MERIDIONALIA Direttore Pasquale S Università degli Studi di Napoli “Federico II” MERIDIONALIA La collana . , , si rivolge all’ampio pubblico internazionale degli studiosi di letteratura italiana, declinata in particolare nei suoi rapporti con l’Arte e con le discipline dello spettacolo (Teatro, Cinema). L’intento della collana è stimolare il dibattito letterario sul versante storico–critico attraverso lavori di alto livello scientifico di consolidati esperti accademici e soprattutto di giovani ricercatori in formazione che affrontino, in volumi monografici o in solide edizioni critiche, peculiari aspetti della letteratura italiana e della storia dello spettacolo con approcci metodologici innovativi e nell’ottica del dialogo tra le culture e tra i diversi ambiti disciplinari. I volumi (monografie, miscellanee, edizioni critiche) — anche in lingua straniera, per facilitarne la diffusione internazionale — sono sottoposti ad un sistema di valutazione basato sulla revisione paritaria ed anonima (peer review - double blind). Ogni lavoro sottoposto dall’editore all’attenzione dei Direttori di collana e del Comitato Scientifico, viene consegnato in forma anonima ad almeno a due valutatori specialisti della materia e del metodo, il cui parere scritto — con eventuali suggerimenti ed indicazioni correttive — assieme al giudizio favorevole o sfavorevole, è trasmesso al Comitato Scientifico e ai Direttori di collana mediante un’apposita scheda di rilevazione. I criteri che guidano la valutazione sono: originalità e significatività del tema proposto; rilevanza scientifica nel panorama nazionale e internazionale; coerenza teorica e pertinenza dei riferimenti bibliografici; innovatività e pertinenza dell’approccio metodologico; rigore filologico; compiutezza dell’indagine; proprietà di linguaggio e fluidità dello stile; rispetto delle norme redazionali della collana. Cristiana Anna Addesso Vincenzo Caputo Pasquale Sabbatino I volti di Partenope La drammaturgia napoletana del Novecento da Bracco a De Simone Copyright © MMXIII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, /A–B Roma () ---- I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: maggio Indice 9 13 Introduzione VINCENZO CAPUTO Letterati sulla scena. Tragedie dell’anima e La piccola fonte di Roberto Bracco. Con una nota su Aniello Costagliola Note sull’ibsenismo di Bracco, 13 – La metamorfosi dello scrittore umanitario: Tragedie dell’anima (1899), 16 – Il letterato superomista: La piccola fonte (1905), 22 – Bracco, Costagliola e la strada del “teatro di pensiero”, 28 33 VINCENZO CAPUTO «Viviamo in due Napoli». Roberto Bracco e la drammaturgia napoletana a inizio Novecento L’idea di Salvatore Di Giacomo e il dibattito sulla rivista «Teatro moderno», 33 – Il commento di Scarpetta, la replica di Di Giacomo e la posizione di Russo, 34 – Costagliola e Bracco, 38 – Le due Napoli: Bracco e/o Scarpetta, 43 49 PASQUALE SABBATINO Lumìe di Sicilia di Luigi Pirandello e la traduzione napoletana di Peppino De Filippo L’attore-autore, 49 – Il progetto editoriale di Farse e Commedie e la stagione della filologia, 52 – Lumìe di Sicilia di Pirandello e la traduzione napoletana di Peppino De Filippo, 57 77 CRISTIANA ANNA ADDESSO «la violenza di vivere almeno una volta». Le formicole rosse di Domenico Rea 95 PASQUALE SABBATINO I «peli» della Gatta Cenerentola di De Simone e del Cunto de li cunti di Basile. Una parodia dell’illustre Don Benedetto Croce La nuova Cenerentola e il popolo di Napoli, 96 – La traduzione in napoletano moderno del Pentamerone, 98 – La doppia riscrittura, dialettale e italiana, 102 Introduzione La drammaturgia napoletana tra secondo Ottocento e Novecento è stata in questi anni al centro di progetti di ricerca e di convegni internazionali promossi dall’Università degli Studi di Napoli Federico II e dal Master di II livello in Letteratura, scrittura e critica teatrale. In particolare abbiamo lavorato sulla famiglia di artisti composta dai rami degli Scarpetta (Eduardo, Vincenzo e Mario) e dei De Filippo (Eduardo, Peppino e Titina), su Salvatore di Giacomo, Roberto Bracco, Raffaele Viviani, Ferdinando Russo, per giungere, attraverso fratture e continuità, fino alla Nuova Drammaturgia di Annibale Ruccello, Manlio Santanelli ed Enzo Moscato e alle più recenti generazioni oggi sui palcoscenici. Il volume nasce da questa ricerca e offre risultati innovativi per ricostruire la storia e la geografia della letteratura teatrale italiana. Nella galleria degli autori teatrali merita un ruolo di primo piano Roberto Bracco, al quale sono dedicati i primi due saggi (Letterati sulla scena. Tragedie dell’anima e La piccola fonte di Roberto Bracco. Con una nota su Aniello Costagliola; «Viviamo in due Napoli». Roberto Bracco e la drammaturgia napoletana a inizio Novecento). Negli anni conclusivi dell’Ottocento e in quelli iniziali del Novecento Bracco elaborò due opere (Tragedie dell’anima del 1899 e La piccola fonte del 1905) fondamentali per la maturazione delle sue idee drammaturgiche. L’analisi dei due testi evidenzia i legami del commediografo con altri letterati del tempo (Di Giacomo, Serao, 9 10 Introduzione Marinetti) e mette in luce alcune delle linee principali del suo teatro (ibsenismo e psicologismo). Inoltre l’amicizia che unì Roberto Bracco e Aniello Costagliola apre una finestra sulla posizione di Bracco in merito alla questione del teatro in dialetto napoletano. All’altezza del 1904 la rivista «Teatro moderno» stimola il dibattito sulla proposta formulata da Salvatore Di Giacomo di creare, parallelamente al teatro siciliano, una compagnia stabile in dialetto napoletano con uno specifico repertorio. Intervengono i protagonisti della scena, come Scarpetta, Russo, Costagliola, Bracco, i quali si pongono interrogativi di fondo. Quale Napoli deve mettere in scena questa ipotetica compagnia? Quale è la specificità e la particolarità del teatro partenopeo rispetto a quello siciliano o a quello di altre realtà regionali? Attraverso l’analisi di questi articoli si disegna una mappa delle diverse idee di “teatro in napoletano”, nella quale emergono soprattutto le posizioni contrastive di Bracco e Scarpetta. Ad alcune significative vicende sceniche degli anni Trenta e Quaranta e a protagonisti tra loro assai diversi quali Peppino De Filippo e Domenico Rea sono dedicati i saggi centrali di questo volume. Le nostre recenti ricerche aggiornano il catalogo delle opere teatrali di Peppino De Filippo, con il rinvenimento di un buon numero di testi ancora inediti, scritti negli anni Venti e Trenta. Tra questi occorre distinguere i copioni in dialetto, come Te lo raccomando (1925), Armando, paga! (1930), Uno, due, tre, oplà! (1931), Nozze di bronzo (1933), Al vero Maraniello (1933), Meza parola (forse 1934); i copioni in dialetto di cui finora si conosce solo la successiva versione italiana come Don Rafele ’o trumbone (1930), Spacca il centesimo (1931), Na persona fidatissima (1931), A Coperchia è caduta una stella (1932); le traduzioni in napoletano (1933 circa) di testi pirandelliani, da Lumìe di Sicilia con il titolo L’uva rosa a Liolà. Questa messe di materiali invita ad aprire anche per Peppino De Filippo autore la stagione della filologia, con l’obiettivo ambizioso di arrivare all’edizione critica delle opere teatrali e di recuperare e restaurare il filone dialettale, che è stato in parte oscurato e in parte nascosto nella I (1964) e II ed. (1971) della raccolta Farse e Commedie. Ad apertura della stagione della filologia per le opere di Introduzione 11 Peppino De Filippo si colloca il saggio Lumìe di Sicilia di Pirandello e la traduzione napoletana di Peppino De Filippo. Sporadica ma densa di significati è l’attività teatrale di Domenico Rea («la violenza di vivere almeno una volta». Le formicole rosse di Domenico Rea), di cui si è scelto di analizzare Le formicole rosse del 1948. Seguendo le indicazioni fornite da Rea nella Presentazione del regista e attraverso l’analisi del testo teatrale, si comprende che i personaggi de Le formicole rosse, resi stereotipici dall’uso di maschere, appaiono simboli dello slancio vitale, del sottile desiderio – caratteristico del modus vivendi napoletano, ma elevabile a categoria esistenziale – di «vivere almeno una volta», pur lanciandosi tragicamente contro il volere del Fato. La recitazione burattinesca, fatta di gesti, «impennate e genuflessioni», dà il senso di corpi intorpiditi dalla presunzione umana di poter dominare le passioni e improvvisamente percorsi da scariche vitali, costretti a riattivare il dialogo ragione-cuore-membra. A chiudere il volume è il saggio I «peli» della Gatta Cenerentola di De Simone e del Cunto de li cunti di Basile. Una parodia dell’illustre don Benedetto Croce, che ricostruisce il profondo e prolifico legame letterario tra il drammaturgo novecentesco Roberto De Simone e lo scrittore secentesco Giambattista Basile, evidenziando tre tappe salienti: il debutto di De Simone nel 1976 al Festival dei due Mondi di Spoleto con La gatta Cenerentola ispirata alla favola di Basile; la pubblicazione nel 1989 della traduzione dall’antico al moderno napoletano della raccolta Il Pentamerone (Napoli, ed. Il Mattino) e, infine, nel 2002 la doppia riscrittura, in dialetto e in italiano, del Cunto de li cunti di Basile (Torino, Einaudi). In quest’ultima impresa, il riscrittore De Simone, appropriandosi degli strumenti narrativi del Basile, scrive in proprio e in chiave carnevalesca un cunto che fa da Praefatio, consegnando ai lettori una parodia dell’illustre filosofo Benedetto Croce, editore del Basile. Nell’anno delle celebrazioni del cinquantesimo anniversario della morte del filosofo (1952-2002), dunque, il cunto di De Simone rappresenta il carnevale di Croce e dell’egemonia che ha esercitato nella cultura italiana ed europea. E il riscrittore De Simone appare per quello che è, un post-crociano, anzi un anti-crociano, alla ricerca tra il 12 Introduzione passato e il presente di una nuova scrittura con cui tessere il cunto di Napoli che si libera dell’ultimo padre. ∗ Maggio 2013 ∗ Cristiana Anna Addesso Vincenzo Caputo Pasquale Sabbatino Si ripropongono, in questa sede, saggi apparsi per la prima volta in riviste specialistiche. Cfr. V. CAPUTO, Letterati sulla scena. Tragedie dell’anima e La piccola fonte di Roberto Bracco con una nota su Aniello Costagliola, «Rivista di letteratura teatrale», 3, 2010, pp. 95106 e IDEM, «Viviamo in due Napoli»: Bracco e la drammaturgia napoletana a inizio Novecento, ivi, 4, 2011, pp. 143-152; P. SABBATINO, Lumìe di Sicilia di Pirandello e la traduzione napoletana di Peppino De Filippo, «Rivista di letteratura teatrale», 2, 2009, pp. 109-125; C.A. ADDESSO, Rea “formicolante”, «Forum italicum», 41, spring 2007, 1, pp. 155175; P. SABBATINO, I «peli» della Gatta Cenerentola di De Simone e del Cunto de li cunti di Basile. Una parodia dell’illustre don Benedetto Croce, «Quaderni d’Italianistica», XXIX, 2008, 2, pp. 73-92. Vincenzo Caputo Letterati sulla scena Tragedie dell’anima e La piccola fonte di Roberto Bracco Con una nota su Aniello Costagliola 1. Note sull’ibsenismo di Bracco Il 24 dicembre del 1938 Alberto Savinio si trovò, da critico teatrale, ad assistere a una rappresentazione di Giuseppe Giacosa e a una di Roberto Bracco. Nell’ottica del letterato, di una generazione successiva a quella di Bracco, la rappresentazione apparve “archeologica”, così come “archeologico” apparve il pubblico senile che assistette a essa. Se per I diritti dell’anima di Giacosa, però, Savinio ebbe un giudizio del tutto negativo, per un Bracco ormai ridotto «a una vecchiaia scontrosa e solitaria» 1 questo giudizio, pur in una dimensione marcata dal segno “meno”, assunse sfumature meno nette. L’opera in questione è L’infedele (1895) 2 , che Savinio giudicò, dopo aver criticato fortemente il dramma di Giacosa e il suo ibsenismo da “bagna càuda”, in maniera più morbida di quanto fatto appunto con l’ottocentesco Giacosa: 1 A. SAVINIO, Palchetti romani, a cura di A. Tinterri, Adelphi, Milano 1982, p. 358. La commedia è stata di recente riproposta in occasione del decennale del teatro napoletano intitolato proprio a Bracco. La compagnia abruzzese “Gli Sbandati” ha messo in scena L’Infedele dal 4 all’8 novembre 2009. 2 13 Vincenzo Caputo 14 Meno infelice della commedia di Giacosa, L’infedele di Roberto Bracco si ascolta con piacere, e, diversamente dalla febbre tifoidea, passa senza lasciare tracce 3 . Per lo sguardo attento del critico Savinio non è possibile, dunque, marchiare i due “autori del passato” sotto la medesima etichetta dell’ibsenismo, ma si rendono necessarie, seppur minime, precisazioni e differenziazioni. Ed effettivamente, in un’ipotetica storia della ricezione di Henrik Ibsen in Italia, a Roberto Bracco spetterebbe senz’altro un ruolo da protagonista e – si badi bene – questo ruolo sarebbe rivestito indipendentemente da quella che fu poi la resa drammaturgica di tale fortuna. La parte sarebbe da assegnare anche in funzione di una minima premessa. Mi riferisco al fatto che il rapporto tra Ibsen e Bracco si consumò soprattutto sul piano della visione scenica. Il critico de «Il Mattino» e di altri giornali del tempo fu principalmente tra gli spettatori delle prime rappresentazioni partenopee di Ibsen oltre a essere tra i suoi lettori e – va da sé – che quelle rappresentazioni dovevano già essere, ab origine, una rilettura e una rivisitazione, mediata dalle traduzioni francesi, della scrittura del Norvegese 4 . Non è caso, dunque, che gli articoli di quegli anni, sui quali ha insistito di recente Gianni Oliva, rappresentino pur nella loro esile struttura recensoria una testimonianza importante per disegnare il reale perimetro dell’ibsenismo di Bracco e il ruolo fondamentale di tale ibsenismo come contenitore di sue diverse declinazioni sinonimiche (teatro di pensiero, dell’inespresso, intimo, psicologico, etc.) 5 . Tale rapporto fi3 A. SAVINIO, Palchetti romani, cit., p. 359. L’altra testimonianza su Bracco degli anni Trenta è di Peppino De Filippo in Strette di mano (cfr. P. DE FILIPPO, Strette di mano, Marotta, Napoli 1974, pp. 43-47). Sul rapporto dei De Filippo con Bracco cfr. P. IACCIO, Peppino De Filippo e Roberto Bracco. Due generazioni a confronto (con due atti unici di Bracco tradotti da Peppino), in Peppino De Filippo e la comicità nel Novecento. Convegno interdisciplinare (Napoli, 24-25 marzo 2003-San Giorgio a Cremano (NA), 26 marzo 2003), a cura di P. Sabbatino, G. Scognamiglio, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005, pp. 193-231. 4 Sulla mediazione francese nella ricezione di Ibsen in Italia si veda il recente A. ROTONDI, Roberto Bracco e gli «-ismi» del suo tempo. Dal wagnerismo all’Intimismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2010, pp. 37-92: 51. 5 Cfr. G. OLIVA, Napoli città europea nelle cronache teatrali di Roberto Bracco, in Napoli nell’immaginario letterario dell’Italia unita, a cura di E. Candela, A. R. Pupino, Liguori, Napoli 2008, pp. 185-199: «ad interessarlo più di ogni altra cosa è la produzione ibseniana passata per i palcoscenici di Napoli intorno agli anni Novanta. Un critico teatrale e un drammaturgo già incline di per sé a ricevere un teatro fondato sulla caratterizzazione psicologica dei perso- Letterati sulla scena 15 nisce, in questo senso, per essere soprattutto il risultato di una metabolizzazione giornalistica e la risposta a dubbi e a relative convinzioni preesistenti, le quali all’altezza degli anni Novanta dell’Ottocento sono innanzitutto del critico teatrale prima che del drammaturgo 6 . L’approfondimento del citato legame si concretizza in alcune opere specifiche. Dopo la prima prova impegnativa dal punto di vista drammaturgico come Una donna (1893) 7 , Bracco vive infatti la propria indiscutibile ascesa nel panorama teatrale italiano ed europeo almeno per tutto quel fervido mezzo secolo di letteratura, a voler usare la formula di Antonio Palermo 8 , prodotta a Napoli dopo l’Unità d’Italia, il quale giunge, nel caso specifico di Bracco, fino all’episodio de I pazzi del 1922 9 . Mi riferisco a opere come Maschere (1894) e Il trionfo naggi non poteva rimanere insensibile ai problemi spirituali, religiosi, morali e sociali che il repertorio dell’autore norvegese prospettava» (ivi, p. 195). Si veda, per uno studio degli scritti giornalistici giovanili, B. MANFELLOTTO (“Il castigamatti dei savii”: la critica drammatica di R. Bracco su «Il Piccolo» (1886-1887)) e A. ROTONDI (R. Bracco giornalista e critico teatrale: 1888-1893), in La scrittura che accende la scena. Studi e testi teatrali da Bracco a Troisi, a cura di G. Scognamiglio, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2007, pp. 13-51 e 53-69. 6 Sull’eclettismo e soprattutto sulla dimensione “giornalistica” dell’attività di Bracco ha insistito, in pagine che meriterebbero maggiore attenzione bibliografica, F.C. GRECO: «Forse in Roberto Bracco, se ne valutiamo l’esistenza e la produzione, gli interessi e le attività, gli slanci e le contraddizioni, non è facile sciogliere, se non sul piano biografico, il rapporto tra la professione di giornalismo e quella artistica, fra giornalismo e letteratura, fra giornalismo e teatro, anche perché si può dire nel senso pieno che egli sia nato giornalista: praticando la professione fin da diciassettenne vi ha costruito una cultura da autodidatta che la scuola non gli aveva conferito» (La scena illustrata. Teatro, pittura e città a Napoli nell’Ottocento, a cura di F.C. Greco, Pironti, Napoli 1995, pp. 242-244: 242). Il volume ripropone l’opera bracchiana Maschere (1894) alle pp. 231-241. 7 Su questo dramma, che ha come protagonista uno “squattrinato” pittore, sia consentito il rinvio al mio L’esordio di Roberto Bracco: «Una donna» tra teatro, giornalismo e arti figurative, in La scrittura che accende la scena, cit., pp. 71-97. 8 Per l’analisi del mezzo secolo di letteratura a Napoli si vedano, in particolare, A. PALERMO, Mezzo secolo di letteratura a Napoli, in Storia della civiltà letteraria italiana, dir. da G. Bárberi Squarotti, UTET, Torino 1994, vol. V, Il secondo Ottocento e il Novecento, t. I, pp. 193-244; IDEM, Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli fra Otto e Novecento [1972], Liguori, Napoli 19873, part. pp. 66-68 (su Bracco). 9 Si veda, per questa vicenda e in generale per un inquadramento storico della figura di Bracco, P. IACCIO, L’intellettuale intransigente. Il fascismo e Roberto Bracco, Guida, Napoli 1992, pp. 47-53. Sul Bracco segnaliamo, inoltre, il recente A. DI NALLO, Roberto Bracco e la società teatrale fra Ottocento e Novecento. Lettere inedite a S. Manca, A. Re Riccardi, L. Rasi, F. Pasta, Carabba, Lanciano 2003 con i relativi riferimenti bibliografici alle pp. 113-166, i quali riprendono e spesso correggono le indicazione di A. STÄUBLE, Tra Ottocento e Novecento. Il teatro di Roberto Bracco, ILTE, Torino 1959, pp. 221-231. Vincenzo Caputo 16 dell’amore (1896), che sono sicuramente il risultato della svolta ibseniana, ma che rappresentano un aspetto mai totalizzante e opprimente nella scrittura teatrale del giornalista napoletano (del 1896 è, infatti, don Pietro Caruso) 10 . In tal senso ci soffermiamo su due testi che hanno come protagonisti due scrittori e che consentono a Bracco alcune riflessioni generali sulla letteratura a lui coeva. Il riferimento è a Tragedie dell’anima (1899) e a La piccola fonte (1905), che mostrano i frutti della svolta ibseniana e che anticipano alcuni tratti del capolavoro del 1912, Il piccolo santo 11 . 2. La metamorfosi dello scrittore umanitario: Tragedie dell’anima (1899) Al più classico dei triangoli amorosi (Caterina Nemi-Ludovico Nemi-Francesco Moretti) è affidato lo svolgimento narrativo della commedia Tragedie dell’anima, rappresentata per la prima volta il 6 febbraio del 1899 dalla compagnia guidata da Tina Di Lorenzo e Flavio Andò al Teatro “Paganini” di Genova e poi replicata più volte in Italia e all’estero 12 . L’iniziale scambio di battute tra il protagonista Ludovico, uno scrittore “umanitario”, e l’amico Francesco delinea su10 Su tale opera ha puntato più volte l’attenzione Bernardina Moriconi. Cfr. B. MORICONI, Introduzione, in R. BRACCO, Don Pietro Caruso, Gli occhi consacrati, a cura di B. Moriconi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, pp. 5-13 ed EADEM, Il verismo anomalo del “Don Pietro Caruso” di Roberto Bracco, in La scrittura che accende la scena, cit., pp. 99-108. 11 Per una recente analisi dello scritto si veda A. DE CRESCENZO, “Il piccolo santo” di R. Bracco, in La letteratura italiana a Congresso. Bilanci e prospettive del decennale (19962006). Atti del X Congresso annuale dell’Associazione Degli Italianisti italiani (Capitolo [Monopoli], 13-16 settembre 2006), a cura di R. Cavalluzzi, W. De Nunzio, G. Distaso, P. Guaragnella, III, Pensa Multimedia, Lecce 2008, pp. 1089-1096. 12 L’opera fu pubblicata per la prima volta nella sede prestigiosa della «Nuova Antologia», XXXV, XC, 16 novembre 1900, 695, pp. 211-229 (Atto I) e ivi, 1° dicembre 1900, 695, pp. 406-433 (Atto II e III). Per un’analisi del dramma cfr. M. VENDITTI, Roberto Bracco, Marotta, Napoli 1962, pp. 83-85; A. STÄUBLE, Tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 99-105; P. PARISI, R. Bracco. La sua vita, la sua arte, i suoi critici, Sandron, Milano-Palermo 1923, pp. 189-193; C. LEVI, Autori drammatici italiani. G. Verga – R. Bracco – M. Praga – S. Lopez, Zanichelli, Bologna 1921, part. pp. 25-28. Due lettere di Bracco indirizzate a Stanislao Manca ci testimoniano il successo dell’opera e la preparazione in vista della rappresentazione a Vienna. Cfr. A. DI NALLO, Roberto Bracco e la società teatrale fra Ottocento e Novecento, cit., pp. 199-200 (lettera 13, 14). Letterati sulla scena 17 bito l’immagine di una coppia dai tratti caratteriali completamente differenti 13 . Francesco vuole raccontare le proprie avventure galanti all’amico, anche se la candida ingenuità dell’interlocutore non gli permetterebbe di comprenderle pienamente. C’è una frattura tra lo scrittore e l’uomo Ludovico, che l’amico si mostra subito pronto a denunciare: O Dio i tuoi orecchi casti non mi permettono di raccontartelo. […] Non posso darti delle spiegazioni. Sei troppo ingenuo, sei troppo candido. A chi legge i tuoi libri, tu sembri un uomo di mondo, ma a me, che non li leggo, tu non sembri altro che un fanciullone 14 . Agli occhi dell’amico Francesco, lo scrittore Ludovico appare quindi un “fanciullone”, che non riuscirebbe a comprendere le spietate dinamiche della vita vissuta, rispetto a quella scritta15 . Il problema che affligge Ludovico è l’atteggiamento scostante della moglie Caterina, che egli ama a tal punto da preferirla agli studi e all’«esercizio d’una chimerica missione umanitaria» 16 . Quando la donna entra in scena, il marito vuole leggerle alcuni versi dedicati al bambino che Caterina non gli ha permesso di vedere. L’atteggiamento scherzoso dell’uomo, che si autodefinisce un «sociologo noioso» 17 , conferma la sua modestia, dal momento che egli dichiara «di una bruttezza rara» 18 i propri versi e non esita a definire il codice giuridico un cattivo libro, «negazione dell’indulgenza e del perdono»19 . 13 La didascalia si sofferma sui molti libri presenti nella stanza: «[…] Quasi davanti al caminetto, un’ampia scrivania, con su molti libri. È sera» (R. BRACCO, Tragedie dell’anima, in Opere di R. Bracco, Carabba, Lanciano 1936, vol. V, Teatro. Tragedie dell’anima. Il diritto di vivere, p. 9). 14 Ivi, p. 11. 15 La loro contrapposizione caratteriale è resa esplicita anche in seguito sempre per bocca di Francesco: «E non ci capiremo mai, e non è proprio necessario di capirci. Tu stai al nord, io al sud. Tu ami, io invidio. Tu vedi tutto roseo, io tutto nero. Tu sei un fortunato, io un disgraziato. Tu sei un uomo sano, io un infermo. Tu sei uno sciocco che ha del genio, io sono un uomo d’ingegno che non ha niente!» (ivi, p. 24). Sull’umanità di Ludovico si sofferma il medico Felsani quando visita il bambino nell’Atto II: «Lo conosco di fama: è un autentico umanitario […] l’apostolo dei più nobili principi di altruismo» (ivi, p. 53 e p. 57). 16 Ivi, p. 14. 17 Ivi, p. 31. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 32. Vincenzo Caputo 18 L’azione drammatica si accende nel momento del disvelamento della verità. La scoperta che quel bambino è il frutto di un tradimento (l’uomo non saprà mai che il “traditore” è proprio l’amico Francesco) determina, infatti, una trasformazione nel protagonista. La confessione di Caterina a fine primo atto complica ulteriormente la vicenda. Distrutta dai sensi di colpa, la donna deve ammettere di non essere stata costretta all’adulterio, da cui poi è nato il bambino, ma di aver vissuto un momento di sbandamento, successivamente rimpianto20 . Lo scrittore umanitario Ludovico, che fino a poco tempo prima predicava l’indulgenza e il perdono, si trasforma a questo punto in un personaggio disumano, che chiede soltanto vendetta. Il bambino, a cui aveva precedentemente dedicato versi, ora è definito «il frutto palese dell’obbrobrio […] la personificazione della sciagura» 21 . In tale ottica, dunque, il neonato si configura come la materializzazione corporea dell’impossibilità a vivere il proprio amore. Anche se volesse perdonare la moglie, Ludovico si troverebbe quotidianamente dinanzi ai propri occhi il ricordo di quella colpa. Egli, a questo punto, detta le proprie spietate condizioni, dichiarando che quel bambino deve essere ucciso: Bisogna eliminare la causa maggiore! Bisogna distruggere il documento vivo! […] Bisogna sopprimere questa creatura che è nata per crocifiggermi! 22 È una soluzione che ovviamente Caterina non può accettare come non può accettare quella – alternativa – di lasciare il piccolo alle cure della nonna senza che lei lo veda mai più. Ludovico ha bisogno che la donna uccida o neghi la propria maternità per ritornare a essere pienamente moglie e amante 23 . Siamo di fronte a una proposta che Caterina ri20 «Ci deve essere nelle donne come me una strana sensibilità di cui esse non sono consapevoli: una sensibilità che dorme nel pudore, nell’onestà, nell’orgoglio… Il suo risveglio è inaspettato, Ludovico, è imprevedibile… ed è l’opera di chi meno pare ne abbia il potere» (ivi, p. 38). 21 Ivi, pp. 40-41. 22 Ivi, p. 41. 23 È un tema molto presente nella drammaturgia di Bracco. L’essere madre è sempre considerato da Bracco come uno stato visceralmente e totalmente intrinseco alla femminilità e, dunque, spesso in contrapposizione all’essere moglie. In Tragedie dell’anima, ad esempio, la maternità dona a Caterina una forza precedentemente impensabile come testimonia lo scam- Letterati sulla scena 19 fiuta e che determina il volontario allontanamento di Ludovico dalla casa matrimoniale. Da scrittore umanitario a uomo vendicativo. In questa repentina metamorfosi è il dramma di Bracco 24 . In tal senso l’“anima” del titolo dell’opera fa proprio riferimento alla particolare unione spirituale dei due protagonisti, di cui lo scrittore registra la graduale trasformazione. Il tradimento segna, infatti, la crisi dei due, che un tempo si consideravano una “sola anima” («È proprio vero: due corpi e un’anima») 25 . Quando, alla fine dell’atto primo, Caterina ha rivelato il tradimento e la relativa reale paternità del piccolo bambino, l’omicidio o il suo definitivo allontanamento rappresentano le uniche due alternative per “riallacciare” le due anime 26 . La scrittura registra impietosamente, nel corso dei tre atti, le riflessioni di Ludovico Nemi, lasciando al lettorespettatore l’amara consapevolezza che l’unione tra i due coniugi sarà possibile solo alla morte, sebbene naturale, di quel bambino. La vicenda delle due anime, che erano una sola, ha dunque un esito tragico e, di conseguenza, funereo. Quella unità è destinata ad affrontare la morte per poter rinascere in altre forme e sembianze. È ciò che emerge nel corso del colloquio conclusivo del dramma tra Ludovico e Caterina. Quest’ultima, che ha ormai perso il proprio bambino, si dirige da Ludovico per poter vivere finalmente l’amore che la lega a lui. La didascalia dà, però, alla donna la sembianza di uno spettro piuttosto che di una moglie («È vestita di nero. Si distingue soltanto il suo volto bianco») 27 . Caterina fornisce a Ludovico la lugubre notizia della morte del bambino avvenuta appena quindici bio di battute con Francesco (ivi, pp. 71-73). Per questo aspetto si veda A. STÄUBLE, Tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 101-102. 24 Lo stesso Ludovico comprende la dicotomia tra la propria riflessione umanitaria e il proprio desiderio vendicativo in un dialogo con Elena nel III atto: «come un apostolo cristiano, mi sono dedicato alla predicazione dell’indulgenza illimitata; ma quando tocca a me di mettere in pratica le mie idee, non posso, o, peggio ancora, posso perdonare solo patteggiando, e il perdono patteggiato è vile per chi lo concede e per chi lo riceve» (R. BRACCO, Tragedie dell’anima, in Opere di R. Bracco, cit., vol. V, p. 88) e in merito alle condizioni imposte alla moglie si dichiara che esse «erano disumane» (ibidem). 25 Ivi, p. 19. 26 «Distaccandoci da tutto ciò che è pieno di ricordi, noi ritroveremo noi stessi, riallacceremo le nostre anime, ricostruiremo il nostro paradiso…» (ivi, p. 46). Nel colloquio conclusivo tra Ludovico e Caterina, la donna definisce le loro «anime dolenti» (ivi, p. 93). 27 Ivi, p. 91. Vincenzo Caputo 20 giorni prima. Sembra, dunque, che non ci sia più nessun impedimento al ricongiungimento dei due innamorati. È proprio a questo punto, però, che nelle parole dei due interlocutori si annida l’agghiacciante dubbio che la morte della piccola creatura innocente sia stata, sul piano dell’inconscio, desiderata. Caterina ha bisogno di sviscerare quest’atroce dubbio prima di accettare l’invito del marito a entrare in casa, simbolica materializzazione architettonica della ritrovata serenità familiare: Ho paura del dubbio terribile d’avere aspettata nel fondo oscuro dell’anima mia, senza rendermene conto, la morte del mio piccino, per correre a gettarmi tra le tue braccia… È atroce, è atroce!... E tu devi aiutarmi a vincere questo mio dubbio prima che io entri nella tua casa!... Te ne supplico, Ludovico: aiutami tu, aiutami tu! 28 Il solido triangolo amoroso, tipico della tradizione teatrale di fine Ottocento, finisce dunque per problematizzarsi e assumere un’amorfa dimensione psicoanalitica 29 . Caterina e Ludovico diventano gradualmente consapevoli, nel corso del colloquio, che ogni loro gioia sarà macabramente legata alla morte del bambino («ogni tuo amplesso mi dirà che quella morte l’hai aspettata, segretamente, anche tu!») 30 . Tra la felicità dell’uno e dell’altra si frappone, inevitabilmente, il fantasma di quel bambino. È un fantasma che si visualizza addirittura sulla scena: LUDOVICO e CATERINA (presi dal terrore, in una repentina allucinazione tenebrosa, quasi vedono il piccolo cadavere). CATERINA Ah, Ludovico, quel morticino resterà sempre con noi! LUDOVICO (sforzandosi di cancellare la visione, balbetta): No, no, Caterina!... 28 Ivi, p. 94. Nel momento in cui Ludovico bacia Caterina, la donna prova fastidio: «ho rabbrividito, sì, perché se mio figlio non fosse morto, questo bacio io non lo avrei avuto!...» (ivi, p. 96). 30 Ibidem. 29