Il contributo del pragmatismo alla analisi del discorso pedagogico

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Il contributo del pragmatismo alla analisi del discorso pedagogico
di Franco Cambi
Il pragmatismo è una forma filosofica di “lunga durata” e di ricca fenomenologia che ha
accompagnato le trasformazioni culturali del Novecento, connettendo in modo organico
pensiero e società (democratica), pensiero e valori laici (aperti), all’interno di una visione
antropologica moderno-avanzata.
Pragmatism is a philosophical form of "long term" and rich phenomenology, which accompanied
the cultural transformations of the Twentieth Century, connecting in an organic way thought
and democratic society; thought and secular open values, within an anthropological “advanced”
conception.
1. Dal pragmatismo al neopragmatismo
Il pragmatismo sviluppò e chiuse la sua avventura in terra americana già nel primo decennio del
Novecento. Ma fu un’esperienza filosofica che investì anche la cultura europea, e per molti
rivoli. Perfino in Italia, combinandosi ora col positivismo e ora con le reazioni al positivismo
stesso. Per il primo aspetto si pensi a Marchesini, Vailati e Calderoni, per il secondo a Papini e
Prezzolini: tanto per esemplificare. Ma tale modello di pensiero continuò a vivere, negli USA in
particolare, attraverso pensatori che ne riprendevano istanze e principi in contesti teorici pur
diversi: come accadde a Dewey.
In Italia poi ritornò à la page proprio nel secondo dopoguerra, attraverso l’opera pedagogica di
Dewey, che assunse qui da noi un ruolo-chiave: di referente sia teorico sia pratico in
educazione (e non solo: anche in politica, ad esempio, e come teorico assai fine della
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democrazia).
Allora, possiamo dire, il pragmatismo è stato una forma filosofica di “lunga durata” e di ricca
fenomenologia, che ha accompagnato le trasformazioni culturali del Novecento, connettendo in
modo organico pensiero e società (democratica), pensiero e valori laici (aperti), all’interno di
una visione antropologica moderno-avanzata. Una visione che fa centro sull’individuo e sulla
sua mente plurale (e logica e emotiva e comunicativa), sul suo “fare esperienza” in modo
costruttivo, sia personale sia sociale. Il che significa: legandosi al principio-valore della libertà,
ma nella responsabilità e nell’agire in comune, dando corpo a “credenze” capaci di operare
come sigillo sociale di tipo democratico.
Per essere ancora più precisi: il pragmatismo è stato una di quelle “filosofie dell’esperienza” che
nel primo Novecento hanno preso campo nell’elaborazione del pensiero e si sono imposte
come un modello trasversale e con molti profili (dal bergsonismo allo storicismo, dalla
fenomenologia al razionalismo critico), accomunati dalla traiettoria di leggere la struttura e il
senso del fare-esperienza proprio della condizione umana. E moderna in particolare: dopo le
Certezze, dopo le Autorità, dopo i Valori Eterni. Il pragmatismo ha svolto questa analisi
costruttiva dell’esperienza in modo fine e complesso, ponendosi come un modello-chiave in
questa avventura di pensiero filosofico (e non solo).
Ma c’è di più: il pragmatismo in anni recenti è tornato ad essere una filosofia viva e attiva, e
proprio negli USA, poiché ha accompagnato, come interlocutore critico, il declino (problematico)
della filosofia analitica, riproponendo al centro dell’analisi il soggetto e il pluralismo del suo
fare-esperienza. Così il dialogo col pragmatismo classico è stato ripreso e tutta una stagione
del pensiero americano recente ha preso il nome, e non a caso, di neopragmatismo.
Un’opera generativa di questa posizione è stata proprio Conseguenze del pragmatismo
(1982/1984), del 1982, che ha sviluppato sia una revisione di quella filosofia, sia un suo
aggiornamento/adattamento ai problemi dell’oggi. Ma, possiamo dire, proprio la posizione
filosofica di Rorty, da La filosofia e lo specchio della natura (1979) a La filosofia dopo la filosofia
(1989), fino a Una sinistra per il prossimo secolo (1999), si manifesta come il dialogo/ripresa più
forte rispetto al pragmatismo, capace di consegnarcelo, e sotto vari aspetti, come un
interlocutore del tutto attuale. E ciò è avvenuto però non solo con Rorty: tale richiamo ha
segnato, e sempre di più, una generazione di filosofi statunitensi, i così detti post-analitici che in
molte posizioni del pragmatismo hanno trovato vie per superare l’angustia di un pensiero solo
analitico (logico-scientifico, in particolare).
Orbene: in questa ricca, complicata, variegata anche, fenomenologia del pragmatismo quale è
stato il contributo che esso ha dato alla pedagogia come discorso? Intanto l’educazione è stata
un fattore centrale di questo percorso tutto legato alla prassi e individuale e sociale. E poi
sull’educazione si è riflettuto enucleando le categorie-guida, il tipo di discorsività, quindi il
tessuto logico di tale sapere, a cui il pragmatismo assegnava una precisa centralità. Già in
James, poi in Dewey (pur non-pragmatista di scuola che sia stato), in Mead, come pure poi in
Rorty. Autori tutti che hanno sondato lo statuto della pedagogia e che ci consegnano uno dei
suoi modelli interpretativi più ricchi e significativi. E proprio perché l’hanno ripensata in tutta la
sua ampiezza e tensione interna, con riprese e approfondimenti costanti.
In relazione a questo statuto vorrei soffermarmi, qui, su tre aspetti fondamentali che proprio tra
Dewey e Rorty possono essere meglio illuminati (anche se non solo da loro). Il complicato
nesso teoria/prassi che è immanente alla pedagogia, ma che qui viene ripensato e ab imis e “ad
alta quota”, fissandone proprio la complessità dei piani e della relazione stessa. Poi il discorso
filosofico fissato – ancora – nella sua mediazione fra scienza e filosofia, anzi tra scienza e
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riflessività intenzionante, come ebbe a ben ricordarci Dewey stesso. Infine il
modello-formazione che qui viene riletto tanto sul piano sociale quanto su quello personale,
attraverso un ampliamento della concezione del soggetto che lo articola fra mente, società e
cultura secondo un’ottica del farsi-persona: aspetto quest’ultimo che proprio il neopragmatismo
ha con forza sottolineato.
Allora, al côté pragmatista/neopragmatista del pensiero americano dobbiamo, forse, e lo si è già
detto, uno dei sondaggi più organici e densi e sottili dell’universo pedagogico, sì del suo operari,
sì del suo “peso” sociale, ma anche in relazione alla sua struttura logica e in relazione a ambiti
decisivi e complessi, sui quali si opera un’illuminazione precisa e articolata e problematica.
Come è richiesta dalla cultura pedagogica contemporanea. Così tornare al pragmatismo è, en
pédagogie, entrare nel cuore stesso dell’identità contemporanea del pedagogico. Una via per
rileggerla (e bene) iuxta propria principia.
2. Lo “stemma” della pedagogia 1: teoria/prassi
Tra pragmatismo e neopragmatismo il tema, cruciale, del rapporto teoria/prassi in pedagogia è
stato illuminato in modo organico e denso. Compreso proprio nella sua complessità e nella
specificità del rapporto stesso. Prima di tutto la prassi è stata ridefinita nel suo volto plurale,
connessa com’è ai vari ambiti del fare-educazione. Nella scuola in primis, ma anche nella vita
sociale e nella stessa vita politica. Tale prassi è allora sia scolastica sia sociale sia politica. E
proprio Dewey è stato su questo piano l’autore più fine e significativo. Alla scuola ha dato un
nuovo volto e per la formazione attiva delle menti e per una socializzazione democratica. Così
l’ha pensata e come laboratorio e come comunità in cui il sapere (e la mente) cresce attorno al
metodo scientifico, che è in se stesso sia critico sia democratico. Una scuola laica il cui
valore-guida è la formazione umana dei soggetti, tanto in senso personale quanto in quello
sociale. Ma la prassi educativa c’è anche nella società civile, in quanto produce opinione
pubblica e investe così molte agenzie: dalla stampa alla radio, alla TV, etc. Qui sono un fascio
di pratiche a farsi educatrici e che come tali vanno considerate e illuminate da una teoria
pedagogica efficace e critica al tempo stesso, correlate a una precisa idea di cittadinanza:
quella, appunto, democratica. Poi la politica in senso stretto va correlata a un fine pedagogico in
modo costante, in modo da non perdere di vista la tensione profetica (e/o utopica) che
contrassegna la pedagogia. Questa corregge e integra e sfida la politica, la quale tende, quasi
inevitabilmente, a farsi puro gioco di potere. Tra Dewey, e il Dewey di Comunità e potere
(1927/1971)e dei Problemi di tutti (1946/1950), e Rorty, quello di Una sinistra per il prossimo
secolo (1999), queste frontiere socio-politiche della prassi educativa sono ben fissate e ben
messe in rilievo, come quella scolastica lo è in Democrazia e educazione di Dewey stesso.
Da questo iter complesso di ricerca il nesso fra teoria/prassi in pedagogia viene indicato come
organico e integrato, ma anche come reciproco: che va sì dalla teoria alla prassi (come
progetto) ma anche dalla prassi alla teoria (come strategia che reclama un modello su cui
incardinarsi). Pertanto il nesso è critico e dialettico. E connesso a una dialettica che è tensione
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e rinvio, che è costruita sull’unità, la distinzione e l’interazione ad un tempo. Secondo un gioco
complesso di raccordi inquieti e sempre problematici. Da pensare e ripensare, pertanto.
Di questo dispositivo-base della pedagogia l’avventura del pragmatismo ci ha dato, forse, lo
stemma più ricco, più denso, più organico e più attuale.
3. Lo “stemma” della pedagogia 2: il discorso pedagogico
Anche sul discorso pedagogico (sulla sua logica e fenomenologia, sul suo statuto epistemico) il
pragmatismo è stato altrettanto cruciale. E ancora Dewey si è disposto al centro di questa
indagine. Sì, è vero, le sue ricerche epistemologico-pedagogiche sono scarse; forse anche
sommarie; ma purtuttavia illuminanti. Anzi decisive. E si riprenda pure il solito testo breve su Le
fonti di una scienza dell’educazione (1929/1951) e lo si rilegga nel suo ingranaggio genuino: la
pedagogia oggi non è più un sapere teoretico, filosofico, astratto; è sapere scientifico e lo è a
due livelli. Lo è accogliendo i dati scientifici delle sue fonti (psicologia, sociologia, etc.) ma lo è
anche coordinando quei dati con un sapere dell’educazione e, quindi, curvandoli in senso
educativo ovvero intenzionandoli sullo specifico pedagogico, legato a sua volta,
all’educare/istruire/formare. Orizzonte che è costituito da dispositivi sempre riflessivi, cioè da
ri-pensare, illuminare, sviluppare in un tempo storico, in una situazione sociale, in una
congiuntura culturale. Allora la “scienza dell’educazione” è fatta di scienze (al plurale) e di
riflessività (intenzionale), e su questo piano dialettico viene a delineare la propria specificità
epistemica.
E’ un quadro, questo, che è stato, dopo Dewey, ripreso e rilanciato (e si pensi, pur tra qualche
oscillazione a Mialaret, a Visalberghi e a molti altri, soprattutto in Italia: a Laporta ad esempio) e
proprio per salvaguardare la finezza di uno stemma teorico del pedagogico, aggiornato sì, ma
senza riduzionismi, senza espropriazioni, senza indebolimenti, bensì riconfermato nel suo
statuto critico. Un quadro – ancora – che si contrapponeva (e con decisione) a ogni delega ab
extra del pedagogico, secondo una lettura empiristico-riduttiva o interdisciplinare-ingenua del
paradigma “scienze dell’educazione”, poste queste come neo-collettore di varie scienze da
collocare nello spazio stesso della pedagogia. Lasciando così questa, come sapere
autonomo/specifico, fuori scena. Il paradigma “scienze dell’educazione” è stato inteso spesso
come delega e espropriazione andando contro le stesse affermazioni, ben diverse, di Dewey. E
dimenticandole.
Allora è necessario invece ripartire proprio di qui. Da una rilettura di quei testi (come fece,
tempo fa, Mariani) e da una messa a punto di questo stemma complesso e critico, estraneo sia
a ogni arroccamento del pedagogico sia a ogni sua delega espropriativa. Ed è un lavoro che
reclama di ripensare non solo lo stemma in generale, bensì anche le articolazioni scienza per
scienza e momento storico-culturale per momento storico-culturale, in modo da delineare
criticamente tutto il corpus (plurale e organico insieme) del sapere pedagogico. E nella dialettica
dei saperi, delle logiche e delle relazioni costitutive fra questi ambiti.
4. Lo “stemma” della pedagogia 3: l’idea di formazione
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Tra Dewey e Rorty (che sono gli autori che qui abbiamo tenuto in posizione centrale per una
ricognizione tra pragmatismo e neopragmatismo, in chiave di teoria pedagogica) un’altra
categoria-chiave della teorizzazione appunto pedagogica moderna e attuale va sottolineata
come ben articolata e illuminata: quella di formazione. Di formazione umana e sociale (e sociale
in quanto umana) del soggetto. Di ogni soggetto. Formazione umana che è crescita dell’io nella
libertà e responsabilità. Crescita nella cultura. Crescita in un attivo ruolo sociale, fatto di diritti e
di doveri. Dewey in opere come Democrazia e educazione (1916/1951) e poi in Esperienza e
educazione (1938/1968)fissa il reticolo culturale della formazione del soggetto. E di un soggetto
che in Natura e condotta dell’uomo (1922) viene pensato nel suo profilo di io come sé e come
sé socializzato. E sottolineato in senso democratico: come io capace di collaborazione, di
creatività, di sviluppo critico della stessa esperienza sociale. Già Dewey fissa, possiamo dire,
una moderna paideia/Bildung che pone il soggetto come nucleo attivo del suo processo
formativo e che fissa tale processo formativo in una sintesi organica della cultura e in un ruolo
ancora attivo nella società e proprio nel suo sviluppo come società aperta sia al coinvolgimento
di tutti sia rispetto al proprio futuro. Quanto alla cultura Dewey indica nelle “teorie
dell’esperienza” il rapporto di ogni azione scolastico-formativa capace di assemblare in senso
formativo, appunto, i saperi e di renderli attivi nella mente del soggetto. Soggetto poi che – e
anche e proprio per questa sua “inculturazione” attiva – si fa attore dinamico, a sua volta, e
della cultura e della società. Si tratta di una dimensione implicita nel pensiero deweyano?
Forse, ma non troppo. Come rivela il suo stesso lavoro sul curricolo. Come rivela la sua stessa
riflessione antropologica.
È con Rorty che questa dimensione dell’educazione viene poi a raccordarsi con la tradizione
storicistico-ermeneutica e ad assumere un quadro, anche di linguaggio, più “continentale”. Nei
suoi Scritti sull’educazione (1982-89/1996) (ma non solo in quelli) si decanta questo connubio
tra un pragmatismo aggiornato e le filosofie critiche dell’educazione europea, creando un
cortocircuito teoretico di nuova lega e di alto significato. La pedagogia della Bildung sviluppa i
temi stessi dell’implicito deweyano, delineando una ripresa/approfondimento/modernizzazione
della stessa categoria della Bildung. Un suo rilancio critico e storico e operativo. Di cui una
sintesi ulteriore si trova nel lavoro svolto da Marta Nussbaum.
5. Un quadro ancora attuale
Allora: l’avventura pedagogica del pragmatismo, in sé e nella sua ripresa attuale nel
neopragmatismo, ci ha consegnato, more teoretico, un quadro fondante del pedagogico attuale.
O, almeno, alcuni suoi segmenti decisivi. E decisivi proprio per tener vivo lo stemma profondo o
aureo o radicale di quel sapere: quello pedagogico. Qui ci siamo fermati a tre aspetti: il nesso,
inquieto, dialettico, sempre tensionale, tra teoria e prassi; il quadro epistemico come
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sapere-di-saperi: le scienze dell’educazione e il loro coordinamento sia critico sia intenzionante
della riflessività (ovvero della filosofia posta come rigorizzazione e interpretazione ad un
tempo); l’idea di formazione dell’uomo attuale in cui soggetto, cultura e società entrano in forte
interazione, per dar corpo a un soggetto libero/responsabile e a un cittadino attivo e promotore
di innovazione (e non solo) in una società aperta: una formazione come neo-Bildung? Forse. In
quanto va oltre quel modello da “filosofia dello spirito” che è stato tipico della Bildung classica e
avvicina questa categoria alle inquietudini, incertezze, problematicità e dell’io/sé attuale e della
società in cui esso è immerso. E sono tre punti nodali del pedagogico su cui esso può attivare
anche un’ulteriore riflessione, ma da cui si può partire per sviluppare un’idea organica del
pedagogico. Oggi. Forse anche altri aspetti, più connessi all’educativo, restano centrali in
questa complessa avventura. L’idea di scuola soprattutto, da riprendere e attualizzare. Il
modello di didattica che reclama un legame stretto con l’esperienza (di cui il “costruttivismo”
attuale è erede) e la prassi del laboratorio. Come pure altri connessi al pedagogico, da meglio
definire, nell’oggi. A partire dalla stessa inter/trans-disciplinarità della pedagogia come
sapere-di-saperi, anch’essa da meglio e in modo capillare ripensare e definire (e, come già
detto sopra, e in generale e nello specifico disciplinare).
Certo è, però, che un confronto col pragmatismo, classico e neo, conduce a una rilettura e
organica e sottile/complessa del pedagogico e a fissarne, in primis, il suo ricco/complesso
“stemma” teorico. E proprio nei suoi nuclei essenziali e nel suo volto più attuale.
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