materia.
Le tesi favorevoli all'applicazione
Certa giurisprudenza e certa parte della dottrina hanno ritenuto applicabile il principio dell'apparenza alla
disciplina condominiale sulla base di alcune considerazioni. In primo luogo per il fatto che il legislatore
abbia riconosciuto esplicitamente o implicitamente il principio dell'apparenza. In modo esplicito quando
all'art. 534 c.c. viene sancito che sono salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede per effetto di
convenzioni a titolo oneroso con l'erede apparente; ovvero quando all'art. 113 c.c. si dichiara la validità di
un matrimonio celebrato dinanzi a una persona che, senza avere la qualifica di ufficiale dello stato civile,
ne esercita pubblicamente le funzioni (e in questo caso è sufficiente che un solo coniuge sia in buona
fede); o ancora laddove all'art. 1189 c.c. si considera liberato il debitore che in buona fede paghi il
creditore apparente. In modo implicito, nel caso di acquisto di beni mobili ai sensi dell'art. 1153 c.c.,
allorquando viene dichiarato valido l'acquisto in buona fede di beni mobili anche se alienati da chi non ne
è il proprietario (il cosiddetto principio del “possesso vale titolo”).
E a proposito di possesso, è proprio dall'istituto del possesso che molti fanno discendere la vigenza del
principio generale dell'apparenza del diritto nell'ordinamento italiano. Si sostiene che il possesso sia la
dimostrazione di come la situazione di fatto (apparente) sia tutelata senza riguardo verso situazione di
diritto (o, meglio, a prescindere da essa). Le azioni possessorie, volte a ripristinare una situazione di fatto,
sono la concretizzazione di tale principio. L'usucapione poi è il miglior riconoscimento dell'importanza e
della valenza della situazione di fatto rispetto alla situazione di diritto.
Approfondimenti dottrinali
- CAMPAGNOLI, «Convocazione dell'assemblea in caso di decesso del
condomino e vendita dell'immobile», in Ventiquattrore Avvocato, n. 5/2010,
8;
- DE GIORGI, «Apparenza del diritto e affidamento incolpevole», in
Corriere giuridico, n. 4/2005, 532;
- DITTA, «Vendita dell'appartamento e obbligo di informare
l'amministratore», in Consulente immobiliare, n. 718;
- SCRIPELLITI, «L'apparenza nel condominio: il punto sulla questione», in
Archivio delle locazioni e del condominio, n. 1/2007, 7.
D'altro canto, si sostiene, il concetto di pubblicità e quello di apparenza non sono inconciliabili come si
potrebbe pensare. Il fatto che la proprietà di un bene immobile - perché di questo si parla nel contesto
condominiale - sia accertabile in quanto esiste un sistema di pubblicità legale circa la movimentazione
degli immobili, non consente di verificare anche tutte le situazioni derivate che si possono creare circa
quel bene immobile. Si pensi al semplice caso della locazione, così come al caso di una sentenza
costitutiva di un diritto soggettivo di uso del bene immobile, magari a seguito di una separazione
personale dei coniugi.
Secondo certa dottrina l'apparenza non sarebbe pertanto un “fenomeno patologico” bensì un canone
generale applicabile per analogia. Inoltre, la imperfetta organizzazione del sistema di pubblicità rende
necessario un mezzo che supplisca a tali carenze al .ne di garantire la tutela di altri interessi, da
considerarsi eminenti. È il caso della tutela dell'amministrazione condominiale che faccia affidamento su
una situazione palese, evitando in tal modo di appesantire eccessivamente la costituzione di rapporti
giuridici e intralciare la circolazione dei beni. Ancora, secondo tali orientamenti, il principio dell'apparenza
già sarebbe di uso costante nei rapporti condominiali, tutte le volte in cui venga effettuato il pagamento
degli oneri condominiali sulla base di tabelle millesimali apparenti, cioè non corrispondenti all'effettivo
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valore delle proprietà condominiali. Tale situazione di apparenza si concretizzerebbe nella vigenza delle
tabelle stesse per fatti concludenti, senza necessitare di alcune formalizzazioni e senza ulteriore verifica.
Da queste considerazioni parte della giurisprudenza e della dottrina hanno concluso per l'esistenza di un
principio generale dell'apparenza nel diritto, applicabile anche in ambito condominiale.
Le tesi contrarie all'applicazione
Di segno completamente opposto le considerazioni di quella parte della giurisprudenza e della dottrina che
propendono per la non applicabilità del principio dell'apparenza alla materia condominiale.
Analizzando approfonditamente le ragioni per le quali l'apparenza dovrebbe assumere un valore legale, si
è infatti constatato che tale valore è esclusivamente finalizzato alla tutela del terzo che in modo
incolpevole e in assoluta buona fede ha fatto affidamento su una situazione verosimile e ne ha conseguito
un danno. La tutela, in questi casi, si concretizza con il concedere valore legale nei confronti del terzo alle
attività poste in essere - i.e. dal falsus procurator -, tutelando quindi il terzo in buona fede che, se non si
applicasse il principio dell'apparenza, resterebbe pregiudicato nei suoi diritti e nei suoi interessi in quanto
privato di qualsiasi garanzia.
Nella realtà condominiale, al contrario, l'applicazione dell'apparenza rischierebbe di avere conseguenze
addirittura dannose per il condominio (se anche lo si potesse considerare terzo nel rapporto - il che non
è). Infatti, se il condominio agisse per il recupero di crediti condominiali nei confronti del condomino
apparente, non avrebbe la certezza del pagamento, garantito in situazioni normali dal bene immobile
facente parte del condominio. Invece di tutelare maggiormente il terzo in buona fede si finirebbe per
penalizzarlo.
Inoltre, come già detto, il condominio non può essere considerato terzo rispetto al condomino, in quanto il
condominio è soggetto privo di personalità giuridica. La giurisprudenza continua a definirlo “ente di
gestione”, seppure una sentenza a Sezioni Unite, non affermando in positivo cosa sia il condominio, ha
però espressamente detto che non è un ente di gestione (Cass., Sez. Unite, 8 aprile 2008, n. 9148). A
modesto parere di chi scrive - e lo ha già sostenuto in precedenti scritti, anche su questa rivista - il
condominio è una forma speciale di comunione e, come tale, ancor meno può essere considerato terzo
rispetto al singolo condomino che partecipa di tale comunione.
Non vi è pertanto nessun terzo da tutelare, sempre che l'eliminazione di garanzie patrimoniali possa
essere considerata una forma di tutela.
La decisione delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale
sopra evidenziato e si sono espresse con la nota sentenza 8 aprile 2002 n. 5035. In tale pronuncia, oltre a
dare conto delle posizioni contrastanti e delle ragioni dell'uno e dell'altro indirizzo, la Suprema Corte ha
deciso per la non applicabilità del principio dell'apparenza nel diritto condominiale, e questo sia perché il
condominio non può essere considerato terzo nel rapporto con i condomini, sia perché in ogni caso non
merita tutela la situazione apparente nel caso di possibile tutela della situazione reale (il condomino vero
comunque esiste e contro di lui si può procedere coattivamente per le somme dovute, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 1123 c.c. e 63 disp. att. c.c.), sia ancora perché devono essere tenute
distinte le ipotesi non contenziose da quelle contenziose. Se nel diritto sostanziale - ipotesi non
contenziosa - l'amministratore può non andare troppo per il sottile laddove un condomino apparente
corrisponda il dovuto a titolo di oneri condominiali, nel diritto formale - ipotesi contenziosa - la situazione
meramente apparente non può assumere rilievo. Sorge quindi in capo all'amministratore il dovere di
verificare l'effettivo legittimato passivo sui registri immobiliari tenuti presso la conservatoria e l'azione
giudiziaria potrà essere posta in atto solo nei suoi confronti.
E questo anche e soprattutto a garanzia del condominio che, agendo nei confronti del vero proprietario,
potrà veder garantito il suo credito dal bene immobile di proprietà del debitore (nell'opposta ipotesi di
azione nei confronti del condomino apparente, infatti, potrebbe non essere possibile riscuotere il credito
per carenza di beni aggredibili).
Per tali ragioni la sentenza n. 5035/2002 ha concluso, a Sezioni Unite, per la non applicabilità del principio
dell'apparenza del diritto nella disciplina condominiale.
Considerazioni conclusive
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In punto di diritto, pertanto, a seguito della citata pronuncia a Sezioni Unite, si deve ragionevolmente
sostenere che in ambito condominiale non sia applicabile il principio dell'apparenza nel diritto, sia perché
tale escamotage giuridico non assurge a livello di principio generale dell'ordinamento al quale si possa fare
riferimento per analogia, sia perché non vi è alcun terzo da tutelare, sia perché devono essere tenute
distinte le ipotesi contenziose da quelle non contenziose, sia perché la tutela della situazione apparente a
scapito dell'applicazione della situazione reale si potrebbe concretizzare in una riduzione di tutela per chi
si è affidato.
E vi è di più, la Suprema Corte (Cass. 22 giugno 2007, n. 22089) ha anche affermato che il principio
dell'apparenza del diritto in ambito condominiale non può e non deve essere applicato neanche nei giudizi
che vengono decisi secondo equità dal Giudice di pace, in quanto in tal modo il Giudice di pace violerebbe
l'obbligo di osservare i principi informatori della materia condominiale.
la SELEZIONE GIURISPRUDENZIALE
LA GIURISPRUDENZA FAVOREVOLE ALL'APPLICAZIONE
Cassazione civ., Sez. II, 20 marzo 1999, n. 2617
L'amministratore di un condominio può invocare il principio dell'apparenza del diritto, che giustifica il suo
errore di terzo in buona fede, per ottenere il pagamento della quota per spese comuni da colui che si
comporta da condomino - nella specie promissario acquirente di appartamenti dell'edificio condominiale,
trasferitigli coattivamente con sentenza di primo grado, benché non definitiva perché appellata dalla
soccombente controparte, e locati in qualità di proprietario - non avendo l'onere di controllare
preventivamente i registri immobiliari per accertare la titolarità della proprietà.
LA GIURISPRUDENZA CONTRARIA ALL'APPLICAZIONE
Cassazione civ., Sez. II, 19 aprile 2000, n. 5122
Legittimato passivo, rispetto all'azione giudiziale del condominio per il recupero della quota di spese di
competenza di una porzione di piano di proprietà esclusiva, è soltanto il vero proprietario di detta porzione
immobiliare, e non anche chi possa apparire tale, mancando - nei rapporti tra il condominio e i singoli
partecipanti a esso - le condizioni per l'operatività del principio dell'apparenza del diritto, strumentale
essenzialmente a esigenze di tutela dei terzi in buonafede.
Cassazione civ., Sez. II, 27 giugno 1994, n. 6187
In tema di ripartizione delle spese condominiali, è passivamente legittimato, rispetto all'azione giudiziale
per il recupero della quota di competenza, il vero proprietario della porzione immobiliare e non anche chi
possa apparire tale - come uno dei coniugi che curi personalmente ed attivamente la gestione della
proprietà dell'altro coniuge -, difettando, nei rapporti fra il condominio e i singoli partecipanti a esso, le
condizioni per l'operatività del principio dell'apparenza del diritto, strumentale essenzialmente ad esigenze
di tutela dei terzi in buona fede.
LA DECISIONE DELLE SEZIONI UNITE
Cassazione civ., Sez. Unite, 8 aprile 2002, n. 5035
Il principio dell'apparenza del diritto - ancorché rispondente (come ammesso in dottrina, ma soprattutto in
giurisprudenza) a uno schema negoziale di vasta portata, trascendente l'ambito delle singole figure
legislativamente disciplinate e riconducibile a quello più generale della tutela dell'affidamento incolpevole ha, però, una sua innegabile specificità e peculiarità, nel senso che non è suscettibile di incauti impieghi,
specie in relazione a quelle fattispecie che trovano già nella legge una compiuta disciplina, venendo in
considerazione solo in presenza dell'esigenza di tutelare il terzo in buona fede in ordine alla
corrispondenza fra la situazione apparente e quella reale. Nel caso del rapporto tra condominio (che
pacificamente è ente di gestione) e il singolo condomino (proprietario esclusivo di determinate porzioni di
piano o di unità immobiliari dello stabile condominiale) in ordine al pagamento, da parte di quest'ultimo,
della sua quota di spese, sostenute per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio,
per la prestazione di servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, una
esigenza di tutelare al riguardo l'affidamento incolpevole del condominio (che terzo non è) e, quindi, di
dare a tal fine corpo e sostanza a una situazione apparente per non pregiudicare il condominio medesimo,
non si pone affatto. Innanzitutto, il condominio non è terzo ma una parte del rapporto, sicché rispetto a
esso non è possibile convertire la inesistente titolarità del diritto di proprietà nella effettiva titolarità e la
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inesistente legittimazione in una effettiva legittimazione nascente dalla situazione di apparenza. Inoltre, è
da escludere la necessità, ai fini della tutela della buona fede del condominio, di collegare effetti giuridici a
una situazione apparente, come avviene nelle ipotesi di applicazione del principio dell'apparenza del
diritto, dove, in mancanza di tale collegamento, il terzo incolpevole non vedrebbe sorgere il rapporto sulla
cui esistenza e validità aveva senza sua colpa confidato, perché il rapporto giuridico tra il condominio e il
singolo condomino, proprietario esclusivo di unità immobiliari, esiste in ogni caso nella realtà, essendo
espressamente previsto dagli artt. 1123 c.c. e 63 disp. att. c.c.
LA GIURISPRUDENZA SUCCESSIVA ALLE SEZIONI UNITE
Cassazione civ., Sez. II, 12 luglio 2011, n. 15296
In caso di azione giudiziale dell'amministratore del condominio per il recupero della quota di spese di
competenza di una unità immobiliare di proprietà esclusiva, è passivamente legittimato il vero proprietario
di detta unità e non anche chi possa apparire tale, poiché difettano, nei rapporti fra condominio, che è un
ente di gestione, e i singoli partecipanti a esso, le condizioni per l'operatività del principio dell'apparenza
del diritto, strumentale essenzialmente a esigenze di tutela dell'affidamento del terzo in buona fede, ed
essendo, d'altra parte, il collegamento della legittimazione passiva alla effettiva titolarità della proprietà
funzionale al rafforzamento e al soddisfacimento del credito della gestione condominiale.
Cassazione civ., Sez. II, 22 ottobre 2007, n. 22089
Nelle controversie da decidere secondo equità, ai sensi dell'articolo 113, secondo comma, c.p.c., il Giudice
di pace viola l'obbligo di osservare i principi informatori della materia del condominio qualora in materia di
azioni per il recupero delle spese condominiali, nell'individuazione del soggetto tenuto al pagamento,
assuma quale principio generale dell'ordinamento quello dell'apparenza del diritto.
Cassazione civ., Sezione II, 3 agosto 2007, n. 17039
In materia condominiale non trova applicazione il principio dell'apparenza del diritto, strumentale ad
esigenze di tutela dell'affidamento del terzo di buona fede, in quanto non sussiste una relazione di terzietà
tra condominio e condomino. Ne consegue che è tenuto a pagare gli oneri condominiali esclusivamente il
proprietario dell'unità immobiliare e non il conduttore, a nulla rilevando la reiterazione continuativa di
comportamenti propri del condomino.
Per le sentenze di Cassazione si rinvia a: Lex 24 & Repertorio 24 (www.lex24.ilsole24ore.com)
la PRATICA
IL CASO CONCRETO
Si è posto il caso di un immobile in condominio, in cui un soggetto appariva condomino, pagava le quote
condominiali e partecipava alle assemblee, votando e discutendo ogni punto all'ordine del giorno.
In seguito a importanti lavori di ristrutturazione dell'immobile, tale soggetto non ha corrisposto alcune
somme dovute al condominio e pertanto l'amministratore si è rivolto al legale per la riscossione coattiva
della somma. Approfondendo la questione, ci si è resi conto della mancata corrispondenza tra la situazione
di diritto e la situazione di fatto, con conseguenze davvero notevoli per il condominio. Infatti, a tutte le
assemblee era sempre stato invitato il condomino apparente, e non il condomino vero, con ciò generando
deliberazioni annullabili dal condomino che non era stato convocato. Il termine per annullare tali delibere
è di trenta giorni dal momento in cui il condomino è reso edotto dello svolgimento dell'assemblea alla
quale non è stato invitato, e quindi dalla ricezione del verbale di assemblea. Il condominio si trovava
pertanto a correre il rischio dell'esistenza di deliberazioni, di indiscutibile rilevanza economica, ma
potenzialmente annullabili, con tutte le eventuali conseguenze del caso. Il legale ha pertanto deciso di
notificare al vero condomino una diffida ad adempiere alle obbligazioni condominiali derivanti dal suo
status di condomino e dai verbali assembleari che avevano deciso i lavori straordinari, allegandoli tutti alla
diffida. In tal modo si faceva partire il termine di trenta giorni concessi dalla legge per l'impugnazione
delle delibere condominiali annullabili e, trascorso tale termine, si è potuto procedere tranquillamente al
recupero coattivo della somma.
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FAC-SIMILE
TRIBUNALE DI <...>
ATTO DI DIFFIDA
Il Condominio di <...>, Via <...>, in persona del legale rappresentante pro tempore Amministratore <...>
ed elettivamente domiciliato in <...> presso lo Studio Legale <...> nella persona degli Avvocati <...> che
lo rappresentano ed assistono, congiuntamente e disgiuntamente, in virtù di delega a margine del
presente atto
Premesso
1. che il Sig. Tizio è proprietario dell'appartamento sito in <...>, Via <...>, interno <...>;
2. che in data gg/mm/aaaa l'assemblea ordinaria del Condominio di <...>, Via <...>, ha deliberato
l'esecuzione dei lavori di ristrutturazione della palazzina indicati nel capitolato predisposto dall'arch. Caio;
ha approvato il bilancio preventivo dei lavori e la relativa ripartizione delle spese straordinarie;
3. che i lavori sono regolarmente iniziati e stanno procedendo secondo gli stadi di avanzamento
concordati;
4. che il Sig. Tizio non ha corrisposto alcunché delle rate di sua spettanza per il pagamento di tali lavori e,
a oggi, risultano non pagate la prima, la seconda e la terza rata, ciascuna dell'importo di euro=1.500,00=,
scadute rispettivamente in data gg/mm/aaaa, gg/mm/aaaa e gg/mm/aaaa;
5. che, ancora, risulta non pagata la prima rata relativa ai lavori individuali effettuati nella circostanza dei
lavori deliberati, per l'importo di •=xxx,xx=;
6. che in data gg/mm/aaaa l'assemblea ordinaria del Condominio di <...>, Via <...> ha approvato il
bilancio consuntivo per l'esercizio condominiale relativo all'anno aaaa e la relativa ripartizione tra i
condomini, nonché il bilancio consuntivo per il servizio di riscaldamento dell'anno aaaa e la relativa
ripartizione tra i condomini, oltre il bilancio preventivo sia dell'esercizio condominiale aaaa sia del servizio
di riscaldamento per l'anno aaaa, ciascuno con la relativa ripartizione tra i condomini;
7. che alla data odierna non risultano corrisposti dal Sig. Tizio gli importi relativi al conguaglio
riscaldamento aaaa (per euro=xxx,xx=), conguaglio condominio aaaa (per euro=xxx,xx=), la rata
condominiale relativa ai mesi mm/mm aaaa (per euro=xxx,xx=) e la rata condominiale relativa ai mesi
mm/mm aaaa (per euro=xxx,xx=)
8. che, dunque, alla data odierna, il Sig. Tizio, proprietario dell'appartamento sito in <...> alla Via <...>,
interno <...>, è debitore dello stesso Condominio dell'importo di euro=xxx,xx= (icsicsics/xx) oltre le
spese legali per il presente intervento pari a euro=xxx,xx=, come da allegata notula pro forma, e così per
un totale di euro=xxx,xx= (icsicsics/xx).
Tutto quanto ciò premesso, il suddetto Condominio di <...>, Via <...>, in persona del legale
rappresentante pro tempore amministratore <...>, come sopra rappresentato e difeso,
Diffida
Il Sig. Tizio, nato a <...> il gg/mm/aaaa, ivi residente al <...>, int. <...>, a corrispondere al Condominio
di <...> Via <...> la somma di euro=xxx,xx= (icsicsics/xx), come specificata in premesse, con bonifico
bancario ovvero nelle mani dell'Amministratore pro tempore <...>, entro e non oltre dieci giorni dalla data
di notifica del presente atto, con l'avviso che non ottemperando a quanto intimato e nel tempo concesso si
procederà nelle sedi giudiziarie più opportune.
Si allegano:
a) Copia del verbale dell'assemblea del gg/mm/aaaa;
b) Copia del verbale dell'assemblea condominiale del gg/mm/aaaa;
c) Notula pro forma; Salvis Juribus.
Luogo e Data <...>
Firma Amministratore <...>
Firma Avvocato <...>
le SEGNALAZIONI
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In tema di condominio:
• BALDACCI, «Condizionatori e decoro dell'edificio condominiale», in Ventiquattrore Avvocato, n.
2/2012, 8 e 19;
• BALDACCI, «Installazione dell'ascensore», in Ventiquattrore Avvocato, n. 1/2012, 8 e 20;
• BALDACCI, «Condominio minimo», in Ventiquattrore Avvocato, n. 12/2011, 9 e 30.
REATO DI OLTRAGGIO A PUBBLICO UFFICIALE
Ventiquattrore Avvocato, 1.4.2012 - n. 4 - p.15, Oltraggio a pubblico ufficiale, di De Amicis Igor
la QUESTIONE
Quali sono gli elementi differenziatori fra la vecchia e la nuova disciplina dell'oltraggio a
pubblico ufficiale? Quali profili di problematicità afferiscono alla previsione del risarcimento del
danno quale causa di non punibilità?
l'APPROFONDIMENTO
Abrogazione e reintroduzione dell'oltraggio a pubblico ufficiale
La legge n. 94 del 15 luglio 2009 ha reintrodotto nel nostro ordinamento, per il tramite del nuovo art. 341
bis c.p., il reato di oltraggio a pubblico ufficiale precedentemente previsto dall'art. 341 c.p. e abrogato un
decennio addietro dall'art. 18, legge 25 giugno 1999, n. 205.
Tale abrogazione non portò a una depenalizzazione delle offese rivolte a un pubblico ufficiale, le quali
potevano integrare il reato di ingiuria aggravata o minaccia (così Cass. n. 43466/2001 e Cass. n.
11518/1999), ma comportò un'ipotesi di abolitio criminis, con rilevanti conseguenze in ordine a esecuzione
ed effetti penali della revocata sentenza (Cass., Sez. Un., n. 29023/2001).
Il recente intervento legislativo, inquadrabile in un contesto di nuove disposizioni in materia di sicurezza
pubblica, c.d. “pacchetto sicurezza”, non ha mancato di suscitare polemiche e critiche in ambito
dottrinario, le quali hanno evidenziato dubbi in ordine alla ratio della citata reintroduzione e a possibili
profili di incostituzionalità (fra i tanti si veda FLORA , ´Il redivivo oltraggio a pubblico ufficiale: tra
nostalgie autoritarie e “diritto penale simbolico”, in Dir. pen. e proc., 12, 2009).
Si è inoltre sottolineata l'incongruenza di tale fattispecie in relazione a una diffusa e preponderante
concezione costituzionale dell'illecito penale, la quale prevede che la selezione degli oggetti giuridici
meritevoli di tutela penale venga effettuata sulla scorta dei valori costituzionalmente riconosciuti, in cui
difficilmente trova riscontro l'oggetto giuridico della fattispecie in esame, ossia il prestigio della pubblica
amministrazione (così MARTELLA , "Corsi e ricorsi nella disciplina del delitto di oltraggio a pubblico
ufficiale", in www.penale.it).
Lo stesso Legislatore sembra essere consapevole di tale orientamento ambivalente, ciò si evince sia dalla
non riproposizione dell'abrogato art. 344 c.p. (che prevedeva la disciplina dell'oltraggio anche a favore dei
pubblici impiegati incaricati di pubblici servizi), sia dai requisiti di tipicità richiesti dalla nuova fattispecie
che restringono considerevolmente le ipotesi applicative della norma.
Normativa di riferimento
Codice penale: artt. 341 (abrogato), 341 bis.
Elementi e caratteristiche della nuova fattispecie
Il nuovo dettato normativo del reato di oltraggio si caratterizza, prima facie, da un implementazione degli
elementi costitutivi della fattispecie stessa che hanno la finalità di restringere la portata applicativa della
norma rispetto alla precedente previsione.
Proprio dal confronto con l'abrogato art. 341 c.p. si rileva la presenza di difformi condizioni oggettive di
applicabilità, in primis quelle relative al luogo di consumazione del fatto, che deve essere luogo pubblico o
aperto al pubblico. Le due ipotesi sono state ampiamente dibattute dalla giurisprudenza in relazione a
differenti ipotesi di reato (quali fra gli altri gli artt. 527 e 725 c.p.), evidenziando come per luogo pubblico
si debba intendere quel luogo continuativamente libero, di diritto e di fatto, a tutti o a un numero
indeterminato di persone senza alcuna limitazione di accesso o di orario (ex multis Cass., n. 1567/1986),
mentre il luogo aperto al pubblico si caratterizza per un accesso limitato a determinati momenti, o a
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specifiche categorie di soggetti aventi determinati requisiti, oppure è sottoposto all'osservanza di definite
condizioni, poste da chi esercita un diritto sul luogo in questione (Cass., n. 7227/1984; Cass., n.
767/1972).
In tale ultima ipotesi deve ricondursi ad esempio, secondo prevalente giurisprudenza, anche la cella
carceraria (GIONNI, "Oltraggio a pubblico ufficiale", in Riv. pen., 9, 2010, 813), nonostante sia ambiente
ad accessibilità non generalizzata e libera, ma bensì limitata, controllata e funzionalizzata a esigenze non
private.
Ulteriore condizione oggettiva è la necessaria presenza di più persone alla commissione del fatto, le quali
devono essere reali percettori (così la prevalente dottrina, fra cui GATTA , "La resurrezione dell'oltraggio a
pubblico ufficiale", in Il “Pacchetto sicurezza”, Giappichelli, 2009, a cura di Mazza, Vigano, 153 ss.; in
senso contrario BRICCHETTI -PISTORELLI, "Ritorna l'oltraggio a pubblico ufficiale", in Guida dir., 2009,
33, 51) del comportamento oltraggioso (e non solo potenziali, come richiesto dal precedente art. 341 c.p.
che relegava tale elemento a mera circostanza aggravante), in tal modo si elidono le problematicità che
sorgerebbero dall'avere nel soggetto offeso l'unica fonte di prova dell'evento.
Escluse dalla nuova disciplina, in virtù della necessaria presenza di più soggetti, sono anche le ipotesi in
cui l'oltraggio venga perpetrato per il tramite di comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritto o
disegni; infatti tali circostanze (previste nell'abrogato art. 341 c.p.) non sono state riproposte dal
Legislatore nel nuovo dettato codicistico.
La norma in esame richiede inoltre, sempre in un'ottica di limitazione della propria portata applicativa,
una precisa collocazione temporale e funzionale del fatto, il quale deve avvenire mentre il pubblico
ufficiale compie un atto d'ufficio, a causa o nell'esercizio delle sue funzioni.
In tal modo si pongono al di fuori della sfera applicativa le offese relative a comportamenti privati del
soggetto, che altrimenti, laddove venissero valutate come rilevanti, determinerebbero un inammissibile
privilegio del soggetto (tali offese potranno quindi essere perseguite per il tramite della disciplina
dell'ingiuria aggravata).
Approfondimenti dottrinali
- AMATO, «Danno riparato se l'offesa viene risarcita», in Guida dir., 2009, 33,
60;
- AMATO, «La prova della verità del fatto fa cadere l'accusa», in Guida dir.,
2009, 33, 54;
- BRICCHETTI-PISTORELLI, «Ritorna l'oltraggio a pubblico ufficiale», in Guida
dir., 2009, 33, 51;
- FLORA, «Il redivivo oltraggio a pubblico ufficiale: tra nostalgie autoritarie e
“diritto penale simbolico”», in Dir. pen. e proc., 12, 2009, 1449;
- GATTA, «La resurrezione dell'oltraggio a pubblico ufficiale», in Il “Pacchetto
sicurezza”, Giappichelli, 2009 (a cura di Mazza, Vigano), 153 ss.;
- GIONNI, «Oltraggio a pubblico ufficiale», in Riv. pen., 9, 2010, 813;
- MARTELLA, «Corsi e ricorsi nella disciplina del delitto di oltraggio a pubblico
ufficiale», in www.penale.it;
- MARTIELLO, «Il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale: una “riesumazione”
davvero necessaria?», in Ius17, Studi e materiali di diritto penale, 2010, 180
ss.;
- PASSELLA, «Reintroduzione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale», in
Corbetta, Della Bella, Gatta (a cura di), Sistema penale e “sicurezza pubblica”:
le riforme del 2009, Ipsoa, 2009, 35;
- PITTON, «Provocazione e delitto di oltraggio: applicabilità delle disposizioni
sulla legittima reazione del cittadino agli atti arbitrari del pubblico ufficiale», in
Cass. pen., 1999, 11.
Onore e prestigio del pubblico ufficiale
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Considerevole elemento di novità della nuova fattispecie di oltraggio è la tutela congiunta di onore e
prestigio del pubblico ufficiale, che si differenzia nettamente dalla tutela alternativa dei due elementi
prevista dall'abrogato dettato normativo.
Tale nuova previsione, prevedendo un pregiudizio di carattere cumulativo (cfr. MARTELLA , op.cit.),
sembra ribadire con forza la natura plurioffensiva della fattispecie, che, oltre a tutelare il singolo, vuole
garantire il regolare svolgimento dei compiti assegnati al pubblico ufficiale (evidenziando così l'aspetto
pubblicistico della dignità della funzione pubblica).
Per onore si deve intendere l'insieme delle qualità morali della persona, quali lealtà, correttezza, onestà
ecc., mentre il prestigio concerne le qualità proprie del pubblico ufficiale afferenti la funzione svolta, e si
deve distinguere dal “decoro” previsto dal reato di ingiuria di cui all'art. 594 c.p. (Cass., n. 29023/2001).
Per configurarsi il reato di oltraggio non saranno quindi sufficienti offese “generiche” (ad esempio relative
a caratteristiche fisiche o territoriali) o semplici manifestazioni di maleducazione del soggetto agente, ma
sarà necessario che questi leda l'onore e il prestigio del pubblico ufficiale per il tramite di offese rivolte a
qualità connesse con la funzione pubblica svolta.
La valutazione sul configurarsi della fattispecie dovrà tener conto del contesto di riferimento e della
potenziale lesività delle offese in merito alla credibilità del ruolo pubblico rivestito dal soggetto passivo,
laddove non si riesca a individuare compiutamente una lesione del prestigio si potrebbe optare per
l'insussistenza dell'oltraggio, e ripiegare sulla meno grave ipotesi dell'ingiuria aggravata (in tal senso
anche FLORA , op.cit.).
Aggravanti e scriminanti
Unica aggravante prevista dal dato normativo, peraltro già presente nella precedente formulazione, è
quella relativa all'attribuzione di un fatto determinato, che comporterebbe un maggiore nocumento del
prestigio del pubblico ufficiale e un conseguente e connesso aumento del massimo edittale da tre a
quattro anni.
Nello specifico deve trattarsi di una condotta sufficientemente specificata, tale da configurare l'evento
riportato come compiutamente identificato, anche per il tramite di elementi spaziali e temporali (cfr.
MANTOVANI , Diritto penale, Parte speciale, vol. I, Delitti contro la persona, Cedam, 2008). Connessa a
tale circostanza aggravante vi è l'introduzione della scriminante speciale della prova della verità del fatto.
La disciplina della exceptio veritatis, dapprima limitata alle fattispecie di ingiuria e diffamazione (art. 596,
comma 3, c.p.), è ora prevista dal comma 2, dell'art. 341 bis c.p., anche nell'ipotesi in cui per il fatto
determinato, riferito dal soggetto agente, il pubblico ufficiale sia stato condannato dopo l'attribuzione del
fatto medesimo.
Si rileva, in senso critico, come in tali ipotesi non si tengano in alcun conto le modalità di attribuzione del
fatto, cosicché questo permarrà del tutto scriminato anche in presenza di modalità offensive e lesive di
onore e prestigio, al contrario di quanto avviene in caso di diffamazione (art. 596, comma 3 c.p.) dove
l'espresso riferimento normativo ai “modi usati” si concreta in un limite di continenza il cui superamento
rende inoperante l'esimente stessa (Cass., Sez. V, 12 dicembre 1982, Adami). Tale difforme disciplina
rappresenta un'evidente e irrazionale disparità di trattamento ai danni dell'oltraggiato (GATTA, op.cit.).
Ulteriore scriminante applicabile è la reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (art. 393 bis
c.p., precedentemente art. 4, D.Lgs. Lgt. n. 288/1944), che secondo giurisprudenza consolidata (Cass. 27
ottobre 2006, Rv. 235285) rappresenta a tutti gli effetti una causa di giustificazione, con conseguente
applicabilità della disciplina relativa all'ipotesi di circostanza erroneamente supposta (art. 59, comma 4
c.p.).
Gli atti arbitrari del pubblico ufficiale vengono identificati dalla Corte Costituzionale sia negli atti
oggettivamente illegittimi, manifestazione di abuso e prevaricazione, sia in quegli atti che, seppur
formalmente legittimi, si esprimono per il tramite di modalità aggressive, offensive e sconvenienti,
divenendo in tal modo idonei a legittimare la reazione del privato di fronte all'agire del pubblico ufficiale
(Corte Cost. 23 aprile 1998, n. 140).
Significativo il parallelismo, evidenziato in motivazione dalla Corte, fra gli atti arbitrari del pubblico
ufficiale e “il fatto ingiusto altrui” determinante quello stato d'ira che è alla base della scriminante di cui
all'art. 599, comma 2.
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Fra l'atto arbitrario e la reazione da questo generata deve necessariamente esistere un rapporto di
causalità, che tenga conto sia della proporzione fra offesa e reazione, sia dell'immediatezza fra le due.
Infatti laddove non si concretizzassero nel medesimo contesto si legittimerebbero interventi vendicativi
che avrebbero nell'agire del pubblico ufficiale un mero pretesto alla “reazione” del soggetto privato.
Ciò non toglie, tuttavia, che l'arbitrarietà degli atti debba essere valutata nella prospettiva del soggetto
passivo, e che l'esimente della legittima reazione sia integrata ogni qual volta la condotta del pubblico
ufficiale risulti oggettivamente illegittima (per sviamento dell'esercizio di autorità a fronte dello scopo e
delle modalità di attuazione che le sono proprie), a nulla rilevando l'esatta rappresentazione, da parte
dell'ufficiale, dell'illiceità del proprio agire, o della presenza o meno della volontà di commettere un
arbitrio in danno del privato (Cass. n. 10773/2004).
Il risarcimento del danno e la non punibilità del reato
Fonte di notevoli perplessità in ambito dottrinario è il terzo e ultimo comma dell'art. 341 bis c.p., il quale
prevede che nel caso in cui l'imputato abbia, prima del giudizio, riparato interamente il danno, a seguito di
risarcimento tanto nei confronti della persona offesa quanto dell'ente di appartenenza della stessa, il reato
sia da considerarsi estinto.
La riparazione del danno, presente nel nostro ordinamento quale attenuante comune ex art. 62, comma 1,
n. 6 c.p., è stata già prevista come causa estintiva del reato con riguardo ai reati attribuiti alla competenza
del giudice di pace e in una prospettiva conciliativa (cfr. FLORA , op.cit., 1454), ma la sua introduzione
nella fattispecie in esame non può non sollevare profili di contraddittorietà poiché mal si concilia con
un'ipotesi di reato a cui il Legislatore ha deciso di fornire un regime sanzionatorio particolarmente severo
(fino a quattro anni di reclusione in caso di aggravante ex comma 2). Il limite temporale richiesto dalla
norma per intervenire con il tramite del risarcimento è (come anche ex art. 62, comma 1, n. 6) il giudizio;
vale a dire il compimento delle formalità di apertura del dibattimento di primo grado.
Pertanto, al contrario di quanto previsto per il giudice di pace, il giudice ordinario in caso di oltraggio potrà
pronunciarsi per l'estinzione del reato, a seguito di riparazione del danno, senza aver sentito le parti, e
quindi senza la possibilità di valutare fattivamente la sincerità del ravvedimento e l'intento pacificativo del
soggetto.
Ciò sembrerebbe rispondere a una logica essenzialmente deflattiva e a un calcolo di opportunità nel
rifuggire una minacciata e severa responsabilità penale (cfr. MARTIELLO , "Il delitto di oltraggio a pubblico
ufficiale: una “riesumazione” davvero necessaria?", in Ius17, Studi e materiali di diritto penale, 2010,
181).
Possibilità questa che verrebbe inevitabilmente a favorire coloro che avendo una disponibilità economica
maggiore potrebbero più facilmente ottemperare ai profili risarcitori, con una palese e ingiustificata
disparità di trattamento che mal si concilia con il dettato dell'articolo 3 della Costituzione. Ulteriore profilo
di criticità è quello relativo alla valutazione economica del danno poiché nei delitti contro la Pubblica
amministrazione il bene giuridico tutelato, vale a dire il prestigio e l'autorità della medesima Pubblica
amministrazione, risulta difficilmente quantificabile in termini di certezza, liquidità ed esigibilità.
Si tratterà evidentemente di un danno non patrimoniale, che per la sua identificazione e valutazione dovrà
tener conto dei recenti orientamenti della Corte di Cassazione in merito: “Il danno non patrimoniale è
connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui
sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona"
(Cass. civ., Sez. Un., n. 26972/2008).
Le difficoltà legate alla quantificazione e alla valutazione di congruità del danno potrebbero comportare la
non accettazione del risarcimento da parte dei soggetti lesi, a cui l'offensore potrà ovviare con l'offerta
reale (di cui all'art. 1209 c.c.), che, qualora venisse ritenuta congrua dal giudice, comporterà parimenti
l'estinzione del reato.
Sull'accettazione o meno dell'offerta di risarcimento si innesta l'ulteriore problematica della mancata
individuazione del rappresentante in grado di impegnare l'ente.
Laddove tale situazione si perpetuasse, anche a fronte di una mancata individuazione con procedimento
interno delle singole amministrazioni, si potrebbe giungere a una situazione di stasi che pregiudicherebbe
la possibilità del soggetto offensore di percorrere la via di un risarcimento del danno funzionale alla
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pronuncia di estinzione del reato (Cfr. AMATO , ´Danno riparato se l'offesa viene risarcitaTM, in Guida dir.,
2009, 33, 60; che parla significativamente di “stallo processuale”).
Dubbi e critiche di incostituzionalità relativi alla nuova fattispecie
La reintroduzione del reato di oltraggio, come si è avuto modo di dire, ha suscitato più di qualche
perplessità nella dottrina penalistica, la quale da una parte ha evidenziato come tale intervento del
Legislatore sembri inserirsi in un'ottica di impiego “simbolico” della sanzione penale che (a discapito delle
finalità deterrenti) comporterebbe un significativo nocumento delle funzioni preventive (cfr. GATTA , op.
cit., 182), dall'altra ha rilevato numerosi profili di incostituzionalità afferenti la norma in esame.
In primo luogo i dubbi di legittimità costituzionale si sono indirizzati sul bene giuridico tutelato,
evidenziando come il concetto di prestigio della Pubblica amministrazione sia concezione che mal si
concilierebbe con i principi costituzionali di eguaglianza (art. 3) e di attribuzione dal basso della sovranità
istituzionale (art. 1), non ultimo si è dubitato sulla stessa copertura costituzionale del bene tutelato (cfr.
MARINUCCI-DOLCINI, "Costituzione e tutela dei beni giuridici", in Riv. it., 1994, 333 ss). Dubbi e critiche
sul bene tutelato si sono quindi trasposti sulla sanzione prevista dal Legislatore. Nello specifico si rileva un
non corretto bilanciamento tra i valori in gioco (libertà personale ex art. 13 Cost. e prestigio della Pubblica
amministrazione), e una conseguente violazione del principio di proporzione, quale elemento ineludibile
nella costruzione delle fattispecie penali.
Nello specifico una pena detentiva che può raggiungere i quattro anni appare eccessiva per garantire la
tutela di un bene giuridico dalla contestata valenza costituzionale e che presenta profili anacronistici.
Proprio la non attualità del bene tutelato potrebbe comportare un ulteriore profilo di incostituzionalità
rispetto all'art. 27, comma 3, Costituzione, in quanto i soggetti resisi responsabili della violazione
avrebbero difficoltà a percepire la rilevanza del disvalore attribuito dal Legislatore alla fattispecie, in tal
modo vanificando di fatto quella finalità rieducativa che il dettato costituzionale attribuisce alle pene
previste dall'ordinamento.
La rilevanza sanzionatoria della fattispecie in esame contrasta ulteriormente con le corrispondenti sanzioni
previste dall'ipotesi di ingiuria ex art. 594 c.p. (anche se pluriaggravata).
Nello specifico mentre nell'oltraggio ex art. 341 bis c.p., la pena detentiva ha come massimo edittale tre
anni, nell'ipotesi dell'ingiuria (la cui competenza è riservata al giudice di pace) si prevede la sola pena
pecuniaria o una limitata permanenza domiciliare (da sei a trenta giorni) o il lavoro di pubblica utilità (da
dieci giorni a tre mesi). Fra le due ipotesi si rileva, quindi, una considerevole disparità di trattamento che
non può essere razionalmente fondata sulla difformità dei beni giuridici tutelati, il cui disvalore sociale
sembra, al contrario, porsi su piani similari.
Non si è mancato, inoltre, di rilevare l'eccessiva ampiezza dei margini discrezionali di cui gode il giudice
nella quantificazione della pena, ulteriore specchio dei citati dubbi in merito a ragionevolezza e corretto
bilanciamento dei valori.
Considerazioni conclusive
La reintroduzione del reato di cui all'art. 341 bis c.p. sembra rispondere, più che a razionali e compiuti
criteri di politica criminale, a esigenze di un uso simbolico della fattispecie penale, in cui la forma e
l'impatto sull'opinione pubblica sembrano prevalere su considerazioni più pregnanti di carattere
sostanziale.
Lo stesso Legislatore appare consapevole di ciò e affianca alla reintrodotta fattispecie una serie di
previsioni che tendono a limitarne applicazione e sviluppi. In ulteriore contrasto con questa tendenza
limitativa vi è la previsione di un limite edittale eccessivo rispetto al bene giuridico tutelato, la cui
copertura costituzionale è stata da molti contestata, e soprattutto rispetto alla percezione del reale
disvalore del reato.
Su tale interna ed esterna contraddittorietà della fattispecie in esame è auspicabile che si innesti una
giurisprudenza di legittimità volta a un'applicazione ponderata della norma, sia in merito alle ipotesi
applicative sia in merito alla definizione del quantum della pena.
la SELEZIONE GIURISPRUDENZIALE
Stante la recente reintroduzione del reato in questione e la conseguente mancanza di pronunce relative da
parte del giudice di legittimità, per delineare taluni aspetti, vecchi e nuovi, della disciplina dell'oltraggio a
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pubblico ufficiale si fa qui riferimento a pronunce giurisprudenziali relative a differenti fattispecie penali,
che si sono negli anni pronunciate su elementi comuni (luogo pubblico e aperto al pubblico, exceptio
veritatis, reazione ad atti arbitrari ecc).
ABROGAZIONE DELLA FATTISPECIE E CONSEGUENZE
Cassazione pen., Sez. V, 3 dicembre 2001, n. 43466
In tema di oltraggio, la circostanza che all'abrogazione del delitto non abbia fatto
seguito l'introduzione di nuove o diverse figure di reato, non esclude la possibilità
che la condotta già tipica del delitto abrogato possa integrare altra fattispecie
criminosa tuttora prevista e punita dalla legge penale. Ne consegue che deve
ritenersi sussistente il reato di ingiuria aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale (o
di incaricato di pubblico servizio) ogniqualvolta il giudice di merito abbia verificato la
coincidenza delle condotte previste dai due reati, ritenendo che l'offesa al prestigio
del pubblico ufficiale sia esattamente corrispondente - in fatto - all'offesa al decoro,
prevista per il vigente reato di ingiuria.
Cassazione pen., Sez. Unite, 17 luglio 2001, n. 29023
In tema di oltraggio, l'abrogazione degli articoli 341 e 344 c.p., disposta dall'articolo
18, legge 25 giugno 1999, n. 205, integra un'ipotesi di abolitio criminis disciplinata
dall'articolo 2, comma 2, c.p., con la conseguenza che, se vi é stata condanna, ne
cessano esecuzione ed effetti penali e la relativa sentenza deve essere revocata, ai
sensi dell'articolo 673 c.p.p., dal giudice dell'esecuzione, al quale non é consentito
modificare l'originaria qualificazione o accertare il fatto in modo difforme da quello
ritenuto in sentenza, riqualificando come ingiuria aggravata dalla qualità del
soggetto passivo (articoli 594 e 61 n. 10 c.p.) la condotta contestata come oltraggio
e rideterminando, in relazione alla nuova fattispecie penale, la pena già irrogata.
IL REINTRODOTTO OLTRAGGIO EX ART. 341 BIS C.P.
Tribunale di Napoli, Sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 1155
Costituisce oltraggio a pubblico ufficiale esprimere una frase a carattere ingiurioso
nel momento in cui lo stesso compie un atto dell'ufficio. (Banca dati Ipsoa)
LUOGO PUBBLICO
Cassazione pen., Sez. III, 20 febbraio 1986, n. 1567
é luogo pubblico quello continuativamente libero, di diritto o di fatto, a tutti o a un
numero indeterminato di persone, ed é certamente tale il cunicolo di collegamento di
due gallerie di autostrada cui possono accedere sia il personale delle autostrade sia i
viaggiatori che per ventura debbano sostare. (Fattispecie relativa a violenza carnale
e connesso delitto di atti osceni).
LUOGO APERTO AL PUBBLICO
Cassazione pen., Sez. IV, 10 ottobre 1989, n. 13316
Tra il delitto di atti osceni in luogo aperto al pubblico e quello di violazione di
domicilio, e cioé di luogo privato, non sussiste incompatibilità logica, dato che i
luoghi aperti o esposti al pubblico sono di norma luoghi privati, tra i quali possono
essere annoverati quelli di domicilio; invero, deve considerarsi luogo aperto al
pubblico anche un ambiente privato, l'accesso al quale sia escluso alla generalità
delle persone, ma consentita a una determinata categoria di aventi diritto.
(Fattispecie di atti osceni commessi in una autorimessa condominiale annessa e
sottostante ad abitazioni private, di libero accesso solo agli occupanti gli
appartamenti). (Conformi: Cass. n. 7227/1984; Cass., n. 769/1972)
Cassazione pen., Sez. III, 29 settembre 1977, Invidia
Ai fini del delitto di atti osceni la cella carceraria é luogo aperto al pubblico. Infatti,
per luogo aperto al pubblico deve intendersi quell'ambiente anche ad accessibilità
non generalizzata e libera per tutte le persone che vogliano introdurvisi, ma limitata,
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controllata e funzionalizzata a esigenze non private, sempre che sussista la
possibilità giuridica e pratica per un numero indeterminato di soggetti, ancorché
qualificati da un titolo, di accedere senza legittima opposizione di chi sull'ambiente
stesso eserciti un potere di fatto o di diritto. Pertanto, la cella carceraria non può
distinguersi, come luogo di privata dimora del detenuto, da altre parti dello
stabilimento carcerario destinate allo svolgimento della vita di relazione della
popolazione carceraria e del personale di custodia.
“EXCEPTIO VERITATIS”
Cassazione pen., Sez. V, 2 maggio 1985, n. 4135
La prova della verità del fatto diffamatorio, essendo una causa di esclusione della
punibilità per reato concretamente accertato nella materialità del fatto, é operante
ove sia piena e completa, occorre cioé la certezza che il fatto attribuito all'offeso sia
vero in tutti gli elementi che hanno idoneità offensiva. Nell'ipotesi di cui all'art. 596,
comma 3, n. 3, c.p., il giudizio di non punibilità dell'imputato é subordinato alla
prova che tutto il fatto nel suo complesso e nelle sue modalità sia vero, perché la
prova mancata, parziale o insufficiente circa la verità del fatto non esime da pena,
così come non esime da pena l'addebito diffamatorio di fatto vero formato o
travisato in modo da farlo ritenere più disonorevole.
REAZIONE AD ATTI ARBITRARI DEL PUBBLICO UFFICIALE
Cassazione pen., Sez. VI, 9 marzo 2004, n. 10773
L'esimente della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale, di cui all'articolo 4 del
D.Lgs. Lgt. 14 settembre 1944 n. 288, é integrata ogni qual volta la condotta dello
stesso pubblico ufficiale, per lo sviamento dell'esercizio di autorità rispetto allo scopo
per cui la stessa é conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente
illegittima, non essendo di contro necessario che l'agente si rappresenti l'illiceità del
proprio fare e agisca con la volontà di commettere un arbitrio in danno del privato.
(Fattispecie nella quale ufficiali e agenti di polizia giudiziaria avevano proceduto,
incontrando l'attiva resistenza di più persone, al fine di perquisire un locale attribuito
alla disponibilità di un parlamentare, senza l'autorizzazione prescritta dall'articolo 68
della Costituzione ma su specifica disposizione dell'autorità giudiziaria, dalla quale
funzionalmente dipendevano).
Corte Costituzionale 23 aprile 1998, n. 140
Non é fondata, nei sensi di cui in motivazione, la q.l.c. dell'art. 599, comma 2 c.p.,
sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui non é prevista l'applicabilità
della relativa causa di giustificazione al delitto di oltraggio a pubblico ufficiale (la
Corte, dopo aver posto a raffronto la scriminante della reazione degli atti arbitrari del
pubblico ufficiale e quella della provocazione, alla luce, anche, della relativa
evoluzione giurisprudenziale, ha ritenuto che emerga una sostanziale coincidenza tra
l'illegittimità-arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale che ha dato causa
alla reazione oltraggiosa del privato e il fatto ingiusto altrui di cui all'art. 599, comma
2 c.p.).
Per le sentenze di Cassazione si rinvia a: Lex 24 & Repertorio 24
(www.lex24.ilsole24ore.com).
la PRATICA
IL CASO CONCRETO
Tribunale Napoli, Sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 1155
In data 14 marzo 2010 militari appartenenti alla Compagnia CC. omissis fermavano
per controllo la conducente del motociclo Honda SH 150 tg. omissis, alla quale
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venivano contestate le contravvenzioni di cui all'art. 171 comma 3 e 180 comma 1 e
7 lett. B) C.d.S., perché circolava a bordo del citato mezzo priva del casco protettivo
e sprovvista di patente di guida.
Nel mentre gli operanti redigevano il verbale e procedevano al fermo amministrativo
del motociclo, la conducente rivolgeva ripetutamente ai verbalizzanti parole del
seguente tenore: “Ste guardie di merda che non fanno un cazzo quanto le schifo!”.
La soluzione accolta dal Tribunale
Visti gli estremi del fatto, il Tribunale ha ritenuto indubbia la sussistenza del delitto
di oltraggio a pubblico ufficiale di cui all'art. 341 bis c.p., evidenziando in
motivazione la presenza di tutti gli elementi di cui in fattispecie: il carattere
ingiurioso dell'espressione, il luogo pubblico, la volontà di offendere l'onore e il
decoro dei militari, il verificarsi dell'evento nel mentre e a causa del compimento di
un atto del loro ufficio. Passaggio rilevante in motivazione si riscontra nel momento
della quantificazione della pena, in cui, oltre a prevedere le attenuanti generiche (in
ragione dell'assenza di precedenti penali), si afferma significativamente la “necessità
di adeguare il trattamento sanzionatorio al reale disvalore del fatto”, in tal modo
confermando implicitamente quei dubbi esistenti in dottrina relativi all'eccessivo
trattamento sanzionatorio previsto dalla fattispecie in esame e all'assenza di un
corretto bilanciamento dei valori coinvolti.
le SEGNALAZIONI
In tema di reati contro la giustizia:
• DE AMICIS, «Induzione a tacere o a rendere dichiarazioni mendaci», in Ventiquattrore Avvocato, n.
2/2012, 14 e 89.
SANZIONI AMMINISTRATIVE
Ventiquattrore Avvocato, 1.4.2012 - n. 4 - p.16, Le Sezioni Unite in tema di sanzioni
amministrative relative al Codice della strada, di Passanisi Silvia
la QUESTIONE
In caso di opposizione a sanzione amministrativa derivante dalla violazione del Codice della
Strada, il giudice può applicare d'ufficio una sanzione di importo superiore a quella fissata
dall'Amministrazione?
l'APPROFONDIMENTO
Le sanzioni amministrative: premessa
Il vigente Codice della strada apre il Titolo VI, Capo I, dedicato agli illeciti amministrativi e alle relative
sanzioni, con una previsione di carattere generale (art. 194), con la quale richiama, per la disciplina delle
sanzioni amministrative, le disposizioni generali della legge di depenalizzazione n. 689/1981, disposizioni
da ritenersi applicabili, salve le deroghe previste dalle specifiche norme dello stesso Codice.
Accanto alla sanzione amministrativa pecuniaria, prevista come sanzione principale da determinarsi entro i
limiti edittali fissati dall'art. 195, il Codice prevede la possibilità di applicare sanzioni amministrative
accessorie di carattere non pecuniario, disciplinate dagli artt. 210 e ss., relative a obblighi di compiere,
sospendere o cessare determinate attività ovvero concernenti il veicolo o i documenti di circolazione e la
patente di guida.
Contro tali sanzioni è possibile fare opposizione, qualora non si sia optato per il pagamento in misura
ridotta nei casi in cui è consentito, attraverso ricorso al prefetto ovvero in alternativa al giudice di pace. La
sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento viene disposta dal giudice, se richiesto e sentite le
parti, con ordinanza non impugnabile, quando ricorrono gravi e circostanziate ragioni, esplicitamente
indicate nella motivazione (art. 5 D.Lgs. 1° settembre 2011, n. 150).
Contro l'ordinanza-ingiunzione di pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria, gli interessati
possono proporre opposizione entro il termine di trenta giorni dalla notificazione del provvedimento, o di
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sessanta giorni dalla stessa, se l'interessato risiede all'estero, ai sensi dell'art. 205, come modificato
dall'art. 6, D.Lgs. n. 150/2011.
Sulla disciplina dettata dal Codice della strada, interessata da un intervento di modifica del Legislatore a
opera della legge 29 luglio 2010, n. 120, nonché da alcune modifiche apportate dal D.Lgs. 1° settembre
2011, n. 150, la Corte di Cassazione è frequentemente intervenuta nel tempo, anche a Sezioni Unite, al
.ne di risolvere le questioni interpretative insorte e di meglio delineare il significato di numerose
previsioni: ne è derivato un quadro normativo fortemente arricchito dal contributo giurisprudenziale di
nomofiachia. Occorre, pertanto, passare in rassegna alcune delle pronunce più recenti, che hanno
investito le norme del Codice della Strada, ancor prima dell'ultima modifica apportata dal D.Lgs.
150/2011, norme che continuano ad applicarsi alle controversie pendenti alla data di entrata in vigore del
decreto, suscitando l'interesse della giurisprudenza, .no al punto di richiedere l'intervento chiarificatore del
Supremo Collegio.
Potere del giudice di rideterminare l'entità della sanzione: Sezioni Unite n. 25304/2010
Un intervento particolarmente rilevante della Suprema Corte si è assestato di recente sulla questione
relativa al potere del giudice, in sede di opposizione alla sanzione amministrativa, di determinare l'entità
della sanzione, aumentandola, in assenza di espressa richiesta dell'amministrazione.
In particolare, le Sezioni Unite hanno affermato che in caso di opposizione al verbale di contestazione di
una violazione del Codice della strada ai sensi dell'art. 204 bis , il giudice, adito in alternativa al ricorso al
prefetto, nel rigettare detta opposizione può anche d'ufficio, in assenza di espressa domanda da parte
dell'amministrazione in ordine alla determinazione della misura della sanzione, quantificare, in base al suo
libero convincimento, la sanzione pecuniaria che non sia predeterminata normativamente, in misura
congrua, tra il minimo e il massimo edittale.
La Corte si trova, nel caso di specie, a risolvere una questione nuova, definita dallo stesso Supremo
Consesso «questione di massima importanza».
In passato la giurisprudenza ha infatti affermato che, in caso di reiezione dell'opposizione, il giudice fosse
legittimato a determinare in senso migliorativo per l'opponente la misura della sanzione, recependo in tal
senso le osservazioni svolte dall'interessato, anche nell'ipotesi in cui la P.A. fosse tenuta per legge a
determinare la sanzione con un limite non inferiore a una data soglia. Tuttavia, la questione odierna
affrontata dalla Corte è diversa, poiché concerne l'esercizio del potere sanzionatorio del giudice in senso
ampio, al .ne di verificare se tale potere possa essere esplicato in senso favorevole ovvero sfavorevole per
il ricorrente e se possa comunque essere esercitato solo su apposita domanda di parte o anche d'ufficio.
Dalla lettura combinata del 5° e del 7° comma dell'art. 204 bis , e in particolare dalla previsione secondo
cui «il giudice non può applicare una sanzione inferiore al minimo edittale stabilito dalla legge», contenuta
nel 7° comma, si dovrebbe dedurre, a parere di alcuni autori, il potere del giudice, nel momento in cui
rigetta il ricorso, di determinare la sanzione secondo il suo libero convincimento solo in diminuzione,
poiché altrimenti non si comprenderebbe l'esigenza del Legislatore di fissare espressamente l'invalicabilità
del limite edittale della sanzione solo con riferimento al minimo e non anche al massimo. Se il potere del
giudice potesse essere esplicato anche in aumento, il Legislatore avrebbe certamente avvertito la
necessità di indicare esplicitamente nella norma citata anche il limite massimo della sanzione. Le Sezioni
Unite, invece, con la sentenza in commento, riconoscono in pieno il potere del giudice di determinazione
della sanzione pecuniaria, potere che può essere esplicato non solo diminuendo l'entità della sanzione in
senso favorevole all'opponente, ma anche aumentandone l'importo in malam partem . Siffatto potere
trova fondamento proprio nella legge, poiché il principio del libero convincimento, espressamente
menzionato dall'art. 204 bis , comma 7, sarebbe privo di significato, ove dovesse ritenersi sussistente un
appiattimento sul minimo edittale. A conferma della propria affermazione, la Cassazione richiama anche la
recente giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale ha sottolineato «il ruolo non marginale rivestito
- ai .ni della coerenza complessiva e della funzionalità del sistema di accertamento e repressione delle
infrazioni stradali - dalla possibilità spettante al giudice di pace di determinare, anche in misura pari al
minimo edittale, l'entità della sanzione pecuniaria irrogabile in caso di rigetto del ricorso» (C. Cost. 30
gennaio 2009, n. 23).
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Anche la Corte Costituzionale ha, quindi, ritenuto sussistente la possibilità per il giudice di agire secondo il
proprio libero convincimento, determinando la sanzione tra il massimo e il minimo edittale, posto che un
libero convincimento esplicato solo in bonam partem non avrebbe alcuna ragione giustificatrice. Il
convincimento del giudice, infatti, può formarsi in modo realmente “libero” solo se esso può indirizzarsi in
tutte le direzioni, scevro da condizionamenti.
Normativa di riferimento
D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285: artt. 194, 195, 200, 201, 202, 203, 204, 204 bis, 205; Legge 24
novembre 1981, n. 689: artt. 22 e 23.
Il richiamo al principio del libero convincimento nella determinazione della sanzione determina inoltre che,
rigettata l'opposizione e in assenza di una predeterminazione normativa, il giudice possa applicare anche
d'ufficio la sanzione ritenuta congrua, pur nel rispetto dei limiti edittali, senza che occorra una specifica
richiesta a opera dell'amministrazione opposta.
La necessità di una espressa domanda relativa alla misura della sanzione da parte della P.A. viene dedotta
da un parallelismo tra le posizioni delle parti nel giudizio: così come il giudice può ridurre la sanzione
risultante dalla legge solo in caso di richiesta dell'opponente, analogamente la può determinare in
aumento solo se richiesta dall'amministrazione opposta.
La Cassazione afferma invece che un tale parallelismo non può essere considerato coerente con la diversa
posizione delle parti nel procedimento di opposizione, posto che l'opponente privato deve affidare a motivi
specifici, anche relativamente alla misura della sanzione, le sue doglianze, laddove l'Amministrazione può
limitarsi a ribadire la legittimità del proprio operato.
Al contrario, nel confermare che non vi è violazione del principio dispositivo, si sottolinea che il
fondamento del potere officioso del giudice va rinvenuto nello stesso principio del libero convincimento, il
quale consente a questi di esercitare il proprio potere con il solo vincolo del rispetto dei limiti edittali
(Cass. civ., Sez. Un., 15 dicembre 2010, n. 25304).
Inapplicabilità del foro erariale al giudizio di appello: Sezioni Unite n. 23285/2010
Con altra recente pronuncia a Sezioni Unite, la Cassazione è intervenuta su un diverso tema, di portata
più generale, che investe la disciplina dei giudizi di opposizione ai provvedimenti irrogativi di sanzioni
amministrative, dettata dalla legge n. 689/1981 (come successivamente integrata e modificata dal D.Lgs.
n. 507/1999 e dal D.Lgs. n. 40/2006), la quale, come detto in premessa, è applicabile anche agli illeciti
amministrativi derivanti dalla violazione delle disposizioni del Codice della strada, in virtù dell'espresso
richiamo a essa operato dall'art. 195 cod. str.
Nel modificare gli artt. 22 e 23 legge n. 689/1981, il Legislatore si è limitato ad assoggettare ad appello le
sentenze e le ordinanze previste da tali norme, originariamente solo ricorribili direttamente in Cassazione,
senza disporre altro.
Ne deriva l'applicazione al giudizio di gravame delle norme che disciplinano il giudizio di primo grado, in
quanto compatibili, in ossequio al principio generale fissato dall'art. 359 c.p.c. l'introduzione di una deroga
a tale principio avrebbe richiesto una esplicita disposizione in tal senso, che invece non è riscontrabile.
Pertanto, così come, in relazione al primo grado di giudizio di opposizione, deve escludersi l'applicazione
della regola del c.d. foro erariale, di cui all'art. 25 c.p.c., analogamente è a dirsi per il giudizio in sede di
gravame.
Come già affermato in passato dalla Cassazione a Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., 2 luglio 2008, n.
18036), infatti, non è da escludersi che la disciplina del foro erariale sia derogata per effetto di specifiche
disposizioni del Legislatore, ogni volta che si palesi l'intento di determinare la competenza per territorio
sulla base di elementi diversi rispetto a quelli risultanti dalla regola del foro erariale e, perciò, destinati a
prevalere su questa.
Pertanto, la regola del foro erariale non è applicabile ai giudizi di appello avverso i provvedimenti del
giudice pronunciati in materia di sanzioni amministrative, prevalendo la regola speciale prevista dal
Legislatore per il procedimento di primo grado, cioè la competenza del giudice del luogo in cui è stata
commessa la violazione (Cass. civ., Sez. Un., 18 novembre 2010, n. 23285).
Infrazioni del proprietario del veicolo: Sezioni Unite n. 16276/2010
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Con la decisione in commento, le Sezioni Unite si pronunciano sull'applicabilità della sanzione accessoria
della decurtazione dei punti della patente di guida a carico del proprietario del veicolo, non conducente.
Nel risolvere detta questione, la Cassazione richiama la sentenza della Corte Costituzionale n. 27/2005 (C.
Cost. 24 gennaio 2005, n. 27), intervenuta a dichiarare l'illegittimità costituzionale, per contrasto con il
principio di ragionevolezza, dell'art. 126 bis , comma 2, cod. str., nella parte in cui disponeva che, in caso
di mancata identificazione del conducente autore della trasgressione e di mancata successiva
comunicazione dei relativi dati personali e di abilitazione alla guida da parte del proprietario del veicolo,
quest'ultimo avrebbe subito la sanzione della decurtazione del punteggio della patente.
Posto che, anche ai sensi delle disposizioni generali della legge n. 689/1981, la responsabilità solidale del
proprietario non conducente con il soggetto che pone in essere la violazione è configurabile solo per le
sanzioni aventi carattere patrimoniale, la norma censurata sembra priva di ragionevolezza, poiché pone a
carico del proprietario, e solo perché tale, un'autonoma sanzione, personale e non meramente
patrimoniale, di carattere indubbiamente affiittivo, prescindendo da una concreta trasgressione da parte di
tale soggetto (Cass. civ., Sez. Un., 12 luglio 2010, n. 16276).
Uniformandosi al decisum di costituzionalità, le Sezioni Unite affermano che il proprietario del veicolo il
quale, senza giustificato e documentato motivo, ometta di fornire i dati personali e della patente del
conducente al momento dell'infrazione, è assoggettato alla sola sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 126
bis , comma 2, cod. str., non potendosi procedere nei suoi confronti alla decurtazione dei punti dalla
patente di guida (in senso analogo, Cass. civ., Sez. Un., 21 ottobre 2009, n. 22235).
Notifica al trasgressore in caso di variazione di residenza: Sezioni Unite n. 24851/2010
La questione sottoposta alla Corte concerne il momento a partire dal quale decorre il termine entro cui, ai
sensi dell'art. 201 cod. str., il verbale contenente la contestazione di infrazione deve essere notificato al
trasgressore, allorché questi abbia mutato residenza.
La rimessione alle Sezioni Unite si giustifica a causa di un contrasto interpretativo riscontrato in
giurisprudenza. Secondo un primo orientamento, infatti, il termine decorre sempre dal momento in cui il
trasgressore ha chiesto l'annotazione del cambio di residenza agli uffici dello stato civile
dell'amministrazione comunale, indipendentemente dall'eventuale analoga segnalazione anche alla
motorizzazione civile.
Per un secondo orientamento, invece, il cittadino che muti la propria residenza ha l'obbligo di segnalare la
circostanza sia agli uffici dello stato civile sia alla motorizzazione, dovendosi ravvisare in capo a esso una
sorta di dovere di collaborazione con la P.A.: ove egli non provveda in tal senso, il termine per la notifica
decorre dall'annotazione del cambio di residenza nei registri della motorizzazione, non rilevando
l'eventuale precedente analoga annotazione presso l'anagrafe comunale. Per risolvere il contrasto, le
Sezioni Unite richiamano le norme che vengono in rilievo nella fattispecie in esame. Le norme applicabili
sono: l'art. 201, comma 1, e l'art. 94, comma 1 e 2, cod. str. e l'art. 247 del D.P.R. n. 610/1996, c.d.
regolamento di esecuzione e di attuazione del Codice della strada, nonché la Circolare del Ministero
dell'Interno n. 1 del 1997.
Secondo quanto risulta dal quadro normativo richiamato, e in particolare dalla circolare ministeriale, i
cittadini, compilando il modello predisposto per il cambio di residenza o di domicilio, contenente i dati
relativi alla patente e ai mezzi di loro appartenenza, assolvono all'obbligo di aggiornare sia la patente di
guida sia la carta di circolazione del veicolo di cui hanno la disponibilità.
Inoltrata la richiesta, i cittadini non sono tenuti a presentare domanda di aggiornamento della carta di
circolazione presso gli uffici della motorizzazione civile, ma devono solo attendere che il comune
comunichi l'accoglimento della richiesta e l'avvenuta registrazione negli elenchi anagrafici e che l'ufficio
centrale operativo della direzione generale della motorizzazione trasmetta per posta alla nuova residenza
il tagliando di convalida da apporre sulla carta di circolazione.
Ne deriva, a parere della Corte, che il dies a quo del termine per la notifica del verbale di contestazione
delle violazioni del Codice della strada, nel caso in cui il destinatario abbia mutato residenza, provvedendo
a far ritualmente annotare la relativa modifica soltanto negli atti dello stato civile e non anche nel Pubblico
Registro Automobilistico, va individuato nella data di annotazione della variazione di residenza negli atti
dello stato civile.
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Pertanto, la notifica del verbale è da ritenersi tempestiva solo quando non sia decorso il termine con
riferimento alla variazione anagrafica, conseguente alla rituale domanda di cambio di residenza con
l'indicazione dei dati relativi ai veicoli di appartenenza, e non anche quando il relativo termine sia
computato a partire dall'annotazione nel P.R.A. o nell'Archivio Nazionale Veicoli (Cass. civ., Sez. Un., 9
dicembre 2010, n. 24851).
Efficacia probatoria privilegiata del verbale di accertamento: Sezioni Unite n. 17355/2009
Altra questione che ha impegnato i giudici della Suprema Corte è quella inerente l'efficacia probatoria del
verbale di accertamento della violazione redatto dal pubblico ufficiale.
Con pronuncia a Sezioni Unite, ripercorrendo peraltro un proprio risalente precedente giurisprudenziale
(Cass. civ., Sez. Un., 25 novembre 1992, n. 12545), la Cassazione conferma che, nel giudizio di
opposizione promosso ai sensi dell'art. 23, legge n. 689/1981 e dell'art. 204 bis cod. str. avverso sanzioni
amministrative, il processo verbale costituisce atto pubblico, in quanto forma necessaria dell'esternazione
dell'atto di accertamento che il pubblico ufficiale compie sulla base dell'attribuzione normativa di uno
specifico potere di documentazione.
Tale atto, infatti, produce effetti costitutivi sostanziali, prima che processuali, in quanto soltanto a seguito
dell'accertamento in esso contenuto può essere determinata la sanzione pecuniaria dovuta alla pubblica
amministrazione.
In qualità di atto pubblico, esso fa piena prova .no a querela di falso della provenienza del documento dal
pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico
ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti (art. 2700 c.c.). Né può dirsi che l'affermazione
della fede privilegiata del verbale di accertamento determina un pregiudizio all'esercizio del diritto di
difesa nel procedimento di opposizione, posto che l'interessato può comunque impugnare l'atto con la
querela di falso, ricorrendo ai normali mezzi di prova. Tuttavia, nonostante la giurisprudenza sia stata
tendenzialmente costante nel riconoscere l'efficacia di prova legale al verbale di contestazione, divergenze
si sono registrate in ordine alla categoria degli “apprezzamenti personali” del pubblico ufficiale, che
possono far parte del contenuto del verbale. L'efficacia legale non si estende, infatti, alle valutazioni
espresse dal pubblico ufficiale e alla menzione di fatti avvenuti in sua presenza, che possano risolversi in
apprezzamenti personali, poiché trattasi di accadimenti mediati da una percezione sensoriale dinamica, la
quale non consente una verifica secondo parametri obiettivi e senza alcun margine di apprezzamento.
E la questione si è soprattutto posta proprio in tema di circolazione stradale, nella quale la percezione
dinamica dei fatti integranti la violazione è certamente più frequente (basti pensare al rilevamento del
numero di targa di un autoveicolo in movimento).
A parere della pronuncia in commento, il fenomeno della percezione dinamica, al pari di quella statica, è il
frutto di un'attività complessiva del pubblico ufficiale, che va valutata secondo la sua esperienza e la sua
professionalità.
Inoltre, il riferimento alla nozione di “apprezzamento personale” si presenta privo di attendibilità,
conducendo a una lesione del superiore interesse della certezza giuridica dell'attività svolta dai pubblici
ufficiali e delle esigenze di garanzia del buon andamento della P.A., per il cui perseguimento il Legislatore
ha ritenuto necessario tipizzare il contenuto del verbale.
La correlazione tra il dovere di indicare nel verbale l'elemento fattuale della violazione e l'efficacia che
l'art. 2700 c.c. attribuisce ai fatti che il pubblico ufficiale attesta nell'atto comporta che tale efficacia
privilegiata concerna inevitabilmente tutti gli accadimenti relativi alla violazione richiamati nell'atto,
indipendentemente dalle modalità, statica o dinamica, della loro percezione. Ne consegue che
un'eventuale contestazione nel giudizio di opposizione è ammissibile soltanto in relazione a circostanze
che esulano dall'accertamento ovvero rispetto alle quali l'atto non può assumere fede privilegiata per una
sua irrisolvibile oggettiva contraddittorietà. Resta invece soggetto al giudizio di querela di falso, volto a
verificare la correttezza dell'operato del pubblico ufficiale, ogni questione inerente all'alterazione del
verbale, anche se involontaria o accidentale, nonché della realtà degli accadimenti e dell'effettivo svolgersi
dei fatti (Cass. civ., Sez. Un., 24 luglio 2009, n. 17355).
Riparto di giurisdizione e decurtazione dei punti dalla patente: Sezioni Unite n. 20544/2008
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Nella decisione in esame, la Cassazione affronta la questione relativa al riparto di giurisdizione tra giudice
ordinario e giudice amministrativo, in riferimento al provvedimento di decurtazione dei punti dalla
patente, e quella del collegamento di tale sanzione con il pagamento in misura ridotta. In ordine alla
prima questione, la pronuncia si occupa del tentativo, operato dall'amministrazione accertante, di attrarre
nell'orbita della giurisdizione amministrativa i procedimenti di opposizione alla decurtazione dei punti dalla
patente di guida e quelli di opposizione all'eventuale sospensione della patente a seguito della avvenuta
perdita di detti punti.
Ad avviso della P.A., infatti, il provvedimento di decurtazione dei punti non atterrebbe all'accertamento
della violazione stradale, considerato che esso è effettuato proprio allorché detto accertamento si è
concluso, anche all'esito dell'eventuale giudizio di opposizione: i procedimenti con cui si contesti la
legittimità della decurtazione dei punti non configurerebbero giudizi di opposizione a sanzioni
amministrative per violazioni del codice della strada e, pertanto, sarebbero da attribuire alla giurisdizione
amministrativa.
Di diverso avviso, tuttavia, si dimostrano le Sezioni Unite, le quali, in primo luogo, affermano che la
decurtazione dei punti costituisce una sanzione amministrativa conseguente alla violazione di norme sulla
circolazione stradale.
La natura di sanzione amministrativa viene affermata attraverso il richiamo alla previsione contenuta
nell'art. 126 bis cod. str., secondo cui il punteggio di venti punti, attribuito alla patente all'atto del rilascio,
subisce decurtazioni a seguito della comunicazione all'anagrafe nazionale (art. 225 cod. str.) della
violazione di una delle norme per le quali è prevista la sospensione della patente ovvero di una delle
norme di comportamento di cui al titolo V del Codice.
Partendo da tale assunto - invero motivato in modo piuttosto scarno - le Sezioni Unite risolvono la
questione del riparto di giurisdizione, affermando l'applicabilità della legge n. 689/1981, e delle relative
norme sulla giurisdizione del giudice ordinario, anche alla sanzione della decurtazione dei punti.
L'opposizione giurisdizionale, prevista nelle forme di cui agli artt. 22 e 23 legge n. 689/1981, costituisce
rimedio di carattere generale esperibile, salvo disposizioni in deroga, contro tutti i provvedimenti
sanzionatori in tema di sanzioni amministrative relative alla circolazione stradale, compresi quelli relativi
alla sospensione della patente di guida o precursori di essa, tra i quali vi è la decurtazione dei punti.
Sarebbe irragionevole ammettere tale forma di tutela solo nel caso di sospensione della patente e non
anche con riferimento a una fattispecie prodromica, che si configura come naturalmente destinata a
precedere e a condurre alla sospensione: si assisterebbe a una divaricazione di tutela priva di ragione
giustificatrice e in contrasto con l'omogeneità del sistema sanzionatorio del Codice della strada.
Successivamente, la Corte passa a esaminare la seconda questione sottopostale, in ordine alla relazione
tra la sanzione della decurtazione dei punti e il rimedio del pagamento in misura ridotta. Dal quadro
normativo di riferimento (artt. 202, 203, 204 bis , cod. str.), emerge che, in tema di sanzioni
amministrative pecuniarie, il pagamento in misura ridotta, solo se effettuato nei sessanta giorni dalla
contestazione o dalla notificazione, preclude il ricorso amministrativo o giurisdizionale. Qualora, in difetto
del preventivo versamento della somma in misura ridotta, il procedimento giurisdizionale sia stato
correttamente avviato, il successivo pagamento del medesimo importo, anche se avvenuto prima della
scadenza del termine previsto dalla legge, non svolge alcuna influenza sul giudizio in corso, a meno che
non si accompagni a una formale rinuncia all'impugnazione. Tuttavia, proprio per la formulazione dell'art.
202 cod. str., secondo cui il pagamento in misura ridotta della sanzione amministrativa pecuniaria non
influenza l'applicazione delle eventuali sanzioni accessorie, deve ritenersi che per esse non vi è
preclusione all'opposizione al prefetto o al giudice ordinario come conseguenza dell'avvenuto pagamento
ridotto.
Ne deriva che tale pagamento in misura ridotta non influenza le sanzioni accessorie, quale la decurtazione
dei punti, e non impedisce le opposizioni che abbiano a oggetto esclusivamente tali sanzioni, senza porre
in discussione la sanzione pecuniaria, poiché siffatto pagamento comporta un'implicita rinuncia a far
valere qualsiasi contestazione solo in ordine alla sanzione patrimoniale irrogata e alla violazione
contestata.
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E tanto era accaduto nella fattispecie all'esame della Corte, avendo l'opponente contestato davanti al
giudice non la violazione ascrittagli o la sanzione pecuniaria inflitta (per la quale aveva provveduto al
pagamento in misura ridotta), ma l'illegittimità della sanzione accessoria della decurtazione dei punti, a
causa della mancata istituzione dei corsi per il recupero del punteggio (Cass. civ., Sez. Un., 29 luglio
2008, n. 20544).
Confisca del veicolo: Sezioni Unite Penali n. 23428/2010
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte si è pronunciata in ordine alla natura giuridica della
confisca del veicolo, prevista in caso di condanna per la contravvenzione del rifiuto di sottoporsi agli
accertamenti alcolometrici, ai sensi dell'art. 186, comma 7, cod. str., e per quella di guida in stato di
ebbrezza, ai sensi dell'art. 186, comma 2, lett. c), cod. str.
La normativa sulla circolazione stradale, interessata negli anni da diversi interventi legislativi, ha visto
l'introduzione della confisca nelle fattispecie considerate a opera del D.L. n. 92/2008, convertito in legge
n. 125/2008. Il Legislatore, sotto la spinta del forte allarme sociale derivante dai sempre più frequenti
incidenti scaturenti dall'abuso di sostanze alcoliche, ha non solo introdotto questa misura particolarmente
rigorosa, ma anche ripristinato la sanzione penale per l'ipotesi del rifiuto di sottoposizione ad alcoltest,
fattispecie in precedenza depenalizzata.
Da subito si è posto, tuttavia, il problema della sua qualificazione giuridica, al .ne di verificarne l'ambito di
applicazione.
Parte della giurisprudenza di legittimità si è orientata nel senso di riconoscere a tale confisca natura di
misura di sicurezza patrimoniale, in ragione dell'espresso riferimento contenuto nella versione originaria
dell'art. 186, comma 2, lett. c) all'art. 240 c.p.
Conseguentemente, la stessa giurisprudenza ha affermato altresì la possibilità di disporre la misura
ablativa anche in relazione alle violazioni consumate prima della sua entrata in vigore, ricordando che le
misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, ai sensi dell'art.
200, comma 1, c.p. e che sono sottratte al principio costituzionale di irretroattività della legge.
Diversamente, secondo altra impostazione, il riferimento all'art. 240 c.p. avrebbe il solo scopo di rimarcare
l'obbligatorietà della confisca, ovvero il Legislatore avrebbe inteso far rientrare la con.sca in esame tra
quelle disciplinate dall'art. 240, comma 2, nel quale essa non si inserirebbe automaticamente, atteso che
il veicolo non è riconducibile ad alcuna delle categorie di beni individuate da tale disposizione.
Ma ancor più problematica è apparsa la qualificazione della confisca prevista dall'art. 186, comma 7, per il
caso in cui il guidatore si rifiuti di sottoporsi ai test alcolometrici, fattispecie sulla quale sono state
chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite.
Tale norma infatti si presta a maggiori equivoci, derivanti dall'accostamento della confisca alla sanzione
della sospensione della patente di guida, espressamente qualificata dal Legislatore con la formula di
“sanzione amministrativa”.
Le Sezioni Unite, nel risolvere il contrasto interpretativo, escludono la natura amministrativa della misura
ablativa e chiariscono altresì che la stessa non possa essere ritenuta una misura di sicurezza patrimoniale,
bensì una sanzione penale accessoria. Siffatta qualificazione deve, peraltro, essere attribuita non solo alla
confisca prevista per il rifiuto dei test alcolometrici, ma anche per quella configurata in relazione alla
fattispecie di guida in stato di ebbrezza.
L'evoluzione normativa che ha interessato la fattispecie dimostrerebbe la natura sanzionatoria della
confisca in questione, introdotta da ultimo dal Legislatore, dopo la previsione di aumenti edittali di pena,
al .ne di arginare il fenomeno della guida sotto l'effetto di sostanze alcoliche, rivelando una spiccata
funzione afflittiva, destinata a rendere più severo l'apparato sanzionatorio nel suo complesso. E analoga
intentio legis è certamente ravvisabile nella diversa ipotesi dell'art. 186, comma 2, lett. c). Dalla
qualificazione della confisca del veicolo come sanzione penale accessoria ne discende, in ossequio al
principio di legalità della pena, il divieto di irrogazione della stessa in riferimento a fatti consumati
anteriormente all'entrata in vigore delle norme che la introducono.
Sul tema affrontato dalle Sezioni Unite è intervenuta anche la Corte Costituzionale e, da ultimo, il
Legislatore.
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Con sentenza n. 196/2010, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 186,
comma 2, lett. c), limitatamente alle parole «ai sensi dell'art. 240, comma 2, c.p.». In tale occasione, il
Giudice delle leggi ha ricordato la necessità di verificare la natura delle misure, prescindendo dalla
qualificazione operata dal Legislatore, al .ne di impedire che soluzioni di segno repressivo, e quindi con i
caratteri propri delle pene in senso stretto, si prestino a essere qualificate come misure di sicurezza, con
la conseguenza di eludere il principio di irretroattività valido per le prime e non per le seconde (C. Cost. 4
giugno 2010, n. 196).
L'intervento della Consulta ha riguardato solo la confisca prevista per la guida in stato di ebbrezza, ma le
considerazioni espresse sono certamente applicabili anche alla confisca prevista dall'art. 186, comma 7,
che, come affermato dalle Sezioni Unite, con la prima condivide la natura e la ratio .
È infine intervenuto il Legislatore, il quale sembrerebbe aver posto .ne alla questione interpretativa
insorta.
La legge n. 120/2010, recependo il dictum del Giudice delle leggi, ha innanzi tutto eliminato dal testo
dell'art. 186, comma 2, lett. c) ogni riferimento all'art. 240 c.p., confermando per il resto la previsione
della confisca obbligatoria del veicolo, salvo che esso appartenga a persona estranea al reato.
Ma la novella ha altresì aggiunto un inciso con il quale si rinvia, ai .ni del sequestro del veicolo destinato
alla confisca, a quanto disposto dell'art. 224 ter cod. str., introdotto dalla stessa legge. Quest'ultima
norma detta la disciplina del sequestro e precisa che tale disciplina si applica nelle ipotesi di reato per cui
è prevista la “sanzione amministrativa accessoria” della confisca del veicolo. In tal modo il Legislatore ha,
dunque, ribadito che la confisca è una sanzione, ma ha per la prima volta affermato che si tratta di una
sanzione amministrativa e non penale (Cass. civ., Sez. Un., 25 febbraio 2010, n. 23428).
Considerazioni conclusive
Alla luce dell' excursus giurisprudenziale esaminato, si comprende come la materia degli illeciti
amministrativi derivanti dalle violazioni del Codice della strada e delle relative sanzioni applicabili ponga di
continuo agli interpreti questioni di particolare rilievo, che necessitano dell'intervento esplicativo della
Suprema Corte.
Le questioni affrontate dalle sentenze esaminate nel presente scritto rappresentano alcuni degli interventi
più significativi della Cassazione degli ultimi anni sulla tematica delle sanzioni amministrative. Le norme
sulla circolazione stradale, manipolate a più riprese dal Legislatore, allo scopo di dare una risposta più
adeguata al mutamento della realtà sociale e di correggere in modo più incisivo l'illiceità, e incise dagli
interventi della Corte Costituzionale, chiamata spesso a censurare alcune disposizioni del Codice, non
potevano non preludere all'intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, le quali hanno dovuto nel tempo
risolvere le questioni interpretative sorte all'interno degli uffici giudiziari, al .ne di offrire una risposta
unitaria ed esaustiva.
la SELEZIONE GIURISPRUDENZIALE
FAC-SIMILE
Ufficio del Giudice di Pace di <...>
RICORSO EX ART. 204 BIS DEL CODICE DELLA STRADA
(opposizione avverso verbale di accertamento)
Il signor <...>, nato a <...> il <...>, residente in <...>, via <...>, n. <...>,
codice .scale: <...>, elettivamente domiciliato in <...>, via <...>, n. <...>,
presso lo studio dell'avvocato <...>, che lo rappresenta e difende giusta
procura a margine del presente atto e che dichiara di voler ricevere le
comunicazioni relative al presente procedimento al proprio numero di telefax
<...> ovvero all'indirizzo di posta elettronica certificata <...>.
Premesso che
in data <...>, i Vigili Urbani del Comune di <...> notificavano al ricorrente,
conducente del veicolo tipo <...>, di targa <...>, verbale di contravvenzione n.
<...> del <...>, per violazione dell'art. <...> c.d.s., per aver <...>, applicando
una sanzione pecuniaria di euro <...> e una diminuzione di punti della patente
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pari a <...>.
Tanto sottoposto, il signor <...>, come sopra elettivamente domiciliato,
rappresentato e difeso,
ricorre
alla S.V. Ill.ma affinché voglia, contrariis reiectis, previa emissione di ordinanza
di sospensione degli effetti del verbale di accertamento, accogliere il presente
ricorso e annullare il suddetto verbale, condannando il convenuto alle spese e
ai compensi del giudizio, per i seguenti motivi:
Il fatto non è stato immediatamente contestato e non è stata indicata la causa
della mancata contestazione immediata.
Ai .ni istruttori, il concludente:
A) offre in comunicazione il verbale di accertamento impugnato;
B) chiede disporsi prova testimoniale.
Salvis iuribus
Si dichiara, ai sensi dell'art. 14, comma 2, D.P.R. n. 115/2002, che il valore
della presente causa è di euro <...> e pertanto si versa il contributo di euro
<...>, oltre a euro 8,00 per spese forfetizzate.
Luogo e data <...>
Sottoscrizione del difensore <...>
le SEGNALAZIONI
In tema di Codice della Strada:
• DE FEO, «Sospensione cautelare della patente di guida», in Ventiquattrore Avvocato, n. 4/2011, 16 e
103.
• BRUCOLI-DANIELE «Revisione della patente per azzeramento dei punti», in Ventiquattrore Avvocato,
n. 11/2011, 16 e 105.
• CONZ, «Guida in stato di ebbrezza e lavoro di pubblica utilità», in Ventiquattrore Avvocato, n. 9/2011,
15 e 92.
• DE FEO, «Sospensione dell'esecuzione del verbale di infrazione», in Ventiquattrore Avvocato, n.
4/2011, 16 e 103.
RASSEGNA LEGISLATIVA (classificata per argomento)
AGEVOLAZIONI
COMITATO INTERMINISTERIALE PER LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA, DELIBERAZIONE 20
gennaio 2012 (G.U. n. 82 del 6-4-2012)
Presa d'atto del programma attuativo regionale (PAR) della regione autonoma del Friuli Venezia Giulia,
Fondo per lo sviluppo e la coesione 2007-2013 (Delibere nn. 166/2007, 1/2009 e 1/2011). (Deliberazione
n. 10/2012). (12A03939)
COMITATO INTERMINISTERIALE PER LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA
DELIBERAZIONE 20 gennaio 2012 (G.U. n. 83 del 7-4-2012)
Presa d'atto del programma attuativo provinciale (PAP) della Provincia autonoma di Trento - Fondo per lo
sviluppo e la coesione 2007-2013 (Delibere n. 166/2007, n. 1/2009 e n. 1/2011). (Deliberazione n.
11/2012). (12A03943)
DELIBERAZIONE
20
gennaio
2012
(G.U.
n.
88
del
14-4-2012)
Fondo per lo sviluppo e la coesione. Imputazione delle riduzioni di spesa disposte per legge. Revisione
della pregressa programmazione e assegnazione di risorse, ai sensi dell'articolo 33, commi 2 e 3, della
legge n. 183/2011. (Deliberazione n. 6/2012). (12A04227)
COMITATO INTERMINISTERIALE PER LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA , DELIBERAZIONE 20
gennaio 2012 (G.U. n. 89 del 16-4-2012)
Presa d'atto del programma attuativo regionale (PAR) della Regione Veneto nell' ambito del Fondo per lo
sviluppo e la coesione 2007-2013, (Delibere nn. 166/2007, 1/2009 e 1/2011). (Deliberazione n.
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9/2012). (12A04206)
COMITATO INTERMINISTERIALE PER LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA , DELIBERAZIONE 20
gennaio 2012 (G.U. n. 89 del 16-4-2012)
Ripiano del disavanzo sanitario della regione Molise nell'ambito del Fondo per lo sviluppo e la coesione.
Modifica della delibera n. 82/2011. (Deliberazione n. 12/2012). (12A04239)
AMBIENTE
MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, DECRETO 29 marzo 2012 (G.U. n. 77 del 31-32012)
Norme in materia di stoccaggio strategico di gas naturale. (12A03815)
MINISTERO DELL'AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE, DECRETO 15
marzo 2012 (G.U. n. 77 del 31-3-2012)
Approvazione del formulario per la comunicazione relativa all'applicazione dell'articolo 29-terdecies,
comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, in attuazione della direttiva 2008/01/CE relativa
alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento. (12A03738)
ANAGRAFE
MINISTERO DELL'INTERNO, DECRETO 19 gennaio 2012, n. 32 (G.U. n. 76 del 30-3-2012)
Nuovo regolamento di gestione dell'Indice nazionale delle anagrafi. (12G0052)
BANCHE
MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, DECRETO 26 marzo 2012 (G.U. n. 77 del 31-32012)
Fondazioni bancarie. Misure dell'accantonamento alla riserva obbligatoria e dell'accantonamento
patrimoniale facoltativo per l'esercizio 2011. (12A03771)
BANCA D'ITALIA, PROVVEDIMENTO 28 dicembre 2011 (G.U. n. 86 del 12-4-2012)
Modifica al regolamento del 24 ottobre 2007 in materia di vigilanza prudenziale per le SIM. (12A04161)
CIRCOLAZIONE STRADALE
LEGGE 22 marzo 2012, n. 33 (G.U. n. 79 del 3-4-2012)
Norme in materia di circolazione stradale nelle aree aeroportuali. (12G0053)
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, PROVVEDIMENTO 27 febbraio 2012
(G.U. n. 84 del 10-4-2012)
Modifiche al disciplinare per le scorte tecniche alle competizioni ciclistiche su strada, approvato con
provvedimento del 27 novembre 2002 e successive modificazioni e integrazioni. (12A04000)
CIRCONDARI DEI TRIBUNALI
LEGGE 29 marzo 2012, n. 39
Modifiche dei circondari dei tribunali di Pesaro e di Rimini. (12G0058)
(G.U. n. 86 del 12-4-2012)
COMUNICAZIONI
AUTORITA' PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI, DELIBERAZIONE 30 novembre 2011
(G.U. n. 77 del 31-3-2012
Misura e modalità di versamento del contributo dovuto all'Autorita' per l'anno 2012. (Deliberazione n.
650/11/CONS). (12A03765)
AUTORITA' PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI, DELIBERAZIONE 8 marzo 2012 (G.U. n.
83 del 7-4-2012)
Consultazione pubblica concernente l'individuazione delle piattaforme emergenti ai fini della
commercializzazione dei diritti audiovisivi sportivi, ai sensi dell'articolo 14, del d.lgs. 9 gennaio 2008, n. 9
e dell'articolo 10 del regolamento adottato con delibera n. 307/08/CONS. (Deliberazione n.
103/12/CONS). (12A03804)
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AUTORITA' PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI, DELIBERAZIONE 8 marzo 2012 (G.U. n.
83 del 7-4-2012)
Approvazione della proposta di impegni presentata dalla societa' Telecom Italia s.p.a., ai sensi della legge
n. 248/2006, di cui al procedimento sanzionatorio n. 3/11/DIR. (Deliberazione n. 110/12/CONS).
(12A03805)
AUTORITA' PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI, DELIBERAZIONE 15 marzo 2012 (G.U.
n. 86 del 12-4-2012)
Avvio di una indagine conoscitiva propedeutica alla definizione delle linee-guida sul contenuto degli
ulteriori obblighi del servizio pubblico generale radiotelevisivo per il triennio 2013-2015, ai sensi dell'art.
45, comma 4 del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici. (Deliberazione n.
130/12/CONS). (12A04060)
AUTORITA' PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI, DELIBERAZIONE 15 marzo 2012 (G.U.
n. 92 del 19-4-2012)
Approvazione definitiva della lista degli eventi di particolare rilevanza per la società di cui è assicurata la
diffusione su palinsesti in chiaro. (Deliberazione n. 131/12/CONS). (12A04305)
COMUNICAZIONI TELEMATICHE
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DECRETO 28 dicembre 2011 (G.U. n. 77 del 31-3-2012)
Avvio delle comunicazioni e notificazioni per via telematica presso il Tribunale di Aosta - settore civile.
(12A03424)
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DECRETO 28 dicembre 2011 (G.U. n. 77 del 31-3-2012)
Avvio delle comunicazioni e notificazioni per via telematica presso il Tribunale di Biella - settore civile.
(12A03426)
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DECRETO 28 dicembre 2011 (G.U. n. 77 del 31-3-2012)
Avvio delle comunicazioni e notificazioni per via telematica presso il Tribunale di Termini Imerese - settore
civile. (12A03502)
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DECRETO 26 gennaio 2012 (G.U. n. 77 del 31-3-2012)
Avvio delle comunicazioni e notificazioni per via telematica presso il Tribunale di Asti - settore civile.
(12A03425)
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DECRETO 26 gennaio 2012 (G.U. n. 77 del 31-3-2012)
Avvio delle comunicazioni e notificazioni per via telematica presso il Tribunale di Prato - settore civile.
(12A03500)
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DECRETO 26 gennaio 2012, (G.U. n. 77 del 31-3-2012)
Avvio delle comunicazioni e notificazioni per via telematica presso il Tribunale di Perugia - settore civile.
(12A03501)
AUTORITA' PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI, DELIBERAZIONE 15 febbraio 2012 (G.U.
n. 81 del 5-4-2012)
Approvazione del bilancio di previsione per l'esercizio 2012. (Deliberazione n. 81/12/CONS). (12A03891)
CONFESSIONI RELIGIOSE
LEGGE 12 marzo 2012, n. 34 (G.U. n. 80 del 4-4-2012)
Modifica della legge 12 aprile 1995, n. 116, recante approvazione dell'intesa tra il Governo della
Repubblica italiana e l'Unione cristiana evangelica battista d'Italia, in attuazione dell'articolo 8, terzo
comma, della Costituzione. (12G0054)
EDILIZIA
COMITATO INTERMINISTERIALE PER LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA, DELIBERAZIONE 20
gennaio 2012 (G.U. n. 82 del 6-4-2012)
Accordi di programma con le regioni Abruzzo, Calabria e Lazio nell'ambito del Piano nazionale per l'edilizia
abitativa. (ex art. 4, decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 16 luglio 2009). (Deliberazione n.
5/2012). (12A03940)
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ELEZIONI AMMINISTRATIVE
LEGGE 5 aprile 2012, n. 36 (G.U. n. 84 del 10-4-2012)
Conversione in legge del decreto-legge 27 febbraio 2012, n. 15, recante disposizioni urgenti per le elezioni
amministrative del maggio 2012. (12G0060)
ENERGIA
MINISTERO DELL'AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE, DECRETO 7 marzo
2012 (G.U. n. 74 del 28-3-2012)
Adozione dei criteri ambientali minimi da inserire nei bandi di gara della Pubblica Amministrazione per
l'acquisto di servizi energetici per gli edifici - servizio di illuminazione e forza motrice - servizio di
riscaldamento/raffrescamento. (12A03470) (Suppl. Ordinario n. 57)
MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, DECRETO 15 marzo 2012 (G.U. n. 78 del 2-4-2012)
Definizione e qualificazione degli obiettivi regionali in materia di fonti rinnovabili e definizione della
modalità di gestione dei casi di mancato raggiungimento degli obiettivi da parte delle regioni e delle
provincie autonome (c.d. Burden Sharing). (12A03600)
ENTI LOCALI
MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, DECRETO 9 marzo 2012 (G.U. n. 75 del 29-32012)
Certificazione relativa al rispetto degli obiettivi del patto di stabilita' interno per l'anno 2011 delle province
e dei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti. (12A03422)
CONFERENZA PERMANENTE PER I RAPPORTI TRA LO STATO LE REGIONI E LE PROVINCE
AUTONOME DI TRENTO E BOLZANO, ACCORDO 15 marzo 2012 (G.U. n. 77 del 31-3-2012)
Accordo ai sensi dell'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167, tra il
Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano per la regolamentazione dei profili
formativi dell'apprendistato per la qualifica e il diploma professionale. (Repertorio atti n. 58).
(12A03526)
CONFERENZA UNIFICATA, INTESA 15 marzo 2012 (G.U. n. 77 del 31-3-2012)
Intesa, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e le
Province autonome di Trento e Bolzano e le Autonomie locali sul documento recante «Infezione da HIV e
detenzione». (Rep. Atti n. 33/CU). (12A03687)
GIOCHI PUBBLICI
MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, DECRETO 5 marzo 2012 31 (G.U. n. 73 del 27-32012)
Nuove disposizioni per le modalita' del gioco del lotto. (12A03515)
GIUSTIZIA
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA , DECRETO 26 marzo 2012 (G.U. n. 89 del 16-4-2012)
Proroga dei termini per il mancato funzionamento di tutti gli Uffici Giudiziari di Messina. (12A04298)
IMU
MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, DECRETO 5 aprile 2012 (G.U. n. 84 del 10-42012)
Aggiornamento dei coefficienti per la determinazione del valore dei fabbricati di cui all'articolo 5, comma
3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, agli effetti dell'imposta municipale propria (IMU)
dovuta per l'anno 2012. (12A04152)
LAVORO
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MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, COMUNICATO (G.U. n. 74 del 28-32012)
Avviso relativo al decreto recante «Criteri e modalita' per la determinazione del contributo a favore degli
enti ai sensi della legge 40/87 per l'anno 2012». (12A03681)
DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 7 febbraio 2012 (G.U. n. 79 del 3-42012)
Individuazione delle strutture e dei posti di funzione di livello dirigenziale non generale del Ministero del
lavoro e delle politiche sociali, nonché rideterminazione delle dotazioni organiche del personale
appartenente alle qualifiche dirigenziali di seconda fascia e di quello delle aree prima, seconda e terza.
(12A03816)
MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, DECRETO 13 marzo 2012 (G.U. n. 83 del
7-4-2012)
Criteri concessivi per aziende commerciali con oltre 50 addetti, agenzie di viaggio e turismo compresi
operatori turistici con piu' di 50 dipendenti e imprese di vigilanza con piu' di 15 dipendenti. (Decreto n.
64781). (12A03806)
LEGGE 22 marzo 2012, n. 38 (G.U. n. 86 del 12-4-2012)
Modifiche al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in materia di diritti e prerogative sindacali di
particolari categorie di personale del Ministero degli affari esteri. (12G0055)
MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, DECRETO 3 aprile 2012 (G.U. n. 86 del 12-42012)
Riparto tra l'INPS, congiuntamente al soppresso INPDAP e l'INAIL, dell'importo dei risparmi di spesa
previsti dall'articolo 4, comma 66, della legge 12 novembre 2011, n. 183. (12A04160)
MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, COMUNICATO (G.U. n. 84 del 10-42012)
Determinazione del costo orario del lavoro per i lavoratori delle cooperative del settore socio-sanitario
assistenziale educativo e di inserimento lavorativo, con decorrenza gennaio e ottobre 2012. (12A04057)
DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 13 marzo 2012 (G.U. n. 92 del 19-42012)
Programmazione transitoria dei flussi d'ingresso dei lavoratori non comunitari stagionali e di altre
categorie nel territorio dello Stato per l'anno 2012. (12A04562)
LOCAZIONI
ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA, COMUNICATO (G.U. n. 90 del 17-4-2012)
Indici dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, relativi al mese di marzo 2012, che si
pubblicano ai sensi dell'articolo 81 della legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili
urbani), ed ai sensi dell'articolo 54 della legge del 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione
della finanza pubblica). (12A04300)
ORDINAMENTO MILITARE
DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 24 febbraio 2012, n. 40 (G.U. n. 87 del 13-42012)
Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2012,
n. 90, concernente il Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a
norma dell'articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246. (12G0059)
PENSIONI
COMMISSIONE DI VIGILANZA SUI FONDI PENSIONE, DELIBERAZIONE 16 marzo 2012 (G.U. n.
77 del 31-3-2012)
Disposizioni sul processo di attuazione della politica di investimento. (12A03507)
COMMISSIONE DI VIGILANZA SUI FONDI PENSIONE, DELIBERAZIONE 23 marzo 2012 (G.U. n.
79 del 3-4-2012)
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Determinazione della misura, dei termini e delle modalità di versamento del contributo dovuto alla COVIP
da parte delle forme pensionistiche complementari nell'anno 2012, ai sensi dell'articolo 1, comma 65 della
legge 23 dicembre 2005, n. 266. (12A03769)
PESCA
MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI, DECRETO 5 dicembre
2011 31 (G.U. n. 73 del 27-3-2012)
Modifica degli obiettivi di riduzione della capacità di pesca di cui ai Piani nazionali di disarmo adottati con
decreto 19 maggio 2011. (12A03513)
MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI, DECRETO 21 dicembre
2011 (G.U. n. 73 del 27-3-2012)
Modifica dell'articolo 3, commi 1 e 2 del decreto 8 agosto 2008 recante modalità di arresto definitivo delle
attività delle unità da pesca. (12A03514)
PRIVACY
GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI, PROVVEDIMENTO 5 aprile 2012 (G.U. n.
89 del 16-4-2012)
Trattamenti dei dati per attività di propaganda elettorale - esonero dall'informativa. (12A04240)
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
AGENZIA PER LA RAPPRESENTANZA NEGOZIALE DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI,
COMUNICATO (G.U. n. 83 del 7-4-2012)
Interpretazione autentica dell'art. 1 dell'accordo collettivo quadro del 24 settembre 2007. (12A03991)
DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 12 gennaio 2012 (G.U. n. 85 del 114-2012)
Modifiche agli articoli 1, 4 e 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 3 agosto 2011,
concernente l'utilizzo delle autovetture di servizio e di rappresentanza da parte delle pubbliche
amministrazioni. (12A04056)
DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 23 marzo 2012 (G.U. n. 89 del 164-2012)
Limite massimo retributivo per emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o
autonomo con le pubbliche amministrazioni statali. (12A04297)
SALUTE
MINISTERO DELLA SALUTE, DECRETO 17 febbraio 2012, n. 31 (G.U. n. 73 del 27-3-2012)
Regolamento recante aggiornamento del decreto ministeriale 5 aprile 1988, n. 151 concernente la
disciplina della «gomma base» utilizzata per la produzione della gomma da masticare. (12G0050)
MINISTERO DELLA SALUTE, DECRETO 14 marzo 2012 (G.U. n. 84 del 10-4-2012)
Revoca delle autorizzazioni all'immissione in commercio dei prodotti fitosanitari contenenti la sostanza
attiva bitertanolo, approvata con regolamento (UE) n. 1278/2011 della Commissione dell'8 dicembre
2011, in conformita' al regolamento (CE) n. 1107/2009, perche' non supportati da un fascicolo conforme
alle prescrizioni di cui al regolamento (UE) n. 544/2011. (12A03925)
MINISTERO DELLA SALUTE, DECRETO 3 febbraio 2012 (G:U. n. 91 del 18.04.2012)
Modifica dell'allegato 2 al decreto del Ministro della salute 3 marzo 2005, recante: «Caratteristiche e
modalita' per la donazione del sangue e di emocomponenti». (12A04317)
SCUOLA
MINISTERO DELL'ISTRUZIONE, DELL'UNIVERSITA' E DELLA RICERCA, DECRETO 9 febbraio
2012 (G.U. n. 77 del 31-3-2012)
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Mobilita' professionale del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (A.T.A.) delle istituzioni
scolastiche ed educative - Sequenza contrattuale 25 luglio 2008 - Comparto Scuola. (Decreto n. 17).
(12A03768)
SEMPLIFICAZIONI
LEGGE 4 aprile 2012, n. 35 (G.U. n. 82 del 6-4-2012)
Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5, recante disposizioni
urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo. (12G0056) (Suppl. Ordinario n. 69)
SICUREZZA SUL LAVORO
MINISTERO DELL'INTERNO, DECRETO 14 marzo 2012 (G.U. n. 76 del 30-3-2012)
Tariffe per l'attivita' di formazione del personale addetto ai servizi di sicurezza nei luoghi di lavoro ai sensi
del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81. (12A03525)
MINISTERO DELL'INTERNO, DECRETO 16 marzo 2012 (G.U. n. 76 del 30-3-2012)
Piano straordinario biennale adottato ai sensi dell'articolo 15, commi 7 e 8, del decreto-legge 29 dicembre
2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2012, n. 14, concernente
l'adeguamento alle disposizioni di prevenzione incendi delle strutture ricettive turistico-alberghiere con
oltre venticinque posti letto, esistenti alla data di entrata in vigore del decreto del Ministro dell'interno 9
aprile 1994, che non abbiano completato l'adeguamento alle suddette disposizioni di prevenzione incendi.
(12A03685)
UNIVERSITA’
MINISTERO DELL'ISTRUZIONE, DELL'UNIVERSITA' E DELLA RICERCA, DIRETTIVA 16 gennaio
2012 (G.U. n. 76 del 30-3-2012)
Adozione delle Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento degli Istituti tecnici a norma dell'articolo
8, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 88 - Secondo biennio e quinto
anno. (Direttiva n. 4). (12A03290) (Suppl. Ordinario n. 60)
MINISTERO DELL'ISTRUZIONE, DELL'UNIVERSITA' E DELLA RICERCA, DIRETTIVA 16 gennaio
2012 (G.U. n. 76 del 30-3-2012)
Adozione delle Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento degli Istituti professionali a norma
dell'articolo 8, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 87 - Secondo
biennio e quinto anno. (Direttiva n. 5). (12A03291) (Suppl. Ordinario n. 60)
TRASPORTI
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, DECRETO 24 ottobre 2011 (G.U. n. 78
del 2-4-2012)
Determinazione dei criteri per l'adozione di un sistema di classificazione del rischio da applicare alle
imprese di autotrasporto. (12A03739)
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, DECRETO 20 febbraio 2012 (G.U. n. 86
del 12-4-2012)
Recepimento della direttiva della Commissione 8 settembre 2010, n. 2010/62/UE, che modifica, le
direttive del Consiglio 80/720/CEE e 86/297/CEE e le direttive del Parlamento europeo e del Consiglio
2003/37/CE, 2009/60/CE e 2009/144/CE, relative all'omologazione dei trattori agricoli o forestali.
(12A04090)
UNIVERSITA’
MINISTERO DELL'ISTRUZIONE, DELL'UNIVERSITA' E DELLA RICERCA, DECRETO 10 agosto 2011
(G.U. n. 78 del 2-4-2012)
Turn over del personale degli Enti di ricerca. (12A03527)
MINISTERO DELL'ISTRUZIONE, DELL'UNIVERSITA' E DELLA RICERCA, DECRETO 30 settembre
2011 (G.U. n. 78 del 2-4-2012)
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Criteri e modalita' per lo svolgimento dei corsi di formazione per il conseguimento della specializzazione
per le attivita' di sostegno, ai sensi degli articoli 5 e 13 del decreto 10 settembre 2010, n. 249.
(12A03796)
MINISTERO DELL'ISTRUZIONE, DELL'UNIVERSITA' E DELLA RICERCA, DECRETO 7 marzo 2012
COMMISSIONE DI VIGILANZA SUI FONDI PENSIONE, DELIBERAZIONE 23 marzo 2012 (G.U. n.
79 del 3-4-2012)
Determinazione della misura, dei termini e delle modalita' di versamento del contributo dovuto alla COVIP
da parte delle forme pensionistiche complementari nell'anno 2012, ai sensi dell'articolo 1, comma 65 della
legge 23 dicembre 2005, n. 266. (12A03769)
Requisiti per il riconoscimento della validita' delle certificazioni delle competenze linguistico-comunicative
in lingua straniera del personale scolastico. (12A03799)
MINISTERO DELL'ISTRUZIONE, DELL'UNIVERSITA' E DELLA RICERCA, DECRETO 14 febbraio
2012 (G:U. n. 91 del 18.04.2012)
Ammissione dei soggetti beneficiari ammessi alle agevolazioni previste dall'art. 14, comma 1, del decreto
n. 593 dell'8 agosto 2000. (12A04323)
MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, COMUNICATO (G:U. n. 91 del
18.04.2012)
Determinazione del costo medio orario del lavoro per il personale dipendente da imprese esercenti attività
di installazione, manutenzione e gestione impianti, con decorrenza gennaio 2012. (12A04314)
USURA
MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, DECRETO 26 marzo 2012 (G.U. n. 77 del 31-32012)
Tassi effettivi globali medi. Periodo rilevazione 1° ottobre - 31 dicembre 2011. Applicazione dal 1° aprile
al 30 giugno 2012 (legge 7 marzo 1996, n. 108). (12A03766)
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FOCUS:
"Riforma del lavoro: la nuova disciplina del contratto a termine"
Il Focus, curato dalla Redazione di Lex24, ha il compito di facilitare il lettore nella comprensione della
nuova disciplina del contratto a termine in virtù delle novità che sono fase definizione nel Ddl di riforma
del mercato del lavoro e delle recenti modifiche apportate dal c.d. Collegato Lavoro (Legge 4 novembre
2010, n. 183).
Attraverso una selezione ragionata dei principali articoli delle riviste giuridiche de Il GRUPPO 24
ORE (Guida al Diritto, Guida al Lavoro, L@voro) e del portale Diritto24 (www.diritto24.ilsole24ore.com), è
proposta al lettore una ampia casistica di esempi pratici, nonché la segnalazione della giurisprudenza più
significativa e attuale relativa al tema del Focus.
Selezione ragionata delle riviste giuridiche de Il GRUPPO 24 ORE
Riforma del mercato del lavoro e incertezza del diritto, 10.2.2012,
www.diritto24.ilsole24ore.com, Marco Proietti, avvocato specialista in Diritto del Lavoro - Foro di
Roma
Giunge al rush finale, dopo innumerevoli discussioni, la proposta di riforma del mercato del lavoro che ora
dovrà passare al vaglio del Parlamento prima di divenire legge a tutti gli effetti; le novità sono molte,
talvolta profonde, e non condivise da tutto il tessuto sociale, soprattutto da quella parte degli operatori del
diritto del lavoro che chiedevano a gran voce una maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro o quantomeno
una migliore efficienza del sistema.
Prima di valutazioni, che possono essere solo superficiali mancando il testo definitivo e approvato, è
opportuno valutare i punti salienti della proposta di riforma.
Il settore che certamente è stato oggetto di maggiori discussioni è quello dei licenziamenti, stante
l’esistenza di una disciplina che prevede – con riferimento alle aziende con più di 15 dipendenti nel
Comune di riferimento, o più di 60 sul territorio nazionale – il diritto del lavoratore al reintegro nel posto
di lavoro ed al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dalla data di recesso, qualora lo stesso fosse
poi risultato illegittimo; questa disposizione, fissata dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ha finito con il
generare non pochi problemi a fronte di controversie che – tra primo e secondo grado di giudizio –
superano molto facilmente i 6 anni di durata: è chiaro che un’impresa in crisi, e che vuole effettuare dei
licenziamenti in un momento di contrazione importante del fatturato, si trovi poi di fronte al rischio di
dover pagare anche fino a 90 mensilità a titolo di indennità risarcitoria. Posta di fronte a tale rischio,
l’impresa preferisce non assumere. Da qui l’esigenza di una riforma profonda.
Dopo la c.d. “flessibilità in uscita” ci si è posti il problema della c.d. “flessibilità in entrata” e si è messo
mano ai principali contratti di lavoro: contratto a tempo determinato, contratto di apprendistato e
ovviamente le collaborazioni coordinate e continuative a progetto. Si analizzano i vari aspetti della
riforma.
IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO
Il licenziamento discriminatorio come definito dall’art. 4 della l. 15.7.1966, n. 604, ovvero il recesso “…
determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla
partecipazione ad attività sindacali” è nullo, e tale nullità determina l’inefficacia dello stesso a prescindere
dal requisito dimensionale. Su questo punto, il disegno di legge non apporta alcun genere di modifica e,
anzi, si limita a ribadire quanto già consolidato nella giurisprudenza degli ultimi venti anni che ha applicato
lo stesso ragionamento anche al diverso, ma simile, licenziamento per motivi di ritorsione; pertanto, l’eco
dato alla presunta tutela contro i licenziamenti discriminatori è destinato a sopirsi rapidamente, stante
una quantità innumerevole di sentenze di merito e di legittimità sul tema.
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Sul punto tra le tante cfr. Cass. 18.3.2011, n. 6282: “Il divieto di licenziamento discriminatorio - sancito
dall’art. 4 l. n. 604 del 1966, dall’art. 15 l. n. 300 del 1970 e dall’art. 3 l. n. 108 del 1990 - è suscettibile
di interpretazione estensiva sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per
ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l’ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del
provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa; in tali casi, tuttavia, è necessario
dimostrare che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall’intento ritorsivo”.
IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE E QUELLO PER RAGIONI ECONOMICHE
L’impatto normativo, e mediatico, maggiore lo hanno avuto gli artt. 13 e 14 del disegno di legge che
introducono importanti novità in materia di licenziamento per ragioni economiche (riduzione del
personale, soppressione di posto, contrazione fatturato, ecc.) e di licenziamento disciplinare (giusta causa
o giustificato motivo soggettivo) intervenendo direttamente nell’ambito dell’applicabilità della tutela reale
fissata dall’art. 18 dello Statuo dei Lavoratori, nonché della procedura di licenziamento e di impugnazione
dello stesso.
Licenziamento disciplinare
Nel licenziamento disciplinare viene attuata (con sforzo) una distinzione ermeneutica a seconda se i motivi
siano o no di facile individuazione.
Se i motivi disciplinari posti a fondamento del licenziamento sono palesemente insussistenti in quanto il
fatto non sussiste, il giudice ordina il reintegro del lavoratore ed il pagamento di un’indennità risarcitoria
pari ad un massimo di 12 mensilità considerata l’ultima retribuzione percepita: il lavoratore può rinunciare
alla reintegra e ottenere, in cambio, il pagamento di ulteriori 15 mensilità. In questo primo caso, quindi, il
datore di lavoro rischia di pagare fino a 27 mensilità oppure 12 mensilità più reintegro e ciò a semplice
discrezione del giudice.
In tutti gli altri casi (che comunque non vengono chiariti) il datore di lavoro può essere condannato al
pagamento di un’indennità risarcitoria compresa nella forbice che varia dalle 12 alle 24 mensilità
complessive; costruzione piuttosto astratta e farraginosa che lascia ampi spazi interpretativi e di
incertezza, probabilmente con profili di rischio ancor più alti di prima per le imprese.
Licenziamento per ragioni oggettive
Analogo ragionamento viene applicato anche per i licenziamenti intimati e giustificati da ragioni di tipo
oggettivo. In questi casi, infatti, se la ragione oggettiva è palesemente insussistente il lavoratore ha
diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro oltre ad un risarcimento del danno nella misura massima di
12 mensilità commisurate all’ultima retribuzione percepita; in tutti gli altri casi (anche qui, vuoto del
legislatore) è il giudice che può decidere di condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno
commisurato in una forbice compresa tra le 12 e le 24 mensilità: si noti bene, è sempre il giudice a
valutare se si rientra nei casi di palese insussistenza o “in tutti gli altri casi” sia per il licenziamento
economico che in quello disciplinare e ciò avviene senza una chiara disposizione normativa in tal senso, né
successivi chiarimenti ministeriali potrebbero ovviare alla genericità della norma stessa (il licenziamento o
è valido o non lo è, pertanto la palese insussistenza non è un criterio valido).
UNA NUOVA PROCEDURA
In ultimo, la riforma propone anche una stretta sui tempi processuali, affidandosi alla previsione di termini
predeterminati il cui rispetto lascia comunque ampi margini di dubbio.
In ogni caso, il disegno di legge riduce da 270 a 180 giorni il termine per proporre ricorso innanzi al
Giudice del Lavoro nel caso di licenziamento, sia esso per giusta causa o per giustificato motivo, lasciando
inalterata la necessità di un’impugnativa dello stesso entro i 60 giorni successivi alla comunicazione.
In secondo luogo, e forse è l’aspetto che crea maggiori timori, si prevede che per i licenziamenti
economici il datore di lavoro debba obbligatoriamente promuovere una procedura presso la Direzione
Territoriale del Lavoro – sulla falsariga dei vecchi t.o.c. ma questa volta su iniziativa datoriale – e trovare
un accordo in quella sede con il lavoratore: mancando l’accordo, ovviamente, si potrà comunque licenziare
ma a quel punto il lavoratore sarà libero di avviare la procedura per l’impugnazione. Si può dire, a prima
vista, che si tenta di introdurre anche per i licenziamenti individuali uno schema simile al licenziamento
collettivo con evidenti rischi che possono essere determinati, ad esempio, dal lavoratore che (giunta la
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convocazione presso la Direzione Territoriale) si assenta scientemente in malattia per allontanare la data
del recesso.
I CONTRATTI DI LAVORO
Quanto alle tipologie contrattuali, si è rinviato ad un apposito decreto per gli interventi in materia di
pubblico impiego e si sono introdotte significative modifiche ad alcune tipologie contrattuali.
Contratto a tempo determinato
L’art. 3 della riforma modifica il D.lgs. 6.9.2001, n. 368 e ristabilisce il precedente assunto secondo il
quale la forma contrattuale comune, per l’instaurazione di un rapporto di lavoro, è rappresentata dal
contratto a tempo indeterminato. Il contrato a termine, forse la forma contrattuale più in uso, viene sia
formalmente che sostanzialmente disincentivata a favore – come si vedrà più avanti – da un lato delle
assunzioni a tempo indeterminato e dell’altro lato dell’apprendistato; la riforma, infatti, prevede un
aumento contributivo su tutti i nuovi contratti a termine pari a circa 1,4% che, tuttavia, viene escluso nel
caso di ragioni sostitutive e lavoratori stagionali. Inoltre, è previsto un allungamento dello spazio di tempo
che separa un contratto da un altro: ad oggi è di 10 – 20 giorni a seconda se il contratto abbia durata
superiore o inferiore ai 6 mesi, nel futuro sarà (sempre se verrà confermato in sede di approvazione
parlamentare) 60 – 90 giorni, pena l’automatica conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
A fronte di questo notevole irrigidimento della forma contrattuale, è tutta via prevista la scomparsa della
causale nel primo contratto: alla lettera dell’art. 3, comma 1°, non vi è più l’obbligatorietà dei motivi nel
primo contratto a termine seppur permane, in capo al datore di lavoro, l’onere di dimostrare l’esistenza
delle ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive. E’ evidente, quindi, che l’eliminazione dei
motivi nel primo contratto è solo una questione di forma e non semplifica in alcun modo la gestione dei
rapporti da parte delle imprese.
Contratto di apprendistato.
Come accennato, il contratto di apprendistato viene sempre più individuato come forma contrattuale
privilegiata tramite il quale favorire e incentivare l’ingresso nel mondo del lavoro. Nella sostanza la
disciplina resta la stessa, con la tripartizione in tre tipi di apprendistato distinti e la previsione di un
progetto formativo a fondamento dello stesso.
Gli incentivi all’utilizzo dell’apprendistato sono in due direzioni: (i) abbassamento della quota di
apprendisti da stabilizzare, che passa dall’attuale 50% al futuribile 30% ma comunque solo per i primi 36
mesi; (ii) il rapporto tra apprendisti e maestranze specializzate presenti in azienda dovrebbe passare
dall’attuale 1 a 1, a ad un più ampio 3 a 2.
Collaborazioni a progetto.
Negli ultimi anni è stato il contratto più discusso in dottrina e giurisprudenza, anche in ragione dell’uso
che ne è stato fatto e soprattutto con riguardo ai profili dettati dall’art. 69 della Legge Biagi, ovvero il
diritto alla conversione del rapporto in tempo indeterminato in tutti quei casi in cui il progetto è mancante,
nullo, illecito o, più semplicemente, quando il collaboratore era stabilmente inserito come un ordinario
dipendente aziendale.
La riforma è rimasta nel segno dei precedenti interventi, tutti finalizzati ad evitare le possibili elusioni alla
normativa sulle collaborazioni a progetto; stando al testo presentato, il contratto a progetto continuerà ed
essere vincolato ad uno specifico “progetto, programma o fase di esso” e dovrà essere chiaramente
finalizzato a l raggiungimento di uno scopo finale, senza che lo stesso si riduca ad una mera riproposizione
dell’oggetto sociale del committente.; la seconda forma di disincentivazione deriva, non a caso,
dall’aumento dell’aliquota contributiva che potrebbe passare sino alla soglia del 28% per gli iscritti alla
gestione separata.
Contratto di inserimento.
Seguendo il principio ispiratore sopra delineato, che tende a lasciare strada solo all’apprendistato e, in
seconda istanza, al contratto a termine, il contratto di inserimento dovrebbe sparire: l’art. 4 del disegno di
legge prevede, tuttavia, una clausola transitoria nei confronti delle assunzioni effettuate sino alla data del
31 dicembre 2012 per le quali, si chiarisce, la disciplina continua ad avere efficacia.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
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A bene vedere, la riforma lascia più di qualche dubbio. Dubbi nascono chiaramente sull’ampio margine di
interpretazione che emerge per l’applicabilità o meno della tutela reale, con tutto ciò che ne consegue in
termini di effettivi benefici sul mercato del lavoro: le imprese chiedevano a gran voce una procedura più
snella ed una maggiore flessibilità in uscita, ciò non è avvenuto. La flessibilità in uscita, invero, è stata
anche resa più complessa dalla possibilità di una procedura conciliativa obbligatoria che potrebbe
generare non indifferenti danni economici ad un’impresa che ha necessità di recedere rapidamente da un
rapporto di lavoro; in questo senso, per altro, anche la riduzione dei tempi processuali rischia, a ben
vedere, di avere pochi effetti a fronte di ben più grandi problemi strutturali (e non processuali) in cui si
trovano gli uffici giudiziari.
Altrettanti dubbi sono leciti nelle modifiche alle forme contrattuali, dove l’unico contratto che ottiene dei
benefici è quello di apprendistato che rimane comunque una forma tipica per il primo approccio al mondo
del lavoro; sparito l’inserimento, resi molto duri sia il contratto a termine che il contratto a progetto, ci
sono validi motivi per ritenere che il merco del lavoro “in entrata” conoscerà più di un rallentamento.
L@voro, 2.3.2012, La Cassazione conferma l'applicabilità dell'indenizzo del Collegato lavoro in
caso di conversione del contratto a termine, di Delle Cave Mariano
Nei contratti a termine dichiarati illegittimi in contenziosi già pendenti, anche in grado di legittimità, alla
data di entrata in vigore del Collegato Lavoro (legge del 4 novembre 2010, n. 183), la Cassazione 31
gennaio 2012, n. 1411, applica lo ius superveniens e cioè l'art. 32 che prevede appunto un risarcimento
del danno di natura indennitaria, tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima
retribuzione globale di fatto tenuto conto dei criteri di cui all'art. 8 della legge n. 604/1966.
E' la prova di un risultato oramai acquisito nel nostro ordinamento dopo la sentenza della Corte
Costituzionale n. 303 del 9 novembre 2011 (sollecitata proprio dalla Cassazione con l'ordinanza 28
gennaio 2011 n. 2112), che aveva dichiarato legittimo l'art. 32, ultimo comma, che prevedeva appunto
l'applicazione di questa forma di indennizzo anche ai giudizi pendenti all'entrata in vigore del Collegato.
L'art. 32, per fare proprie le considerazione della Corte Costituzionale, è diretto ad introdurre “(...) un
criterio di liquidazione del danno più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto alle obiettive
“incertezze verificatesi nell'esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la
legislazione previgente (..)”.
Nel caso sottoposto all'attenzione della Corte di Cassazione, il lavoratore, pur ottenendo la riqualificazione
del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, lamentava di non aver ottenuto nulla
a titolo di risarcimento del danno. I Giudici di merito avevano osservato che tale lavoratore aveva offerto
la sua prestazione lavorativa e contestato quindi la natura temporanea del rapporto solo dopo tre anni
dalla sua cessazione. Secondo i Giudici di merito, era questo un periodo di tempo sufficiente a reperire
un'altra occupazione. In buona sostanza, nei precedenti gradi di giudizio, era stato addebitato un concorso
di colpa del lavoratore ai sensi dell'art. 1227 c.c., avendo atteso tre anni prima di proporre l'azione.
Con la legislazione previgente al Collegato, come noto, il lavoratore poteva chiedere un risarcimento del
danno liquidato secondo i criteri civilistici del danno emergente e del lucro cessante (in effetti le
retribuzioni perse), sempre che avesse messo in mora il datore di lavoro e sempre che non avesse, nel
frattempo, reperito altre fonte di reddito da lavoro.
Prevedendo, ora, un indennizzo in una misura predeterminata e onnicomprensiva, poi, le nuove norme sul
risarcimento, conseguente alla nullità del termine, non ammettono detrazione per aliunde
perceptum:quindi al lavoratore è dovuto il risarcimento anche in assenza di danno. L'espresso richiamo
all'art. 8 della legge n. 604/1966 consente poi di liquidare il risarcimento tenuto conto della durata del
rapporto a termine, della gravità della violazione e della tempestività della reazione del lavoratore, nonché
lo sfruttamento di occasioni di lavoro e di guadagno.
Così, la Suprema Corte, investita della questione, ha cassato ora la sentenza di merito con rinvio ad altro
Giudice di appello, che dovrà risolverla alla luce del Collegato che prevede un danno forfetizzato per il
periodo intermedio (dal momento della cessazione fino alla sentenza di nullità del termine), mentre, dalla
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sentenza in avanti il datore di lavoro è tenuto a corrispondere le retribuzioni perse in caso di mancata
effettiva riammissione in servizio.
L@voro, 23.2.2012, Contratto a termine ed inerzia del lavoratore, di Delle Cave Mariano
Una (apparente) e prolungata inerzia del lavoratore che lamenti dopo 5 anni con ricorso l'illegittimità di un
contratto a tempo determinato non comporta automaticamente l'intervenuta risoluzione per mutuo
consenso del rapporto. Lo precisa la Cassazione con sentenza n. 1842/2012.
L'inerzia del lavoratore dopo la cessazione del contratto a termine
Nel difendersi da una azione di accertamento per illegittima apposizione del termine, il datore di lavoro
aveva eccepito l'esistenza di una risoluzione per mutuo consenso per avere il lavoratore proposto tale
azione dopo cinque anni la cessazione del rapporto. Innanzi alla Corte di Cassazione, il datore di lavoro
rilevava appunto la prolungata inerzia dimostrava il disinteresse del lavoratore alla propria vicenda
lavorativa: considerando un rapporto intercorso unico ed assai breve nel tempo (tre mesi circa).
Queste circostanze, secondo il datore di lavoro, avrebbero dovuto far ritenere, nella fattispecie, una
presunzione di avvenuta risoluzione del rapporto del mutuo consenso, con conseguente onere della parte
lavoratrice di dimostrare il contrario. La Suprema Corte ha disatteso le contestazioni del datore di lavoro.
In proposito, la Suprema Corte, richiamando un orientamento consolidato (Corte di Cassazione Sez.
Lavoro n. 5587 dell'11.3.2011; Corte di Cassazione n. 23057 del 15.11.2010; Cass. Sez. Lav. n. 20390
del 28.9.2007), è nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore, dopo la scadenza del contratto a
termine, è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione per mutuo consenso.
Affinché possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata una chiara e comune
volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavorativo, sicché la
valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di
merito, le cui conclusioni sono incensurabili in sede di legittimità.
Peraltro, l'azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro è azione di
nullità parziale del contratto per contrasto con norme imperative ex art. 1418 c.c. e 1419 c.c., comma 2,
c.c. Si tratta quindi di un'azione imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che
discendono dal rapporto a tempo indeterminato che risultano dalla conversione ex lege per illegittimità del
termine apposto.
Il mero decorso del tempo fra la scadenza del contratto e l'azione proposta in giudizio non può solo, di per
sé, costituire elemento idoneo a far ritenere la risoluzione per mutuo consenso, senza indagare l'effettiva
rilevanza delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente
valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso.
E' in ogni caso onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione del contratto per mutuo
consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (Cass. Sez. Lav. n. 2279 dell'1.2.2010).
Per completezza, è bene ricordare che la recente introduzione dell'art. 32 della Legge del 4 novembre
2010 n. 183 ha proprio lo scopo di arginare il fenomeno e l'incertezza dei tempi legati a contenziosi
inerenti ad azioni di nullità del termine. Tale norma prevede un tempo, a pena di decadenza, di
impugnazione del contratto a termine illegittimamente stipulato di sessanta giorni e di duecento settanta
giorni da tale impugnazione per proporre l'azione in giudizio. La decadenza è, infatti, prevista con
espresso riferimento all'azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro a termine
A quel punto, un'impugnazione del contratto a temine tardiva, vuoi per mancato esercizio entro 60 giorni
dalla cessazione della contestazione del rapporto, vuoi per mancato deposito del ricorso in Tribunale entro
i successivi duecentosettanta, è tardiva, senza bisogno di alcuna indagine sulla volontà delle parti di una
risoluzione tacita del rapporto di lavoro.
Guida al Lavoro, 24.2.2012 - n. 9 - p.26, Collegato lavoro e rispetto delle pronunce della Corte
Costituzionale: quali scenari?, di Falasca Giampiero
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Anche la Corte d'Appello di Roma, dopo il Tribunale di Napoli, adducendo il carattere non vincolante delle
pronunce di rigetto della Consulta, decide di disattendere l'interpretazione della Corte Costituzionale sulla
legittimità del regime indennitario introdotto dal Collegato lavoro in caso di conversione del contratto a
termine
Corte d'Appello di Roma, 17 gennaio 2012, n. 267, Pres. Torrice
Contratto a termine - Indennità risarcitoria forfetizzata - Applicabilità per il
solo periodo di tempo fino al deposito del ricorso
Sia sotto il profilo del rispetto dei principi costituzionali che sotto il profilo della
formulazione letterale, la norma (art. 32, comma 5, legge n. 183/2010, cd. Collegato
lavoro) va interpretata nel senso che l'indennità copre il periodo fino al deposito del
ricorso, e cioè fino alla domanda, e quindi da quella data spettano le retribuzioni per
effetto della conversione.
La vicenda relativa alle interpretazioni giudiziarie delle norme del Collegato lavoro in materia di
risarcimento del danno pone interrogativi rilevanti. Come vedremo meglio in dettaglio nel prosieguo di
questo commento, ci troviamo di fronte a una norma di legge che, in maniera chiara, afferma un
principio: chi ottiene la conversione a tempo indeterminato del precedente contratto a termine, ha diritto
esclusivamente ad un'indennità di importo variabile tra le 2,5 e le 12 mensilità dell'ultima retribuzione
globale di fatto. Alcuni Tribunali, applicando correttamente le procedure costituzionali, hanno chiesto alla
Corte Costituzionale di verificare la legittimità di questa norma. La Consulta, con sentenza n. 303/2011 (in
Guida al Lavoro n. 46/2011, con nota di A. Zambelli), si è espressa, sia escludendo qualsivoglia problema
di incostituzionalità, sia ricordando che non può esserci dubbio sul fatto che la nuova indennità non si
cumula con altri risarcimenti, ma li assorbe e li sostituisce tutti.
Tuttavia, due recenti sentenze (una del Tribunale di Napoli, e una della Corte d'Appello di Roma in
commento), trincerandosi dietro argomenti formali (il carattere non vincolante delle pronunce di rigetto
della Consulta), decidono di disattendere l'interpretazione della Corte Costituzionale.
Questo comportamento pare gravissimo, in quanto le pronunce della Corte Costituzionale hanno una
funzione di indirizzo dell'intero sistema giuridico, e non possono essere aggirate quando non
corrispondono alla propria visione.
Il problema è aggravato dal fatto che le sentenze di cui parliamo non sfidano solo la pronuncia della
Consulta, ma rovesciano il senso letterale di una norma di legge sulle cui finalità non ci possono essere
dubbi.
Fortunatamente, queste sentenze sono casi isolati; la stragrande maggioranza delle pronunce emanate
prima e dopo la sentenza della Corte Costituzionale ha preso atto del contenuto della nuova normativa e
l'ha applicato correttamente (si veda Il Punto di Guida al Lavoro n. 12/2011).
I precedenti giurisprudenziali
La sentenza del Tribunale di Napoli 16 novembre 2011
La decisione della Consulta, con particolare riguardo all'esclusione della possibilità di cumulo tra
l'indennità prevista dall'art. 32 ed altre somme di natura risarcitoria, sembrava aver messo la parola fine a
qualsiasi discussione sul tema. Invece, pochi giorni dopo la pubblicazione della sentenza, una pronuncia
del Tribunale di Napoli del 16 novembre 2011 (in Guida al Lavoro n. 47/2011, pag. 21 con nota di F.
Putaturo) ha riaperto la vicenda, partendo dall'assunto che la pronuncia della Consulta non sarebbe
vincolante, in quanto le sentenze interpretative di rigetto non vincolano il giudice comune, diversamente
da quelle di accoglimento.
Dopo aver fatto questa premessa del tutto formalistica, che trascura il grave vulnus derivante dal frontale
rovesciamento di una interpretazione fornita dal Giudice delle leggi il Giudice di Napoli costruisce un
articolato ragionamento (che era stato più volte proposto anche prima della sentenza della Consulta) che
porta ad ammettere il cumulo tra l'indennità risarcitoria prevista dal Collegato lavoro ed altre voci.
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Questo ragionamento parte dall'assunto che ogni persona ha diritto ad accedere ad un processo equo, il
che vuol dire il diritto a preparare le proprie difese, anche in relazione alle difese della controparte, e ad
ascoltare i testimoni. La durata del processo, secondo questa tesi, non può andare a carico di chi ha
ragione, che si troverebbe nella necessità di scegliere tra l'allungamento (in suo danno) dei tempi del
processo, o la compressione (sempre in suo danno) della propria difesa.
Pertanto, secondo il Giudice di Napoli, l'interpretazione dell'art 32, comma 5, come offerta dalla Corte
Costituzionale, non sarebbe accettabile, in quanto pone il lavoratore in una situazione di sostanziale
svantaggio rispetto alla controparte. Ogni richiesta o istanza del lavoratore determinerebbe per lui un
effetto che ricade solo a suo carico, mentre il datore di lavoro inadempiente sarebbe oggettivamente
avvantaggiato da ogni sua richiesta o istanza che dovesse essere accolta.
Sulla base di questi argomenti, il Giudice conclude osservando che l'art. 32, comma 5, della legge n.
183/2010, dovrebbe essere interpretato nel senso che la relativa indennità copre solo il periodo compreso
tra la fine del rapporto e il deposito del ricorso in giudizio.
Dal Collegato lavoro alla sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011
L'indennità sostitutiva del risarcimento
Dopo l'approvazione del Collegato lavoro (legge n. 183/2010), sono sorte molte
discussioni intorno all'art. 32, commi 5 e 6 della nuova disciplina.
La norma, come noto, stabilisce un tetto massimo all'importo dell'indennizzo che deve
essere pagato dal datore di lavoro a un lavoratore, nel caso in cui questi ottenga la
conversione a tempo indeterminato di un precedente contratto a termine. La novità si è
tradotta in una forte riduzione della tutela economica del lavoratore vittorioso in una
causa avente per oggetto la riqualificazione del contratto.
Prima dell'entrata in vigore della legge n. 183/2010, al lavoratore era riconosciuto un
risarcimento pari alle retribuzioni cui avrebbe avuto diritto dalla data di scadenza del
contratto a termine sino all'effettiva ripresa del lavoro; il risarcimento spettava dalla
data in cui il lavoratore aveva offerto la prestazione, e dalla somma dovevano essere
detratti i redditi eventualmente conseguiti con altri lavori. Il risarcimento, quindi,
aumentava in misura direttamente proporzionale alla durata del processo, e copriva
tutti i periodi in cui il dipendente era rimasto senza occupazione.
Il Collegato lavoro ha modificato questa disciplina, stabilendo che al lavoratore che si
vede convertire il contratto spetta (oltre alla riammissione in servizio) esclusivamente
un'indennità di importo variabile tra le 2,5 e le 12 mensilità. Questa indennità non
tiene più conto della durata del processo, ma deve essere calcolata secondo parametri
diversi - le dimensioni azienda, l'anzianità lavorativa, il comportamento delle parti - e,
in ogni caso, non può mai eccedere le 12 mensilità.
Le ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale
La normativa appena descritta è stata portata all'attenzione della Corte Costituzionale
da due diverse sedi giudiziarie. La prima ordinanza è stata emanata il 20 dicembre
2010 dal Tribunale di Trani, che ha lamentato il contrasto con il principio di
ragionevolezza desumibile dall'art. 3 della Costituzione; secondo il Giudice, questo
principio sarebbe violato nel momento in cui il legislatore ha irragionevolmente esteso
ai lavoratori a termine le norme con cui la legge n. 604/1966 regola il risarcimento del
danno nell'area della stabilità obbligatoria. Secondo l'ordinanza di Trani, il contratto a
termine e il licenziamento nell'impresa fino a 15 dipendenti hanno una diversa
aspettativa del processo: per il lavoratore a termine la durata del processo sarebbe
essenziale, perché aspira alla ricostituzione del rapporto e perché il suo danno cresce
con la durata del processo, mentre per il lavoratore licenziato da un'impresa fino a 15
dipendenti "la durata del processo perde importanza", perché non ha l'aspettativa alla
ricostituzione del rapporto di lavoro e comunque ha diritto a vedere attualizzato il
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proprio credito risarcitorio.
Un'altra censura riguarda l'efficacia della norma rispetto ai giudizi in corso. Secondo il
Giudice di Trani, l'applicabilità della norma ai giudizi in contro contrasterebbe con la
giurisprudenza costituzionale, e in particolare con il principio secondo cui può essere
data efficacia retroattiva a una norma solo quando siano rispettati alcuni parametri
molto rigorosi, e con l'art. 6 della Convenzione europea sui Diritti dell'uomo (rilevante
sul piano costituzionale ai sensi dell'art. 117 Cost.), la quale vieta al legislatore di
interferire nell'amministrazione della giustizia per influenzare l'esito di una
controversia, salvo che vi siano motivi imperativi di interesse generale.
Queste argomentazioni sono state riproposte dalla Corte di Cassazione, che nel mese di
gennaio del 2011 ha proposto un'ordinanza di rimessione con contenuti simili. Secondo
la predetta ordinanza, l'art. 32 del Collegato lavoro potrebbe limitare il diritto del
cittadino al lavoro e alla tutela giurisdizionale. Questa lesione deriverebbe dal fatto che
l'indennità pagata al lavoratore non considera la durata del processo e, quindi, non
copre l'effettivo pregiudizio del lavoratore (anche se, va osservato, il meccanismo già è
applicato, senza essere considerato incostituzionale, per il risarcimento del danno
conseguente ai licenziamenti operati dalle imprese con meno di 16 dipendenti).
Riguardo a questo profilo, l'ordinanza evidenzia che la limitazione del risarcimento
entro un tetto predefinito ha l'effetto di incentivare il datore di lavoro a persistere
nell'inadempimento dell'obbligo di riammettere il lavoratore in servizio, in quanto la
maggiore durata del processo non si riflette in un maggiore risarcimento.
Un altro motivo di impugnativa - contenuto già nell'ordinanza di Trani - riguarda la
presunta violazione della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo.
Secondo la Convenzione, il legislatore non deve intromettersi nelle questioni di giustizia
influenzando le decisioni di una singola controversia o di un gruppo di esse.
Ultimo argomento usato dalla Corte è il possibile contrasto con la normativa
comunitaria, nella parte in cui impone di garantire ai lavoratori a tempo determinato
che subiscono un abuso del contratto un risarcimento proporzionato al danno.
La sentenza n. 303/2011 della Corte Costituzionale
I dubbi di costituzionalità relativi al Collegato lavoro non sono stati condivisi dalla Corte
Costituzionale che, con la sentenza n. 303 del 9 novembre 2011, ha giudicato
costituzionalmente compatibile il nuovo sistema indennitario.
La Corte ha motivato la propria decisione partendo dalla considerazione che la
stabilizzazione del rapporto è la tutela più intensa che il lavoratore precario possa
ricevere, per cui il risarcimento previsto in aggiunta alla conversione del contratto
assume valore logicamente secondario; inoltre, la Corte ha ricordato che il rimedio
indennitario è stato già ritenuto legittimo dal giudice delle leggi in relazione alle
previsioni dell'art. 8, legge n. 604/1966 (licenziamento ingiustificato in regime di tutela
obbligatoria).
La sentenza ha poi ricordato che la misura del risarcimento prevista dal Collegato
lavoro è congrua, non avendo il datore di lavoro alcun interesse a ritardare la
riammissione in servizio del lavoratore; la congruità della misura è rafforzata dalla
previsione del termine acceleratorio di complessivi 330 giorni dalla data di scadenza del
contratto per l'esercizio dell'azione di accertamento della nullità del termine (art. 32,
commi 1 e 3, legge n. 183/2010).
La Corte ha poi escluso che la regola di equivalenza della riparazione rispetto al
pregiudizio cagionato abbia copertura costituzionale: se viene garantita l'adeguatezza
del risarcimento, tale principio non ha carattere vincolante. Nel caso del Collegato
lavoro, la Corte ha ritenuto sussistente una condizione di equilibrio, essendo il
lavoratore adeguatamente garantito dal fatto che la misura del risarcimento prescinde
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dall'aliunde perceptum e dalla offerta della prestazione, mentre il datore di lavoro è
parimenti garantito dalla predeterminazione del risarcimento.
Infine, con riguardo alla possibile disparità di trattamento dei lavoratori che può
derivare dalla durata variabile dei giudizi, la Corte esclude che possa esserci un
problema costituzionale, in quanto il processo costituisce elemento neutro rispetto alla
tutela offerta; in ogni caso la legge, tramite i criteri previsti dall'art. 8, legge n.
604/1966, consente di calibrare il risarcimento in relazione alla peculiarità delle singole
vicende.
In un passaggio della motivazione, la Corte affronta anche il tema del possibile cumulo
dell'indennità risarcitoria; al riguardo, la sentenza non può che prendere atto che,
stante il chiaro tenore letterale della legge, l'indennità prevista dall'art. 32 della legge
n. 183/2010 copre tutti i periodi intercorsi tra la scadenza del rapporto a termine e
l'emanazione della sentenza di conversione del rapporto.
L'orientamento maggioritario
Le sentenze del Tribunale di Napoli e della Corte d'Appello di Roma non rappresentano l'orientamento
maggioritario della giurisprudenza, che già prima della sentenza della Corte Costituzionale aveva con
chiarezza applicato l'art. 32 della legge n. 183/2010 in maniera coerente con le finalità volute dal
legislatore.
In particolare, la giurisprudenza in misura assolutamente prevalente riconosce la natura
"omnicomprensiva " della nuova indennità, con la conseguente esclusione delle tradizionali regole della
mora credendi e dell'aliunde perceptum e, soprattutto, con la negazione del diritto di cumulare tale
indennità con altre voci risarcitorie.
In conseguenza di questa impostazione, la nuova indennità viene riconosciuta prescindendo dalla data di
messa in mora e dai redditi percepiti dal lavoratore, e viene quantificata applicando i criteri previsti
dall'art. 8 della legge n. 604/1966 e richiamati dal Collegato lavoro.
La pronuncia della Corte d'Appello di Roma
La lettura del Tribunale di Napoli, sopra evidenziata, viene ripresa e sviluppata dalla pronuncia della Corte
d'Appello di Roma (17 gennaio 2012, n. 267), la quale ribadisce il carattere non vincolante della sentenza
della Consulta.
Secondo la Corte di Roma, bisognerebbe considerare che la sentenza con cui viene convertito il rapporto,
da tempo determinato a tempo indeterminato, ha natura dichiarativa, che accerta la natura del rapporto
con efficacia a partire dalla scadenza del termine illegittimo.
In questi casi, prosegue la Corte di Appello, sussistono ragioni giuridiche per utilizzare un criterio di
decorrenza dell'obbligo retributivo che sia diverso da quello tradizionalmente applicato prima del Collegato
lavoro (che, come noto, decorreva dall'offerta della prestazione lavorativa).
Questo criterio, secondo la sentenza, dovrebbe essere coerente con l'art. 111 della Costituzione, secondo
cui la durata del processo non può produrre effetti negativi per chi vince la causa. Questo principio
imporrebbe di dare alla parte che vince la causa una tutela analoga a quella che avrebbe ottenuto al
momento della proposizione del giudizio; se non si seguisse questo criterio, prosegue la Corte, il danno
per il lavoratore aumenterebbe in funzione delle sue richieste istruttorie, con una penalizzazione
ingiustificata.
Secondo la sentenza, il testo letterale della legge n. 183/2010 confermerebbe questa tesi, nel punto in cui
prevede che solo al momento della proposizione del ricorso il ricorrente può chiarire l'applicazione dei
criteri previsti dall'art. 8 della legge n. 604/ 1966. Questa previsione, secondo la Corte di Appello,
confermerebbe che l'indennità prevista dal Collegato lavoro identifica il momento di presentazione del
ricorso come la data finale del periodo oggetto di risarcimento forfetario.
Sulla base di questi argomenti, la Corte sostiene che l'indennità prevista dal Collegato lavoro coprirebbe
solo il periodo antecedente al deposito del ricorso, mentre dalla data di deposito della domanda
scatterebbe l'obbligo risarcitorio con i criteri tradizionali.
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Guida al Lavoro, 17.2.2012 - n. 8 - p.23, La successione di assunzioni a termine per esigenze
sostitutive, di Montemarano Armando
Per la Corte di giustizia Ue la stipula di una serie continua di contratti a termine non è di per sé abusiva
per il diritto dell'Unione, contrariamente a quanto previsto dalla normativa italiana.
Corte di Giustizia Ue, sez. II, 26 gennaio 2012, C-586/10
Pres. Cunha Rodrigues; Rel. Ó Caoimh; Avv. Gen. Jääskinen; Ric. Kücük; Res. Land
Nordrhein- Westfalen
Direttiva 1999/70/Ce - Clausola 5, p. 1, lett. a), accordo quadro sul lavoro a
tempo determinato - Contratti di lavoro successivi a termine - Ragioni obiettive
che possono giustificare la successione - Normativa nazionale che giustifica il
ricorso a contratti a termine per sostituzione temporanea - Necessità
permanente o ricorrente di personale sostitutivo - Compatibilità - Valutazione
considerando tutte le circostanze sottese al reiterarsi dei contratti successivi
La clausola 5, punto 1, lett. a), dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato
18.3.1999, in allegato alla direttiva 1999/70/Ce, relativa all'accordo quadro Ces, Unice
e Ceep sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che
l'esigenza temporanea di personale sostitutivo può, in linea di principio, costituire una
ragione obiettiva ai sensi di detta clausola. Il solo fatto che un datore sia obbligato a
ricorrere a sostituzioni temporanee in modo ricorrente, se non addirittura permanente,
e che si possa provvedere a tali sostituzioni anche attraverso l'assunzione di dipendenti
in forza di contratti di lavoro a tempo indeterminato, non comporta l'assenza di una
ragione obiettiva né l'esistenza di un abuso. Tuttavia, nella valutazione della questione
se il rinnovo dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato sia giustificato
da una ragione obiettiva di sostituzione, le autorità degli Stati membri, nell'ambito
delle loro rispettive competenze, devono prendere in considerazione tutte le
circostanze del caso concreto, compresi il numero e la durata complessiva dei contratti
o dei rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi in passato con il medesimo
datore.
Il fatto
Una lavoratrice che in Germania aveva prestato servizio presso il Land Renania Settentrionale-Vestfalia
nell'arco di oltre undici anni, in forza di tredici contratti di lavoro a tempo determinato, conclusi a fronte di
congedi fruiti da altri dipendenti a tempo indeterminato e diretti a garantire la sostituzione di costoro, si
rivolgeva al tribunale del lavoro di Colonia, chiedendo che fosse dichiarata l'illegittimità dell'apposizione
del termine all'ultimo contratto. Sosteneva che, seppure l'art. 14 della legge tedesca sul lavoro a tempo
parziale e sui contratti a tempo determinato del 21.12.2000 (modificata dall'art. 1, legge 19.4.2007)
consente l'apposizione del termine quando sia giustificata da una ragione obiettiva ed espressamente
dispone che una tale ragione sussiste quando il lavoratore viene assunto per sostituire un altro lavoratore,
nel suo caso l'assunzione a tempo determinato sarebbe stata ingiustificata. I tanti contratti di lavoro
succedutisi senza interruzione nell'arco di un periodo di parecchi anni, deduceva la lavoratrice, non
avrebbero potuto in alcun caso riflettere un'esigenza temporanea di personale sostitutivo.
Un'interpretazione e un'applicazione del diritto nazionale secondo le quali una siffatta concatenazione di
contratti a termine dovrebbe essere considerata legittima sarebbe comunque incompatibile, proseguiva
l'interessata, con la clausola 5, p. 1, dell'accordo quadro europeo sul lavoro a tempo determinato, secondo
la quale per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a
tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, come pure le parti sociali
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stesse, devono introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo
che tenga conto delle esigenze di settori e categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative anche
alla durata massima totale dei rapporti di lavoro a termine successivi, al numero dei rinnovi di tali
rapporti, alle ragioni obiettive per la giustificazione dei rinnovi. Il tribunale di Colonia rigettava la domanda
della ricorrente e la sentenza veniva confermata in appello, sicché l'interessata proponeva ricorso per
cassazione dinanzi al tribunale federale del lavoro, il quale si interrogava sulla qualificazione dell'esigenza
di personale sostitutivo come ragione obiettiva ai sensi della normativa Ue, chiedendo alla Corte, da un
lato, se il fatto che tale esigenza sia permanente o frequente, e possa essere soddisfatta anche mediante
la conclusione di contratti a tempo indeterminato, non escluda che una sostituzione costituisca ragione
giustificatrice dell'apposizione del termine e, dall'altro, se si deve tenere conto comunque del numero e
della durata dei contratti di lavoro a termine già conclusi in passato con lo stesso dipendente.
La decisione della Corte di giustizia Ue
Quando l'esigenza di sostituzione è permanente o ricorrente - Una prima questione posta al vaglio
della Corte consisteva nell'appurare se l'esigenza temporanea di personale sostitutivo possa costituire una
ragione giustificatrice obiettiva anche qualora tale esigenza, per essere permanente o ricorrente, possa
essere fronteggiata assumendo un lavoratore a tempo indeterminato.
Ad avviso della pubblica amministrazione tedesca, l'esigenza permanente o ricorrente di personale
sostitutivo non escluderebbe la validità della conclusione di un contratto a tempo determinato a fini di
sostituzione, altrimenti il datore di lavoro sarebbe costretto a costituire una riserva permanente di
personale.
Secondo il giudice europeo, una disposizione che consenta il rinnovo di contratti a tempo determinato per
sostituire altri dipendenti che si trovino momentaneamente nell'impossibilità di svolgere le loro funzioni
non è, di per sé, contraria all'accordo quadro, poiché la sostituzione temporanea di un altro dipendente al
fine di soddisfare esigenze provvisorie del datore di lavoro in termini di personale può, in linea di principio,
costituire una ragione giustificatrice obiettiva (Corte Giust. Ue C378/07). Quando un datore dispone di un
organico significativo è inevitabile che si rendano spesso necessarie sostituzioni temporanee, a causa
dell'indisponibilità di dipendenti che beneficiano di sospensioni tutelate del rapporto lavorativo.
Tale conclusione si impone, a maggior ragione, allorché la normativa nazionale che giustifica il rinnovo di
contratti a tempo determinato in caso di sostituzione temporanea persegue altresì importanti obiettivi di
politica sociale, quali la tutela della gravidanza e della maternità o la conciliazione degli obblighi
professionali con quelli familiari (Corte Giust. Ue 18.11.2004, C284/02 e 7.6.1998, C243/95). Le autorità
nazionali, allora, devono garantire che l'applicazione concreta delle ragioni di sostituzione sia conforme
alle esigenze dell'accordo quadro, vale a dire che il rinnovo di successivi contratti a termine risponda
effettivamente ad un'esigenza reale, sia idoneo a raggiungere lo scopo perseguito e necessario a tale
effetto. A parere della Commissione, la conclusione di vari contratti successivi a tempo determinato per un
periodo notevolmente lungo è atta a dimostrare che la prestazione richiesta dal lavoratore non mira a
soddisfare una semplice esigenza temporanea. La stessa Corte di Giustizia, del resto, aveva già avuto
occasione di affermare che il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di
soddisfare esigenze che, di fatto, hanno un carattere non già provvisorio ma, al contrario, permanente e
durevole, non è giustificato in base alla clausola 5 dell'accordo quadro (Corte Giust. Ue C378/07, cit., p.
103).
La sentenza in commento afferma, tuttavia, che la sola circostanza che si concludano contratti di lavoro a
tempo determinato al fine di soddisfare un'esigenza permanente o ricorrente di personale sostitutivo non
può essere sufficiente ad escludere che ognuno di questi contratti, considerati singolarmente, sia stato
concluso per garantire una sostituzione avente carattere temporaneo; l'esigenza di personale sostitutivo,
infatti, può restare pur sempre temporanea, poiché si presume che il lavoratore sostituito riprenda la sua
attività al termine del congedo. Spetta, pertanto, alle competenti autorità dello Stato membro verificare
concretamente che il rinnovo di successivi contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato miri a
soddisfare esigenze provvisorie e che le disposizioni nazionali che consentono l'apposizione del termine
per ragioni sostitutive non siano, di fatto, utilizzate per soddisfare esigenze permanenti e durevoli del
datore di lavoro in materia di personale; che i contratti a termine, in altre parole, non siano utilizzati in
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modo abusivo dal datore di lavoro (Corte Giust. Ue 12.6.2008, C347/07, ord.). Tale verifica va compiuta
prendendo in considerazione tutte le circostanze sottese al rinnovo dei contratti o rapporti a termine,
poiché queste circostanze possono rivelare indizi di un abuso che il diritto dell'Unione mira a prevenire.
La sostituzione con personale a tempo indeterminato - Altra questione affrontata dalla Corte Ue è
se la sussistenza della ragione giustificatrice vada esclusa quando l'esigenza di sostituzione sia
permanente o ricorrente, potendo il datore farvi fronte attraverso l'assunzione di personale a tempo
indeterminato. La Corte ha ricordato che la clausola 5, p. 1, dell'accordo quadro riconosce agli Stati
membri la facoltà, in quanto ciò sia oggettivamente giustificato, di tenere in considerazione le esigenze
particolari degli specifici settori di attività e delle categorie di lavoratori considerate (Corte Giust. Ue
7.9.2006, C53/04). Il mero dato che un'esigenza di personale sostitutivo possa essere soddisfatta
attraverso la conclusione di contratti a tempo indeterminato non comporta, pertanto, che un datore che
decida di ricorrere a contratti a tempo determinato per far fronte a carenze temporanee di organico,
sebbene queste ultime si manifestino in modo ricorrente, se non addirittura permanente, agisca
abusivamente. Il successivo punto 2 della clausola 5 si limita, peraltro, a consentire agli Stati membri di
stabilire a quali condizioni i contratti o i rapporti di lavoro a tempo determinato sono ritenuti a tempo
indeterminato, lasciando così ampi margini di discrezionalità in materia al legislatore nazionale.
L'esistenza di una ragione obiettiva riconosciuta dalla normativa nazionale conforme a quella europea
esclude dunque, in linea di principio, l'esistenza di un abuso, a meno che un esame globale delle
circostanze che hanno portato al rinnovo dei contratti a tempo determinato riveli che le prestazioni
richieste al lavoratore non corrispondono ad un'esigenza temporanea.
E l'accordo quadro, come risulta dal punto 10 delle sue considerazioni generali, demanda agli Stati
membri e alle parti sociali la definizione delle modalità dettagliate di attuazione dei princìpi e requisiti che
esso detta. Il fatto di richiedere automaticamente la conclusione di contratti a tempo indeterminato,
qualora il datore debba far fronte ad un'esigenza ricorrente o permanente di personale sostitutivo,
oltrepasserebbe gli obiettivi perseguiti dalla normativa dell'Unione e violerebbe il margine di
discrezionalità riconosciuto da questa agli Stati membri e alle parti sociali.
Le ricadute sulla normativa nazionale - L'art. 5, Dlgs n. 368/2001, disciplina la successione di
contratti a tempo determinato, facendo ampio uso della discrezionalità riconosciuta dal diritto Ue a Stati e
parti sociali, anzitutto quando impone una soluzione di continuità - almeno dieci giorni, elevati a venti nel
caso di scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi - tra due assunzioni a termine successive
(comma 3). Istituisce, poi, un limite puramente quantitativo, che prescinde dall'effettiva sussistenza della
ragione giustificatrice, costituito dal superamento, per effetto di successione di contratti a termine per lo
svolgimento di mansioni equivalenti fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, della durata
complessiva di oltre 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di
interruzione tra un contratto e l'altro (comma 4-bis).
Affida alle parti sociali il completamento della disciplina, consentendo ai contratti collettivi stipulati a livello
nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative
sul piano nazionale di derogare alle disposizioni sul predetto limite complessivo dei 36 mesi (comma 4-bis,
primo periodo) e alle stesse organizzazioni di stabilire, con avvisi comuni, la durata di un ulteriore
successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti, a condizione che la stipula avvenga presso la Dpl con
l'assistenza di un rappresentante di una di tali organizzazioni cui il lavoratore sia iscritto o conferisca
mandato (comma 4-bis, penultimo periodo). Predispone un sistema sanzionatorio sia per l'assenza di
soluzione di continuità tra un contratto e l'altro (il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato
dalla data di stipulazione del primo contratto) che per l'insufficiente intervallo tra due rapporti a termine e
per il superamento del limite complessivo dei 36 mesi (il contratto si considera a tempo indeterminato
dalla scadenza dei termini). La disamina della sentenza della Corte consente di valutare l'ampio utilizzo
che il legislatore italiano ha fatto della discrezionalità affidatagli dal diritto dell'Unione. Nella sentenza,
infatti, si affermano alcuni princìpi che vale la pena evidenziare:
- i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro (punto
36);
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- il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di
fatto, hanno un carattere non già provvisorio bensì durevole non è giustificato in base alla normativa
europea (punto 36);
- il mero fatto che un'esigenza di personale sostitutivo possa essere soddisfatta attraverso la conclusione
di contratti a tempo indeterminato non comporta che un datore di lavoro che faccia ricorso ad assunzioni
a termine per farvi fronte agisca in violazione della normativa europea (punto 50);
- la normativa europea non sancisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la
trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, così come
non stabilisce le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi ultimi (punto 52).
Da questi princìpi deriva che sia la scelta di porre un limite temporale (36 mesi), oltre il quale è
impossibile dimostrare la sussistenza di un'effettiva esigenza sostitutiva, che quella di sanzionare il
superamento di questo limite con la trasformazione del rapporto da tempo determinato a tempo
indeterminato non sono affatto imposte dal diritto Ue, anche se sono certamente compatibili con esso. Lo
stesso si dica per l'imposizione di una frattura temporale minima tra un rapporto a termine e il successivo.
Osservazioni conclusive
Alla luce di ciò non può di certo ritenersi preclusa la discussione circa la rispondenza della vigente
normativa italiana alle attuali esigenze del mercato del lavoro e la sufficienza della sua, peraltro limitata,
derogabilità da parte della sola contrattazione collettiva stipulata dalle Oo.ss. comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale, senza spazi di contrattazione individuale. La sanzione della
trasformazione a tempo indeterminato di rapporti a termine - pure se stipulati per far fronte ad effettive
esigenze tecniche, organizzative, produttive o sostitutive - per la mera inosservanza di limiti temporali,
del tutto avulsi dalla considerazione dell'obiettiva esigenza di soddisfare necessità dell'impresa transeunte,
appare, in taluni casi, davvero sproporzionata, tale da scoraggiare l'assunzione di nuovo personale,
seppure a tempo determinato. La normativa non distingue tra insussistenza delle ragioni giustificatrici
dell'apposizione del termine, che ben possono risolversi nella nullità dello stesso e nella conseguente
instaurazione del rapporto a tempo indeterminato (posto che per l'accordo quadro il tempo indeterminato
costituisce la forma comune dei rapporti di lavoro), e mera inosservanza di limiti temporali, sui quali può
forse fondarsi una presunzione semplice di insussistenza delle ragioni giustificatrici, che tuttavia sarebbe
ragionevole fosse accertata di volta in volta, come argomenta la Corte di Giustizia, prendendo in
considerazione tutte le circostanze del caso concreto; circostanze delle quali numero e durata complessiva
dei rapporti sono soltanto alcuni elementi, significativi ma non certo concludenti. Con riferimento a tali
inosservanze un regime sanzionatorio fondato, ad esempio, su tutele indennitarie o sanzioni
amministrative parrebbe più adatto a rispondere alle finalità del diritto Ue, rispetto alla sanzione, così
gravida di conseguenze onerosissime, con cui la normativa italiana vigente reprime mere inosservanze di
limiti temporali.
Guida al Lavoro, 17.2.2012 - n. 8 - p.31, Violazione delle norme sul contratto a termine nel
pubblico impiego: il parere della Fondazione studi dei consulenti del lavoro
FONDAZIONE STUDI CONSULENTI DEL LAVORO - PARERE 2 FEBBRAIO 2012, N. 2
Il quesito
Si chiede quali siano le conseguenze per la violazione delle norme sul contratto di lavoro a
tempo determinato nel rapporto di lavoro pubblico.
Il quadro normativo
Come è noto, l'art. 36 del Dlgs n. 165/2001, stabilisce che nel settore pubblico "la violazione di
disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche
amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le
medesime pubbliche amministrazioni", ma solo il diritto al risarcimento del danno in favore del lavoratore
(comma 5). Pertanto, anche la nullità del termine apposto al contratto non ne determina la conversione in
un rapporto a tempo indeterminato. Il fondamento di tale norma, che rende inapplicabile la tutela di
carattere ripristinatorio nel pubblico impiego, viene solitamente rinvenuto nel principio previsto dall'art.
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97, comma 3, Cost., il quale sancisce la regola del concorso pubblico quale forma di reclutamento nella
pubblica amministrazione (Corte cost., 27.3.2003, n. 89, in "Foro It.", 2003, I, col. 2258).
Le conseguenze per la violazione delle norme sul contratto a termine
Come detto, l'art. 36, comma 5, del Dlgs n. 165/2001 prevede - quale sanzione per il ricorso abusivo al
contratto a termine - il risarcimento del danno in favore del pubblico dipendente. Tuttavia, sulle modalità
di quantificazione dell'entità di detto risarcimento da mancata conversione del posto di lavoro la
giurisprudenza di merito ha prospettato diverse soluzioni applicative.
A) Un primo orientamento utilizza quale parametro per il risarcimento del danno l'art. 18, legge n.
300/1970, ritenendo tale meccanismo sanzionatorio "l'unico istituto attraverso il quale il legislatore ha
monetizzato il valore del posto di lavoro assistito dalla stabilità reale, qual è quello alle dipendenze della
pubblica amministrazione" (Trib. Genova, 5 aprile 2007, in Riv. It. Dir. Lav., 2007, II, 906).
In particolare, alcune pronunce hanno sommato le mensilità indicate nell'art. 18, commi 4 (cinque
mensilità) e 5 (quindici mensilità) della legge n. 300/1970, condannando l'amministrazione a risarcire una
somma pari a venti mensilità della retribuzione globale di fatto (in tal senso v. anche App. Genova, 9
gennaio 2009, che ha confermato la sentenza del Trib. Genova 5 aprile 2007, in Riv. It. Dir. Lav., 2010,
II, 133; Trib. Foggia 5 novembre 2009, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2010, 453).
Peraltro, sempre il Tribunale di Genova (Sent. 5 aprile 2007, cit.) ha condannato la Pa a risarcire un
danno inferiore, pari a dieci mensilità, il lavoratore che - successivamente alla conclusione del rapporto di
lavoro con l'amministrazione - era stato assunto da una ditta privata appaltatrice del servizio nella stessa
struttura pubblica ove egli aveva operato. Altra giurisprudenza - sempre aderente a tale orientamento ha invece quantificato il danno in quindici mensilità, decurtando dall'importo spettante al lavoratore le
cinque mensilità di cui al comma 4 della legge n. 300/1970.
B) Un diverso orientamento ricollega invece il danno del lavoratore al tempo medio necessario per trovare
un altro impiego stabile, tenuto conto della zona geografica, dell'età anagrafica, del sesso e del titolo di
studio (Trib. Rossano, 4.6.2007, in Riv. It. Dir. Lav., 2007, II, 918, che ha, condannato l'amministrazione
a corrispondere al lavoratore 17 mensilità della retribuzione). Tale pronuncia non ha trovato, tuttavia, il
consenso dei giudici di appello, i quali hanno riformato la sentenza di primo grado preferendo quantificare
il danno mediante il criterio - meno aleatorio - previsto dall'art. 8, legge n. 604/1966, quindi commisurando
il risarcimento al pagamento di un'indennità compresa tra 2,5 e 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale
di fatto (App. Catanzaro, 1.4.2010, in Foro It., 2010, I, col. 1931).
C) Un recente orientamento giurisprudenziale ha individuato il metodo di quantificazione del danno
nell'indennità prevista dall'art. 32, comma 5, legge n. 183/2010, secondo il quale "Nei casi di conversione
del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore
stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di
12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell' art. 8 della legge
15.7.1966, n. 604" (Trib. Treviso, 28.1.2011, inedita).
D) Ancora, altre pronunce hanno parametrato il danno al numero e alla durata dei rapporti a termine
succedutesi negli anni, il cui trascorrere diminuirebbe la possibilità di rinvenire un impiego e
determinerebbe un ragionevole affidamento sulla possibilità di protrarsi ulteriormente dei rapporti stessi
(Trib. Orvieto, 19.11.2010, inedita).
E) Il Tribunale di Trapani (Sent. 30 gennaio 2007, in Lav. nella Pubbl. Amm., 2007, II, 1154) ha invece
affermato che il danno patito dal lavoratore a termine non reintegrato sia pari alle retribuzioni spettanti
dalla data di messa in mora sino a quella della sentenza.
F) Infine, alcuni giudici hanno condannato le amministrazioni al pagamento delle differenze retributive tra
quanto percepito dal lavoratore e quanto sarebbe a lui spettato se - nel medesimo periodo - fosse stato
assunto a tempo indeterminato, cioè gli scatti di anzianità, ovvero il trattamento retributivo non erogato
negli intervalli di tempo non lavorati (Trib. Milano, 12.1.2007, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2007, 182; Trib.
Milano, 23.11.2009, n. 7106, inedita; Trib. Treviso, 20.7.2010, in Lav. Giur., 2011, 389; Trib. Milano,
11.3.2010, n. 2020, inedita; Trib. Roma, 16.6.2010, n. 10942, inedita; v. contra: Trib. Roma, 20.1.2011,
n. 832, inedita).
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G) Infine, si segnala che alcune recenti pronunce di merito hanno riconosciuto la possibilità di trasformare
il contratto a termine illegittimo anche nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni,
superando così la barriera sinora costituita dall'art. 97 Cost. e dall'art. 36 Dlgs n. 165/2001 (Trib. Siena,
27.9.2010, in Lav. nella Pubbl. Amm., 2010, II, 869; Trib. Livorno, 25.1.2011, in Guida al Lavoro, 2011,
10, 17; Trib. Trani, 18.7.2011, inedita).
Riferimenti normativi:
Art. 97 Cost.; Art. 36 Dlgs n. 165/2001; Dlgs. 6.9.2001, n. 368; Art. 18, commi 4 e 5, legge n. 300/1970;
Art. 8, legge n. 604/1966; Art. 32, comma 5, legge n. 183/2010.
Riferimenti giurisprudenziali: - Corte cost., 27.3.2003, n. 89, in Foro It., 2003, I, col. 2258; Trib. Genova,
5.4. 2007, in Riv. It. Dir. Lav., 2007, II, 906; App. Genova, 9.1.2009, in Riv. It. Dir. Lav., 2010, II, 133;
Trib. Foggia 5.11.2009, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2010, 453; Trib. Rossano, 4.6.2007, in Riv. It. Dir. Lav.,
2007, II, 918; App. Catanzaro, 1.4.2010, in Foro It., 2010, I, col. 1931; Trib. Treviso, 28.1.2011; Trib.
Orvieto, 19.11.2010; Trib. Trapani, 30.1.2007, in Lav. nella Pubbl. Amm., 2007, II, 1154; Trib. Milano,
12.1.2007, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2007, 182; Trib. Milano, 23.11.2009, n. 7106; Trib. Treviso, 20.7.2010,
in Lav. Giur., 2011, 389; Trib. Milano, 11.3.2010, n. 2020; Trib. Roma, 16.6.2010, n. 10942; Trib. Roma,
20.1.2011, n. 832; Trib. Siena, 27.9.2010, in Lav. nella Pubbl. Amm., 2010, II, 869; Trib. Livorno,
25.1.2011, in Guida al Lavoro, 2011, 10, 17; Trib. Trani, 18.7.2011.
Doppio risarcimento del danno nel caso di conversione del contratto a termine, Corte d'Appello
di Roma, Sezione Lavoro, Sentenza 17 gennaio - 2 febbraio 2012, n. 267, Marco Proietti,
Associate Studio Legale Guidi Federzoni – Pereno, www.diritto24.ilsole24ore.com
La vexata quaestio sulla conversione del contratto a tempo determinato, in ragione dell’illegittima
apposizione del termine, ha avuto una svolta con l’entrata in vigore dell’art. 32, comma, 5, della legge
183/2010, c.d. Collegato lavoro; la disciplina, infatti, è stata stravolta e riscritta, con conseguente
insorgere di notevoli dibattiti ed analisi da parte di dottrina e giurisprudenza che, da ottiche divere, sono
giunte pressoché ad unanimi considerazioni.
Il punto di maggiore attrito è proprio insito nella novità introdotta dal citato comma 5, ai sensi del quale
nel caso di conversione del contratto a termine il lavoratore – oltre all’evidente riconoscimento
dell’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dalla data di stipula del primo contratto a
termine – avrebbe diritto al pagamento di un’indennità onnicomprensiva compresa nella forbice tra le 2,5
e le 12 mensilità.
Il concetto di onnicomprensività ha diviso la giurisprudenza più recente e neppure la Corte Costituzionale
sembrerebbe essere riuscita a dirimere definitivamente la questione, stante anche la recentissima
sentenza 267/2012 della Corte di Appello di Roma oggetto di commento nel presente contributo.
IL FONDAMENTO GIURIDICO DELLA CONVERSIONE
E’ opportuno rammentare che quando si parla di conversione del contratto a termine in uno a tempo
indeterminato, secondo l’opinione della dottrina prevalente, ci si richiama ad un criterio che determina la
nullità della clausola che appone il termine al contratto per mancanza dei requisiti oggettivi richiesti dalla
legge: ovvero l’esistenza di esigenze di carattere tecnico, organizzativo e sostitutivo.
E’ comunque evidente che alla medesima conclusione si debba giungere anche nel caso in cui il termine
non venga indicato nel contratto o qualora, ai sensi del D.lgs. 368/2001, si utilizzi tale forma contrattuale
nei casi vietati dalla legge quali, ad esempio, la sostituzione di lavoratori in sciopero.
In realtà, almeno fino all’entrata in vigore della legge 183, si è sempre parlato solo di trasformazione del
rapporto di lavoro, con richiamo espresso unicamente alla natura del rapporto; il termine “conversione”,
invece, è stato codificato solo a seguito dell’entrata in vigore del Collegato lavoro che, come visto, ha per
la prima volta utilizzato il vocabolo
nell’art. 32, comma 5, ed ha attribuito allo stesso una propria e autonoma dimensione giuridica. A seguito
di tale codificazione, con il termine “conversione” si finisce per ricomprendere anche una serie di ipotesi
ulteriori a quelle a cui il legislatore collega la sanzione espressa della trasformazione; sul punto è
interessante la posizione della recente dottrina (cfr. Di Paola – Fedele, “Il contratto di lavoro a tempo
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determinato”, Giuffrè, 2011, pp. 392-393) che offre un’elencazione dei casi limite in cui si può assistere
alla conversione del rapporto ovvero:
1) termine non determinato né determinabile;
2) datori di lavoro rappresentanti da aziende di trasporto aereo;
3) datori di lavoro rappresentanti da imprese attive nel settore postale;
4) violazione dei divieti di contratto a termine;
5) violazione delle modalità di proroga del termine;
6) prosecuzione del rapporto oltre il termine scaduto;
7) stipula di due contratti a termine ravvicinati;
8) superamento del termine massimo dei 36 mesi;
9) stipula di un contratto a termine oltre i limiti quantitativi previsti per legge.
Nonostante questa elencazione la causa più rilevante di conversione del rapporto rimane sempre e
comunque la mancanza delle ragioni legittimanti l’apposizione del termine, e su questo punto si è formato
un recente ed ampio dibattito tra dottrina e giurisprudenza: il citato art. 32, comma 5, del Collegato
lavoro ha infatti previsto il pagamento di un’indennità risarcitoria in caso di conversione del contratto in
uno a tempo indeterminato, compresa tra le 2,5 e le 12 mensilità complessive. Il dubbio che è sorto, e di
cui si discute ancora oggi, è se la previsione fatta dal legislatore circa la natura onnicomprensiva di tale
indennità sia costituzionalmente legittima o se invece leda i diritti fondamentali dei lavoratori.
LA POSIZIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE
La Corte Costituzionale, con sentenza 9-11 novembre 2011, n. 303, ha chiarito che l’art. 32, comma 5,
nella sua previsione di una indennità onnicomprensiva nel caso di conversione del contratto di lavoro a
termine non viola alcun principio costituzionale; tale presa di posizione, netta e inequivocabile, parte dal
presupposto secondo cui la previsione di un’indennità predeterminata è invece proprio una garanzia di
certezza del diritto che viene riconosciuta al lavoratore “precaria” a seguito della dichiarazione di nullità
del termine apposto al proprio contratto: il lavoratore, infatti, avrà comunque diritto ad un’indennità in
questi casi che non potrà essere mai superiore alle 12 mensilità ma, in ogni caso, non potrà nemmeno
essere inferiore a 2,5 mensilità.
Il criterio ispiratore è, evidentemente, lo stesso adottato per i licenziamenti individuali nel caso di aziende
di dimensione inferiore alle 15 unità.
La disposizione normativa lasciava molti dubbi sul piano della tutela dei diritti del lavoratori in quanto,
infatti, si sosteneva che gli stessi – a fronte di un’indennità onnicomprensiva, e assorbente anche di ogni
altra rivendicazione di natura anche solo risarcitoria – non avessero poi diritto al pagamento delle
retribuzioni maturate dalla data di scadenza contrattuale a quella di effettiva reintegra: è proprio su
quest’ultimo punto che la Corte ha fatto ruotare il proprio ragionamento evidenziando come, alla fin dei
conti, l’elemento di maggiore tutela per il lavoratore è rappresentato dal suo diritto alla conversione del
rapporto di lavoro in tempo indeterminato, questione mai toccata dalla legge 183.
La Corte, infatti, ha escluso l’irragionevolezza della riduzione del danno già riconosciuto in misura
integrale al lavoratore e l’inadeguatezza della natura onnicomprensiva dell’indennità forfettizzata e, in
questo modo, ha voluto valorizzare l’intervento legislativo volto a introdurre – nel mare magnum della
giustizia italiana – un criterio oggettivo di giustizia giusta e certa; d’altro canto, a ben vedere,
l’accelerazione processuale imposta dai commi 1 e 3 del citato
art. 32, ovvero gli stringenti termini di impugnazione del licenziamento e della successiva azione
giudiziale, posso far ritenere sufficiente la forfettizzazione dell’indennità risarcitorio: l’idea di fondo, che
supporta la decisione della Corte, è che a fronte di una contrazione dei termini processuali si può ritenere
che l’ammontare dell’indennità prevista in caso di conversione del contratto a termine sia prossimo al
danno potenziale sofferto dal lavoratore.
Inoltre, quale valutazione conclusiva e che viene usata come valido criterio di ragionamento anche nelle
attuali discussioni relative alla modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, l’intervento del legislatore
ha inteso neutralizzare i nefasti effetti economici determinati dall’obbligo, a carico del datore di lavoro, di
corrispondere al lavoratore tutte le retribuzione maturate per il periodo di pendenza della controversia;
con questi presupposti, infatti, il lavoratore avrebbe ben potuto prolungare consapevolmente l’inizio
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dell’azione di nullità (imprescrittibile) e quella di risarcimento (con prescrizione di dieci anni) oltre a quella
per eventuali differenze retributive (con prescrizione di cinque anni) e giovarsi delle conseguenze prodotte
dal tempo di durata del processo implicanti l’aumento automatico dell’entità del risarcimento stesso (sul
punto è interessante la posizione della dottrina più autorevole, cfr. A. Vallebona, “La certezza finalmente
alla ribalta: legittimità costituzionale dell’indennità per il termine illegittimo”, in Massimario di Giur. Lav.,
dicembre 2011, 12, pp. 939 – 940).
LA GIURISPRUDENZA DI MERITO
La giurisprudenza di merito è stata pressoché univoca, sia prima che dopo la pronuncia della Corte
Costituzionale, nel ritenere più che congrua la previsione di una indennità onnicomprensiva a favore del
lavoratore nel caso di conversione del contratto a termine; tra le primissime sentenze in tale direzione si
possono citare Tribunale Milano, 29 novembre 2010 e Tribunale Milano, 25 febbraio 2011, nonché la
decisione del Tribunale di Roma, 11 gennaio 2011, tutte sulla stessa linea.
I giudici di merito hanno infatti ritenuto che la legge 183 non abbia in alcun modo fatto venire meno il
diritto del lavoratore a chiedere e ottenere la conversione del contratto ma, vera novità rispetto alla
previgente disciplina, ha introdotto unicamente una forma forfettizzata e onnicomprensiva di indennità
risarcitoria che chiude con ogni richiesta possibile da parte del lavoratore; per altro è interessante notare
come queste pronunce di merito siano state emesse a cavallo di altre due decisioni, di pari importanza, e
di segno avverso: la prima è la decisione del tribunale di Trani, 20 dicembre 2010, e la seconda è la
Cassazione 20 gennaio 2011, n. 2112.
Queste due decisioni meritano un’attenzione maggiore poiché è in quelle sedi che è stato sollevato il
dubbio di legittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 3 Cost., per quanto riguarda l’art. 32, comma 5, della
legge 183/2012; in particolare il Tribunale di Trani ha sostenuto la violazione del principio di
ragionevolezza nel momento in cui il legislatore ha esteso ai lavoratori a termine secondo la logia della
legge 604/1966: in realtà il giudice di Trani, cogliendo l’occasione del Collegato Lavoro, ha cercato di far
rientrare dalla finestra un’antica questione sopita da giurisprudenza consolidata in secula seculorum. La
questione della legittimità costituzionale relativa alla diversa tutela obbligatoria che viene riconosciuta, al
posto di quella reale, ai lavoratori in aziende con meno di 15 dipendenti; in realtà l’intera vicenda è stata
già ampiamente dibattuta sia in dottrina che in giurisprudenza e non vi è spazio né per riaprire un
dibattito al riguardo ne per ragionamenti in analogia con il disposto dell’art. 32, comma 5, più volte citato.
Per altro, come già visto, il diritto alla trasformazione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato non è
neppure stata messa in discussione dal legislatore per cui, come diretta conseguenza, ogni ragionamento
sul punto è puro pleonasma giuridico.
Le successive decisioni di merito sono tutte allineate alla posizione del legislatore e, cosa importante,
anticipano la decisione della Corte Costituzionale; si può citare, a mero riferimento, la decisione della
Corte di Appello di Perugia che, con sentenza 3 maggio 2011, ha chiarito ancora una volta come al
lavoratore spetti “…per il periodo compreso fra l’interruzione del rapporto stesso (alla scadenza del
termine dichiarato illegittimo) e la sentenza dichiarativa della nullità del termine, è dovuta al lavoratore, a
titolo di risarcimento, soltanto un’indennità omnicomprensiva, dunque, esaustiva di qualsiasi pretesa
risarcitoria o retributiva, da un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità della retribuzione globale di
fatto in godimento all’epoca di risoluzione del contratto”.
Sulla stessa linea si sono attestate anche il Tribunale di Genova nella sentenza 28 luglio 2011, circa la
corretta interpretazione dell’art. 32, comma 5, nonché il Tribunale di Roma, nella sentenza 16 novembre
2011 ove il giudice, tra le cose, esclude l’applicazione dell’aliunde perceptum.
LA SINGOLARE POSIZIONE DELLA CORTE DI APPELLO DI ROMA
In totale disaccordo e controtendenza con le altre Corti di Appello, è intervenuta quella di Roma che ha
stravolto – o almeno questo ne è il tentativo – un consolidato giurisprudenziale di più di un anno,
rafforzato dalla tombale decisione della Corte Costituzionale.
Il ritorno dei giudici legislatori che, in virtù di quei poteri di direzione del processo che vengono
riconosciuti da parte del codice di procedura civile, partoriscono sentenze piuttosto creative come non è
mancato di far notare puntualmente una parte della dottrina più autorevole (cfr. G. Falasca in Sole 24
Ore, 12 febbraio 2012, p. 19); in effetti se si legge la motivazione della sentenza ci si rende conto di come
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la Corte romana non abbia preso minimamente in considerazione né la giurisprudenza di merito formatasi
nel corso degli ultimi 12 mesi né tantomeno, e cosa più grave, la cesura fatta dalla Corte Costituzionale,
ed ha fornito un’interpretazione propria che attende solo la scure finale della Cassazione: un’attesa il cui
esito se non scontato è quanto meno auspicabile.
Nella motivazione della sentenza si può certamente apprezzare l’intento della Corte romana di fornire una
lettura più attenta della legge 183 e di fornire un’interpretazione quanto più possibile contigua alla tutela
dei diritti dei lavoratori che, in questo caso, vengono identificati con precari a tempo determinato; tuttavia
non è condivisibile la scelta adottato poiché si finisce per fornire una decisione al caso concreto in aperta
violazione delle disposizioni di legge, fornendo il fianco (come già accennato) ad una facile censura in sede
di legittimità.
La Corte romana, infatti, si affianca a quel filone giurisprudenziale rappresentato dall’unica ed isolata
sentenza di Cassazione, già citata e commentata (cfr. Cass. 20 gennaio 2012, n. 2112) che ritiene
l’indennizzo di cui all’art. 32, comma 5, della l. 183/2010, di natura cumulativa e non onnicomprensiva
rispetto al diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate in pendenza della
controversia; posizione questa ampiamente superata, tanto più che è la stessa Corte ha prendere atto
dell’entrata in vigore della legge 183, seppur in corso del giudizio di appello, e della natura retroattiva
della disposizione del citato comma 5.
Si legge così in motivazione che “… con riferimento alle conseguenze risarcitorie, occorre valutare gli
effetti sul caso in esame della riforma contenuta nell’art. 32, 5° comma, della legge n. 183/2010, …
questa Corte territoriale, in primo luogo, prende atto dell’orientamento della Suprema Corte, secondo cui
la norma si applica ai giudizi in corso anche in appello e in cassazione (Cass. Ord. N. 2112/2011) … deve
escludersi, inoltre, che l’indennità prevista dall’art. 32 possa considerarsi sostitutiva della conversione del
rapporto”.
E poi ancora si legge che “… trattandosi di sentenza dichiarativa [ndr. la sentenza di conversione del
contratto a termine] sussistono ragioni giuridiche per far decorrere l’obbligo retributivo conseguente alla
conversione dalla sentenza e non da un momento precedente, in applicazione di una giurisprudenza, che,
come si è detto, non è applicabile alla nuova normativa. E’ allora possibile una diversa interpretazione,
che sia il più possibile conforme al dato letterale e sia costituzionalmente compatibile. Sotto il profilo
costituzionale l’interpretazione deve essere compatibile con l’art. 111 Cost. e con la regola generale
secondo cui la durata del processo non può produrre effetti negativi per chi agisce e vince la causa. La tesi
secondo cui l’indennità coprirebbe tutto il periodo fino alla sentenza, appare in contrasto con questi
principi”.
In realtà la posizione della Corte non può essere condivisa. Non può esserlo certamente perché, in primo
luogo, la ragionevole durata del processo non può equivalere ad un ingiusto onere a carico di chi
soccombe qualora il processo si sia prolungato non per propria volontà; e su questo punto lunga sarebbe
la lista di commenti dottrinali riguardo gli oneri, ed i rischi, che sono stati introdotti in fase di tentativo
obbligatorio di conciliazione in sede giudiziale.
Non può comunque esserlo, in secondo luogo, poiché la motivazione della Corte – seppur apprezzabile lo
sforzo ermeneutico – non tiene minimamente in considerazione della forza vincolante della legge, quasi
che il dettato normativo non avesse alcuna funzione anche quando la norma è, stranamente, chiara e
inequivocabile.
Indennità risarcitoria in caso di conversione del contratto a termine: le prime sentenze
applicative, Luca Failla - LABLAW - Studio Legale Failla, Rotondi & Partners - a cura di Lex24,
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A distanza di poco più di 2 mesi dall’entrata in vigore, le novità apportate dal Collegato lavoro - legge n.
183/2010 - stanno dando adito ad ampi dibattiti e conseguentemente, si iniziano a registrare i primi
orientamenti giurisprudenziali.
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Infatti, copiose risultano essere le sentenze applicative delle nuove regole sull’impugnazione del contratto
a termine e sulle conseguenze risarcitorie nei casi di conversione del contratto, in base a quanto previsto
dall’art. 32, comma 5, e seguenti della legge n. 183/2010.
Pertanto, senza voler trattare qui della disciplina del contratto a termine e, in particolare, dell’effetto della
declaratoria di nullità del termine apposto al contratto, la presente trattazione mira a fare un primo punto
sugli orientamenti che si stanno affermando da parte della giurisprudenza.
Dalla semplice lettura dell’art. 32, comma 5, il quale prevede che “nei casi di conversione del contratto a
tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo
un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio
1966, n. 604”, i primi dubbi hanno interessato il significato dell’espressione “indennità onnicomprensiva”:
infatti, non è chiaro se il Legislatore abbia inteso cumulare alla conversione del rapporto la sanzione
risarcitoria predeterminandone la misura massima e minima, o piuttosto applicare, nei casi di conversione
del contratto a tempo determinato, unicamente la misura risarcitoria predetta, riesumando, quindi, l’art.
4bis D.Lgs. n. 368/2001.
Sul punto, è già intervenuta la giurisprudenza di merito la quale, appigliandosi al semplice tenore letterale
della norma, che qualifica l’indennità risarcitoria come onnicomprensiva, sostiene che la stessa sia da
intendersi inclusiva di ogni risarcimento spettante al lavoratore, rimanendo salva la conversione del
contratto a termine in contratto a tempo indeterminato (coerentemente a tale orientamento, anche dai
lavori preparatori, nel dossier di documentazione del DDL 1441quater f, si desume che la previsione del
risarcimento del danno si aggiunge e non sostituisce il ripristino del rapporto di lavoro “…. non vi sia
conflitto tra la conversione a tempo indeterminato e quella di definizione di risarcimento, anzi i due
termini coabitano”): così si pronunciano Trib. Milano 29 novembre 2010 nn. 4966 e 4971; 2 dicembre
2010, n. 5058 e Trib. Roma 16 dicembre 2010, n. 2970: quest’ultimo, in riferimento all’indennità
risarcitoria, specifica che essendo “onnicomprensiva”, esclude che possa permanere il diritto del
lavoratore al risarcimento da mora accipiendi relativamente al periodo tra la cessazione del rapporto e la
sentenza dichiarativa della nullità del termine.
Di diverso avviso è, invece, la decisione del Tribunale di Busto Arsizio 29 novembre 2010, n. 528 che, nel
riconoscere la nullità del termine apposto al contratto, per la totale mancanza delle ragioni tecniche,
organizzative, produttive e sostitutive previste dall’art. 1 D.Lgs. n. 368/2001 - si trattava, peraltro, di un
lavoratore assunto dalle liste di mobilità ai sensi dell’art. 8 della legge n. 223/1991 - ha dato applicazione
alla indicata disposizione prevedendo, da un lato, la conversione automatica del contratto, per nullità del
termine e, dall’altro, la condanna del datore di lavoro al pagamento sia delle retribuzioni nel frattempo
maturate, sia dell’indennità risarcitoria prevista dalla novella. Orbene, se la finalità del Legislatore è quella
di evitare effetti risarcitori eccessivi, nei casi di riconosciuta nullità del termine apposto al contratto di
lavoro, per effetto anche della durata del processo, quest’ultima pronuncia pare contraddirla
determinando, addirittura, un effetto “moltiplicatore” per le indennità risarcitorie poste a carico del datore
di lavoro nei casi di conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Altra e connessa problematica su cui i giudici hanno iniziato a pronunciarsi è data dalla previsione di cui al
comma 7 dello stesso art. 32, il quale riconosce l’applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 5 e 6
anche ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del Collegato - 24 novembre 2010 -. Sul punto, si
registrano due tesi contrapposte: la prima sostiene l’applicabilità della nuova norma ai soli giudizi
pendenti in primo grado (Corte d’Appello di Roma 30 novembre 2010); la seconda, prendendo a
fondamento il dato letterale della disposizione, ritiene, invece, che la stessa debba essere riferita a tutti i
giudizi, ivi compresi quelli in Cassazione. Infatti “la soluzione negativa equivarrebbe a discriminare tra
situazioni diverse in base alla circostanza, del tutto accidentale, di una pendenza della lite giudiziaria, in
una o altra fase, tra le parti del rapporto di lavoro” (Cass. 20 gennaio 2011, n. 2112).
Pare opportuno, infine, segnalare, il recente orientamento giurisprudenziale in merito all’applicazione
retroattiva della nuova disposizione.
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In particolare, si è chiarito che la retroattività della condanna di cui all’art. 32 trova un limite qualora si sia
già formato un giudicato sulla domanda di risarcimento, avendo quest’ultima un suo carattere di
individualità ed autonomia rispetto alla domanda di declaratoria di nullità del termine apposto al contratto.
Pertanto, nel caso in cui la statuizione relativa alla condanna risarcitoria non sia stata specificatamente
impugnata, sulla stessa si formerebbe il giudicato ai sensi dell’art. 324 c.p.c. (Cass. 3 gennaio 2011, n.
65).
Inoltre, secondo altro orientamento circa l’applicazione dello ius superveniens, in merito alle conseguenze
economiche derivanti dalla conversione del contratto di cui all’art. 32, comma 5 e seguenti del Collegato,
si è specificato che è necessario che i motivi del ricorso investano specificatamente la questione del
risarcimento in maniera diretta e che essi non siano tardivi, generici o non pertinenti. Pertanto, in caso di
assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità
del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce, infatti, la stabilità delle
statuizioni di merito relative a tali conseguenze (Cass. 4 gennaio 2011, n. 80).
Onde fornire un panorama giurisprudenziale completo degli orientamenti formatisi fino ad ora sulla
disposizione in esame, è d’uopo, infine, segnalare le due ordinanze con le quali è stata sollevata la
questione di legittimità costituzionale in riferimento alle stesse disposizioni in. Infatti, già il Giudice del
Tribunale di Trani ha, con ordinanza del 20 dicembre 2010, sollevato la questione di legittimità delle
disposizioni di cui ai c. 5, 6 e 7 dell’art. 32, con riguardo agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost.
principalmente per la disparità di trattamento che verrebbe a determinarsi per effetto della previsione di
un’indennità omnicomprensiva diretta a “contenere le lungaggini del processo”, per non parlare della
perdita del diritto alla ricostruzione previdenziale del rapporto di lavoro. Per il giudice del Tribunale di
Trani “non avrebbe alcun senso logico (prima ancora che giuridico) parlare di conversione (e, quindi di
ricostruzione ex tunc) di un rapporto, se a questa non si ricolleghi pure il diritto del lavoratore a percepire
– così come accade per i licenziamenti illegittimi intimati in area di stabilità reale – tutte le retribuzioni (a
partire dalla lettera di messa in mora e fino all’effettiva reintegra, al netto dell’aliunde perceptum) e,
soprattutto, il diritto a beneficiare della regolarizzazione della posizione contributiva”.
A ciò si aggiunge la questione di legittimità avanzata, in riferimento all’art. 32, commi 5 e 6, con
ordinanza del 20 gennaio 2011, n. 2112 dalla Corte di Cassazione. Secondo la Cassazione. l’indennità,
definita come onnicomprensiva, “acquista significato solo escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore,
indennitario o risarcitorio: pertanto, i commi 5 e 6 escludono ogni tutela reale e lasciano la possibile,
grave sproporzione fra indennità e danno effettivo, connesso al perdurare dell’illecito”. Con ciò
dimostrando, non solo di essere in contrasto con i principi di ragionevolezza nonché di effettività del
rimedio giurisdizionale di cui agli artt. 3, comma 2, 24 e 111 Cost., ma anche di ledere il diritto al lavoro,
riconosciuto a tutti i cittadini dall’art. 4 Cost: inoltre, la sproporzione tra la tenue indennità ed il danno,
che comporterebbe, per contro, lo spostamento sul datore di lavoro di comportamenti da qualificarsi come
dilatori, assecondando le lungaggini del processo, sembra contravvenire all’accordo quadro sul contratto a
tempo determinato e alla direttiva comunitaria 1999/70, che impone agli stati membri di “prevenire
efficacemente l’utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato…”.
Alla luce di quanto la giurisprudenza sta producendo sul punto appare chiaro che il dibattito, seppure
ancora agli inizi, è ormai aperto.
Contratto a termine: il Collegato lavoro finisce in Corte Costituzionale, Corte di Cassazione, sez.
lav., ord. 28 gennaio 2011, n. 2112, Giampiero Falasca, avvocato e partner studio legale Dla
Piper, www.diritto24.ilsole24ore.com
Il Collegato lavoro continua a far discutere. Dopo due anni di iter parlamentare, e ben due approvazioni
definitive da parte del Parlamento, la legge - a poche settimane dalla sua approvazione - è già finita
davanti due volte davanti alla Corte Costituzionale, prima con l'ordinanza del Tribunale di Trani del 20
dicembre scorso, poi con l'ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione (n. 2112/2011), di seguito
esaminata.
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La norma finita sul banco degli accusati è l'art. 32, nei commi 5 e 6. Questa norma stabilisce un tetto
massimo all'importo dell'indennizzo che deve essere pagato dal datore di lavoro a un lavoratore, nel caso
in cui questi ottenga la conversione a tempo indeterminato di un precedente contratto a termine. La
novità è molto rilevante, come hanno notato tutti i commentatori, in quanto si traduce in una forte
riduzione della tutela economica del lavoratore vittorioso in una causa avente per oggetto la
riqualificazione del contratto.
Prima dell'entrata in vigore della legge n. 183/2010, al lavoratore era riconosciuto un risarcimento pari
alle retribuzioni cui avrebbe avuto diritto dalla data di scadenza del contratto a termine sino all'effettiva
ripresa del lavoro; il risarcimento spettava dalla data in cui il lavoratore aveva offerto la prestazione, e
dalla somma dovevano essere detratti i redditi eventualmente conseguiti con altri lavori. Il risarcimento,
quindi, aumentava in misura direttamente proporzionale alla durata del processo, e copriva tutti i periodi
in cui il dipendente era rimasto senza occupazione.
Il Collegato Lavoro ha modificato questa disciplina, stabilendo che al lavoratore che si vede convertire il
contratto spetta (oltre alla riammissione in servizio) esclusivamente un'indennità di importo variabile tra
le 2,5 e le 12 mensilità. Questa indennità non tiene più conto della durata del processo, ma deve essere
calcolata secondo parametri diversi - le dimensioni azienda, l'anzianità lavorativa, il comportamento delle
parti - e, in ogni caso, non può mai eccedere le 12 mensilità.
Prima di analizzare l'ordinanza della Corte di Cassazione sopra massimata, pare opportuno ricordare che
analoga iniziativa è stata presa dal Tribunale di Trani il 20 dicembre 2010 (v. Guida al Lavoro n. 2/2011,
pag. 14). Il Tribunale di Trani, con la propria ordinanza, ha lamentato il contrasto con il principio di
ragionevolezza desumibile dall’art. 3 della Costituzione; secondo il Giudice, questo principio sarebbe
violato nel momento in cui il legislatore ha irragionevolmente esteso ai lavoratori a termine le norme con
cui la legge n.604/1966 regola il risarcimento del danno nell’area della stabilità obbligatoria. Secondo
l'ordinanza di Trani, il contratto a termine e il licenziamento nell’impresa fino a 15 dipendenti hanno una
diversa aspettativa del processo: per il lavoratore a termine la durata del processo sarebbe essenziale,
perché aspira alla ricostituzione del rapporto e perché il suo danno cresce con la durata del processo,
mentre per il lavoratore licenziato da un’impresa fino a 15 dipendenti “la durata del processo perde
importanza”, perché non ha l’aspettativa alla ricostituzione del rapporto di lavoro e comunque ha diritto a
vedere attualizzato il proprio credito risarcitorio.
Un'altra censura riguarda l’efficacia della norma rispetto ai giudizi in corso. Secondo il Giudice di Trani,
l'applicabilità della norma ai giudizi in contro contrasterebbe con la giurisprudenza costituzionale, e in
particolare con il principio secondo cui può essere data efficacia retroattiva a una norma solo quando
siano rispettati alcuni parametri molto rigorosi, e con l’art. 6 della Convenzione Europea sui Diritti
dell’Uomo (rilevante sul piano costituzionale ai sensi dell’art. 117 Cost.), la quale vieta al legislatore di
interferire nell’amministrazione della giustizia per influenzare l’esito di una controversia, salvo che vi siano
motivi imperativi di interesse generale.
L'analisi dell'ordinanza di Trani è utile in quanto alcune delle argomentazioni ivi esposte sono riproposte
nell'ordinanza della Corte di Cassazione. Osserva la Corte che l'art. 32 del Collegato Lavoro potrebbe
limitare il diritto del cittadino al lavoro e alla tutela giurisdizionale. Questa lesione deriverebbe dal fatto
che l'indennità pagata al lavoratore non considera la durata del processo e, quindi, non copre l'effettivo
pregiudizio del lavoratore (anche se, va osservato, il meccanismo già è applicato, senza essere
considerato incostituzionale, per il risarcimento del danno conseguente ai licenziamenti operati dalle
imprese con meno di 16 dipendenti). Riguardo a questo profilo, l'ordinanza evidenzia che la limitazione del
risarcimento entro un tetto predefinito ha l'effetto di incentivare il datore di lavoro a persistere
nell'inadempimento dell'obbligo di riammettere il lavoratore in servizio, in quanto la maggiore durata del
processo non si riflette in un maggiore risarcimento.
Un altro motivo di impugnativa - contenuto già nell'ordinanza di Trani - riguarda la presunta violazione
della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo.
Secondo la Convenzione, il legislatore non deve intromettersi nelle questioni di giustizia influenzando le
decisioni di una singola controversia o di un gruppo di esse.
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La portata di questo principio, peraltro, è stata in passato chiarita dalla Corte Costituzionale, la quale ha
riconosciuto che possono esistere motivi di interesse generale che consentono al legislatore di intervenire
sui processi in corso; secondo la Cassazione nel caso di specie tale interesse generale non sussiste, ma
sul punto la questione non è affatto scontata.
Ultimo argomento usato dalla Corte è il possibile contrasto con la normativa comunitaria, nella parte in cui
impone di garantire ai lavoratori a tempo determinato che subiscono un abuso del contratto un
risarcimento proporzionato al danno; questa censura è molto generica, in quanto la normativa
comunitaria non si occupa direttamente del tema. C'è da augurarsi che la Corte decida rapidamente la
questione; su questa materia si discutono e si decidono ogni giorno migliaia di cause, e un'attesa troppo
lunga creerebbe danni irreparabili a tutte le parti coinvolte.
La norma sull'indennità sostitutiva sta già trovando larga applicazione in sede giurisprudenziale dove, a
prescindere dalle questioni sulla sua costituzionalità, sono state affrontate alcune questioni legate al
concreto funzionamento della nuova disciplina. In primo luogo, è stato affrontato il tema della natura
sostitutiva o aggiuntiva dell'indennità rispetto al risarcimento del danno che, prima dell'entrata in vigore
del collegato lavoro, era normalmente riconosciuto al lavoratore. La giurisprudenza sembra unanime sul
punto (salvo un caso isolato a Busto Arsizio): nel caso di conversione del rapporto di lavoro, il dipendente
ha diritto solo a questa indennità, e non anche al risarcimento del danno. Questa tesi sembra coerente
con il testo della legge che qualifica chiaramente la nuova indennità come "omnicomprensiva".
Questa qualificazione consente di escludere l'applicazione delle tradizionali regole della mora credendi e
dell'aliunde perceptum. Prima dell'approvazione del Collegato, il risarcimento del lavoratore doveva essere
calcolato in questo modo: l'ultima retribuzione globale di fatto era moltiplicata per i mesi trascorsi dalla
data in cui il lavoratore aveva offerto formalmente la propria prestazione (c.d. mora credendi) e, dalla
somma risultante, erano detratti i redditi percepiti svolgendo altri lavori (il c.d. aliunde perceptum). La
giurisprudenza sembra escludere la natura risarcitoria della nuova indennità e, di conseguenza, il suo
importo è calcolato prescindendo dalla data di messa in mora e dai redditi percepiti dal lavoratore.
Un altro tema - affrontato anche dall'ordinanza n. 2112 della Corte - riguarda l'applicabilità della regola
sull'indennità ai giudizi in corso. I giudici di primo grado hanno quindi applicato senza remore la
disposizione, con poche eccezioni, anche se alcuni Tribunali, tenendo conto di questa impugnativa, hanno
emesso solo pronunce di condanna parziale solo sulla conversione del rapporto, mentre hanno disposto la
prosecuzione della causa per la definizione del risarcimento, in attesa di valutare lo sviluppo della
questione in sede costituzionale.
In sede di appello si sono registrati due diversi orientamenti. Secondo un primo orientamento,
maggioritario, la regola è applicabile anche in appello e, di conseguenza, il risarcimento concesso in primo
grado deve essere ricalcolato. Secondo una diversa e minoritaria lettura, il limite di indennizzo si
applicherebbe solo ai giudizi pendenti in primo grado. Con riguardo all'applicazione in sede di legittimità,
l'ordinanza n. 2112 della Cassazione ha ritenuto applicabile anche in tale sede l'indennità risarcitoria.
Guida al Lavoro, 20.1.2012 - n. 4 - p.34, Il lavoro nero nella disciplina del contratto a termine
Analisi della disciplina di proroga e prosecuzione di fatto del contratto a tempo determinato in rapporto
alla nuova normativa di contrasto al lavoro sommerso
La lotta al sommerso, in tutte le sue forme, ha acquisito un ruolo sempre più centrale negli obiettivi
strategici di politica sociale. Tuttavia, accanto a forme tradizionali di "puro" lavoro nero, gli organi ispettivi
del Ministero del lavoro si imbattono sovente in fattispecie ben più complesse che implicano un'indagine
sempre più accurata, per comprendere se si è realmente di fronte ad un lavoratore privo di regolare
assunzione ovvero ad una situazione pienamente legittima, riconosciuta e disciplinata dalla legge. Una di
queste attiene all'impiego di lavoratori con contratto di lavoro a termine, i quali proseguono la loro attività
lavorativa anche dopo la scadenza del termine originariamente pattuito. Un fenomeno solo in parte
facoltizzato dal legislatore, per esaminare il quale appare imprescindibile muovere proprio dal dato
normativo.
Disciplina normativa della prosecuzione del contratto a termine
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La prosecuzione del rapporto di lavoro oltre la scadenza del termine finale inizialmente pattuito può
trovare disciplina tanto nell'articolo 4 quanto nell'articolo 5 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n.
368, normativa di riferimento in tema di contratto a tempo determinato. Potremmo infatti trovarci di
fronte ad una proroga del contratto, prevista all'articolo 4 citato (1), oppure potrebbe essersi verificata
una delle ipotesi previste dal successivo articolo 5 (2). Tale norma disciplina la prosecuzione di fatto del
rapporto di lavoro (commi 1 e 2); la stipulazione di un nuovo contratto a termine entro un preciso e breve
periodo di tempo dalla data di scadenza del precedente contratto (comma 3) oppure la presenza di due
assunzioni successive a termine, senza alcuna soluzione di continuità (comma 4). Le casistiche previste
dall'articolo 4 e dai commi 1 e 2 dell'articolo 5 appaiono le più complesse, perché in prima analisi affini sul
piano fattuale e perché più problematiche in rapporto alla normativa di contrasto al lavoro sommerso,
nonché rispetto ad altri istituti ad essa collegati, quale quello della sospensione dell'attività
imprenditoriale. Diviene allora essenziale discernere quando una prosecuzione della prestazione lavorativa
possa essere qualificata come proroga del contratto ovvero come prosecuzione di fatto dello stesso.
La proroga del contratto a tempo determinato
L'articolo 4 sembra porre, fin dal suo incipit, due precise condizioni alla proroga del contratto a tempo
determinato: il consenso del lavoratore e la durata iniziale del contratto inferiore a tre anni. A queste poi,
la medesima norma, aggiunge l'esistenza di ragioni oggettive che la giustifichino e il riferimento alla
stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato oltre alla circostanza che la proroga può
essere effettuata per una volta soltanto senza poter superare complessivamente il limite dei tre anni
previsto quale durata massima di un contratto a tempo determinato. Dal punto di vista formale il datore
non è tenuto per legge ad alcuna forma scritta ad substantiam (3) per la validità della proroga che
pertanto, secondo il principio di libertà della forma, può essere pattuita anche oralmente ma, ovviamente,
l'accordo tra le parti deve avvenire anteriormente alla scadenza del termine inizialmente pattuito. In
difetto l'attività lavorativa prestata anche un solo giorno, successivamente alla scadenza del termine
dell'originario contratto, non avrebbe titolo nell'istituto previsto dall'art. 4, in quanto nessun accordo sul
punto è sorto tra le parti. Sempre sotto il profilo formale, il c. 5 dell'articolo 4-bis Dlgs 181/2000,
introdotto dall'art. 6 Dlgs 297/2000 fa obbligo per il datore di lavoro di comunicare in via telematica al
competente Centro per l'impiego, entro 5 giorni, la proroga del termine inizialmente fissato. Tale
adempimento, a ben vedere, rappresenta l'unico effettivo adempimento di formalizzazione esterna della
proroga del contratto, al quale il datore di lavoro è tenuto, atteso che le restanti condizioni, sopra
illustrate, pur previste per legge, operano unicamente su un piano meramente fattuale.
Proroga e continuazione di fatto a confronto
Proroga
Disciplina
Articolo 4 Dlgs n. 368/2001
Continuazione di fatto
Articolo 5, commi 1 e 2, Dlgs n.
368/2001
Caratteristiche - Necessario il consenso del
lavoratore
- durata iniziale del contratto
inferiore a 3 anni
- ragioni oggettive a
giustificazione
- stessa attività lavorativa
- effettuabile una volta soltanto
- durata complessiva del
contratto compresa la proroga
non superiore a 3 anni
Previste delle maggiorazioni
retributive per ogni giorno di
continuazione pari a:
- 20% - fino al decimo giorno - 40%
- dall'11° giorno in poi
Trasformazione del contratto a
tempo indeterminato:
- dal 21° giorno per contratti inferiori
a 6 mesi
- dal 31° giorno per contratti
superiori a 6 mesi
Obblighi
- Nessuna forma scritta ad
- Nessuna forma scritta ad
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formali
substantiam
- obbligo di comunicare la
proroga telematicamente al
competente Centro per
l'impiego
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substantiam
- nessun obbligo di comunicazione al
Centro per l'impiego
Prosecuzione di fatto del contratto a tempo determinato
Situazione del tutto diversa si verifica nel caso di semplice prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro. In
tale ipotesi il legislatore sembra proprio aver creato una sorta di periodo di tolleranza (4). Non vengono
tuttavia meno le tutele per il lavoratore che, oltre all'ovvia copertura assicurativa e previdenziale, avrà
anche diritto, come previsto dal comma 1 dell'articolo 5 citato, al pagamento di una maggiorazione
retributiva per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al venti per cento fino al decimo giorno
successivo ed al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore.
Tale regime di tolleranza tuttavia non può comunque essere illimitato, lasciando diversamente nella
completa incertezza il lavoratore circa le sorti del proprio rapporto di lavoro.
Il successivo comma 2 del medesimo articolo 5 infatti prevede che, laddove il rapporto di lavoro continui
oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi ovvero oltre il trentesimo giorno
negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.
La situazione in analisi risulta essere ben diversa dalla proroga, frutto di un preciso accordo tra le parti e
legittima solo in presenza delle condizioni di legge previste dall'articolo 4 sopra descritte.
Peraltro, l'esistenza di uno spazio di ammissibile prosecuzione del rapporto di lavoro di breve durata trova
la sua ratio nella volontà di superare la rigidità della pregressa disciplina.
Il comma 2 dell'articolo 2 della legge 18 aprile 1962 n. 230 prevedeva, infatti, un'automatica conversione
del contratto a tempo indeterminato ex nunc, immediatamente in coincidenza con la prosecuzione del
rapporto di lavoro (5). Successivamente il legislatore, prima con l'articolo 12 della legge n. 196/1997 e poi
con il citato articolo 5 del Dlgs n. 368/2001, ha voluto cambiare radicalmente rotta, abbandonando la
rigidità del precedente sistema ed introducendo al contrario un apparato sanzionatorio graduato e
proporzionato al tempo di prosecuzione del rapporto di lavoro dopo la scadenza del termine inizialmente
fissato (6). Tale periodo di ragionevole flessibilità, come detto, non necessita di un contratto di proroga
perché, come già ribadito, non di proroga si tratta ma di semplice prosecuzione di fatto del rapporto di
lavoro, ricadente, come detto, nel regime di tolleranza a pagamento (7).
Contrariamente a quanto stabilito in tema di proroga, ove è necessaria la comunicazione telematica al
Centro per l'impiego competente entro i 5 giorni dall'evento, nell'ipotesi di prosecuzione di fatto il
legislatore non ha posto a carico del datore di lavoro alcun obbligo di formalizzazione esterna dell'ulteriore
prestazione lavorativa effettuata. La totale assenza di adempimenti che rendano nota alla Pubblica
amministrazione la continuazione del rapporto di lavoro, rappresenta proprio il punto critico in rapporto
alla normativa di contrasto al lavoro sommerso.
Contratto a tempo determinato e maxisanzione del Collegato lavoro
Il Dicastero del lavoro, sollecitato da un quesito posto dalla Direzione territoriale del lavoro di Modena (8),
si era espresso in tema di prosecuzione di fatto del contratto a tempo determinato, con risposta ad
interpello n. 25/I/0006689 del 7.5.2009 (9), escludendo l'applicabilità della maxisanzione, attese "la
chiara volontà del legislatore di evitare un'eccessiva rigidità della disciplina del contratto a termine e la
modesta entità dello "sforamento" consentito". La prosecuzione oltre il termine inizialmente pattuito del
contratto a tempo determinato non costituiva pertanto condotta assimilabile al sommerso, residuando
unicamente, come peraltro espresso chiaramente per legge, il trattamento "sanzionatorio", previsto
dall'articolo 5 commi 1 e 2 del Dlgs n. 368/2001 (10).
Tale orientamento ministeriale, tuttavia, sembrerebbe non chiarire a pieno cosa accada per l'ipotesi di
ulteriore prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i termini previsti dal comma 2 del citato articolo 5,
ovverosia una volta terminato il periodo di tolleranza a pagamento sopra descritto, non potendosi in tal
caso più parlare di modesto sforamento. Una lettura eccessivamente rigida della risposta ad interpello
potrebbe indurre a ritenere ancora una volta esclusa l'applicabilità della maxisanzione per l'ipotesi da
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ultimo rappresentata, prevedendo come unica reazione sanzionatoria la conversione del contratto da
tempo determinato a tempo indeterminato, per effetto del comma 2 dell'articolo 5. Tale soluzione
interpretativa tuttavia non può essere condivisibile, poiché legittimerebbe la prosecuzione del rapporto di
lavoro ben oltre i 20 o 30 giorni di tolleranza introdotti dal legislatore del 1997, introducendo nel
contempo un'incomprensibile ed ingiustificabile assenza di reazione sanzionatoria.
Per risolvere la questione occorre considerare, a parere dello scrivente, l'attuale normativa. Il Collegato
lavoro, come è noto, modificando la previgente normativa in materia di contrasto al lavoro sommerso, ha
individuato come presupposto per l'applicazione della maxisanzione la comunicazione telematica
preventiva di instaurazione del rapporto di lavoro. Nel contempo il nuovo articolo 4 della legge n.
183/2010 ha introdotto al comma 4 dell'art. 3 del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12, un'esimente
all'applicazione della maxisanzione per le ipotesi in cui il datore di lavoro sia in grado di dimostrare la
volontà di non occultare il rapporto di lavoro attraverso adempimenti di carattere contributivo,
precedentemente assolti. Tale possibilità offerta ai datori di lavoro in "buona fede", può rappresentare
proprio l'elemento risolutivo nell'individuazione del corretto trattamento sanzionatorio per l'ipotesi di
prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro oltre il termine inizialmente pattuito.
Prosecuzione di fatto
Mancanza di adempimenti
contributivi
Coperto il periodo successivo alla
scedenza del termine iniziale
Maxisanzione
No Maxisanzione
A ben vedere, riportandoci a quanto affermato dal Ministero del lavoro in merito al trattamento
sanzionatorio per il periodo di "tolleranza pagata ", occorre sottolineare che, se è pur vero che non vi sono
adempimenti preventivi o comunque ravvicinati per "pubblicizzare" detto periodo a carico del datore di
lavoro, lo stesso tuttavia non è certo esentato dalla completa copertura previdenziale ed assicurativa di
tutto il periodo di fatto lavorato successivamente alla scadenza del termine inizialmente pattuito,
unitamente alla corresponsione, a favore del lavoratore, delle maggiorazioni previste dal comma 1
dell'articolo 5. Adempimenti che il datore di lavoro dovrà effettuare entro la scadenza del periodo di paga,
ovverosia entro il giorno 16 del mese successivo al periodo oggetto di copertura contributiva. In tal senso
allora per una corretta individuazione del trattamento sanzionatorio alle ipotesi oggi in analisi non si può
prescindere da una verifica puntuale degli adempimenti contributivi. Tale punto di vista, ad opinione di chi
scrive, porta a considerare solo in parte superato il precedente orientamento ministeriale. Infatti,
mantenendosi aderenti a quanto indicato nella risposta ad interpello sopra riportata, è corretto ritenere
non applicabile la maxisanzione nel periodo di tolleranza successivo alla scadenza del termine benché
privo di formalizzazione, a patto che, naturalmente, detto arco temporale sia stato coperto dal punto di
vista previdenziale prima della scadenza del periodo di paga o quanto meno prima di un accesso ispettivo
(11). Conseguentemente all'irrogazione della maxisanzione si potrà giungere unicamente ove sia scaduto
il periodo di paga, potendo solo a quel punto discernere il datore di lavoro che ha semplicemente posto in
essere una fattispecie prevista e legittimata dalla legge, quale quella della prosecuzione di fatto del
contratto oltre il termine inizialmente pattuito, da colui che abbia invece voluto effettivamente occultare il
rapporto di lavoro. In questa seconda ipotesi non si può negare che ci troveremmo di fronte ad un
normale caso di lavoro "nero" che come tale dovrà essere sanzionato. Peraltro il calcolo delle giornate utili
a determinare la maggiorazione sanzionatoria prevista per ciascuna giornata di lavoro effettivo dovrà
tenere in considerazione l'intero periodo lavorato di fatto oltre la scadenza del termine iniziale in quanto
del tutto privo di copertura previdenziale e non soltanto, evidentemente, l'eventuale periodo successivo
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alla scadenza del periodo di tolleranza.
Prosecuzione di fatto e proroga
Prosecuzione di fatto
Proroga
mancanza di adempimenti
contributivi a copertura del periodo
lavorato
assenza comunicazione telematica
di proroga entro i 5 giorni
Sospensione
Allo stesso modo si potrebbe argomentare anche in tema di proroga del contratto a termine di cui
all'articolo 4 del Dlgs n. 368/2001 per l'ipotesi di omessa comunicazione di trasformazione (rectius
proroga) del contratto. Se infatti l'applicazione della maxisanzione in assenza della comunicazione di
proroga poteva apparire pienamente legittima in vigenza del precedente apparato sanzionatorio, qualche
perplessità in più potrebbe sorgere con le modifiche introdotte dal Collegato lavoro. Come è noto, prima
del 24 novembre 2010 (12), la maxisanzione veniva applicata in relazione ad un lavoratore non risultante
da scritture o altra documentazione obbligatoria, una dicitura più ampia di quella attuale, riferita
unicamente all'assenza di comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro. In tal senso allora,
mentre non ci sono dubbi a ritenere la comunicazione di proroga una tipologia di scrittura o
documentazione obbligatoria, più complessa può apparire l'assimilazione alla comunicazione preventiva di
instaurazione del rapporto di lavoro, soprattutto sotto un profilo di certezza e tassatività del precetto
sanzionatorio. Ancorare la maxisanzione all'omessa copertura contributiva del periodo di prosecuzione di
fatto o di proroga eliminerebbe invero ogni incertezza, atteso che, lo ribadiamo, trattandosi di fattispecie
che non prevedono una comunicazione preventiva di instaurazione del rapporto di lavoro, gli adempimenti
contributivi sembrerebbero l'unico elemento, normativamente previsto, al quale il datore di lavoro è
effettivamente tenuto.
Proroga, prosecuzione di fatto e provvedimento di sospensione
Se gli adempimenti contributivi possono essere elemento, come detto, determinante nell'irrogazione della
maxisanzione, più complessa appare la questione con riferimento ai presupposti per l'adozione del
provvedimento di sospensione dell'attività imprenditoriale, previsti dall'art. 14 del Dlgs n. 81/2008. Un
tanto se si considera ancora più che il personale ispettivo si trova a dover verificare le condizioni di
applicabilità di detto istituto nell'immediatezza dell'accesso ispettivo, in tempi quindi piuttosto brevi
rispetto a quelli decisamente più ampi previsti per l'istruttoria finalizzata all'irrogazione della
maxisanzione. Giova ricordare che, in tema di sospensione dell'attività imprenditoriale, lo status di
irregolare del lavoratore viene determinato attraverso un'indagine più ampia, facendo riferimento alle
scritture o ad altra documentazione obbligatoria e quindi non limitatamente alla comunicazione di
instaurazione del rapporto di lavoro. Tanto premesso, nell'ipotesi di proroga del contratto ai sensi
dell'articolo 4 Dlgs n. 368/2001, l'assenza della comunicazione telematica di proroga del rapporto di
lavoro oltre il quinto giorno, termine ultimo per effettuare detto adempimento, ben potrebbe costituire
presupposto per l'adozione del provvedimento di sospensione. A patto naturalmente che dagli
accertamenti effettuati il personale ispettivo abbia riscontrato che nel caso di specie si sia effettivamente
trattato di una proroga del contratto e non di semplice prosecuzione di fatto del rapporto. In tal senso
potrebbe essere utile indagare, attraverso l'acquisizione di informazioni, circa la volontà delle parti ovvero
verificare che il contratto de quo non sia stato già prorogato una volta, non residuando a quel punto
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spazio per un'ulteriore proroga, acquisendo, in buona sostanza, ogni elemento utile, ricavabile dal tenore
dell'articolo 4, a comprova della sussistenza nei fatti di una proroga del rapporto di lavoro.
La successione di contratti a termine
Soluzione di continuità
No soluzione di continuità
Disciplina
Articolo 5 comma 3 Dlgs
n. 368/2001
Articolo 5, comma 4, Dlgs n. 368/2001
Caratteristiche
Per la nuova assunzione è Il contratto si considera a tempo
necessario rispettare un
indeterminato dalla data di stipulazione
termine:
del primo contratto
- 10 giorni per contratti
inferiori a 6 mesi
- 20 giorni per contratti
superiori a 6 mesi Se non
si rispetta il termine il
secondo contratto si
considera a tempo
indeterminato
Obblighi formali
Come tutti gli altri
contratti di lavoro
Come tutti gli altri contratti di lavoro
Conseguenze in
tema di
sommerso
Maxisanzione se manca la
comunicazione di
instaurazione del secondo
rapporto di lavoro a
termine
Nessuna conseguenza se è formalizzato il
secondo contratto a termine Se manca la
comunicazione di instaurazione del
secondo rapporto di lavoro a termine si
ricade in un'ipotesi di prosecuzione di
fatto con maxisanzione solo in caso di
assenza adempimenti contributivi
Nel caso in cui non vi siano elementi fattuali, che portino a ritenere sussistente una proroga del contratto,
si ricadrà inevitabilmente in una mera prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro. Tale ipotesi tuttavia,
essendo, come detto più volte, sfornita di formalizzazione, rende più problematica la qualificazione del
lavoratore coinvolto nell'accertamento come non risultante da scritture o altra documentazione
obbligatoria, necessaria per procedere all'adozione del provvedimento di sospensione dell'attività
imprenditoriale. A ben vedere la situazione di supposta irregolarità, che legittimerebbe il provvedimento
sospensivo, non discenderebbe dalla volontà del datore di occultare il rapporto di lavoro ma direttamente
dal quadro normativo, che non prevede adempimenti di formalizzazione a carico dello stesso. A parere
dello scrivente è solo l'assenza di adempimenti contributivi, una volta che siano scaduti i relativi termini, a
poter qualificare legittimamente il lavoratore come irregolare ai sensi dell'art. 14 Dlgs n. 81/2008. Si
consideri in tal senso un ulteriore aspetto. Al fine di ottenere la revoca del provvedimento sospensivo, il
datore di lavoro è tenuto ai sensi del comma 5 dell'articolo 14, oltre al pagamento di una somma
aggiuntiva pari a 1.500 euro, anche alla regolarizzazione del rapporto di lavoro "in nero". A questo punto,
se per l'ipotesi della proroga non formalizzata entro il termine di 5 giorni dalla scadenza del termine
inizialmente pattuito la regolarizzazione del lavoratore potrebbe avvenire attraverso la comunicazione
telematica di proroga del contratto, nel caso di prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro non vi
sarebbero adempimenti utili alla regolarizzazione. Diversamente ove si adottasse la sospensione
unicamente nei casi in cui sia già scaduto il periodo di paga, la posizione lavorativa potrebbe essere
sanata ai fini della revoca attraverso il versamento dei contributi.
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Un'ulteriore tesi ipotizzabile potrebbe essere quella di prendere in considerazione quanto prevede il
comma 2 dell'articolo 5, sulla base del quale una volta esaurito il periodo di tolleranza, ossia 20 giorni nel
caso di contratto di durata inferiore a sei mesi ovvero 30 giorni negli altri casi, il contratto si considera a
tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini. Corollario di tale effetto giuridico, previsto ope
legis, sarebbe quello di far sorgere in capo al datore di lavoro l'obbligo di effettuare, entro gli ulteriori 5
giorni, la comunicazione telematica di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo determinato a
tempo indeterminato, così come prevede il medesimo articolo 4-bis, comma, 5 Dlgs n. 181/2000. L'assenza
di tale adempimento obbligatorio potrebbe allora rendere il rapporto di lavoro non risultante da scritture o
altra documentazione obbligatoria esattamente come avviene in ipotesi di proroga del contratto. In questo
caso tuttavia non è detto che siffatto adempimento sia sempre precedente rispetto alla scadenza del
periodo di paga (13).
Successione di contratti a termine e sommerso
In ultimo, per completezza argomentativa, occorre esaminare sinteticamente anche le fattispecie previste
dai commi 3 e 4 dell'articolo 5 del Dlgs n. 368/2001. Se tra la scadenza del precedente contratto a termine
e la ripresa dell'attività lavorativa vi sia stata soluzione di continuità e quindi non ci sia stata una
prosecuzione di fatto dell'attività (14), tale fattispecie dovrà trovare disciplina nel comma 3 dell'articolo 5,
il quale prevede che, qualora il lavoratore venga riassunto a termine, ai sensi dell'articolo 1, entro un
periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni
dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a
tempo indeterminato. E' evidente che, se detta riassunzione non dovesse essere regolarmente
formalizzata, attraverso la comunicazione telematica di instaurazione del rapporto di lavoro a tempo
determinato, ci troveremmo di fronte ad un normale caso di lavoro "nero", con le tipiche conseguenze
normativamente previste. In tale circostanza, allora, ciò che permette di distinguere detta ultima
situazione dalla fattispecie prevista dai commi 1 e 2 dell'articolo 5, sopra esaminata, è unicamente la
soluzione di continuità tra i due rapporti di lavoro, presente nel primo caso, del tutto assente, ovviamente,
nel secondo.
Laddove, infine, non vi sia soluzione di continuità ma vi sia stata tuttavia una formalizzazione di un nuovo
contratto di lavoro, si ricadrebbe invece nell'ipotesi disciplinata dal comma 4 dell'articolo 5. Un'eventualità
che prevede conseguenze unicamente sul piano civilistico, ovverosia la trasformazione del contratto a
tempo determinato in contratto a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto,
esulando del tutto da un'ipotesi di sommerso.
_____
(1) Così testualmente il comma 1 dell'articolo 4: "Il termine del contratto a tempo determinato può
essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a
tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni
oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo
determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non
potrà essere superiore ai tre anni.
(2) Così testualmente i primi 4 commi dell'articolo 5: 1. Se il rapporto di lavoro continua dopo la
scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato ai sensi dell'articolo 4, il datore di
lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di
continuazione del rapporto pari al venti per cento fino al decimo giorno successivo, al quaranta per cento
per ciascun giorno ulteriore. 2. Se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di
contratto di durata inferiore a sei mesi, nonché decorso il periodo complessivo di cui al comma 4-bis,
ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla
scadenza dei predetti termini. 3. Qualora il lavoratore venga riassunto a termine, ai sensi dell'articolo 1,
entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero
venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si
considera a tempo indeterminato. 4. Quando si tratta di due assunzioni successive a termine,
intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si
considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.
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(3) Tra le tante si veda Cassazione 23 novembre 1988 n. 6305.
(4) Così la circolare del Ministero del lavoro numero 42/2002: "L'articolo 5 del decreto disciplina, poi,
l'ipotesi della prosecuzione del rapporto individuando un "periodo di tolleranza". Più precisamente, si
stabilisce che, ove il rapporto di lavoro continui dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o
successivamente prorogato, il datore di lavoro deve corrispondere al lavoratore, per ogni giorni di
continuazione, una maggiorazione della retribuzione...".
(5) Così il comma 2 dell'articolo 2 legge n. 230/1962: "Se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza
del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, il contratto si considera a tempo
indeterminato fin dalla data della prima assunzione del lavoratore. Il contratto si considera egualmente a
tempo indeterminato quando il lavoratore venga riassunto a termine entro il periodo di quindici ovvero
trenta giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei
mesi e, in ogni caso, quando si tratti di assunzioni successive a termine intese ad eludere le disposizioni
della presente legge".
(6) Sul punto di veda M. Papaleoni "La presunzione di frode nel contratto a termine" in Guida al Lavoro n.
44/2007 pag. 15 e ss. ma anche G. Tocci "Contratto e termine Proroga e continuazione di fatto" in
Novecento Media del 16 luglio 2010 secondo il quale la legge n. 230/1962 penalizzava in modo eccessivo
errori ed omissioni, perché era sufficiente che, per una semplice dimenticanza o per inefficienze di tipo
amministrativo, il dipendente lavorasse anche un solo giorno o anche poche ore dopo la scadenza del
termine e si aveva la trasformazione del rapporto, imponendo al datore di lavoro di mantenere in organico
un lavoratore di cui non aveva alcuna necessità in quanto l'esigenza temporanea per la sua utilizzazione
era ormai cessata".
(7) Così G. Ciampolini Proroga, scadenza del termine e successione dei contratti in Guida al Lavoro,
inserto, n. 41/2001 pag. 2327.
(8) Nota n. 2576 dell'11.2.2009.
(9) Così testualmente la risposta ad interpello del 7.5.2009 prot. n. 25/I/0006689: "Con riferimento alla
richiesta di parere in ordine alle eventuali conseguenze sanzionatorie relative all'ipotesi della prosecuzione
di fatto del rapporto di lavoro oltre la scadenza del termine inizialmente pattuito o successivamente
prorogato, si concorda con la conclusione di codesta Direzione provinciale in ordine alla non applicabilità
della maxisanzione per l'impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture obbligatorie. Al riguardo, in
particolare, si ritiene che l'ipotesi in questione sia assoggettata allo specifico ed esclusivo regime
sanzionatorio dettato dall'art. 5, commi 1 e 2, del Dlgs n. 368/2001".
(10) Sul punto V. Silvestri Contratto a termine: prosecuzione senza proroga e regime sanzionatorio in
Guida al Lavoro n. 21 del 22 maggio 2009 pagine 1415.
(11) In tal senso il datore di lavoro potrebbe anche provvedere in ritardo alla copertura previdenziale del
periodo di prosecuzione di fatto e quindi oltre la scadenza del periodo di paga. Per siffatta eventualità non
andrebbe incontro a maxisanzione laddove detto adempimento fosse effettuato prima di un accesso
ispettivo. Così infatti si esprime il Ministero del lavoro con la circolare 38/2010: "...successivamente alla
data di scadenza degli obblighi contributivi, il datore di lavoro a condizione che non sia stato avviato alcun
procedimento di verifica, controllo, richieste di documenti o informazioni, accertamento, ivi compreso il
tentativo di conciliazione monocratica potrà andare esente dalla maxisanzione esclusivamente qualora
proceda a denunciare spontaneamente la propria situazione debitoria entro e non oltre 12 mesi dal
termine stabilito per il pagamento dei contributi o premi riferiti al primo periodo di paga e sempreché il
versamento degli interi importi dei contributi dovuti agli Istituti previdenziali per tutto il periodo di
irregolare occupazione sia effettuato entro 30 giorni dalla denuncia, in uno con il pagamento della
sanzione civile di cui all'art. 116, comma 8, lettera b) della legge n. 388/2000...".
(12) Data di entrata in vigore della legge n. 183/2010 meglio nota come Collegato lavoro.
(13) Si pensi al caso di un contratto di durata superiore a 6 mesi, scaduto il 29 dicembre. Il lavoratore ha
proseguito a lavorare anche il 30 ed il 31 dicembre ed ha continuato allo stesso modo anche nel mese di
gennaio dell'anno successivo. E' evidente come i 30 giorni ed i successivi 5 utili per effettuare la
comunicazione di trasformazione scadranno ben oltre il termine per il versamento dei contributi relativi
alle prestazioni di lavoro rese nelle giornate del 30 e del 31 dicembre.
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(14) Circostanza che dovrà trovare riscontri precisi negli accertamenti. Esemplificando, si consideri
l'ipotesi in cui il lavoratore non abbia lavorato i giorni immediatamente successivi alla scadenza del
termine e solo dopo qualche giorno di inattività sia stato richiamato dal datore di lavoro per una nuova
proposta lavorativa.
Guida al Lavoro, 2.1.2012 - n. 1 - p.12, Licenziamento: dal 1° gennaio rientrano in vigore i
termini di sospensione, di Falasca Giampiero
Il 31 dicembre 2011 finirà, salvo ulteriori ripensamenti che non sembrano all'orizzonte, il periodo di
sospensione delle norme della legge n. 183/2010 (cd. Collegato lavoro) che hanno riformato i termini di
impugnazione dei licenziamenti, dei rapporti flessibili e di alcune vicende economiche dell'impresa
La riforma era entrata in vigore nel mese di novembre del 2010 dopo una lunga discussione parlamentare,
ed era stata accompagnata da numerose polemiche, che si erano concentrate su alcuni aspetti specifici
(l'arbitrato di lavoro e la presunta disapplicazione dell'articolo 18), ma non avevano lasciato del tutto
immune neanche la parte di riforma che, appunto, regolava in maniera innovativa i termini per impugnare
i licenziamenti.
Ad ogni modo, tra mille difficoltà (la legge, ricordiamolo, passò anche attraverso un rinvio alle Camere del
Presidente della Repubblica), questa riforma arrivò al traguardo dell'entrata in vigore.
Subito dopo l'approvazione della riforma, invece che difendere e promuovere la sua applicazione, la stessa
maggioranza che l'aveva approvata fece una sostanziale marcia indietro, votando una norma dal
significato incomprensibile: con un emendamento inserito nel "mille proroghe " di febbraio, veniva
sospesa sino al 31 dicembre 2011 l'efficacia del termine di 60 giorni per l'impugnazione del licenziamento.
Questa norma non solo era incoerente, perché sospendeva qualcosa che era stato introdotto solo tre mesi
prima, ma era anche difficile da interpretare. Non si capiva se la sospensione sarebbe dovuta valere solo
per l'impugnazione dei licenziamenti individuali, come sembrava suggerire il testo letterale della norma di
differimento, o se invece la sospensione interessava anche gli altri casi (ad esempio alla
somministrazione) interessati dal Collegato lavoro.
Inoltre, non era chiaro se la sospensione aveva l'effetto di rimettere in termini le persone per le quali si
era già formata la decadenza.
Qualche sentenza ha interpretato la sospensione in maniera favorevole ai lavoratori, sostenendo che la
sospensione si sarebbe estesa all'impugnazione di tutte le fattispecie previste dal collegato e che la
decadenza non si sarebbe formata per nessuno, ma gli argomenti tecnici utilizzati per sostenere queste
letture sono sembrati molto incerti e, quindi, la materia resta avvolta da grande incertezza.
La fine del periodo di sospensione è quindi una buona notizia, perché termina un periodo di incertezza
applicativa di cui pochi avranno nostalgia.
Il cambiamento dal 1° gennaio
Dal prossimo primo gennaio sarà quindi completamente operativa la modifica apportata dal Collegato
lavoro ai commi 1 e 2 dell'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604. Secondo la nuova disciplina, è
confermata la norma tradizionale secondo la quale il licenziamento deve essere impugnato a pena di
decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione (oppure dalla comunicazione dei motivi,
se questa non è contestuale al licenziamento), con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a
rendere nota la volontà del lavoratore.
La novità attiene al momento successivo. Infatti, l'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il
successivo termine di 270 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di
Giudice del lavoro (oppure dalla richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato; in tal caso, se sono
rifiutati o non si raggiunge l'accordo, il ricorso al Giudice deve essere depositato a pena di decadenza
entro 60 giorni).
La legge stabilisce altresì che il principio di decadenza di cui sopra si applica anche nei casi di
"licenziamenti" che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di
lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto. Inoltre, il nuovo termine di decadenza si
applica anche alle controversie aventi a oggetto una delle seguenti materie:
- recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto;
N. 4 – Aprile 2012 - Pagina | 75
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- trasferimento del lavoratore;
- azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro (il termine di decadenza decorre dalla
scadenza del contratto). Il termine si applica anche ai contratti in corso di esecuzione alla data di entrata
in vigore della legge, con decorrenza dalla scadenza del termine; invece, per i contratti conclusi prima
dell'entrata in vigore della legge, il termine di decadenza decorre dalla data di entrata in vigore della
medesima legge;
- cessione di contratto di lavoro nell'ambito di un trasferimento di azienda;
- controversie in materia di somministrazione irregolare, distacco o appalto illecito.
Da ultimo, va ricordato - anche se questa materia non era oggetto di sospensione - che secondo l'art. 32 il
datore di lavoro, in caso di conversione giudiziale di un contratto a termine, dovrà pagare un risarcimento
del danno, per i periodi intercorsi tra la fine del rapporto e la sentenza, di importo variabile tra un minimo
di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri
indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604. Questi importi sono ridotti della metà, nel caso in
cui il datore di lavoro abbia stipulato contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali che
prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine.
Guida al Lavoro, 2.12.2011 - n. 47 - p.21, Contratto a termine e Collegato lavoro: disattesa
l'interpretazione della Consulta, di Putaturo Federico
Il Tribunale di Napoli - a pochi giorni dalla sentenza n. 303/2011 della Corte Costituzionale che legittima
l'indennità omnicomprensiva ex art. 32 del Collegato lavoro - interviene con una decisione di segno
opposto
Tribunale di Napoli 16 novembre 2011
Giud. Coppola; Ric. P.O.; Res. G.I. Srl Impianti
Contratto a termine - Indennità risarcitoria forfetizzata - Applicabilità per il
solo periodo di tempo fino al deposito del ricorso "Giusto processo" - Diritto a
preparare le proprie difese, anche in relazione a quelle della controparte, e ad
ascoltare i testimoni
La indennità risarcitoria di cui all'art. 32, comma 5, della legge n. 138/2010 copre il
periodo di tempo fino al deposito del ricorso, dopodiché sono dovute le retribuzioni. La
diversa interpretazione della Corte costituzionale (Sentenza n. 303/2011) dell'art 32,
comma 5, pone il lavoratore in una situazione di svantaggio perché comporta che
l'esplicazione del suo diritto di difesa sostanziantesi nel diritto ad assumere prove ed in
genere avere tempo, nel processo, per apprestare le proprie difese, determina la
perdita delle sue retribuzioni: la controparte inadempiente è oggettivamente
avvantaggiata dai pur necessari tempi processuali, evitando il pagamento delle
retribuzioni.
In ambito di applicazione dell'Ordinamento dell'Ue il diritto di ogni persona ad accedere
ad un processo equo comporta il diritto a preparare le proprie difese, anche in
relazione alle difese della controparte, ed ad ascoltare i testimoni (Corte Edu, Dombo
Beheer B.V. c/Paesi Bassi).
Con la sentenza in commento, il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del lavoro, nel dichiarare la
nullità del termine apposto a un contratto di lavoro e, per l'effetto, la decorrenza tra le parti di un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato con efficacia retroattiva, condanna la convenuta al pagamento
in favore del ricorrente delle retribuzioni infratemporalmente maturate dalla data di notifica del ricorso
fino alla riammissione in servizio, oltre che alla corresponsione della indennità forfetizzata di cui all'art.
32, comma 5, legge n. 183/2010, riguardando quest'ultima ulteriori voci di danno (esistenziale), in
precedenza non risarcite.
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La decisione desta particolare interesse, dal momento che il giudicante, con fini argomentazioni in diritto,
spiega perché ritenga non condivisibile l'interpretazione recentemente offerta dalla Corte costituzionale
quanto all'applicazione del regime indennitario introdotto dal Collegato lavoro nei casi di conversione del
contratto a tempo determinato (Corte cost. n. 303/2011, in Guida al Lavoro n. 46/2011).
Il fatto
Il casus belli muove dall'azione proposta da un lavoratore diretta, tra l'altro, a fare dichiarare la nullità del
termine apposto al contratto di lavoro per violazione dell'art. 1, Dlgs n. 368/2001, e, per l'effetto, la
ricorrenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con condanna della convenuta alla
riammissione in servizio e al pagamento delle retribuzioni maturate a far tempo dalla data dell'intervenuto
licenziamento orale.
Parte resistente non si costituiva in giudizio e ne veniva dichiarata la contumacia.
Motivi della decisione
Assunta la mancata specificazione delle ragioni legittimanti l'apposizione del termine alla durata del
contratto, il giudicante, in punto di applicazione dell'indennità di cui all'art. 32, comma 5, legge n.
183/2010, conferma l'interpretazione già fatta propria in due precedenti sentenze 16 giugno 2011, nn.
18261 e 18272 (vedi box).
La soluzione prescelta dal Tribunale di Napoli disattende l'interpretazione fornita dalla Consulta (Corte
Cost. 9 novembre 2011, n. 303 in Guida al Lavoro n. 46/2011, pag. 18 con nota di A. Zambelli), laddove,
con sentenza interpretativa di rigetto, come tale non vincolante il giudice comune, ritiene infondate le
questioni di legittimità costituzionale sollevate, prima, dal Tribunale di Trani (ordinanza 20 dicembre
2010) e, poi, dalla Corte di Cassazione (ordinanza 28 gennaio 2011, n. 2112), con riguardo all'art. 32,
commi 5, 6 e 7, legge n. 183/2010, che stabilisce i limiti massimi del risarcimento (fra 2,5 e 12 mensilità)
dovuto al lavoratore, in ipotesi di conversione di un contratto a tempo determinato illegittimo.
I precedenti giurisprudenziali
Il Tribunale di Napoli nelle sentenze 16 giugno 2011, nn. 18261 e 18272 osservava che la misura di cui
all'art. 32, c. 5, legge n. 183/2010 "non è un risarcimento e prima della disposizione in esame il
risarcimento del danno, nella materia de qua, è stato ancorato alle retribuzioni infratemporalmente
maturate dalla data di messa a disposizione delle energie lavorative: la circostanza che la commisurazione
del "risarcimento" non tenga in alcun conto di detto dato depone chiaramente nel senso che si tratti di
indennizzo. Appare chiaro che ritenere che la disposizione addossi al lavoratore, soggetto debole, le
conseguenze dell'inadempimento e i tempi processuali porterebbe a conseguenze in palese contrasto con
la direttiva 1999/70/Ce. Infatti, si verte, è quasi inutile ricordarlo, nell'ambito di applicazione di detta
direttiva e per il diritto dell'Unione il lavoratore è soggetto debole del rapporto di lavoro (sentenza della
Corte di Giustizia Ue 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., punto 80,
nonché la sentenza 20 novembre 2010, causa C-429/09, Fuß, punti 80 e 81).
Le difficoltà interpretative divengono maggiori nel raffronto tra l'art 32, comma 5, con l'art. 50 della
medesima legge ("ove si accerti la natura di rapporto di lavoro subordinato in relazione a un rapporto di
collaborazione coordinata e continuativa, il datore di lavoro è tenuto a indennizzare il prestatore di lavoro
con una indennità compresa tra le 2,5 e le 6 mensilità di retribuzione avuto riguardo ai medesimi criteri..."
di cui all'art. 32). La formula terminologica adoperata dal medesimo legislatore appare di maggiore
ampiezza nell'ipotesi di cui all'art 50, per cui deve darsi atto che alcuni aspetti, nell'ipotesi di cui all'art.
32, non sono coperti dall'indennizzo de quo.
La norma, inoltre, presenta rilevanti profili di incompatibilità con la clausola 4 (Per quanto riguarda le
condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno
favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o
rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive) della direttiva n.
1999/70/Ce (diretta emanazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 20 della Carta di Nizza e degli
artt. 2, 9 e 21 del Trattato). Infatti l'art. 32, comma 3, del Collegato lavoro, ha equiparato il licenziamento
e la interruzione del rapporto di lavoro conseguente alla illegittima apposizione del termine, per cui è
lavoratore a tempo indeterminato equiparabile anche quello che usufruisce della tutela reale di cui all'art.
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18 della legge n. 300/1970 e in genere ogni rapporto irregolare, salvo quello di cui all'art. 50 della
medesima legge.
E' obbligo dello Stato eliminare le conseguenze "della violazione del diritto comunitario" per cui appare
necessario creare una situazione del tutto analoga a quella che vi sarebbe stata ove l'abuso non fosse
stato posto in essere, ovvero il contratto di lavoro fosse stato stipulato ab initio a tempo indeterminato. Il
contratto a tempo indeterminato avrebbe dato luogo al pagamento delle retribuzioni per cui l'indicata
disposizione, che forfetizza il danno, in maniera del tutto avulsa dal rapporto di lavoro e in particolare dal
tempo decorso dalla messa a disposizione delle energie lavorative, appare essere in radicale contrasto con
la direttiva n. 1999/70/Ce e in particolare con l'obblighi di effettività ed equivalenza".
Precedentemente la emanazione della legge n. 183/2010 la giurisprudenza della Corte di Cassazione è
stata orientata nel senso della natura risarcitoria delle retribuzioni infratemporalmente maturate: detta
interpretazione deve essere rivista, visto il mutato contesto normativo e gli obblighi interpretativi connessi
all'appartenenza dell'Italia all'Unione europea (segnatamente principi di effettività, carattere efficace e
dissuasivo della sanzione, obblighi ripristinatori/risarcitori, eliminazione delle conseguenze della violazione
del diritto dell'Unione).
Ritiene questo giudice che il danno forfetizzato riguarda un danno ulteriore (biologico, morale, alla vita di
relazione, esistenziale, alla professionalità), come confermato dalla diversità tra le indennità di cui all'art.
32 e all'art. 50 della stessa legge: residuano nel primo caso aspetti non coperti dall'indennizzo.
Passando all'esame specifico dell'art. 32, comma 5, deve prendersi atto di come la disposizione fissi
l'indennità "risarcitoria" tra le 2,5 e le 12 mensilità, ma non indichi quale periodo di tempo copra.
Infatti, se è certo il dies a quo (interruzione del rapporto) non è indicato in alcun modo il dies ad quem,
ovvero la data finale coperta dalla indennità risarcitoria.
Le ipotesi astrattamente configurabili sono plurime:
1) di impugnativa stragiudiziale del termine apposto al contratto;
2) nella proposizione del ricorso giudiziale;
3) nella data della pronunzia di I grado;
4) nella data della pronunzia di appello;
5) nella data di passaggio in giudicato della sentenza (ma che accade in ipotesi di revocazione od
opposizione di terzo?);
6) dalla prima sentenza che riattiva il sinallagma, di qual grado essa sia;
7) data di esecuzione della sentenza.
Posto che, nella interpretazione della disposizione in esame deve partirsi dal presupposto che il datore di
lavoro abbia abusivamente stipulato contratti a termine (altrimenti non vi è questione di applicazione della
disposizione in esame), deve darsi atto che le ipotesi sub 4 e 5 incentivano il datore di lavoro in torto alla
proposizione di ulteriori gradi di giudizio a costo zero, magari ricercando un accordo sindacale (cfr. comma
6) che gli consenta l'abbattimento/dimezzamento della indennità.
Una opzione interpretativa in tal senso è in antitesi con i principi in tema di abuso del processo, nonché in
contrasto con gli artt. 111 e 117 della Costituzione, 47 del Trattato di Lisbona, 47 Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea e 6 della Convenzione Edu.
Ancora non è possibile ancorare il dies ad quem alla riattivazione del sinallagma contrattuale, considerato
che si tratta di obbligo scarsamente coercibile e che non è applicabile la misura coercitiva indiretta di cui
all'art. 614-bis c.p.c.
Non si può ancorare il dies ad quem alla data della pronunzia di I grado, perché si addosserebbe alla parte
che ha ragione la durata del processo, con palese violazione dei principi in materia di giusto processo.
Ancora ritenere che l'indennità in esame copra il periodo fino alla prima pronuncia che riattiva il
sinallagma, di qual grado essa sia, significa addossare gli effetti di un error in iudicando alla parte che ha
ragione. La misura risarcitorio-indennitaria inoltre non avrebbe alcuna effettiva efficacia ripristinatoria
[Corte di Giustizia Ue, ord. Vassilakis (ma già prima con la sentenza Adeneler, punto 102, Marrosu e
Sardino, punto 53, e Vassallo, punto 38)], perché svincolata in maniera chiara e totale dalla data in cui il
lavoratore avrebbe avuto diritto ad un rapporto lavorativo stabile, conseguenzialmente a percepire le
retribuzioni.
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Deve a questo punto rilevarsi che il sinallagma contrattuale, in ipotesi di illegittima apposizione del
termine è esistente, ma ineseguito per responsabilità del datore di lavoro. La sentenza che dichiara la
nullità dell'apposizione del termine è meramente dichiarativa, dando atto che il rapporto sinallagmatico
esiste: sono perciò dovute prestazione lavorativa e retribuzione. Il sinallagma è altresì sopito e riattivato
con la impugnativa stragiudiziale del recesso, ovvero con l'atto di costituzione in mora del creditore-datore
di lavoro (art. 1206 c.c.), con passaggio del rischio di impossibilità della prestazione lavorativa (artt.
1207) e quindi inazionabilità della eccezione di inadempimento (1460 c.c.), considerato che la
impossibilità della prestazione lavorativa è a suo carico.
La opzione sub 2 trova un riscontro in fatto. Il termine per la proposizione di ricorso giudiziale ha una
durata massima di 270 giorni, pari a nove mesi (art. 32, commi 1 e 3, della medesima legge). La
indennità è compresa tra le 2,5 e le 12 mensilità, ovvero corrisponde ai termini minimo e massimo
maggiorati di 2,5 e tre mesi di retribuzione: la maggiorazione è collegabile alle ulteriori voci di danno
(esistenziale), in precedenza non risarcite. Il comma 5 dell'art. 32, con una formula volutamente ampia
(risarcimento del lavoratore con una indennità onnicomprensiva), ha previsto la possibilità di liquidare
anche detto ulteriore danno (da qui il sostanziale corretto riferimento all'art. 8 della legge n. 604/1966,
perché la condotta delle parti e l'anzianità di servizio appaiono criteri atti a fornire indici circa la
professionalità inutilizzata in forza della illegittima sospensione - anzianità di servizio - e al pathos sofferto
- comportamento).
Il comma 5 ha posto una presunzione iuris et de iure di un minimo danno non economico minimo (2,5
mensilità), anche in ipotesi di assenza di danno effettivo: si garantisce una effettiva efficacia dissuasiva e
sanzionatoria all'ordinamento interno, in aderenza agli obblighi dell'Unione, anche quando sulla base dei
comuni criteri risarcitori non vi è sanzione certa.
Ancora, a sostegno di detta opzione interpretativa, si deve rilevare come il lavoratore ha uno specifico
obbligo di allegazione e prova (art. 414 c.p.c.) degli elementi da tener conto nella determinazione della
indennità risarcitoria (quelli di cui all'art. 8 della legge n. 604/1966). Detta conclusione è confermata dal
comma 7 dell'art. 32: per le cause in corso, eccezionalmente, il legislatore ha previsto la
possibilità/necessità di integrare la domanda con la indicazione degli elementi atti a determinare
l'indennità risarcitoria (e l'esercizio da parte del giudice dei poteri probatori officiosi).
Considerato che il limite temporale alle allegazioni è costituito dalla data di deposito del ricorso, la
indennità risarcitoria non può che riguardare tale periodo, tenuto conto che le parti devono poter
argomentare anche sulla misura della stessa (e questa nel corso del processo muta necessariamente,
cambiando dimensione dell'impresa, comportamento e condizioni delle parti), appare giocoforza evidente
che non esiste altra interpretazione possibile.
Concludendo sul punto: detta interpretazione è imposta dagli artt. 11 e 117 della Costituzione, 414 c.p.c.,
principi in materia di abuso del processo, dagli obblighi di appartenenza dell'Italia alla Ue [in particolare
effettività e dissuasività della indennità in parola, tale da garantire la piena effettività di dette misure
preventive (sentenza Kiriaki Angelidaki, punto 161, e v., in tal senso, sentenze Adeneler e a., punto 105;
Marrosu e Sardino, punto 49, e Vassallo, punto 34, nonché ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 123) e,
dall'altro, della sua probabile inidoneità a eliminare le conseguenze della violazione del diritto comunitario
(sentenza Kiriaki Angelidaki, punto 170)]".
Le ragioni del dissenso esegetico
l giudicante di Napoli, dapprima, non condivide le argomentazioni della Corte costituzionale, laddove rileva
che "la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio
cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale" (sentenza n. 148/1999), purché sia garantita
l'adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199/2005 e n. 420/1991). Tale condizione nella specie
ricorre, tanto più ove si consideri che, nella specie, non v'è stata medio tempore alcuna prestazione
lavorativa.
In definitiva, la normativa impugnata risulta, nell'insieme, adeguata a realizzare un equilibrato
componimento dei contrapposti interessi. Al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a
termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un'indennità che gli è dovuta
sempre e comunque, senza necessità né dell'offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al
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datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il
periodo che intercorre dalla data d'interruzione del rapporto fino a quella dell'accertamento giudiziale del
diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la
vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die".
Trattasi, ad avviso del Tribunale di Napoli, di un inciso non condivisibile "posto che si verte in ambito di
applicazione del diritto della Unione europea (direttiva 1999/70/Ce) il lavoratore è soggetto debole
(sentenza della Corte di Giustizia Ue 5 ottobre 2004, cause riunite da C397/01 a C403/01, Pfeiffer e a.,
punto 80, nonché la sentenza 20 novembre 2010, causa C429/09, Fuß, punti 80 e 81), per cui non è
possibile realizzare un contemperamento di interessi a favore del soggetto forte, peraltro inadempiente,
realizzandosi in tal caso una doppia sperequazione a favore del soggetto meno meritevole, perché
inadempiente ad obblighi legalmente dati, nonché soggetto forte".
Ancora la Corte Costituzionale nella sentenza n. 303/2011 afferma: "quanto alle ulteriori disparità di
trattamento (...), esse risentono dell'obiettiva eterogeneità delle situazioni. Ed infatti, il contratto di lavoro
subordinato con una clausola viziata (quella, appunto, appositiva del termine) non può essere assimilato
ad altre figure illecite come quella, obiettivamente più grave, dell'utilizzazione fraudolenta della
collaborazione continuativa e coordinata. Difforme è, altresì, la situazione cui dà luogo la cessione
illegittima del rapporto di lavoro, laddove, nelle more del giudizio volto ad accertarla, il rapporto corre con
il cessionario e la garanzia retributiva rimane assicurata. Altro ancora, infine, è la somministrazione
irregolare di manodopera, quando un imprenditore fornisce personale ad un altro al di fuori delle ipotesi
consentite dalla legge".
Secondo il Tribunale di Napoli, anche questa argomentazione non è condivisibile, posto che "la
somministrazione irregolare di manodopera ed in particolare il rapporto tra agenzia di lavoro interinale e
lavoratore ricade sotto il campo di applicazione della direttiva 1999/70/Ce, per come peraltro ricordato
dalla stessa Corte di Giustizia dell'Unione europea, con l'Ordinanza 15 settembre 2010, procedimento
C386/09 Briot (cfr punto 36). Occorre infine precisare che questa soluzione, giacché la Corte si pronuncia
unicamente sull'applicabilità della direttiva 2001/23, non pregiudica la tutela di cui un lavoratore interinale
quale il ricorrente nella causa principale potrebbe, all'occorrenza, beneficiare contro l'abusivo ricorso ad
una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, in virtù di altre disposizioni del diritto
dell'Unione, segnatamente della direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/Ce).
Deve peraltro ricordarsi come, in forza proprio dell'art. 32, comma 3, della legge n. 183/2010
(disposizione ricordata dalla Corte costituzionale, ma ad altri fini) si è avuta equiparazione tra
licenziamento ed interruzione del rapporto di lavoro conseguente alla illegittima apposizione del termine,
per cui è lavoratore a tempo indeterminato equiparabile anche quello che usufruisce della tutela reale di
cui all'art. 18 della legge n. 300/1970 e in genere ogni rapporto irregolare, salvo quello di cui all'art. 50
della medesima legge.
Ne deriva che la interpretazione proposta dalla Corte costituzionale appare in violazione del principio di
equivalenza con analoghe situazioni di diritto interno, che verrebbero ad avere una tutela
ingiustificatamente rafforzata rispetto a quelle di derivazione comunitaria (cfr Sentenza Kiriaki Angelidaki,
procedimento C378/07, della Corte di Giustizia del 23 aprile 2009 punto 159: le disposizioni di diritto
interno non devono (...) essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura
interna (principio di equivalenza) (...).
Peraltro la Corte costituzionale è entrata nella analisi del principio di uguaglianza, senza spiegare il
rapporto con l'omologo principio di uguaglianza non discriminazione, di cui alla clausola 4 della direttiva
1999/70/Ce, che riguarda anche modalità di costituzione ed interruzione del rapporto di lavoro.
Infatti nell'elenco aperto delle situazioni regolamentate dalla clausola antidiscriminatoria rientrano anche
detti aspetti, ove si tenga conto che della clausola, ove espressa in maniera più dettagliata (non più
ampia) ha espressamente incluso anche detti aspetti (si veda l'art 14 della direttiva 2006/54/Ce che
espressamente comprende alla lettera C) le condizioni di licenziamento e la retribuzione come
previsto all'articolo 141 del trattato).
Ne deriva che la eventuale violazione del principio di uguaglianza non discriminazione, sub specie di
discriminazione tra effetto della illegittima interruzione del rapporto di lavoro a termine e del rapporto di
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lavoro a tempo indeterminato, ricade sotto l'ambito di applicazione della clausola 4 della direttiva
1999/70/Ce, con applicazione orizzontale, trattandosi di principio fondamentale dell'Ordinamento europeo.
Ne deriva che anche la indicata affermazione della Consulta non è condivisibile nella misura in cui non
spiega il rapporto tra le due fonti, che poteva determinare, di contro, una pronuncia di inammissibilità
della questione, perché irrilevante".
Sotto altro profilo, la Corte Costituzionale osserva come non possa accogliersi neppure "il rilievo della
indebita omologazione, da parte del modello indennitario delineato dalla normativa in esame, di situazioni
diverse. Come, ad esempio, la situazione del lavoratore il quale ottenga una sentenza favorevole in tempi
brevi, possibilmente in primo grado, rispetto a quella di chi risulti vittorioso solo a notevole distanza di
tempo (magari nei gradi successivi di giudizio). Ovvero del datore di lavoro il quale spontaneamente
riammetta in servizio il prestatore nelle more del processo, pagandogli, intanto, il corrispettivo, rispetto ad
altro datore che abbia invece"resistito" ad oltranza, evitando di riprendere con sé il lavoratore.
E' evidente che si tratta di inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non dipendono da una
sperequazione voluta dalla legge, ma da situazioni occasionali e talora patologiche (come l'eccessiva
durata dei processi in alcuni uffici giudiziari). Siffatti inconvenienti - secondo la consolidata giurisprudenza
di questa Corte - non rilevano ai fini del giudizio di legittimità costituzionale (sentenze n. 298/2009, n.
86/2008, n. 282/2007 e n. 354/2006; ordinanze n. 102/2011, n. 109/2010 e n. 125/2008). Sicché, non è
certo dalle disposizioni legislative censurate che possono farsi discendere, in via diretta ed immediata, le
discriminazioni ipotizzate.
Peraltro, presunte disparità di trattamento ricollegabili al momento del riconoscimento in giudizio del
diritto del lavoratore illegittimamente assunto a termine devono essere escluse anche per la ragione che il
processo è neutro rispetto alla tutela offerta, mentre l'ordinamento predispone particolari rimedi, come
quello cautelare, intesi ad evitare che il protrarsi del giudizio vada a scapito delle ragioni del lavoratore
(sentenza n. 144/1998), nonché gli specifici meccanismi riparatori contro la durata irragionevole delle
controversie di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione
del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 c.p.c.) (...)".
Non solo; con riferimento al paventato contrasto con l'articolo 117, comma 1, Cost., con l'interposizione
dell'articolo 6, comma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, la Corte Costituzionale, esaminando il caso Dombo Beheer B.V. c. Paesi Bassi, afferma che
"l'esigenza della parità delle armi implica l'obbligo di offrire a ciascuna parte una ragionevole possibilità di
presentare la propria causa senza trovarsi in una situazione di netto svantaggio rispetto alla controparte
(si vedano in particolare le sentenze Dombo Beheer B.V. c. Paesi Bassi del 27 ottobre 1993, § 33, serie A
n. 274, e Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis, succitata, § 46)" (Agrati c. Italia, 7 giugno 2011, §
58; v., altresì, Maggio e altri c. Italia, 31 maggio 2011, § 43, nonché, per una ricognizione dei casi sino ad
allora trattati, sentenza di questa Corte n. 311/2009)." La Consulta ricorda ancora che "l'esame della
giurisprudenza della Corte di Strasburgo evidenzia che il veto al legislatore d'interferire
nell'amministrazione della giustizia è inteso ad evitare ogni influenza sulla soluzione giudiziaria di una
controversia e pressoché in tutti i casi sopra richiamati, la violazione dei diritti sanciti dall'art. 6, paragrafo
1, Cedu è stata ravvisata nel fatto che lo Stato fosse intervenuto in modo decisivo al fine di garantirsi
l'esito favorevole di processi nei quali era parte".
Per poi ravvisare nell'intervento di cui all'articolo 32, commi da 5 a 7, del Collegato lavoro "con
riferimento alla giurisprudenza della Cedu, motivi per giustificare un intervento del legislatore con efficacia
retroattiva", ove si consideri che "le ragioni di utilità generale possono essere nella specie ricondotte
all'avvertita esigenza di una tutela economica dei lavoratori a tempo determinato più adeguata al bisogno
di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi, anche al fine di superare
le inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il sistema previgente. Il legislatore nazionale vi
ha dato risposta con una scelta di forfetizzazione indennitaria del risarcimento del danno spettante al
lavoratore illegittimamente assunto a tempo determinato, in sé proporzionata, nonché complementare e
funzionale al riaffermato primato della garanzia del posto di lavoro.
Non è, dunque, sostenibile che la retroattività degli effetti dell'art. 32, commi 5 e 6, della legge n.
183/2010 - come disposta dal successivo comma 7 - abbia prodotto un'ingerenza illecita del legislatore
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nell'amministrazione della giustizia, onde alterare la soluzione di una o più controversie a beneficio di una
parte. Invero, la normativa de qua, escluso ogni vantaggio mirato per lo Stato od altro soggetto pubblico,
impone non irragionevolmente anche per il passato, con il limite invalicabile della cosa giudicata, un
meccanismo semplificato di liquidazione del danno (...).
Parimenti non sussiste la violazione, meramente asserita, dell'art. 111 Cost., poiché, come già si è
osservato, il legislatore non ha inteso privilegiare una parte, tanto meno pubblica, interessata alla
soluzione di una specifica categoria di controversie, ma si è limitato a razionalizzare con un intervento di
carattere generale - ponderatamente esteso ai rapporti ancora sub iudice - il regime risarcitorio del danno
conseguente alla violazione della normativa vincolistica in materia di contratti di lavoro a termine".
Ad avviso del Tribunale di Napoli, deve, tuttavia, osservarsi che, come indicato dalla Corte di Cassazione,
la controversia all'esame della Corte Costituzionale fa parte di una nutrita serie, e la limitazione
dell'indennità a dodici mesi, o meno (vedi comma 6 dell'art. 32, collegato lavoro), non sembra poter
trovare giustificazione nel fine, perseguito dal legislatore, di evitare la perdita patrimoniale che
deriverebbe all'impresa dal risarcimento di danni di notevole entità a numerosi lavoratori.
Vale a dire, la Corte di Cassazione avrebbe puntualmente indicato alla Consulta la serialità della
controversia, che peraltro investe un soggetto sottoposto al controllo dello Stato, partecipando ai
Consiglio di amministrazione un giudice della Corte dei Conti (cfr. art. 5 del Dl 1° dicembre 1993, n. 487,
convertito, con modifiche, con legge 29 gennaio 1994 n. 71, con cui l'Ente Poste Italiane è stato
assoggettato al controllo della Corte dei Conti nelle forme previste dall'art. 12 della legge n. 259/1958) ed
il cui bilancio è collegato al bilancio dello Stato (artt. 10 e 15 del Dlgs n. 261/1999).
Il che rende evidente come il comma 7 dell'art. 32 del Collegato lavoro abbia un effetto decisivo per il
bilancio dello Stato, privilegiandolo nella soluzione di tale categoria di controversie.
A ciò si aggiunga che, per il Tribunale di Napoli, vertendosi in ambito di applicazione dell'ordinamento
dell'Unione europea ed essendo quello alla ragionevole durata del processo principio fondamentale dello
stesso, recepito dalla Carta di Nizza, ex art. 47, lo stesso è destinato a operare orizzontalmente.
In tale ordine di idee, il Tribunale di Napoli non ritiene condivisibile l'affermazione della Consulta per cui la
eccessiva durata dei processi costituirebbe uno degli "inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non
dipendono da una sperequazione voluta dalla legge (...).
Siffatti inconvenienti - secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte - non rilevano ai fini del
giudizio di legittimità costituzionale (sentenze n. 298/2009, n. 86/2008, n. 282/2007 e n. 354/2006;
ordinanze n. 102/2011, n. 109/2010 e n. 125/2008).
Sicché, non è certo dalle disposizioni legislative censurate che possono farsi discendere, in via diretta ed
immediata, le discriminazioni ipotizzate.
Peraltro, presunte disparità di trattamento ricollegabili al momento del riconoscimento in giudizio del
diritto del lavoratore illegittimamente assunto a termine devono essere escluse anche per la ragione che il
processo è neutro rispetto alla tutela offerta, mentre l'ordinamento predispone particolari rimedi, come
quello cautelare, intesi ad evitare che il protrarsi del giudizio vada a scapito delle ragioni del lavoratore
(sentenza n. 144/1998), nonché gli specifici meccanismi riparatori contro la durata irragionevole delle
controversie di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione
del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 c.p.c.)".
Sennonché, conclude il Tribunale di Napoli nella sentenza in commento, "proprio la considerazione che il
processo deve essere neutro rispetto alla tutela offerta impone una interpretazione della disposizione in
esame (art. 32, comma 5) atta a neutralizzare la durata del processo, in maniera tale da consentire alla
parte che ha ragione di ottenere una tutela ripristinatoria analoga a quella che avrebbe ottenuto ove
avesse avuto ragione nel momento della proposizione del giudizio (analogamente come avviene in ogni
altro settore del diritto civile ordinario).
Invero deve ricordarsi come:
1) ogni persona abbia diritto ad accedere ad un processo equo, il che vuol dire il diritto a preparare le
proprie difese, anche in relazione alle difese della controparte, e ad ascoltare i testimoni. Detti diritti sono
espressamente indicati in ambito penale (art. 6, I capoverso e seguenti, Cedu).
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2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata
legalmente accertata.
3. In particolare, ogni accusato ha diritto di:
a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato,
della natura e dei motivi dell'accusa formulata a suo carico;
b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;
c) difendersi personalmente o avere l'assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per
retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d'ufficio, quando lo esigono
gli interessi della giustizia; d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e
l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico; e) farsi assistere
gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza), ma
evidentemente sussistono anche in ambito civile per come affermato dalla Cedu (di cui in appresso).
Ne deriva che, se il processo non deve durare in maniera eccessiva, non per questo lo stesso deve essere
mortificato entro termini ridotti, che vengono a ledere il diritto ad un processo equo per altra via.
Ne deriva che un processo ha una sua fisiologica durata, in ipotesi anche lunga, ove ad esempio vi siano
state questioni di legittimità costituzionale (ben superiori all'anno) e di pregiudizialità comunitaria, ovvero
altri incidenti. Detta durata fisiologica non può andare a carico di chi ha ragione che si troverebbe, nella
materia in esame, nella necessità o di allungare (in suo danno) i tempi del processo o di comprimere (in
suo danno) la propria difesa, trovandosi peraltro a dipendere, nella realizzazione del frettoloso scopo di
concludere il processo quanto prima, dalle difese della controparte, avvantaggiata dalla durata del
processo di primo grado (la durata del processo di primo grado non è parametro di fissazione della
indennità risarcitoria).
Vero è che "la Corte Edu, nella decisione 27 ottobre 1993, Dombo Beheer B.V. c/Paesi Bassi, ha affermato
che l'esigenza della parità delle armi comporta l'obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità
di presentare il suo caso, in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla
controparte e di partecipare in egual misura alla ricerca della prova, disporre dei mezzi necessari per far
valere le proprie argomentazioni".
Ma altrettanto vero è che "al paragrafo 32 della suddetta decisione la Corte Edu ha evidenziato (di seguito
la traduzione dello scrivente) che i requisiti inerenti alla nozione di "equo processo" non sono
necessariamente gli stessi, in materia di determinazione dei diritti civili e doveri rispetto ad un
procedimento penale.
Ciò è confermato dall'assenza di disposizioni dettagliate, come i paragrafi 2 e 3 dell'articolo 6 (art. 62, art.
63) relativi al procedimento penale.
Quindi, anche se tali disposizioni hanno una certa rilevanza al di fuori degli stretti confini del diritto penale
(vthe Albert and Le Compte v. Belgium j, sentenza del 10/1983, par. 39), gli Stati contraenti hanno una
maggiore libertà quando si tratta di cause civili relative ai diritti ed obbligazioni civili di quella che hanno
quando si tratta di casi criminali.
Tuttavia, alcuni principi riguardanti la nozione di"equo processo" nei casi riguardanti i diritti ed
obbligazioni civili emergono dalla giurisprudenza della Corte (...) Ancor più significativo per il caso di
specie, è chiaro che il requisito di "parità delle armi", nel senso di un "giusto equilibrio" tra le parti, che si
applica in linea di principio ad entrambe le tipologie di casi (giudizio Feldbrugge/Paesi Bassi del 26 maggio
1986, par. 44) (...) implica che ciascuna parte deve essere garantita una ragionevole possibilità di
presentare il suo caso - incluse le sue prove - in condizioni che non la pongano in svantaggio
sostanziale nei confronti del suo avversario".
Ne consegue che nel caso che interessa l'interpretazione dell'art. 32, comma 5, del Collegato lavoro come
offerta dalla Corte Costituzionale n. 303/2011, pone il lavoratore in una situazione si sostanziale
svantaggio rispetto alla controparte, perché ogni richiesta o istanza che dovesse essere accolta determina
per lui un effetto che ricade solo a suo carico, mentre il datore di lavoro inadempiente viene ad essere
oggettivamente avvantaggiato da ogni sua richiesta o istanza che dovesse essere accolta.
"A titolo di esempio, ove il lavoratore affermi una diversità tra causale giustificativa del termine e
situazione concreta, può avere necessità di escutere testimoni, chiedere consulenza ovvero esibizione
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documentale, tutte evenienze che richiedono tempo per il loro svolgimento, ma detto tempo, necessario
per garantire la ragionevole possibilità di presentare il suo caso, lede la sua posizione sostanziale.
Di contro parte convenuta trova in ogni richiesta, istanza o in genere nelle evenienze che richiedono
tempo per il loro svolgimento, tempo pur necessario per garantire la ragionevole possibilità di presentare
il suo caso, una evenienza che favorisce la sua posizione sostanziale".
Guida al Lavoro, 25.11.2011 - n. 46 - p.18, Lavoro a termine: l'indennità omnicomprensiva
passa il vaglio costituzionale, di Zambelli Angelo
La Consulta dichiara l'infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art.
32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (cd. Collegato lavoro)
Corte Costituzionale 9.11.2011, n. 303
Art. 32, commi 5, 6 e 7, legge 4 novembre 2010, n. 183 - Questioni di
legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e
117 della Costituzione - Infondatezza
La Corte Costituzionale, riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183
(Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di
congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di
incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure
contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di
lavoro), sollevate, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 117, comma
1, della Costituzione, dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Trani con le ordinanze
indicate in epigrafe.
All'indomani dell'entrata in vigore della legge n. 183/2010 (cd. "Collegato lavoro") (1) e, in particolare,
dell'art. 32 della stessa, tra gli operatori del diritto si ponevano immediatamente numerosi quesiti circa le
modalità di interpretazione e applicazione dello stesso con particolare riferimento alla natura -sostitutiva,
cumulativa o aggiuntiva- del risarcimento del danno in controversie (anche in corso) attinenti la
conversione in contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato dei contratti a termine ritenuti
illegittimi.
Come è noto, infatti, i commi 5, 6, e 7 della norma in esame dispongono quanto segue:
"5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al
risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un
minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai
criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.
6. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le
organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano
l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito
di specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.
7. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti
alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai
soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per
l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi
dell'articolo 421 c.p.c.".
I dubbi interpretativi sorti richiedevano una soluzione urgente, soprattutto a seguito delle prime, discordi
applicazioni giurisprudenziali della norma (2).
La Corte Costituzionale, con la sentenza in commento (che si segnala per chiarezza ed esaustività), ha
provveduto a rendere le relative risposte, che si vanno a esaminare.
Le questioni di legittimità costituzionale
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Il giudizio prende le mosse dalle ordinanze del 20 dicembre 2010 (3) e del 28 gennaio 2011 (4) con le
quali il Tribunale di Trani, prima, e la Corte Suprema di Cassazione, poi, in relazione agli ultimi tre commi
della norma in esame hanno sollevato dubbi "d'illegittimità", ritenendo in particolare l'indennità
omnicomprensiva ivi prevista "irragionevolmente riduttiva del risarcimento del danno integrale già
conseguibile dal lavoratore sotto il regime previgente, sino a monetizzare, secondo il Tribunale di Trani,
persino il diritto indisponibile alla regolarizzazione contributiva".
A sostegno di tale censura, nelle ordinanze di rimessione erano stati svolti i seguenti e pressoché identici
motivi di doglianza, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 11 e 117, comma 1, della
Costituzione:
- la previsione di un'indennità omnicomprensiva e circoscritta ad alcune mensilità di retribuzione sarebbe
"irragionevolmente contenuta rispetto all'ammontare del danno sopportato dal prestatore di lavoro a
causa dell'illegittima apposizione del termine al contratto, che aumenta con il decorso del tempo,
assumendo dimensioni imprevedibili, in quanto pari almeno alle retribuzioni perdute dalla data dell'inutile
offerta delle proprie prestazioni fino a quella, futura ed incerta, dell'effettiva riammissione in servizio";
- dalla tenuità del risarcimento del danno in parola sarebbe conseguito il risultato di indurre "il datore di
lavoro a persistere nell'inadempimento tentando di prolungare il giudizio oppure sottraendosi
all'esecuzione della sentenza di condanna, non suscettibile di realizzazione in forma specifica";
- con l'ulteriore effetto di vanificare "il diritto del cittadino al lavoro ed arrecando grave nocumento
all'effettività della tutela giurisdizionale, che esige l'esatta, per quanto materialmente possibile,
corrispondenza tra la perdita conseguita alla lesione del diritto soggettivo ed il rimedio ottenibile in sede
giudiziale";
- inoltre, "la sproporzione fra la tenue indennità ed il danno (...) sembrerebbe contravvenire all'accordo
quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 ed allegato alla direttiva 28 giugno
1999, n. 1999/70/Ce (direttiva del Consiglio relativa all'accordo quadro Ces, Unice e Ceep sul lavoro a
tempo determinato), come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria";
- il Tribunale di Trani ha altresì ritenuto che "le norme censurate discriminerebbero una serie di lavoratori
versanti in situazioni comparabili, ossia coloro i quali ottengano incolpevolmente la pronuncia favorevole
nei gradi successivi al primo rispetto a coloro i quali, invece, l'abbiano ottenuta già in primo grado, in
quanto, a differenza di questi ultimi, non possono "tenere fuori dall'indennità 'omnicomprensivà le
retribuzioni e i contributi successivi alla pronuncia di primo grado"; i lavoratori assunti a termine rispetto
ad altre categorie di dipendenti precari, aventi diritto alla ricostruzione del rapporto di lavoro, sia sotto il
profilo retributivo che sotto quello contributivo, secondo le consuete regole generali; i lavoratori assunti a
termine con giudizio ancora pendente in primo grado nei confronti di coloro la cui causa penda in appello o
in cassazione, essendo le nuove disposizioni applicabili esclusivamente ai primi".
Da ultimo, entrambi i rimettenti deducevano che "le disposizioni censurate, dettate da motivi di
opportunità economica, realizzerebbero un'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della
giustizia, volta ad influire sulla decisione di una singola controversia o su un gruppo di esse, non
giustificata da ragioni "imperative" di interesse generale, né da esigenze parificatrici in rapporti di lavoro
pubblico, né dall'incerta interpretazione o da imperfezioni tecniche delle norme di diritto comune in tema
di risarcimento del danno subìto dal lavoratore, come costantemente interpretate dalla giurisprudenza
lavoristica".
Valga osservare, per completezza, che nel giudizio avanti la Corte Costituzionale si sono costituite sia le
parti dei rispettivi procedimenti di merito, sia il Presidente del Consiglio dei Ministri tramite l'Avvocatura
Generale dello Stato.
I lavoratori hanno concluso per l'accoglimento delle questioni in esame; i datori di lavoro e la Presidenza
del Consiglio dei Ministri per il rigetto.
Legittimità del comma 5: natura integrativa, rispetto alla conversione del rapporto di lavoro,
dell'indennità "omnicomprensiva"
La Corte delle leggi rileva come il punto focale delle doglianze ruoti tutto intorno alla presunta violazione
dell'art. 3 della Carta Costituzionale, laddove è stato ritenuto iniquo prevedere un risarcimento delimitato
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entro determinate grandezze, a fronte di una disciplina previgente che -fondandosi sulle norme generali di
diritto comune- garantiva risarcimenti ben più sostanziosi.
L'esame della questione procede dall'esplicitazione della ratio legis che ha ispirato la riforma legislativa e
che ha trovato fondamento in una prassi caratterizzata "dalle obiettive incertezze verificatesi
nell'esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente", con
conseguenti "risarcimenti ingiustificatamente differenziati in misura eccessiva".
Al riguardo, la Corte evidenzia tra le "variabili" la necessità di identificare, caso per caso, il "dies a quo del
diritto al risarcimento del danno" che, a tratti, poggiava su "elementi formali od espliciti" (si pensi alla
comunicazione di impugnazione del termine e messa in mora del datore di lavoro), ben "più spesso"
veniva ricavato da "comportamenti concludenti" (si pensi al lavoratore che, nonostante la scadenza del
termine e in assenza di un invito in tal senso, si presenti presso l'ex datore di lavoro per continuare a
lavorare).
A questo si aggiungeva la (non sempre semplice) determinazione dell'aliunde perceptum (la cui prova,
come noto, continua a essere posta a carico dell'ex datore di lavoro, divenendo così spesso diabolica),
nonché la verifica della diligenza del lavoratore nel ricercare un nuovo posto di lavoro, vale a dire l'aliunde
percipiendum.
Sul punto, ci si permette di rilevare sommessamente che non di rado i "risarcimenti" più sostanziosi che
venivano riconosciuti prima dell'entrata in vigore dell'art. 32, e che avevano dato origine a differenziazioni
"in misura eccessiva" tra lavoratore e lavoratore, erano anche la diretta conseguenza dell'assenza di un
termine di prescrizione dell'azione di nullità del termine apposto al contratto: si che non di rado vi sono
stati lavoratori che hanno agito a distanza di anni dalla conclusione del loro rapporto di lavoro a termine,
con immaginabili riflessi, appunto, in relazione al risarcimento del danno (5).
Fatta questa premessa, bastano tre righe alla Corte Costituzionale per confutare i motivi di doglianza
sottoposti al suo vaglio e sciogliere i primi dubbi: "in termini generali, la norma scrutinata non si limita a
forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma,
innanzitutto, assicura a quest'ultimo l'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato".
E' questo che, a ben vedere, è sfuggito ad alcune critiche forse un po' frettolose.
Il comma 5 dell'art. 32, infatti, dispone che il risarcimento del danno è dovuto "nei casi di conversione del
contratto a tempo determinato": come dire, laddove al contratto di lavoro sia stato posto illegittimamente
un termine, sarà comminata innanzitutto -come previsto dal Dlgs n. 368/2001- la sanzione della
conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Quindi, per dirla con le parole della Consulta, si avrà (come si è sempre avuta) "la stabilizzazione del
rapporto" che "è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario".
A questa sanzione -che con tutta evidenza era, è e resta la sanzione principale- si aggiunge quella
dell'indennità omnicomprensiva che, come rileva la stessa Corte Costituzionale, in tal modo era stata
intesa sin dalla sua previsione in sede legislativa: "aggiuntiva e non sostitutiva della conversione" (6).
Il rimedio in parola, dunque, passa il vaglio costituzionale (così come lo ha sempre passato analoga
indennità qual è quella prevista dall'art. 8 della legge n. 604/1966) (7).
La proporzionalità dell'indennità omnicomprensiva
In relazione, poi, alla seconda questione sollevata dai giudici rimettenti -vale a dire quella della
insufficienza dell'indennità omnicomprensiva che produrrebbe "l'effetto (...) perverso di indurre il datore a
persistere nell'inadempimento, anche sottraendosi all'esecuzione della condanna, non suscettibile di
esecuzione in forma specifica, con indefinita dilatazione del danno ed abnorme sproporzione dell'indennità
rispetto ad esso"- la Corte la ritiene infondata in base a un procedimento logico-giuridico che pure pare
condivisibile.
In particolare, viene osservato che "un'interpretazione costituzionalmente orientata della novella (...)
induce a ritenere che il danno forfetizzato dall'indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto
"intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di
esso e dichiara la conversione del rapporto".
In termini diversi, la Corte osserva che, a partire dal momento in cui il giudice accerta l'illegittimità del
termine apposto al contratto di lavoro e lo converte in contratto a tempo indeterminato, "è da ritenere che
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il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli,
in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva".
Se così non fosse, allora è verosimile che la sanzione della conversione perderebbe tutta la sua efficacia,
"sarebbe completamente svuotata", poiché "se (...) il datore di lavoro, anche dopo l'accertamento
giudiziale del rapporto a tempo indeterminato, potesse limitarsi al versamento di una somma compresa
tra 2,5 e 12 mensilità di retribuzione, non subirebbe alcun deterrente idoneo ad indurlo a riprendere il
prestatore a lavorare con sé. E lo stesso riconoscimento della durata indeterminata del rapporto da parte
del giudice sarebbe posto nel nulla".
Alla luce di questa interpretazione, viene rilevato altresì che la forfetizzazione non risulta affatto
sproporzionata per due motivi:
- innanzitutto, perché la norma di cui al comma 5 deve essere letta in relazione a quanto disposto dai
precedenti commi 1 e 3 dell'art. 32 (8).
Vero è, infatti, che se il lavoratore ha motivo di ritenere illegittimo il termine apposto al contratto di
lavoro, deve proporre azione di accertamento della nullità dello stesso entro "complessivi trecentotrenta
giorni...dalla data di scadenza del medesimo": con l'evidente "effetto di approssimare l'indennità in
discorso al danno potenzialmente sofferto a decorrere dalla messa in mora del datore di lavoro sino alla
sentenza, avuto, altresì, riguardo ai princìpi informatori del processo del lavoro intesi ad accelerarne la
definizione".
- inoltre, è evidente che il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell'aliunde perceptum: si
che "l'indennità omnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria. Essa è dovuta in ogni caso, al
limite anche in mancanza di danno, per avere il lavoratore prontamente reperito un'altra occupazione.
Con la conseguenza che la disciplina in esame, confrontata con quella previgente, risulta, sotto tale
profilo, certamente più favorevole al lavoratore".
Pertanto, la Corte conclude segnalando come "in definitiva, la normativa impugnata risulta, nell'insieme,
adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi" poiché:
- al lavoratore "garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a
tempo indeterminato, unitamente ad un'indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità
né dell'offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta";
- al datore di lavoro "assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che
intercorre dalla data d'interruzione del rapporto fino a quella dell'accertamento giudiziale del diritto del
lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la vanificazione della
statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die".
Né valgono a scalfire un simile convincimento le ulteriori argomentazioni svolte nelle ordinanze di
rimessione (in particolare in quella del Tribunale di Trani), tese a evidenziare una "indebita
omologazione... di situazioni diverse" che deriverebbe proprio dall'applicazione dell'indennità in questione:
si pensi, ad esempio, alla differenza tra il lavoratore che impugna la legittimità del termine e ottiene dal
datore di lavoro l'immediata reimmissione in servizio, rispetto a quello che deve affrontare un giudizio e,
magari, si vede vittorioso soltanto in secondo grado.
Sul punto, la Corte osserva, da una parte, che siffatte doglianze non rilevano ai fini del giudizio di
costituzionalità (9); dall'altra che "si tratta di inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non
dipendono da una sperequazione voluta dalla legge, ma da situazioni occasionali e talora patologiche
(come l'eccessiva durata dei processi in alcuni uffici giudiziari)": con la conseguenza che "non è certo dalle
disposizioni legislative censurate che possono farsi discendere, in via diretta ed immediata, le
discriminazioni ipotizzate".
Tanto più considerando che, in relazione alla dedotta lunghezza dei processi, laddove ne sussistano i
requisiti, il lavoratore ben potrebbe agire in via d'urgenza; ovvero, laddove non dovesse seguire questa
strada, salvo poi ritenersi "vittima" di una durata irragionevole della controversia, ben potrebbe chiedere
un'equa riparazione ai sensi della legge n. 89/2011.
Non si dimentichi, poi, che l'indennità omnicomprensiva può essere calibrata tenendo conto delle
peculiarità delle singole vicende, esattamente come è sempre avvenuto e avviene qualora debba farsi
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applicazione dell'art. 8 della legge n. 604/1966: con l'evidente conseguenza che, anche sotto tale profilo,
non vi è alcuna omologazione.
Legittimità del comma 6 dell'art. 32
Analizzata e precisata la portata del comma 5 e la sua legittimità, in relazione al comma successivo la
Corte è lapidaria: "con specifico riferimento alla riduzione della metà del limite superiore dell'indennità ai
sensi dell'art. 32, comma 6, la ragionevolezza della previsione trae alimento dal favor del legislatore per i
percorsi di assorbimento del personale precario disciplinati dall'autonomia collettiva".
Legittimità del comma 7, art. 32: l'indennità omnicomprensiva deve essere applicata a tutti i
giudizi in corso, anche di legittimità
In relazione, da ultimo, al comma 7, valga ricordare che le due ordinanze di rimessione risultavano
discordi.
Il Tribunale di Trani, infatti, aveva ritenuto che, stando alla lettera della norma, i commi precedenti
dovevano ritenersi applicabili soltanto nei giudizi pendenti in tribunale (10); la Corte Suprema di
Cassazione, invece, aveva interpretato lo stesso per l'applicabilità anche nei giudizi pendenti avanti la
Corte stessa (11) al fine di evitare una discriminazione "tra situazioni diverse in base alla circostanza, del
tutto accidentale, di una pendenza della lite giudiziaria (in una od altra fase) tra le parti del rapporto di
lavoro".
La Corte delle leggi sposa appieno quest'ultima prospettazione, tenuto conto (evidentemente) della già
accertata legittimità dei precedenti commi e, soprattutto, del fatto che il legislatore, come si è ricordato,
ha mantenuto inalterata la sanzione principale prevista dal Dlgs n. 368/2001, vale a dire quella della
conversione.
In poche ma convincenti righe viene sottolineato come "la questione è priva di fondamento, altresì, sotto
tale profilo, perché -come persuasivamente argomentato nell'ordinanza di rimessione della Corte di
Cassazione- non v'è alcuna ragione di differenziare il regime risarcitorio di situazioni lavorative sostanziali
tutte egualmente sub iudice.
Talché, la novella dev'essere ritenuta applicabile a tutti i giudizi in corso, tanto nel merito, quanto in sede
di legittimità".
E' verosimile, dunque, che -come paventato dalla Corte Suprema nella propria ordinanza- qualche
lavoratore si vedrà costretto a restituire al datore di lavoro la parte del risarcimento del danno già
riconosciutagli e liquidatagli in eccedenza rispetto a quanto gli verrà riconosciuto secondo le nuove
disposizioni di legge.
La Corte Costituzionale, peraltro ed infine, respinge le doglianze relative ad una violazione del comma 1
dell'art. 117 Cost., in relazione al comma 1 dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (12) (cd. "Cedu"), poiché "alla luce dei princîpi enunciati dalla
giurisprudenza europea (...) ricorrono (...) tutte le condizioni in presenza delle quali la Corte di Strasburgo
ritiene compatibili con l'art. 6 Cedu nuove disposizioni dalla portata retroattiva volte a regolare, in materia
civile, diritti già risultanti da leggi in vigore".
La Consulta, infatti, sottolinea innanzitutto che "la innovativa disciplina in questione è di carattere
generale " e "non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico (o in mano pubblica), perché le
controversie su cui essa è destinata ad incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro
precario alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti i rapporti di lavoro subordinato a termine".
Inoltre, rileva che "alla luce dei rilievi in precedenza svolti, le ragioni di utilità generale possono essere
nella specie ricondotte all'avvertita esigenza di una tutela economica dei lavoratori a tempo determinato
più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi,
anche al fine di superare le inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il sistema previgente. Il
legislatore nazionale vi ha dato risposta con una scelta di forfetizzazione indennitaria del risarcimento del
danno spettante al lavoratore illegittimamente assunto a tempo determinato, in sé proporzionata, nonché
complementare e funzionale al riaffermato primato della garanzia del posto di lavoro".
Non vi è stata, dunque, da parte del legislatore, alcuna ingerenza nell'amministrazione della giustizia.
Sul punto, è interessante notare come la Corte voglia anche sottolineare la coerenza della propria
decisione con la precedente "sentenza n. 214/2009", che aveva dichiarato "l'illegittimità costituzionale
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dell'art. 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (...), introdotto dall'art. 21, comma 1-bis,
del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112", poiché in quel caso, oltre ad essere abrogata la sanzione della
conversione, veniva irragionevolmente differenziato il trattamento ""di un gruppo di fattispecie selezionate
in base alla circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite giudiziaria tra le parti del
rapporto di lavoro" ad una data, quella di entrata in vigore della novella (22 agosto 2008), come se non
bastasse "anch'essa sganciata da qualsiasi ragione giustificatrice"".
Circostanza che, come sin qui descritto, non si è realizzata con l'introduzione dei commi 5, 6 e 7 della
legge n. 183/2010, ritenuti pertanto esenti da qualsiasi censura di non conformità al dettato
costituzionale.
Osservazioni conclusive
La decisione della Corte Costituzionale, come si è rilevato, era certamente attesa con impazienza, anche
se con il passare del tempo (e l'immaginabile urgenza del dover decidere) l'orientamento dei giudici di
merito si era già indirizzato con decisione verso la natura integrativa, non sostitutiva né aggiuntiva,
dell'indennità prevista dal comma 5 dell'art. 32 (come si evince facilmente dallo schema riassuntivo -di
certo non esaustivo- delle pronunzie sin qui registrate in tema): l'avallo oggi ricevuto dal giudice delle
leggi recherà indubbio conforto alle Corti di merito che in tal senso si erano già pronunciate.
Trattasi, in ogni caso, di una sentenza estremamente importante che risolve da oggi in poi ogni residua
incertezza interpretativa, assicurando un'applicazione uniforme delle regole risarcitorie in tutti i giudizi, in
corso e futuri, relativi all'annoso contenzioso dei contratti a termine.
In un quadro normativo spesso lacunoso e di difficile interpretazione, non possiamo che vedere con favore
decisioni di tale portata.
Orientamenti giurisprudenziali sino al 9 novembre 2011
Natura dell'indennità
Orientamenti giurisprudenziali
sostitutiva della trasformazione del
Trib. Milano, 9 febbraio 2011
rapporto e dell'eventuale retribuzione
maturata dal lavoratore nel periodo
intercorrente tra la data di cessazione del
rapporto e la data di riammissione in
servizio
cumulativa con la conversione del
rapporto e sostitutiva della sola
eventuale retribuzione maturata dal
lavoratore nel periodo intercorrente tra la
data di cessazione del rapporto e la data
della riammissione in servizio
App. Perugia, 26 gennaio 2011; Trib. Milano
29 novembre 2010 (in tale data si
registrano due sentenze in tal senso); Trib.
Roma 30 novembre 2010; Trib. Bari 30
novembre 2010; Trib. Bergamo 15
dicembre 2010; Trib. Roma 16 dicembre
2010; Trib. Milano 17 dicembre 2010, Trib.
Milano 21 dicembre 2010; Trib. Roma 28
dicembre 2010; Trib. Milano 10 gennaio
2011; Trib. Roma 11 gennaio 2011; Trib.
Milano 12 gennaio 2011; Trib. Milano 18
gennaio 2011, Trib. Milano 19 gennaio
2011; Trib. Milano 3 febbraio 2011 (in tale
data si registrano due sentenze in tal
senso); Trib. Milano 25 febbraio 2011.
aggiuntiva rispetto sia alla
trasformazione del rapporto, sia
all'eventuale retribuzione maturata dal
lavoratore nel periodo intercorrente tra la
Trib. Busto Arsizio, 29 novembre 2010;
Trib. Napoli 21 dicembre 2010. In tal senso
si segnala anche l'interpretazione resa
dall'Ufficio delMassimario della Corte
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data di cessazione del rapporto e la data
di decorrenza della riammissione in
servizio
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Suprema di Cassazione nella Relazione n. 2
del 12 gennaio 2011
ULTIMA ORA
TRIBUNALE DI NAPOLI 16 NOVEMBRE 2011, N. 29910
Giud. Coppola; Ric. O.P.; Res. Srl G.I. I (contumace)
Contratto a termine - Risarcimento del danno - Collegato lavoro - Applicabilità
fino alla data di presentazione del ricorso
L'esclusione dall'applicazione del Dlgs n. 368/2001 ai rapporti di lavoro tra i datori di
lavoro dell'agricoltura e gli operai a tempo determinato, prevista dall'art. 10, comma 2,
del Dlgs n. 368/2001 è di stretta interpretazione e riguarda solo i rapporti con gli
imprenditori agricoli (art. 2135 c.c. e disposizioni correlate).
La indennità risarcitoria di cui all'art. 32, comma 5, della legge n. 138/2010 copre il
periodo di tempo fino al deposito del ricorso, dopo di che sono dovute le retribuzioni.
La diversa interpretazione della Corte Costituzionale (sentenza n. 303/2011) dell'art.
32, comma 5, pone il lavoratore in una situazione di svantaggio perché comporta che
l'esplicazione del suo diritto di difesa sostanziantesi nel diritto ad assumere prove ed in
genere avere tempo, nel processo, per apprestare le proprie difese, determina la
perdita delle sue retribuzioni: la controparte inadempiente è oggettivamente
avvantaggiata dai pur necessari tempi processuali, evitando il pagamento delle
retribuzioni.
In ambito di applicazione dell'Ordinamento dell'Ue il diritto di ogni persona ad accedere
ad un processo equo comporta il diritto a preparare le proprie difese, anche in
relazione alle difese della controparte, e ad ascoltare i testimoni (Corte Edu, Dombo
Beheer B.V. c/Paesi Bassi).
Il commento sul prossimo numero di Guida al Lavoro
_____
(1) Ricordiamo che la legge n. 183/2010 è entrata in vigore il 24 novembre 2010 dopo il vaglio preventivo del Presidente della
Repubblica e un doppio passaggio di approvazione in Parlamento.
(2) Si ricorderà, infatti, che già il 29 novembre 2010 -vale a dire dopo cinque giorni dall'entrata in vigore del Collegato lavorovenivano pubblicate e rese note tre sentenze in tema. Due della Sezione Lavoro del Tribunale di Milano (A. Mordà, in Guida al
Lavoro, 2011, n. 9) e una di quello di Busto Arsizio (F. Putaturo Donati, Sulla natura della nuova sanzione per conversione del
contratto a termine, in Guida al Lavoro, 2010, n. 49): mentre le prime optavano per la natura sostitutiva, e non cumulativa,
dell'indennità di cui al comma 5 dell'art. 32 rispetto alle retribuzioni perse dal lavoratore tra l'offerta della propria prestazione e alla
riammissione in servizio; la seconda era di diverso avviso, ritenendo quell'indennità cumulativa rispetto alle retribuzioni perse.
(3) Trib. Trani, ordinanza 20 dicembre 2010, in Foro it., 2011, 6, I, 1744; per un commento si veda, in questa rivista, G. Falasca,
Contratto a termine: le norme al vaglio della Corte Ue e della Consulta, 2011, n. 2.
(4) Cass. ordinanza 28 gennaio 2011, n. 2112, in Foro it., 2011, 6, 1742; oppure, Riv. it. dir. lav., 2011, 3, II, 770; per un
commento si veda, in questa rivista, G. Falasca, Contratto a termine: il Collegato lavoro finisce in Corte Costituzionale, 2011, n. 7,
pag. 10.
(5) Di tanto aveva dato atto la Corte Suprema di Cassazione nell'ordinanza di rimessione della questione alla Corte Costituzionale:
"trattandosi di azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro e quindi di azione imprescrittibile, il lavoratore, prima
dell'entrata in vigore dell'art. 32, comma 3, lett. d), poteva prolungare sine die il tempo dell'azione di nullità e per dieci anni (art.
2946 c.c.) quello dell'azione risarcitoria".
(6) Così l'ordine del giorno G/1167B/7/111 (pagg. 11 e 12) accolto al Senato della Repubblica innanzi alle Commissioni I e XI riunite
nella seduta del 2 marzo 2010: "Emendamenti e ordini del giorno al disegno di legge n. 1167B (...) G/1167B/6/111 (...) Il Senato,
premesso che l'articolo 32, comma 5, del disegno di legge stabilisce l'entità della condanna al risarcimento del lavoratore che viene
disposta dal giudice "nei casi di conversione del contratto a tempo determinato"; considerato che: la normativa vigente riconosce
che il lavoratore ha diritto di sentire pronunciare la reintegrazione nel posto di lavoro a tempo indeterminato in caso di violazioni
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contrattuali da parte del datore di lavoro; la sentenza della Corte Costituzionale n. 214 dell'8 luglio 2009 ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'articolo 4bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dall'articolo 21, comma 1bis, del decreto
legge 25 giugno 2008, n. 12, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, impegna il Governo a garantire che la
disposizione di cui all'articolo 32, comma 5, venga correttamente intesa come riferita alla conversione del contratto a tempo
determinato in contratto a tempo indeterminato e che, conseguentemente, la previsione della condanna al risarcimento del
lavoratore venga intesa come aggiuntiva e non sostitutiva della suddetta conversione".
(7) Corte Cost. 18 dicembre 1970, n. 194; 23 febbraio 1996, n. 44; 7 febbraio 2000, n. 46.
(8) Legge n. 183/2010, art. 32:
- comma 1: "I commi 1 e 2 dell'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sono sostituiti dai seguenti: "Il licenziamento deve
essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla
comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a
rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il
licenziamento stesso.
L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella
cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di
conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la
conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice
deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo (...)";
- comma 3: "Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente
articolo, si applicano inoltre: (...) a) ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del
rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto; b) al recesso del committente nei rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui all'articolo 409, numero 3), c.p.c.; c) al
trasferimento ai sensi dell'articolo 2103 c.c., con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento; d)
all'azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001,
n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo".
(9) Ciò, per consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale stessa: cfr. i provvedimenti che la stessa Corte cita n. 298/2009, n.
86/2008, n. 282/2007 e n. 354/2006; ordinanze n. 102/2011, n. 109/2010 e n. 125/2008.
(10) Così il Tribunale di Trani nella propria ordinanza: "sempre in punto di violazione dell'art. 3 Cost. (...) argomentando dalla lettera
del comma 7 dell'art. 32 legge n. 183/2010 (...) tanto in dottrina quanto in giurisprudenza si è già sostenuto che i commi 5 e 6 della
medesima disposizione di legge siano applicabili solo ai giudizi pendenti in primo grado, sia perché la norma richiama solo l'art. 421
c.p.c. 8 e non anche l'art. 437 c.p.c., sia perché, diversamente opinando, si violerebbe il principio devolutivo (che impone al giudice
di decidere sulla base dei motivi di gravame), sia perché, per come è strutturato, il processo di Cassazione non lo rende possibile e
sia perché ciò che la disposizione consente è solo l'integrabilità delle "domande" e delle "eccezioni" e non anche dei "motivi di
impugnazione".
Da ciò deriva (...) che il lavoratore la cui causa penda in appello o in Cassazione si ritrova a beneficiare di un trattamento di miglior
favore rispetto a quello assicurato al lavoratore il cui giudizio sia ancora pendente in primo grado, determinando un'inammissibile
disparità di trattamento, per violazione, ancora una volta, dell'art. 3 Cost."
(11) In particolare, i giudici di legittimità avevano osservato quanto segue: "ritiene questo collegio che la sopra riportata espressione
del comma 7 debba essere riferita altresì ai giudizi di cassazione, anche se le disposizioni si riferiscono espressamente al giudizio di
merito.
Infatti la soluzione negativa, ossia l'esclusione della fase di cassazione dall'ambito di previsione della norma, equivarrebbe a
discriminare tra situazioni diverse in base alla circostanza, del tutto accidentale, di una pendenza della lite giudiziaria (in una od altra
fase) tra le parti del rapporto di lavoro. Più precisamente, la situazione sostanziale dei lavoratori sarebbe assoggettata ad un regime
risarcitorio diverso, a seconda che i processi pendano nel merito oppure in cassazione. Discriminazione ritenuta illegittima dalla Corte
Cost. con sent. n. 214 del 2009, e tanto più grave quando si pensi che i lavoratori destinatari della nuova legge potrebbero dover
restituire le retribuzioni percepite sulla base della sentenza di merito provvisoriamente eseguita, nella parte eccedente il massimo
dell'indennità spettante (...).
Appare pertanto rilevante la questione di legittimità costituzionale dei suddetti commi 5 e 6, in riferimento agli artt. 3, 4, 24,
111e117 Cost., per le ragioni che di seguito si espongono".
(12) Art. 6 della Cedu: "Diritto ad un processo equo.
1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un
tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere
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civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla
sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine
pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita
privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la
pubblicità può pregiudicare gli interessi della giustizia.
2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.
3. In particolare, ogni accusato ha diritto a:
a. essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in un modo dettagliato, della natura e dei
motivi dell'accusa elevata a suo carico;
b. disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;
c. difendersi personalmente o avere l'assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter
essere assistito gratuitamente da un avvocato d'ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia;
d. esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse
condizioni dei testimoni a carico;
e. farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata all'udienza".
PER GLI ABBONATI DI LEX24 è disponibile anche la consultazione di:
- Guida al Lavoro, 18.11.2011 - n. 45 - p.12, Contratto a termine: clausola sostitutiva per
maternità e proroga, di Mordà Andrea
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termine” La invitiamo a “navigare” su DIRITTO24 alla ricerca di sentenze, commenti, rassegne
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