VÉRONIQUE_Versione corretta1

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VÉRONIQUE CHAMPEIL-DESPLATS∗
Protezione di alcune categorie di persone vulnerabili o svantaggiate
volto alla interdizione di discriminazioni positive in Francia
Sommario : I. La concezione formale del principio di uguaglianza e la mancanza
di obbligo legale di proteggere tutte le persone svantaggiate o vulnerabili;
II. Divieti di discriminazioni positive e le sue sfumature: il caso
paradigmatico della parità uomini/donne; II. Il divieto della considerazione
dei criteri sensibili e le politiche pubbliche A. Il dibattito sulle statistiche
etniche; B. L’oggettivazione dei criteri delle politiche pubbliche e il
rafforzamento delle misure contro la discriminazione
Una parte dei principi oggi vigenti nell’ordinamento giuridico francese è direttamente
ereditato dalla Rivoluzione. Uno dei migliori esempi è il principio di uguaglianza. Strettamente collegato al concetto di universalismo che è alla base dell’idea repubblicana, il principio di uguaglianza è stato a lungo promosso dalla Francia nella sua dimensione formale e
astratta. L’articolo 6 della Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del Cittadino (26 agosto
1789) esprime perfettamente questo concetto:
“La Legge è l'espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di
concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve
quindi essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini essendo
uguali ai suoi occhi sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi
pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei
loro talenti”.
∗
Università Paris Ouest–Nanterre, Francia, Cattedra UNESCO.
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Al tempo della Rivoluzione francese, la promozione dell'uguaglianza si giustifica con
la volontà di rompere con i privilegi esistenti sotto il Vecchio Regime. A questo proposito,
non dobbiamo dimenticare che uno dei primi atti giuridici adottati in questo momento
storico è appunto l'abolizione dei privilegi, deciso la notte del 4 agosto 1789. Al tempo, il
concetto di privilegio aveva un significato molto specifico: indicava non tanto l'idea di un
trattamento favorevole per alcuni gruppi sociali al potere, quanto piuttosto l'esistenza di
norme specifiche basate sull’appartenenza a gruppi professionali o sull’area geografica. Il
concetto di privilegio va quindi compreso nel suo senso etimologico, cioè nel significato
latino “privata lex”.
Come risultato, in Francia, la concezione del principio di uguaglianza è
tradizionalmente formale: "la legge è uguale per tutti". Si ritiene quindi che l’uguaglianza di
trattamento, correlata all'assenza di discriminazione sulla base di alcuni criteri - il colore
della pelle, l’origine etnica, le convinzioni religiose, le opinioni politiche, il sesso,
l’orientamento sessuale... - sia sufficiente a garantire l'uguaglianza effettiva (I).
L'articolo 6 della Dichiarazione del 1789 resta ancora oggi alla base di numerose
politiche pubbliche e decisioni giudiziarie, le quali, come vedremo, si oppongono ad alcuni
criteri che possano costituire differenze di trattamento tra categorie di individui. Tali norma
si applica naturalmente nel caso di un trattamento sfavorevole, cioè di discriminazione
negativa, ma anche di un trattamento favorevole rivolto a categorie di individui svantaggiati
o vulnerabili, cioè di discriminazione positiva. Questo divieto ammette poche eccezioni ed
è suscettibile di interpretazione restrittiva (II). La protezione delle persone vulnerabili e
svantaggiate è quindi basata sulla definizione di politiche pubbliche e sociali che rafforzano
la lotta contro la discriminazione (negativa) e cercano di utilizzare criteri oggettivi per la
redistribuzione della ricchezza e l’attuazione di misure per l’uguaglianza (III).
I. La concezione formale del principio di uguaglianza e la mancanza di obbligo legale di proteggere
tutte le persone svantaggiate o vulnerabili
Una delle conseguenze giuridiche della concezione formale di uguaglianza che regna
in Francia è l'idea che il raggiungimento appunto dell’uguaglianza possa giustificare un
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Protezione di alcune categorie di persone vulnerabili o svantaggiate
diverso trattamento tra categorie di soggetti versanti in differenti condizioni economiche,
idea enunciata dai giudici francesi tardivamente.
La prima enunciazione infatti è datata 1974, ad opera del Consiglio di Stato1. Si
ammette che le diverse categorie di beneficiari dei servizi pubblici possano essere trattate in
maniera differente di fronte ad un servizio reso dall’amministrazione, a condizione che ciò
sia "la conseguenza necessaria di una legge, (...) che esistessero tra gli stessi beneficiari delle
situazioni differenti apprezzabili (...)" e che esista un bisogno di interesse generale. Questa
posizione di principio consente ad esempio di giustificare certe modulazioni delle tasse in
base al numero di bambini nelle famiglie.
L'ammissione di una differenza di trattamento successivamente è stata accettata dal
Consiglio costituzionale in una decisione del 12 luglio 19792:
“Se il principio di uguaglianza di fronte alla legge implica che per situazioni simili si
applicano soluzioni simili, non ne consegue che situazioni diverse non possano avere
soluzioni diverse”.
Dopo questa decisione, la formulazione del principio di uguaglianza può essere
modificata e precisata, ma l’idea di fondo è la stessa. Le ultime decisioni del Consiglio
costituzionale interpretano l'articolo 6 della Dichiarazione 1789 nel senso che:
“il principio di uguaglianza non si oppone né a che il legislatore regoli in modo
diverso situazioni differente, né a che deroghi il principio di uguaglianza per motivi di
interesse generale, a condizione che in entrambi i casi, la differenza di trattamento che ne
risulta sia direttamente correlata alla finalità della legge”3.
Tuttavia, - e qui incontriamo una prima difficoltà a una considerazione sistematica
della situazione di persone vulnerabili o socialmente svantaggiate -, tale disparità di
trattamento non è un obbligo giuridico costituzionale in Francia.
I giudici francesi, siano essi del Consiglio Costituzionale, della Corte di Cassazione, o
del Consiglio di Stato, hanno sempre pensato che la differenza di trattamento di persone
poste in situazioni diverse è una possibilità, una facoltà. È stato il Consiglio di Stato a
1 Consiglio di Stato, 10 maggio 1974, Denoyez et Chorques, ric. n° 88032; n° 88148, in
http://www.legifrance.gouv.fr/affichJuriAdmin.do?idTexte=CETATEXT000007643192
2 Decisione no. 79-107 DC, 12 luglio 1979, ric. 31.
3 Decisione n°. 2012-266 QPC del 20 luglio 2012, ric. 390.
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precisarlo per la prima volta4. La soluzione è stata quindi ripresa dalla Corte di Cassazione5
e dal Consiglio costituzionale in una decisione intervenuta precisamente in materia di
protezione sociale riguardante i bisogni delle persone più povere.
Così, dopo aver constatato che in questo caso il legislatore ha voluto offrire una
copertura di base per le persone sprovviste del diritto a prestazioni sanitarie e riguardanti la
maternità, il Consiglio sottolinea che "il principio di uguaglianza non impone al legislatore,
come ha cercato di fare in questo caso, di ridurre le disparità di trattamento in materia di
protezione sociale, o di porre rimedio contemporaneamente a tutte le disparità esistenti"6.
In altre parole, il legislatore può liberamente determinare le disparità sociali ed economiche
cui intende rimediare.
Va osservato che questa interpretazione della portata del principio di uguaglianza è in
conflitto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea. Per essa infatti,
"l'applicazione della stessa norma a situazioni diverse" costituisce una discriminazione tanto
quanto "l'applicazione di norme diverse a situazioni analoghe "7.
II. Divieto di discriminazioni positive e sue sfumature: il caso paradigmatico della parità
uomo/donna.
1. Il concetto di discriminazione o azione positiva è oggetto di differenti letture e
interpretazioni. Esso può essere definito in senso ampio e in senso stretto.
Nel senso più ampio, il concetto di discriminazione o azione positiva si riferisce a
tutte quelle misure che possono essere adottate in favore di categorie di persone che si
trovano in situazione di disuguaglianza rispetto a una o più categorie di altri individui. Si
pongono almeno due problemi: è necessario, da un lato, poter identificare e misurare la
differenza di posizione della categoria di individui considerata cercando l’essenza delle
disuguaglianze e degli svantaggi della loro posizione. D'altra parte, il problema di una
definizione ampia è che, in ultima analisi, qualsiasi politica pubblica o di redistribuzione
sociale a favore di categorie di individui identificati come svantaggiati, qualunque sia la
4
CE 28 marzo 1997, Société Baxter, ric. n° 179.049, 179.054.
Corte soc. Mar 24, 1998, Azad c/ Chamsidine, Dr. soc. 1998, 615.
6 Decisione n. 99-416 DC del 23 luglio 1999, ric. 100.
7 v. Corte di Giustizia 14 febbraio 1995, Finanzamt Kolh Altstadt- c / R. Schumacker , C-279/93.
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Protezione di alcune categorie di persone vulnerabili o svantaggiate
caratteristica comune che li unisce, può essere considerata come discriminazione positiva. Il
concetto di discriminazione positiva non svolge particolare funzione concettuale o
cognitiva.
Quando poi si discute in Francia, o altrove, sul concetto di discriminazione positiva,
ci si riferisce più o meno implicitamente a un significato più ristretto, parlando di “alcune”
azioni favorevoli rivolte ad “alcune” categorie svantaggiate. La domanda che ci si pone allora
è cosa si intenda per "alcuni" e "alcune azioni". La risposta è che si tratta di riferimenti a
quote che consentono a persone escluse dai luoghi del sapere o del potere di prendervi
parte.
Inoltre, la persona è considerata alla base di alcuni criteri distintivi specifici. Questi
sono generalmente tutti o in gran parte criteri su cui si fondano i divieti di misure
discriminatorie in senso negativo, cioè sfavorevoli. Questi criteri sono spesso indicati come
"sensibili": il loro numero e la loro qualità possono variare in base ai diversi tempie contesti
socio-culturali, e sono rintracciabili nelle norme di legge anti-discriminazione. Attualmente
sono in gran parte basati sulla razza, sull'origine etnica, sulle convinzioni religiose, politiche,
ideologiche, di genere e, più recentemente, sull'orientamento sessuale, sullo stato di salute,
sulla disabilità, ecc.
La discriminazione positiva è definita quindi come “una misura o una azione presa in
favore di una categoria di individui che le leggi, le norme internazionali o costituzionali
proteggono contro le discriminazione negative".
In questo senso, sulla base di un’interpretazione universalista del principio di cui
all'articolo 6 del DDHC e in generale del principio di uguaglianza, la discriminazione
positiva non è giuridicamente consentita in Francia, e le eccezioni si interpretano
restrittivamente. Queste eccezioni riguardano principalmente le persone portatrici di
handicap e le donne. Per le prime, le aziende con un determinato numero di dipendenti e
l'amministrazione pubblica hanno l'obbligo di assumere quote di personale disabile. Il
problema tuttavia è che molte aziende preferiscono pagare una somma compensativa
piuttosto che impiegare tale personale. Per le donne, la questione è più vasta e complessa.
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2. Il divieto generale di utilizzo di quote basate su determinati criteri è stato
particolarmente ricordato in occasione dei primi tentativi di promuovere la presenza delle
donne per ricoprire incarichi amministrativi e politici.
a) Un primo esempio è dato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di
concorsi pubblici, in particolare sulla possibilità di organizzare concorsi separati per uomini
e donne. Il Consiglio di Stato ha sempre sostenuto una concezione universalista e formale
del principio di uguaglianza. Non accetta deroghe se non in casi eccezionali, giustificate da
condizioni di esercizio delle funzioni o da motivi di interesse generale. Il Consiglio di Stato
ha ammesso il reclutamento separato per uomini e donne per le guardie carcerarie
giustificando questa differenza in base alle condizioni di esercizio della funzione (gli uomini
guardie nelle prigioni maschili e le donne in quelle femminili) mentre ha respinto la
rappresentanza separata uomo/donna nei consigli di disciplina di docenti e di supervisori
nella scuola8. Allo stesso modo, ha ritenuto illegale la quota del 20% del numero di donne
candidate nel corpo dei commissari dell'Esercito9.
b) Il divieto generale delle politiche di quota si è soprattutto affermato nelle prime
decisioni del Consiglio costituzionale. In una decisione del 18 novembre 1982, il Consiglio
ha giudicato incostituzionale una legge che poneva un tetto del 75% alla presenza di
candidati dello stesso sesso per il rinnovo dei consigli comunali, ritendendo tale azione
contraria al principio di uguaglianza enunciato dall'articolo 6 della Dichiarazione dei Diritti
dell'Uomo e del Cittadino e dall'articolo 3 della Costituzione del 1958 che proclama
l'uguaglianza e l'universalità del voto.
Tale posizione sembra sedimentarsi nell’ordinamento giuridico, e il legislatore, per
molto tempo, non ricerca misure alternative per affrontare il problema. Tuttavia, il dibattito
riemerge alla fine del 1990, momento nel quale la sinistra ha voluto contraddistinguere con
diverse misure simboliche il suo ritorno al potere. Ma di fronte a un disegno di legge che ha
cercato di obbligare i partiti politici ad assicurare la parità uomo/donna nelle liste di
candidati presentate alle elezioni regionale, il Consiglio costituzionale ribadisce la sua
8
Consiglio di Stato, 26 giugno 1989, Federazione generale dei sindacati di istruzione e ricerca, in
http://basedaj.aphp.fr/daj/public/index/display/id_theme/113/id_fiche/4275
9
Consiglio di Stato, 11 maggio 1998, Mademoiselle Aldige, req. N° 105049, in
http://www.legifrance.gouv.fr/affichJuriAdmin.do?oldAction=rechJuriAdmin&idTexte=CETATEXT000008007903&f
astReqId=719732287&fastPos=1
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Protezione di alcune categorie di persone vulnerabili o svantaggiate
posizione del 1982. Si inserisce così un’indicazione non trascurabile: il Consiglio precisa che
la sua interpretazione dell'art 6 del DDHC è legata al concetto di “stato di diritto”: in altre
parole non ha il potere costituente di operare cambiamenti:
“Nello stato di diritto, (...) la qualità di cittadino comprende il diritto di voto e di
eleggibilità in condizioni identiche a tutti coloro che non sono esclusi né per ragioni di età,
incapacità o nazionalità, né per ragioni tendenti a preservare la libertà dell'elettore o
l'indipendenza degli eletti senza che possa essere operata alcuna distinzione tra gli elettori o
gli eletti a causa del loro sesso”10.
In queste condizioni, solo un emendamento costituzionale potrebbe consentire di
prevedere misure ispirate alla parità: bisogna perciò attendere la legge costituzionale dell’8
luglio 1999, la quale aggiunge un quarto comma all'articolo 3 della Costituzione:
“La legge promuove l’uguaglianza di accesso delle donne e degli uomini ai mandati
elettorali e alle funzioni elettive”
e un secondo paragrafo all'articolo 4:
I partiti e i gruppi politici «contribuiscono all’attuazione del principio enunciato al
secondo comma dell’articolo 3°, alle condizioni stabilite dalla legge».
Non si obbliga il legislatore ad imporre misure di parità, ma, in una prospettiva promozionale – per usare le parole di Norberto Bobbio -, gli si permette di favorire la parità di
accesso tra donne e uomini “ai mandati elettorali e alle funzioni elettive”.
3. Questa soluzione di compromesso è indicativa dei riflessi e della forza dell'idea universalista in Francia, e delle posizioni che si trovano più comunemente in questi dibattiti.
Anche coloro che hanno difeso la “parità” - un termine che è simbolicamente usato per
evitare quello di “quota” – hanno sottolineato il carattere eccezionale della riforma e l'assenza di qualsiasi ispirazione comunitarista.
Tre tipi di posizioni sono state espresse sulla riforma. Affrancandosi dalle divisioni
politiche tradizionali, il dibattito ha opposto, da un lato, la tradizione universalista francese
e, dall'altro, i sostenitori cosiddetti “differenzialisti”, suddivisi in “paritaristi dogmatici “e
“pragmatici paritaristi moderati”. Possiamo riassumere queste tre posizioni come segue:
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Decisione n° 98-407 del 14 gennaio 1999, ric. 21.
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- Gli Universalisti ritengono che qualsiasi misura differenzialista per favorire una categoria di persone svantaggiate individuata in funzione del loro genere, ma anche più in generale, del loro credo, orientamento sessuale o di criteri etnici (ecc.) è in contrasto con il principio di uguaglianza. In altre parole, in questo caso, la parità è contro l’uguaglianza. La parità restringe la libertà di scelta degli elettori, poiché costretti a votare per un candidato a
causa del suo sesso, e non a causa della rilevanza delle sue idee politiche. Lasciando da parte nella discussione coloro che strumentalizzano la posizione di universalità per nascondere
la loro vecchio visione misogina, l’universalità difende l'uguaglianza tra uomini e donne,
come più in generale tutti gli individui. Tuttavia, gli universalisti vogliono stabilire l'uguaglianza, non per quote, bensì mediante politiche pubbliche e riforme sociali strutturali di
base (riflessioni sul tempo di lavoro, la ripartizione dei lavori domestici.... ).
- Il “paritarismo dogmatico”, al contrario, si basa su una distinzione radicale tra uomini e donne volta a stabilire “la parità per la parità”. In altre parole, la parità è un mezzo e
un fine. La rivendicazione della parità è in parte fondata sul presupposto che solo le donne
possono rappresentare gli interessi delle donne. Questa è una tendenza molto minoritaria in
Francia, che si ispira ad un radicale femminismo di tipo comunitarista.
- Infine, il “paritarismo pragmatico” o moderato difende la parità per l’uguaglianza.
Questa è la posizione assunta dalla maggioranza della sinistra al potere al momento della
riforma, sostenuta da alcuni intellettuali. Non è questione di parità sulla base di una radicale
distinzione tra uomini e donne, a scapito dell'unità del genere umano, ma si concepiscono
le misure in favore della parità come strumento temporaneo in vista dell’istituzione di
un’uguaglianza di accesso di uomini e donne al potere.
Le giustificazioni al ricorso della parità sono molto pragmatiche. Esse si basano:
- Sul divario tra i principi e le statistiche;
- Sull’impasse dell'universalismo repubblicano che, rifiutandosi di distinguere giuridicamente gli uomini e le donne, non permette di lottare rapidamente ed efficacemente contro le discriminazioni nei confronti delle donne;
- Sull’inadeguatezza delle misure elettorali tradizionali (l’esperienza ‘dello scrutinio
proporzionale alle elezioni parlamentari del 1986 non ha portato all’elezione supplementare
delle donne);
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- Sull’impossibilità di fare affidamento sulla buona volontà dei partiti politici;
- Sulla convinzione che la paura della diffusione delle rivendicazioni comunitariste è
infondata; la differenza sessuale non delimita una categoria identitaria paragonabile alle
altre, fondate su religione, orientamento sessuale e colore della pelle, per esempio.
“La parità alla francese” non è quindi comunitarista. Essa esprime un compromesso
tra le esigenze universalistiche e un’uguaglianza che si ritiene debba essere più reale. Ora
capiamo perché il riconoscimento costituzionale della necessità di una parità non ha assunto la forma di un obbligo generale, ma di un registro normativo promozionale.
c) Data la revisione costituzionale, il Consiglio costituzionale ha continuato a difendere una posizione universalista. Ha preso atto della riforma, ma interpretandola in modo
restrittivo. Fondandosi, di volta in volta, su l'articolo 6 del DDHC, ha ricordato che la riforma si applica in materia di elezioni politiche, e non per elezioni professionali11. Questa
interpretazione ha portato ad una ulteriore revisione della Costituzione datata 23 luglio
2008, nel contesto di una più ampia riforma di modernizzazione delle istituzioni. L'articolo
1 della Costituzione ora recita:
«La legge promuove l’uguaglianza di accesso delle donne e degli uomini ai mandati
elettorali e alle funzioni elettive, nonché alle responsabilità professionali e sociali».
Al di fuori di questi settori, in particolare per quanto concerne l’accesso alle funzioni
pubbliche e la materia delle commissioni di concorso, il Consiglio costituzionale, così come
il Consiglio di Stato, possono consentire alcune azioni di promozione per le donne, ma
sempre ricordando che le misure adottate a favore dell’equilibrata rappresentazione delle
donne e degli uomini – nello specifico nelle commissioni di concorso - e, di conseguenza,
le considerazioni di genere - non possono in alcun modo prevalere sul criterio della
competenza. Il Consiglio costituzionale riconosce la costituzionalità di una legge che
prevede “commissioni (di concorsi), i cui membri sono nominati dal governo, sono
composti in maniera da garantire un’equilibrata rappresentanza di donne e uomini”, ma a
condizione che non abbiano come “obiettivo” o come “effetto” quello di fare prevalere,
11La decisione n° 2001- 445, 19 giugno 2001, ric. 63, su una legge organica per il Consiglio Superiore della
Magistratura; decisioni n° 2006-533 del 16 marzo 2006, ric. 39, sulla legge di uguaglianza e retribuzione tra
uomini e donne e sulla legge del 30 marzo 2006, sulla pari opportunità.
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nella costituzione delle commissione, la considerazione di genere sulle capacità, abilità e
qualifiche.
In altre parole, l'amministrazione può comporre delle commissioni paritetiche a
condizione che le donne e gli uomini siano scelti con eguali competenze. Non si tratta di
promuovere una persona soltanto in considerazione del fatto che sia una donna. La
considerazione del genere non deve surclassare il criterio della capacità. Inoltre, la
costituzionalità di queste misure è anche correlata al fatto che esse non sono obbligatorie,
ma rimangono di natura promozionale poiché utili soltanto “per contribuire ad una
rappresentanza equilibrata di donne e uomini”12. Il Consiglio costituzionale accoglie
pertanto le misure per promuovere la presenza delle donne, nel fissare “un obbligo di
mezzi e non di risultato”13.
Il Consiglio di Stato assume esattamente la stessa posizione. Per citare solo i casi più
recenti relativi alla presenza delle donne negli organi delle federazioni sportive (prima della
riforma del 2008 che ha dato al legislatore la possibilità di intervenire), il Consiglio di Stato
ricorda:
“Se il principio costituzionale della parità non è di ostacolo alla ricerca di accesso
equilibrato di donne e uomini alle responsabilità, vieta, fatte salve le disposizioni
costituzionali speciali, di fare prevalere la considerazione di genere su quella delle capacità e
l’utilità comune”14.
II.
Il divieto della considerazione dei criteri sensibili e le politiche pubbliche
A.
Il dibattito sulle statistiche etniche
Per molti anni, la prevalenza delle idee universaliste ha messo in evidenza la scarsità
di dati statistici sulle donne. Più in generale, il divieto di discriminazioni positive in Francia
è garantito a monte da un divieto di compilazione dei dati statistici sulla base di criteri
“sensibili”. Se fino agli ultimi 30 anni, la questione non ha posto grandi difficoltà, dopo gli
sviluppi relativi alla crisi economica e sociale si sono venute a creare situazioni di esclusione
12
Decisione n°2001-455 del 12 gennaio 2002, ric. 49
Cfr. Quaderni del Consiglio costituzionale, 2006, n ° 20, 45.
14
Consiglio
di
Stato,
10
ottobre
2013,
n°.
359219,
in
http://www.legifrance.com/affichJuriAdmin.do?oldAction=rechJuriAdmin&idTexte=CETATEXT000028057180&fast
ReqId=715805827&fastPos=1
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Protezione di alcune categorie di persone vulnerabili o svantaggiate
e disuguaglianza sociale. Queste hanno dimostrato di essere strettamente legate a criteri
relativi alla salute, al genere, ossia al sesso, ma anche a ciò che è legato alla presunta
appartenenza razziale o etnica: è anche quello che alcuni sociologi chiamano la scissione
sociale-razziale15.
La domanda allora è come misurare con precisione tali scissioni per eventualmente
rimediare. Tra gli strumenti considerati, alcuni hanno formulato il proposito di sviluppare
l’uso di statistiche. Diverse ragioni sono state avanzate, dall’avere dati più dettagliati sulla
discriminazione e la disuguaglianza per meglio affrontarle attraverso politiche e misure di
lotta appropriate alla promozione della diversità come valore positivo. In particolare si è
sostenuto che esistono tali statistiche in altri Stati, dove le misure differenzialiste sono
considerate da molto tempo come uno strumento di lotta alle discriminazioni e vengono
promosse dall'Unione Europea16.
Tuttavia, la proposta è stata superata a causa delle profonde radici universalistiche
che strutturano le politiche pubbliche francesi e la sfiducia legate ad alcune esperienze
storiche drammatiche. Si è sostenuto :
- che i cosiddetti criteri etnici o razziali sono sfuggenti e relativi, soprattutto nella
società francese che si caratterizza per una forte multietnicità ;
- che la considerazione di questi criteri nei dati ufficiali comporta il rischio di
"essenzializzarli" laddove sono relativi e contingenti;
- che colpiscono “l'attaccamento al modello repubblicano” che deve rimanere
'sordo' alle origini;
- che la loro considerazione è più specificatamente contraria al principio di nondiscriminazione sancito dall'articolo 1 della Costituzione secondo il quale la Francia
“assicura l'eguaglianza dinanzi alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di origine, di
razza o di religione".
15 V. CORCUFF PHILIPPE, Settembre 2003, "Clivage national-racial contre question sociale – Un cadre d’analyse sociopolitique pour interpréter les progrès de l’extrême-droite en France", ContreTemps, n°8, pp. 42-50, in
http://www.contretemps.eu/sites/default/files/Contretemps%2008.pdf.
16 Cfr. D. LOCHAK, Le droit et les paradoxes de l'universalité, Paris, PUF, 2010, 113.
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- Infine, è spesso ricordato l'uso razzista e antisemita che è stato fatto di statistiche
etniche nel governo di Vichy17.
In definitiva, è questa posizione di principio che il Consiglio costituzionale ha
mantenuto, senza sorprese, quando è stato chiamato a pronunciarsi sulla questione18. La
disposizione legislativa contestata tendeva a
“consentire lo svolgimento di studi sulla misurazione della diversità delle origini, della
discriminazione e della integrazione, con previa approvazione della Commissione nazionale
dell’informatica e delle libertà, per la realizzazione del trattamento dei dati personali che
mettono in evidenza direttamente o indirettamente, l'origine razziale o etnica delle
persone".
Il Consiglio Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la disposizione legislativa
per il fatto che
“Se i trattamenti necessari alla conduzione di studi sulla misura della diversità delle
origini delle persone, della discriminazione e dell'integrazione possono basarsi su dei dati
oggettivi, non sarebbero – senza violare il principio enunciato dalla l'articolo 1 della
Costituzione - basati sull’ origine etnica o la razza”.
Come ha suggerito Danièle Lochak19, una chiave per uscire dalla controversia e
dall’impasse legate al divieto di fondare le politiche pubbliche su criteri sensibili - laddove
alcuni ritengono che la conoscenza dei dati fondati su questi criteri permetterebbe di lottare
contro le disuguaglianze e la vulnerabilità sociale - sarebbe “distinguere tra le modalità della
raccolta dei dati e l’uso da farne”. In questo senso, se le statistiche personali che l'individuo
non potrebbe contestare sono senza alcun dubbio da escludere, si può considerare meno
categoricamente la raccolta di dati stabilita in forma anonima, usata per fini di conoscenza,
attraverso l’autorizzazione di una commissione indipendente.
17
V. D. LOCHAK, o. c., p. 113 s.
Decisione n° 2007-557 DC 15 novembre 2007, ric. 360.
19 D. LOCHAK, Le droit et les paradoxes de l'universalité, cit., p. 115.
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B. L’oggettivazione dei criteri delle politiche pubbliche e il rafforzamento delle misure contro la
discriminazione
In un contesto di sfiducia e di divieto della considerazione di c.d. “criteri sensibili”,
com’è possibile definire politiche pubbliche per ridurre le disuguaglianze di persone la cui
situazione di vulnerabilità sociale è in parte dovuta al fatto che presentano proprio tali
criteri?
Consideriamo in primo luogo alcune iniziative volte alla creazione di criteri oggettivi
per le politiche sociali dello Stato al fine di ridurre le disuguaglianze; in secondo luogo è
necessario parlare del rafforzamento delle politiche antidiscriminatorie.
1.
Sebbene ufficialmente la considerazione dei criteri sensibili sia proibita, le
tecniche di oggettivazione dei criteri utilizzati per definire le politiche pubbliche hanno una
lunga storia. Tradizionalmente, il criterio più utilizzato per stabilire le misure redistributive
o compensative è quello del reddito o dei quozienti familiari o ancora la considerazione
della natura "isolata" della persona, sapendo che il criterio concerne più spesso le donne.
Più di recente, si assiste anche a una grande inventiva di vocaboli per evitare
riferimenti ai termini di comunità, di minoranza fondata su basi religiose, etniche o di
genere: la politica francese si presenta come la politica di promozione della “diversità “o
“mix etniche”. Ma diversità rispetto a che cosa? Come? Ecco che le risposte diventano più
caute ed evanescenti.
Un bell'esempio di oggettivazione dei criteri e della denominazione stessa dei criteri è
data dall’iniziativa di apertura dell'Institut d'Etudes Politiques de Paris, considerata un
grande scuola di formazione delle élite politiche. L’idea alla base dell’iniziativa è quella di
aprire la Scuola a persone provenienti da ambienti socio-economici bassi, ma meritevoli,
per completare il reclutamento tramite concorso altamente selettivo che incoraggi gli
studenti provenienti da famiglie di alto livello socio- culturali.
Domanda: sulla base di quali criteri viene operata questa seconda selezione? Piuttosto
che fare riferimento alla nazionalità dei figli o genitori, al livello di reddito, ci si aspettava
che l’Istituto concludesse delle convenzioni con le scuole secondarie di certe aree
geografiche liberamente scelte fissando delle modalità particolari destinate a garantire un
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VERONIQUE CHAMPEIL-DESPLATS
reclutamento diversificato “tra tutti gli studenti della scuola secondaria”. Controllando le
norme che hanno permesso la realizzazione di questo progetto, il Consiglio costituzionale
ha ammesso questa impresa di “diversificazione” a condizione che “le modalità particolari”
fissate a questo fine, fossero basate su “criteri oggettivi” volti a garantire il rispetto del
requisito costituzionale della uguaglianza di accesso all'istruzione20.
Chiaramente, ciò significa che questa “diversificazione” non dovrebbe portare ad una
politica di quote per gli studenti simile al sistema americano.
2.
Infine, la Francia ha operato, nel corso negli ultimi dieci anni, anche
sull’impulso dell'Unione Europea, un significativo rafforzamento delle misure e delle
normative anti- discriminatorie.
Oltre alla creazione di una Autorità specifica per la lotta contro la discriminazione nei
primi anni 2000 che è stata assorbita nel 2011 in una nuova istituzione di più ampia portata
“Le Défenseur des droits”, i dipartimenti di stato, le leggi e la giurisprudenza hanno
ampliato i criteri discriminatori (salute, sesso, orientamento sessuale, disabilità ... ), affinato
le definizioni dei tipi di discriminazione (discriminazione diretta, indiretta...), le modalità di
identificazione, il sistema delle prove di discriminazione, le disposizioni di informazioni in
materia di discriminazione e ancora le sanzioni contro la discriminazione.
Tutto sembra ridursi alla fine ad un ragionamento per cui il rafforzamento della lotta
contro la discriminazione, intesa come azione sfavorevole, sia una forma di palliativo per la
frivolezza e la diffidenza nei confronti della discriminazione positiva.
La domanda chiave che ci si continua a porre è sapere in che misura questo
rafforzamento può sostituirsi a delle politiche pubbliche strutturali di riduzione delle
disuguaglianze e di redistribuzione delle ricchezze nelle società contemporanee, dove le
situazioni di esclusione e di vulnerabilità sono spesso legate a dei fattori che i poteri
pubblici preferiscono mantenere nascosti per non risvegliare vecchi disturbi.
20
Decisione n° 2001-450 DC del 11 luglio 2001, ric. 82.
14
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Protezione di alcune categorie di persone vulnerabili o svantaggiate
Abstract
French democracy was built on the basis of a universalist republican ideal in which
there is no intermediary between the nation and the individual. There are no minorities as
legal persons to be protected. In this model, the respect of formal equality is considered
sufficient to achieve social justice. The differential measures in favor of disadvantaged or
vulnerable special categories are thought as exceptional, temporary ones. The prohibition
of discrimination is intended in a negative way, i.e. as a measure that disadvantage certain
groups to certain criteria (religion, sex, ethnicity, sexual orientation...), both in a positive
manner, with actions of “positive discrimination”. You will see how the protective
measures of the individuals vulnerable are enrolled in this context between a universalist
ideal and a principle of social justice for which formal equality is not enough.
Parigi, marzo 2014.
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