P O S I T I O N PA P E R 1 SETTEMBRE 2012 Laicità, fenomeno religioso e Costituzione. di VINCENZO PACILLO, GIANFRANCO MACRÌ, MARKUS KRIENKE Religione e laicità Vincenzo Pacillo L’esperienza religiosa è prima di tutto un’esperienza di stupore e di senso. Di stupore giacché – secondo Rudolph Otto – il fenomeno religioso è essenzialmente incontro con il sacro, ovvero con un’entità di straordinario valore vitale che è allo stesso tempo fonte, fine e arbitro della dimensione esistenziale dell’uomo. L’essere umano prova stupore di fronte a un “totalmente altro” rispetto alla caducità e alla finitezza del profano, e tale stupore lo pone in una dimensione di soggezione e di ascolto1. Ma l’esperienza religiosa è anche esperienza di senso. Il sacro, entrando in rapporto con l’uomo, svela a quest’ultimo i motivi del suo stare al mondo e unisce a un messaggio epifanico (si manifesta attraverso il sacro il significato del mondo in cui viviamo e della vita delle creature) un messaggio talora soteriologico (promessa di una dimensione esistenziale altra che riscatti l’individuo dalla sofferenza patita in vita)2. La dimensione di stupore e di senso che si collega all’esperienza religiosa fa di essa, in molti casi, un momento fondamentale di determinazione della personalità. La struttura ontologica dell’uomo si radica e si definisce nel suo rapporto con il sacro, che giunge così a indirizzare le scelte di vita, le passioni, lo stile esistenziale. Questo processo di radicamento viene peraltro amplificato e agevolato dalla strutturazione organizzata delle esperienze di incontro con il sacro che prendono il nome di “religioni”. Propriamente le religioni sono metanarrazioni (ovvero grandi sistemi concettuali di visione del mondo e della vita) radicate in una ierofania, ovvero in una manifestazione del sacro percepita a livello collettivo e ritenuta autentica e degna di sequela da un numero indeterminato di persone. Le religioni strutturano la ierofania e la racchiudono in un set di credenze, miti, riti e simboli che i fedeli accolgono (o sono tenuti ad accogliere) come elementi costitutivi della propria dimensione esistenziale, nel senso che l’accettazione di tali credenze, la perpetuazione di tali miti, la celebrazione di tali riti e la venerazione di tali simboli consentono al credente una piena estrinsecazione della sua personalità e rendono la sua vita degna di essere vissuta3. Solitamente le credenze di religione sono caratterizzate da una serie di precetti diretti a vincolare il comportamento dei propri fedeli: tali precetti possono essere di ordine morale (non producono, cioè, la reazione dell’ordinamento religioso in caso di trasgressione, se non nella forma del rimprovero etico) ovvero di ordine giuridico. In quest’ultimo caso si deve parlare di “diritti religiosi”, ovvero – per usare le parole di Silvio Ferrari – di un nucleo centrale di norme che devono essere osservate dai fedeli se questi non vogliono subire sanzioni o altre conseguenze di carattere giuridico4. La sistematizzazione dei precetti religiosi, unitamente a funzioni di controllo sulla loro osservanza e alla custodia dell’integrità di credenze, riti, miti e simboli legati alla ierofania sono funzioni che vengono svolte solitamente da corpi morali più o meno grandi e più o meno strutturati, i quali sono espressione collettiva del sentimento religioso. Tali corpi morali possono prendere il nome di Chiese, confessioni religiose ovvero – più semplicemente – di associazioni, sia di fatto che di diritto. Non sempre tali gruppi offrono una precisa definizione di se stessi: sovente è lo stato che decide a quale categoria essi debbano appartenere, richiedendo altresì determinati requisiti per il loro riconoscimento. Di fatto, in questa sede, a noi interessa notare come – perlomeno nell’esperienza europea – le religioni tendano a strutturarsi in enti esponenziali di primo livello, solitamente chiamati Chiese o associazioni religiose (l’espressione “confessioni” è strettamente legata all’esperienza italiana) che si presentano come i custodi dell’integrità e dell’ortodossia di quel set di credenze, riti, miti e simboli su cui si fonda una certa religione. Tali enti sono solitamente dotati di una certa organizzazione interna e di norme di funzionamento che disciplinano diritti e doveri dei credenti o di altri soggetti che con questi ultimi entrino in contatto. Le norme giuridiche (e morali) delle religioni non sono dunque soltanto prodotte dalla ierofania nel suo divenire storico, ma un ruolo fondamentale nella produzione di queste ultime spetta anche al potere legislativo del gruppo che pretende di essere il custode dell’autenticità di quella ierofania. Le norme giuridiche delle religioni sono generalmente osservate dai credenti per tre ordini di motivi. Vi è il caso in cui i credenti ritengono giusto e salutare conformarsi alla legge religiosa, la quale diviene uno strumento di realizzazione della propria personalità. L’individuo trova dunque un’intima condivisione tra precetto religioso e progetto esistenziale. 1. R. Otto, Il sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale, (Das Heilige, 1917), ed. a cura di A.N. Terrin, Brescia, Morcelliana, 2010; cfr. altresì J. Hastings, “Holiness” in Encyclopedia of Religion and Ethics, vol. VI, Edinburgh, Clark, 1913, pp. 731-41. 2. Cfr. R. Boyer, “L’esperienza del sacro”, in AA. VV., Le origini e il problema dell’homo religiosus, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 59 ss. 3. Cfr. M. Eliade, The sacred and the prophan. The nature of religion, Orlando, Harcourt, 1987, pp. 11 ss. 4. S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi, Bologna, Il Mulino, 2002. POSITION PAPER _1 Gli altri due casi di osservanza del precetto religioso nascono da un atteggiamento di timore che i credenti provano ipotizzando un’infrazione della legge. Da un lato essi temono la reazione dell’ordinamento, ovvero paventano la sanzione che può essere loro irrogata dalle autorità confessionali preposte al mantenimento dell’ordine interno; d’altra parte – soprattutto nelle religioni con una forte valenza soteriologica – il fedele decide di adeguarsi ai precetti religiosi temendo che una loro infrazione possa pregiudicare la salvezza eterna della propria anima. Questa estrema imperatività dei precetti religiosi nella vita personale dei credenti può creare qualche problema di fronte all’obbedienza che questi ultimi devono alle leggi dello stato in cui risiedono, dimorano ovvero del quale essi sono cittadini. In primo luogo può darsi che tra le norme religiose e le norme statuali alle quali il credente è sottoposto venga a determinarsi un vero e proprio conflitto di doveri; in secondo luogo può avvenire che più credenti si organizzino per plasmare le leggi della comunità politica alla quale sono soggetti secondo le norme della religione alla quale appartengono. Il caso del conflitto di doveri si ha quando l’obbedienza all’ordinamento religioso di appartenenza non può essere realizzata senza infrangere una o più norme dell’ordinamento statuale al quale il fedele è sottoposto, o viceversa. In tal caso il soggetto si troverà nella situazione di oboedire Deo vel hominibus, e dunque si troverà a dover scegliere se infrangere la legge religiosa o la legge dello stato5. Il caso dell’intervento delle religioni nella sfera politica si ha invece allorché: a) i credenti pretendano di organizzarsi in uno o più partiti politici aventi l’obiettivo di produrre norme giuridiche – valide per tutti i consociati – che traspongano nell’ordinamento dello stato norme confessionali; b) i credenti diano vita a partiti politici di ispirazione religiosa aventi però l’obiettivo di produrre norme giuridiche rispettose dei principi del costituzionalismo democratico e, in particolare, del pluralismo, della libertà di coscienza, della tutela delle minoranze e della libertà di manifestazione del pensiero; c) i credenti diano vita a gruppi di pressione capaci di influenzare i processi di produzione e interpretazione del diritto, oppure di orientare l’azione della pubblica amministrazione verso l’osservanza delle proprie norme religiose di riferimento. La laicità nasce per regolamentare, limitare ovvero per LAICITÀ, FENOMENO RELIGIOSO E COSTITUZIONE. impedire l’esercizio di queste tre forme di intervento dei credenti nella vita pubblica. La necessità di un principio diretto a conformare la partecipazione dei credenti alla vita pubblica si giustifica partendo dal presupposto che lo stato ispirato al costituzionalismo democratico non è uno stato etico; sia la libertà di opinione che la libertà di religione implicano la neutralità dello stato e la necessaria fondazione dei processi di produzione legislativa sulla ragionevolezza delle disposizioni normative e non sull’origine divina e/o fideistica delle stesse. La garanzia della libertà di religione non può essere, infatti, effettiva se non comporta l’apertura nei confronti di tutte le convinzioni religiose e filosofiche e se lo stato non rifiuta di sorreggersi su autorità religiose e/o di servirsi di argomentazioni confessionali per poter giustificare (o semplicemente per motivare) la propria azione politica, legislativa, amministrativa e giudiziaria. Ecco dunque che la laicità dello stato contemporaneo deve essere interpretata come un corollario del rispetto della dignità umana: essa deriva da un iter storico che affonda le sue radici nelle guerre confessionali del XVI e XVII secolo e nella necessità storica di neutralizzare gli effetti (politici, sociali e giuridici) del pluralismo religioso, e ha lo scopo di garantire in tal modo la pace sociale6. D’altra parte, non si può – né pare giuridicamente lecito – chiedere ai credenti di rinunciare a portare nell’arena pubblica la propria visione del mondo e le proprie istanze etiche, dal momento che (anche) questi ultimi costituiscono la comunità politica, sono dotati del diritto di partecipare attivamente alla vita pubblica e costituiscono – con il loro bagaglio ideologico – una risorsa capace di contribuire al progresso spirituale della società. Il rapporto tra libertà religiosa e laicità si sviluppa, dunque, attraverso il processo di costruzione di un linguaggio comune, che consenta una reciproca comprensione e un reciproco rispetto. Laicità, dunque, come comprensione e rispetto. Questo comporta prima di tutto che lo stato laico non può disinteressarsi delle religioni, giacchè esse costituiscono un serbatoio di senso e di valori sui quali si fonda il proprio ordinamento costituzionale. Un serbatoio di senso e di valori, non l’unico – beninteso – ma uno dei più utilizzati. Ecco pertanto che esiste la necessità di comprendere il religioso e di regolamentarne l’esercizio attraverso una legislazione capace di valorizzarne la forza positiva, rispettandone le peculiarità e garantendo a esse – nei limiti della necessità di garantire valori preminenti e inderogabili – il libero svolgimento di riti e pratiche. Nello stesso tempo le religioni sono chiamate a comprendere le esigenze dello stato laico, e i cittadini sono vincolati alla fedeltà alla Repubblica a prescindere dalla fede professata. Per cui la laicità non consente un illimitato diritto di vivere secondo coscienza, ma solo un riconoscimento di una libertà morale compatibile con i valori supremi ordinamentali (fuori dei casi, legislativamente previsti, di obiezione di coscienza). Queste considerazioni aprono alle riflessioni del costituzionalista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo il quale il buon funzionamento della democrazia presuppone l’accettazione di valori prepolitici, orientati positivamente verso il rispetto della dignità umana: tali valori – che costituiscono i presupposti normativi fondativi dello stato liberale – hanno anche una matrice religiosa che si ritrova nelle confessioni storicamente radicate nel territorio. Di qui muove l’idea che le “intuizioni ragionevoli” delle religioni sono rappresentate da quel patrimonio assiologico tradizionale che costituisce l’identità della nazione. Le confessioni storicamente radicate nel territorio sono ritenute un soggetto vettore di valori generalmente condivisi: tali valori, a prescindere dall’appartenenza confessionale individuale, sono generalmente riconosciuti come una base assiologica condivisa del patto che tiene insieme i cittadini, e pertanto possono entrare all’interno del dibattito pubblico senza alcuna intermediazione. Ecco allora che un fattore essenziale capace di costituire un dialogo tra diverse visioni del mondo è individuato in alcuni dei valori su cui si fonda la religione dominante. «La cultura» – scrive Böckenförde – «è stata sostanzialmente formata da essa e, nella misura in cui si è trasformata in cultura secolare, ha in essa anche le sue radici, di essa si alimenta, sia pure in misura sempre decrescente»7. In definitiva, per il costituzionalista tedesco, la religione cristiana rappresenta un ineliminabile sostegno per lo stato laico, giacché ne garantisce il patrimonio assiologico e lascia ai pubblici poteri il ruolo di custodi – imparziali garanti della libertà di religione e dell’uguaglianza formale – dell’ethos condiviso che da tale patrimonio di valori trae linfa. Queste osservazioni devono però essere affrontate sulla base di due elementi di riflessione, che discendono dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo8: - la laicità vieta la costruzione di uno stato (mono o pluri)confessionale, ma si pone come strumento di garanzia del pluralismo confessionale e culturale. Ciò impedisce che una qualunque credenza di religione, anche largamente diffusa tra la popolazione, possa costituire il riferimento assiologico e normativo unico del legislatore, il quale è invece tenuto – per rispettare il principio di sovranità popolare – a elaborare un proprio progetto politico di società al quale dare attuazione attraverso principi e regole elaborate con gli strumenti (laici) del dibattito parlamentare e del rispetto dei diritti fondamentali; - pluralismo, tolleranza e spirito d’apertura sono elementi necessari perché possa parlarsi di “società democratica”. La democrazia non si riduce alla supremazia costante dell’opinione di una maggioranza ma esige un equilibrio che garantisca alle minoranze un trattamento giusto e atto a evitare ogni abuso di una posizione dominante. Il pluralismo e la democrazia devono anche basarsi sul dialogo e uno spirito di compromesso, che implicano necessariamente da parte degli individui concessioni diverse che si giustificano ai fini della salvaguardia e della promozione degli ideali e valori di una società democratica. 7. E.-W. Böckenförde, Lo stato secolarizzato nel suo rapporto con la religione, Reset- Dialogs on Civilization, 8 ottobre 2008, p. 8. 5. Cfr. G. Dalla Torre, Dio e Cesare, Roma, Città Nuova, 2008, pp. 106 ss. 6. Cfr. E.-W. Böckenförde, La formazione dello stato come processo di secolarizzazione, Brescia, Morcelliana, 2006. 8. Manoussakis e altri c. Grecia, sentenza del 26 settembre 1996 n. 18748/91, § 47, Hassan e Tchaouch c. Bulgaria (Grande Camera), sentenza del 26 ottobre 2000 n. 30985/96, § 78, Refah Partisi e altri c. Turchia, sentenza della Grand Chambre del 13 febbraio 2003, nn. 41340/98, 41342/98, 41343/98, 41344/98, § 99. Tutte le sentenze della Corte europea dei Diritti dell’uomo possono essere reperite sul portale Hudoc-Echr: http://cmiskp. echr.coe.int/tkp197/search.asp. POSITION PAPER _1 Laicità e Costituzione Gianfranco Macrì 1. Il dibattito intorno alla laicità, all’interno di una società dinamica e multiculturale qual è quella italiana, richiede di essere affrontato partendo dalle coordinate costituenti che la «categoria» in esame presuppone (libertà, uguaglianza, dignità, solidarietà, autodeterminazione) in quanto, solo la “traduzione” pratica di queste pre-ferenze – legata alla ricerca giuridica delle soluzioni ai problemi del pluralismo sociale – consente di rinvigorire lo spazio (politico) della democrazia e di alimentare, per connessione, le «capacità inclusive» della nostra Costituzione. Queste ultime rappresentano il precipitato di quella «apertura del tessuto costituzionale» (artt. 11 e 117, comma 1 Cost.), cara ad alcuni padri costituenti (Calamandrei), indirizzata all’integrazione e non all’esclusione e finalizzata alla costruzione di una «Comunità [europea] dei diritti fondamentali». All’interno di quest’«ordine» costituzionale, frutto della feconda interazione tra livelli ordinamentali diversi (dal locale al sovranazionale e viceversa), gli stati sono vincolati a rimuovere dalle rispettive legislazioni tutti gli elementi con probabilità discriminatorie dal punto di vista del pluralismo culturale, dando vita a un lessico dei diritti in grado di assicurare la composizione tra uguaglianza e differenza. Questa vocazione (sempre in bilico) alla composizione – propria delle democrazie liberal-democratiche – si nutre di parole (rectius: di principi-valori), la cui caratteristica peculiare risiede nell’essere dotate di forza “circolante” (in grado, cioè, di rinvigorire costantemente il circuito democratico) e di poter essere diversamente declinate sulla base di strumenti tecnici diversi tra loro (diritto, politica, storia, sociologia, etc.); laicità, dunque, come «narrazione» delle virtù trasformative del costituzionalismo – di cui la convivenza tra culture diverse rappresenta la sfida ultima più poderosa – e come «antidoto» contro tutte le verità rivelate a priori. 2. Questa vocazione “responsabilizzante” della laicità pone in primo piano, soprattutto nel dibattito politico italiano, la questione del pluralismo (strettamente connesso e funzionale al principio personalista), inteso, s’intende, nella sua più ampia accezione costituzionale (pluralismo culturale e religioso), dalla cui pratica realizzazione è possibile desumere, ben oltre le costruzioni teoriche, il grado di effettività del complesso di garanzie poste in essere dall’ordinamento repubblicano al fine di “assistere” i diritti inviolabili dell’uomo, «sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (art. 2 Cost.). Giova premettere che il modello costituzionale italiano non manca certo di «robusti punti di forza» in grado di contenere le dinamiche del «presente cosmopolita e del futuro (inevitabilmente) interculturale LAICITÀ, FENOMENO RELIGIOSO E COSTITUZIONE. della democrazia». La nostra, ricordiamolo, è una Costituzione-programma che «invita all’azione», che esorta la Repubblica (cittadini e istituzioni insieme) ad «assicurare la pace e la giustizia» (art. 11 Cost.) a conformare «l’ordinamento giuridico alle norme di diritto internazionale» (art. 10 Cost.) e a rispettare i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» (art. 117, comma 1° Cost.). Se opportunamente resi effettivi, questi capisaldi possono rappresentare l’intelaiatura valida (C.A. Ciampi) di una Costituzione multiculturale, in grado di governare una società aperta e di favorire la formazione di una mente «multiculturale» quale presupposto per una «convivenza civile, pacifica e costruttiva»; se concretamente “praticati” dal diritto vivente questi presupposti sono in grado di meglio delineare, arricchendolo, il profilo della «laicità in versione italiana». 3. Il testo della Costituzione italiana mette a disposizione degli operatori pratici del diritto (e della politica) una serie di vettori normativi capaci (in teoria) di rispondere alla domanda di gestione giuridica del pluralismo democratico, compresa la pari libertà dello stato e delle organizzazioni religiose. In pratica, però, non sono assenti – soprattutto nella fase attuale – sintomi preoccupanti di affievolimento dei valori in essa sanciti, a cui bisogna prestare massima attenzione elaborando programmi educativi (F.P. Casavola) in vista di regole positive finalizzate alla tutela dei diritti civili, dell’interesse religioso di tutti (art. 19 Cost.) in uno spazio pubblico (per Costituzione) inclusivo e orientato ai principi-valori del solidarismo. Occorre, però, al di là dei meri enunciati contenuti nella Carta, una scelta di «metodo», idoneo (quest’ultimo) a supportare l’adesione della produzione normativa interna ai principi-valori informanti l’ordinamento. Fare questo significa, però, avere ben chiaro (a livello politico prima ancora che giuridico) un progetto di spazio pubblico quale “casa di tutti” (A.C. Jemolo), quel luogo neutro del confronto tra persone e idee, continuamente disponibile ad accogliere le opzioni culturali (dunque, anche religiose) di volta in volta proposte, la «società di comunità» che ci avviamo a essere. Stabilire a priori che quel luogo «appartiene» a qualcuno o a qualcosa significa orientarsi in chiave escludente verso i fatti nuovi emergenti nel contesto sociale, rinunciare all’analisi delle differenze, nonché sottrarsi all’obbligo costituzionale di misurare la compatibilità legale di certe pratiche, simboli, stili di vita, aprioristicamente ritenuti incompatibili (soltanto perché pigramente non condivisi) con la nostra tavola di valori e principi. 4. Mai come adesso, a nostro avviso, occorre una forte dose di recupero del canone della laicità, intesa, però, non in senso ideologico (come “ideologia di stato”, alternativa e finanche intollerante verso le fedi religiose) ma come «metodo» (N. Bobbio), appunto, quale attitudine dei poteri pubblici a valorizzare le diverse opzioni culturali e religiose senza identificarsi con alcuna di esse. In quest’opera di ri-assunzione delle coordinate normative e valoriali contenute nella Carta repubblicana attraverso cui ri-fondare un «ethos condiviso» (E.-W. Böckenförde), in grado di costituire la rete delle regole del pluralismo sociale italiano (ed europeo) assume particolare significato la Corte costituzionale la cui «funzione […] è essenziale al nostro modo di intendere la democrazia». Soprattutto nelle questioni che toccano la laicità dello stato, l’analisi della giurisprudenza della Corte è servita e serve tutt’ora a cogliere l’evoluzione del principio della distinzione tra ambito secolare e religioso e ad aiutare il politico a ben comprendere che: «Le leggi, la Costituzione innanzitutto, sono e devono essere considerate come diritto dello stato, frutto di discussioni e procedure democratiche, non come manifestazione immediata di un’etica religiosa» (G. Zagrebelsky). 5. Nella oramai storica sentenza n. 203 del 12 aprile 1989 (relatore Casavola), la Consulta afferma la sussistenza nell’ambito del nostro sistema costituzionale del principio supremo di laicità. In realtà la Corte non “scopre” nulla di nuovo che non fosse già ben chiaro, sotto il profilo delle «linee-guida», nel testo della Carta. Indubbiamente, nella Costituzione del 1947 non si ritrova alcuna menzione esplicita della laicità (come nella Costituzione francese del 1946) né, successivamente, la proposta di inserire la laicità nel progetto di legge sulla libertà religiosa (di cui si discute in Italia, senza esito alcuno, da diversi anni) ha trovato felice accoglienza: resistenze si sono registrare non solo in ambito politico. Quel che giova rilevare, concretamente, è che già a partire da prima della sentenza in esame, parte degli studiosi del diritto ecclesiastico (e non solo) in Italia aveva suggerito la necessità di una lettura armonica del sotto-sistema della disciplina costituzionale del fenomeno religioso (artt. 19, 20, 8 e 7 Cost.) con l’impianto generale dei rapporti civili e sociali disegnato nella Costituzione. A distanza di anni, questa impostazione si è quasi del tutto affermata, a dimostrazione della giusta definizione del diritto che studia il fenomeno religioso come legislatio libertatis (Vitali), funzionale alla più ampia garanzia della tutela e promozione della libertà religiosa individuale e collettiva in ogni sua forma. Non si tratta, perciò, nel caso della laicità, di una «“invenzione” della Corte», bensì del risultato di un «dialogo giurisprudenziale in senso lato» che, tra alti e bassi, procede lungo il sentiero della massima inclusione e interazione possibile di sempre ulteriori diritti (di libertà e di uguaglianza). 6. Contano i valori. Quelli, s’intende, faticosamente diventati patrimonio della Repubblica e disponibili ad «arricchirsi della maturità dei tempi»; a partire da quelli contenuti negli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione che concorrono, insieme ad altri (nel caso in esame gli articoli 7, 8 e 20 Cost.), a «strutturare il principio supremo della laicità dello stato, che è uno dei profili della forma di stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica» (sent. n. 203/1989, punto 4 in diritto). Dire principio supremo significa attribuire a un concetto tutta la forza giuridica scaturente da un “insieme valoriale” (cosiddetto «nucleo duro») corrispondente (tutta la parte prima della Costituzione), qualificandolo come «indispensabile» al fine della compiuta definizione della forma di stato italiana. Da qui la sua piena inderogabilità, neppure in sede di revisione costituzionale (art. 138 Cost.), oltre che prevalenza sui contenuti del sistema normativo di relazioni bilaterali tra stato e confessioni religiose (artt. 7, comma 2° e 8, comma 3° Cost.). La laicità, dunque, in quanto principio supremo, opera come medium, «attraverso il quale il mondo dei valori entra in quello giuridico e il mondo giuridico si apre ai valori»; la sua essenza materiale serve, insomma, a “tenere in vita” il diritto, fermo restando l’impegno da parte delle istituzioni repubblicane a non abbassare la guardia, a non ritenere la laicità un valore scontato. 7. Quanto al “contenuto” della laicità, la “costante” è rappresentata – e non poteva essere diversamente all’interno di un sistema costituzionale che riconosce le «ragioni» delle istituzioni politiche e di quelle religiose – dal fattore religioso (diversamente declinato nel corso del tempo), preso in considerazione alla luce, sia delle complesse dinamiche storico-politiche che avevano caratterizzato la società italiana nei decenni precedenti la pronuncia del 1989 (riforma del Concordato del 1929, evoluzione dei comportamenti sciali, avvio della “stagione delle intese”, etc.), sia delle nuove basi politiche che l’Europa getta con la firma del Trattato di Maastricht sull’Unione europea del 1992, che segna una nuova tappa nel processo di «consolidamento della democrazia e dello stato di diritto, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Secondo i giudici della Consulta, la laicità: «Implica non indifferenza dello stato dinnanzi alle religioni ma garanzia dello stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale»; infatti: «L’attitudine laica dello statocomunità […] risponde non a postulati ideologizzati e astratti di estraneità, ostilità o confessione dello stato persona, o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o a un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini» (sent. n. 203/1989, punti 4 e 7 in diritto). La Corte, come si evince da questo importante passaggio della sentenza, offre alla società e agli interpreti una nozione ampia e articolata della laicità – sicuramente POSITION PAPER _1 non de combat (proteggere lo stato dalla religione) – sottratta a qualunque tipo di approccio “ideologico” riguardo al fenomeno religioso, in grado di valorizzare le potenzialità della democrazia pluralista (a patto, beninteso, che le si vogliano concretamente ricercare e affermare queste potenzialità: operazione non sempre attuata in ambito politico né supportata dalla giurisprudenza ordinaria e, soprattutto, amministrativa) e di contenere i contrasti inevitabili insiti nel processo di “apertura” dello spazio pubblico. Altre sentenze (non tantissime), successive a quella del 1989, hanno contribuito a meglio definire i confini della laicità italiana. Nuovi tasselli sono stati aggiunti ma, secondo alcuni attenti osservatori, ulteriori «aspetti importanti necessitano ancora di un chiarimento» per meglio riempire di contenuti il disegno iniziale. Il principio, dunque, continua a essere posto “sotto osservazione”, soprattutto da parte di chi rileva un certo sbilanciamento, in alcune pronunce della Corte, tra rilevanza dell’elemento religioso (in senso stretto) e opzioni di coscienza, con progressiva svalutazione del primo elemento a vantaggio di istanze riconducibili ai più generali processi di individualizzazione della società italiana ed europea; da qui il dibattito sulla rilevanza giuridica della nozione di laicità, vivace sino a qualche anno fa. 8. A distanza di più di vent’anni, è indubbio che la sentenza n. 203/1989 costituisca una vera e propria «pietra miliare» per la normativa e per gli studi in materia di rapporti tra stato e religione in Italia. Intorno a essa si sono così venuti compiendo passi importanti in direzione del «soddisfacimento dei […] bisogni e interessi» religiosi (sent. n. 195/1993) dei soggetti (libertà religiosa), individuali e collettivi. Come fattore sociale positivo, all’interno di un contesto pubblico finalizzato all’inclusione delle credenze, di fede e non (il pluralismo religioso e culturale di cui la sent. n. 203/1989), nonché impegnato nella lotta contro tutte le forme di discriminazione, la giurisprudenza della Corte costituzionale (ha messo e) mette a disposizione della legislazione (e prima ancora della politica), finalizzata alla promozione della religiosità umana, argomentazioni giuridiche utili a facilitare la circolazione di quei “canali normativi” (artt. 2, 3, 19 Cost.) attraverso i quali la Costituzione si presenta come «luogo di affermazione e di equilibrato bilanciamento di valori essenziali per la vita delle istituzioni e della stessa società civile». La laicità diventa, così, precondizione e strumento basilare della democrazia. Come tale essa vincola le istituzioni pubbliche a non «ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti» (sent. n. 334/1996) – una laicità, dunque, nel senso di non confessionalità e quale principio di «distinzione degli ordini», secolare e religioso – a non stabilire differenze di trattamento fra confessioni religiose sulla base del LAICITÀ, FENOMENO RELIGIOSO E COSTITUZIONE. solo criterio numerico e sociologico (sentt. n. 925/1988, 440/1995, 508/2000), a riconoscere la giusta rilevanza e protezione alla piena realizzazione della libertà di coscienza di ciascuna persona, i cui elementi costitutivi coprono ambiti anche diversi da quelli propri della laicità (sentt. n. 149/1995, 334/1996, 329/1997), a non operare distinzioni e disuguaglianze di trattamento tra confessioni religiose con o senza intesa (sent. n. 195/1993), facendo ricorso all’ampio ventaglio di opzioni semantiche contenute in Costituzione al fine di meglio identificare le diverse “forme associate” di religiosità. 9. Il principio di laicità necessita di una costante opera di manutenzione che significa, praticamente, agire sui punti di forza dell’impianto costituzionale da cui esso trae linfa vitale. Se da un lato, nel nostro Paese, il principio supremo di laicità non ha mai, concretamente, messo in discussione il ruolo della religione come fatto sociale rilevante né, tanto meno, quello delle confessioni religiose (Chiesa cattolica in primis) quali attori di prima grandezza nelle dinamiche del dibattito pubblico, la persistenza di alcune norme di matrice confessionista nella legislazione vigente e l’introduzione nel tempo di disposizioni normative «indifferenti» alla laicità costituiscono un fattore di potenziale «neutralizzazione del principio», che nei fatti può risultare “alleggerito”, dunque, irrilevante dal punto di vista giuridico. Da ciò scaturisce che nello stato laico, alle affermazioni di principio sulla libertà di coscienza e di religione di tutti, i poteri pubblici (legislatore, giudici, pubblica amministrazione) devono rispondere praticando la regola aurea del pluralismo, garanzia di uguaglianza e libertà (degli individui e delle formazioni sociali a carattere religioso). Ma è in una prospettiva europea, spazio ampio di maggiore garanzia e tutela dei diritti umani, che la laicità può trovare terreno fertile utile alla sua progressiva implementazione. Seppur lontani dalla enucleazione di «un livello minimo apprezzabile ed effettivo di tutela della laicità» e della stessa libertà religiosa in ambito “euro-unitario” (Unione europea, Consiglio d’Europa) – i recenti pronunciamenti operati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo (Strasburgo) in materia di simboli religiosi nelle scuole pubbliche, dall’esposizione del crocifisso al porto del velo (Lautsi c. Italia del 18 marzo 2011; Drogu c. Francia e Kervanci c. Francia del 4 dicembre 2008) riconoscono un discreto margine di apprezzamento in capo ai singoli ordinamenti giuridici – siamo di fronte a un processo il cui linguaggio (quello, appunto, dei diritti) andrà progressivamente a colmare le trincee delle identità nazionali – oltre il «dogma della sovranità nazionale» (G. Napolitano) – modificando antichi istituti e tradizioni e mobilitando le virtù trasformative del costituzionalismo, di cui la convivenza tra culture diverse rappresenta la sfida più complessa. Laicità, libertà della Chiesa, e impegno politico dei cristiani: la “Democrazia cristiana” Markus Krienke 1. Quando Leone XIII pubblicò nel 1891 la prima enciclica sociale, Rerum novarum, diede – seppur involontariamente – inizio all’esperienza della laicità all’interno di ciò che fin ora era il milieu cattolico, schierato come un bastione intorno al Papa, sui fondamenti delle encicliche antimoderne di Gregorio XVI e di Pio IX, e della definizione dell’infallibilità del Concilio Vaticano I. Era l’inizio dell’esperienza della “Democrazia cristiana”, vera e propria esperienza politica del cattolicesimo ossia in altre parole: esperienza della laicità nel campo politico. Dalla “Democrazia cristiana” di Murri fino al “Partito popolare” di Sturzo e alla “Democrazia cristiana” di De Gasperi, dallo “Zentrum” di Godehard Ebers o Josef Joos alla “Cdu” di Adenauer, per citare solo le esperienze italiane e tedesche, alle quali si potrebbero aggiungere le storie di tanti altri Paesi europei, tutti riconoscevano nella Rerum novarum e nella Dottrina sociale della Chiesa che da essa partiva, uno dei loro fondamenti e un vero e proprio centro di gravitazione. Ironia della storia: Leone XIII aveva inteso tutto tranne legittimare una tale esperienza politica dei cristiani, e di conseguenza nel 1901 con l’enciclica Graves de communi proibiva l’uso del termine “Democrazia cristiana” in senso politico. Il principio di laicità, che è un’esperienza di libertà, non era ancora pensato al livello dei documenti ufficiali della Chiesa. Per Leone XIII, l’esperienza politica non sta sotto il segno della libertà individuale, quindi delle dimensioni di sovranità popolare, di divisione dei poteri, di diritti fondamentalliberali e della democrazia, ma era costituita dall’alto: al centro della riflessione politica non stava la libertà della persona, ma la verità del potere politico. All’affermazione della libertà dell’azione sociale, della libertà economica, fondata sulla proprietà privata, e della libertà dei lavoratori, sancita per la libertà di associazione, seguiva quindi un rifiuto inequivocabile della libertà politica. Recuperando quest’ultima, l’esperienza della laicità è stata sin dall’inizio un contributo importantissimo allo sviluppo di una vera e propria etica politica cattolica, impossibile all’interno della sistematica di Leone XIII: nella Rerum novarum e nelle altre sue encicliche sviluppava una “dottrina di stato” ma non un’etica politica vera e propria, intesa come la dimensione etica – con il suo fondamento nella coscienza del cristiano – dell’agire politico nello stato secolare moderno. Grazie a Murri e Sturzo, Hertling, Ebers e Joost, la laicità poteva essere intesa sempre di più come esperienza della libertà non divisibile del cristiano in questo “nuovo” stato secolare e democratico: la centralità della coscienza cristiana nell’unità della sua esperienza di libertà. Ciò significa: la libertà del cristiano nella società – come la libertà della persona in quanto tale – o è una e indivisibile, in quanto espressione unitaria della persona, o non è. Questo fatto, già tema centrale delle riflessioni da parte dei cattolici liberali ottocenteschi come Montalembert e Rosmini, era poi il momento scatenante dell’esperienza politica dei cristiani e dei primi che diventarono protagonisti in politica. Si sentivano pienamente legittimati dalla Rerum novarum, anche se in senso stretto, come abbiamo visto, non si trova espresso, in essa, il principio della “Democrazia cristiana” nell’ambito politico. E la stessa esperienza si può riscontrare nell’atteggiamento dei cattolici liberali sotto l’esperienza del totalitarismo di destra in Italia e Germania, e dopo la guerra nel progetto europeo di De Gasperi, Adenauer e Schuman. Merito di questi pensatori ed esponenti della “Democrazia cristiana” è stato quello di aver portato a una sintesi storica l’esperienza cattolica della libertà politica (laicità) con l’intransigentismo cattolico che animò la nascita dell’attività sociale dei cristiani nell’Ottocento che vede impegnarsi vescovi, preti e laici in associazioni che organizzarono le opere di carità per le nuove fasce povere della società, le prime organizzazioni dei lavoratori e i primi centri di studi sociali del pensiero cattolico. Pensiamo a von Ketteler, Kolping e von Vogelsang di lingua tedesca, oppure ad Albani o Toniolo di lingua italiana. Il loro antiliberalismo e la loro propensione per modelli solidaristici e corporativistici doveva essere integrato con il principio democratico. In tal modo, la “Democrazia cristiana” si contraddistingue sia dal movimento liberale sia da quello socialista proprio per il suo concetto di “liberalismo” e di “laicità” nella conciliazione tra le libertà individuali e le dimensioni del bene comune, dei corpi intermedi e dell’importanza dei costumi cristiani e del principio religioso per la società. 2. Una delle concezioni più chiare e conseguenti sulla giustificazione di tale impegno, troviamo in un autore, i cui scritti in merito sono stati messi all’indice già nel 1849: Delle cinque piaghe della santa Chiesa e La Costituzione secondo la giustizia sociale di Antonio Rosmini. Nella prima opera, tra le più conosciute di questo pensatore ancora troppo poco studiato, egli analizza i cinque mali principali che affliggono il corpo della Chiesa nella modernità. Secondo Rosmini, il rapporto tra Chiesa e stato nella modernità è ancora erede del feudalesimo medievale, poi modificato nell’alleanza tra trono e altare, e definito da Bellarmino come il rapporto tra due societates perfectae. Ma se si concepisce la Chiesa, analogamente allo stato, come societas perfecta, allora non si coglie più la specifica POSITION PAPER _1 funzione che essa ha per la società e per lo stato. Tutte le cinque piaghe – la divisione tra clero e popolo di Dio, l’insufficiente educazione e istruzione del clero, la disunione dei vescovi, la nomina dei vescovi da parte del potere secolare, e la servitù dei beni ecclesiastici – mirano quindi a ridare alla Chiesa il suo mandato originale che essa ha nei confronti dello stato: ossia di formare le coscienze delle persone e di realizzarsi nell’esperienza della laicità in politicis. Nei confronti delle logiche secolari, che a partire dal feudalesimo hanno offuscato questa missione della Chiesa, la Chiesa si deve quindi riconcentrare sulla funzione della religione e dell’elemento spirituale nella società e riaprire così lo spazio all’esperienza della laicità che non è nient’altro che la realizzazione del Caesari Caesaris Deo Dei. A ben vedere, però, sono proprio le condizioni dello stato secolare moderno, basato sulla libertà e sui diritti individuali della persona, che lo fanno apparire come il luogo adatto per la realizzazione di questa esperienza. In questo senso, Rosmini anticipa le analisi di Böckenförde sullo stato liberale secolare come risultato dell’etica politica dello stesso cristianesimo, e quindi il cristianesimo come protagonista della nascita di un nuovo ordinamento politico, basato sulla dignità della persona e sulla libertà religiosa. Per Rosmini, quindi, la “laicità” non è semplicemente un “risultato” delle vicende politiche della modernità, ma in quanto principio cristiano il loro vero principio propulsore. In questo “distacco” dalle logiche secolari e nella riconcentrazione sul suo mandato spirituale, Rosmini non concepisce una “spiritualizzazione” della Chiesa, ma le sue considerazioni sono motivate dalla seguente ragione: prevedendo che la Chiesa nella modernità e “dopo” non realizzerà più la sua funzione sociale e politica tramite la classica “alleanza tra trono e altare”, Rosmini individua come il suo luogo appropriato la società civile. Centottant’anni prima della Caritas in veritate, che riscopre questa intuizione, Rosmini collocava la Chiesa non come societas perfecta accanto e in concorrenza allo stato, perché questo comporterebbe solo la definizione della Chiesa secondo criteri che non le sono propri. Come principio spirituale, il suo luogo è nelle persone – Guardini dirà del XX secolo: «La Chiesa rinasce nelle anime degli uomini» – e stabilisce attraverso la vita e l’esperienza dei cristiani la base valoriale del funzionamento delle istituzioni sociali e politiche. Di conseguenza, come sottolinea Rosmini nella Costituzione secondo la giustizia sociale: «La religione cattolica non ha bisogno di protezioni dinastiche, ma di libertà: ha bisogno che sia protetta la sua libertà e non altro. Il più grande degli assurdi si è che in un popolo libero sia schiava la religione ch’egli professa». Nell’insegna di questo principio, Rosmini rifiutava il regolamento dello Statuto albertino che definiva la religione cattolica religione di stato. Non la Costituzione LAICITÀ, FENOMENO RELIGIOSO E COSTITUZIONE. dello stato, il concordato o qualsiasi rapporto giuridico tra stato e Chiesa è il luogo dell’esperienza religiosa, ma la persona. Questo non significa che di tali istituzioni non ci sarebbe più bisogno, anzi senza un’adeguata impostazione di questo rapporto sarebbe a rischio anche l’esperienza della laicità. Ma la ratio dell’impostazione giuridica è sempre l’esperienza personale della laicità come libertà positiva, non viceversa. A partire da questa esperienza, Rosmini riformulava la riforma della Chiesa come anche la riforma dello stato come due facce della stessa medaglia istituzionale, presentando un vero e proprio progetto complessivo di riforme. Per Rosmini, la Rivoluzione francese come la Costituzione non sono mali in sé o hanno dato l’avvio a uno stato di per sé ostile alla religione. Al di là di alcuni momenti concreti e contingenti che potevano davvero pregiudicare una tale impressione, e anche al di là della sua critica decisa che non ometteva a esprimere, egli capiva che la scoperta della persona al centro dell’esperienza politica è un elemento importantissimo per un’etica politica cristiana. Per questo, come formula sempre nella Costituzione, la «cosa migliore che si fece nell’89 fu certamente la Dichiarazione de’ diritti dell’uomo e del cittadino». In queste considerazioni, e nel ritenere l’esperienza americana molto più adatta che quella francese, Rosmini si è molto ispirato alla sua lettura di Tocqueville, il quale riteneva che la democrazia e la scoperta della dimensione della società civile nella sua priorità sussidiaria allo stato non si possono avere senza presupposti. E questi presupposti sono, per il pensatore cattolico-liberale, le dimensioni etiche del personalismo cristiano. Non basta mettere la persona al centro e valorizzare le associazioni e i gruppi spontanei e intermedi, in quanto queste dimensioni sono sempre sorrette da una certa idea o visione dell’uomo. Altrimenti anche la democrazia correrebbe il rischio di degenerare in una forma di tirannia, come Tocqueville ha sottolineato avvertendo del pericolo della «tirannia della maggioranza». E Rosmini considerava: «Per me, quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge». Non è difatti il sistema politico che sarebbe un automatismo per la realizzazione della “perfetta” organizzazione politica, ma ci sarebbe bisogno anche di una dimensione etica e fondamentale, che per i nostri due autori è sempre un’esperienza di libertà. Ecco perché questa dimensione non può essere organizzata dallo stato, che qualora diventa troppo “forte” o “perfetto” risulta addirittura il maggiore antagonista dell’esperienza della libertà. Infatti, per Rosmini e Tocqueville lo stato può soltanto creare le condizioni – corrispondenti ai diritti fondamentali di libertà – per la realizzazione dell’esperienza politica, ma mai pregiudicarla. Il sistema perfettamente organizzato, secondo Rosmini, non esiste, e proprio una tale illusione sarebbe il presupposto teoretico per quella vera e propria perversione dell’esperienza di libertà politica, che è il totalitarismo. Analizzando i primi autori socialisti nella prima metà dell’Ottocento, Rosmini formula perciò il suo principio dell’antiperfettismo: «Il perfettismo, cioè quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura perfezione, è un effetto dell’ignoranza. Egli consiste in un baldanzoso pregiudizio, pel quale si giudica dell’umana natura troppo favorevolmente, se ne giudica sopra una pura ipotesi, sopra un postulato che non si può concedere […]. [P]arlai del gran principio della limitazione delle cose e ivi dimostrai, che vi sono de’ beni la cui esistenza sarebbe al tutto impossibile senza l’esistenza di alcuni mali». Per questa ragione, l’esperienza di laicità è un principio antitotalitaristico, perché valorizza l’esperienza di libertà personale in politica contro ogni perfettismo. Per questo motivo, tale cultura è anche sempre rimasta profondamente contraria ai totalitarismi di destra in Italia e in Germania, come poi anche contro i totalitarismi di sinistra in altri Paesi d’Europa. 3. Ma l’esperienza della libertà cristiana, nel filone del cattolicesimo liberale, prendeva le distanze non solo dallo statalismo socialista alla base dei totalitarismi di destra e di sinistra, ma anche dall’individualismo riduzionistico che stava alla base di ciò che era inteso, in maniera unilaterale, come “liberalismo” (G. Toniolo). Per Toniolo, l’esperienza della libertà cristiana è un’esperienza etica che ha in sé quella potenzialità che la mera libertà politica non ha: oltre le dialettiche della politica e dell’economia sta la coesione sociale, e in questo modo si rivolgeva anche contro un liberalismo che distruggeva questa coesione sociale, perché concepiva la persona solo come individuo egoisticamente calcolando. Infatti, il cattolicesimo liberale rifiutava sempre la riduzione dell’esperienza di libertà a un mero individualismo, anche se riteneva però che non tutti i pensatori liberali erano automaticamente anche individualisti metodologici. In questo senso, il protestante Röpke, che come uno dei padri dell’ordoliberalismo e dell’economia sociale di mercato ha formato l’esperienza politica della “Cdu” – che contrariamente allo “Zentrum” voleva essere sempre un’esperienza ecumenica tra cattolici e protestanti – si rifaceva alla distinzione dello stesso Hayek tra un «vero individualismo» e un «falso individualismo»: mentre l’ultimo isola le persone e le rende perciò deboli nei confronti anche di stati totalitaristici, il primo rafforza eticamente le persone nelle loro relazioni interpersonali. E per questo fatto, quest’ultimo è anche aperto all’esperienza etica e religiosa in politicis. Come si vede in modo chiaro in Sturzo, solo su una concezione etica della persona si può basare l’equilibrio della giustizia sociale nella tensione dialettica tra i partiti e le parti sociali. È il rispetto della persona in tutti i suoi aspetti, anche nella sua esperienza religiosa, che costituisce la base che sorregge una tale “giustizia sociale”. Attraverso questa esperienza, i cristiani in politica ora acquistarono pian piano sempre di più la consapevolezza di presentare una vera e propria “terza via”, intesa come “alternativa” tra un liberalismo individualistico e un socialismo statalista: e le dimensioni fondamentali di questa “terza via” erano la libertà della persona nell’armonia sociale e nel conseguimento universale del bene comune. In questo senso, per Sturzo la “Democrazia cristiana” si realizzava come l’«ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo in ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori». Questi aspetti si esprimevano in modo particolarmente riflettuto nel manifesto di Luigi Sturzo, reso pubblico all’albergo Santa Chiara a Roma il 18 gennaio 1919, dopo l’abrogazione del Non expedit, espresso da Pio IX nel 1868 e ribadito da Leone XIII e in linea di massima ancora da Pio X. E l’esperienza democratica come cattolico egli la descrive proprio come una “terza” esperienza, tra quella del cristiano privatamente religioso, e quello del mero funzionario partitico: «È superfluo chiarire perché non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici, il cattolicesimo è religioso, è universalità; il partito è politica, è divisione». Quest’esperienza, che è l’esperienza della laicità nel “Partito popolare”, è ripresa da De Gasperi, che ancora fu segretario del “Partito popolare”, e per il quale la libertà è il primo movente della sua attività politica: «La libertà politica sarà quindi il segno di distinzione del regime democratico; così come il rispetto del metodo della libertà sarà il segno di riconoscimento e l’impegno d’onore di tutti gli uomini veramente liberi. Una democrazia rappresentativa, espressa dal suffragio universale, fondata sull’uguaglianza dei diritti e dei doveri e animata dallo spirito di fraternità, che è fermento vitale della civiltà cristiana: questo deve essere il regime di domani». Inoltre, di Dossetti è la seguente affermazione: «Ho cercato la via di una democrazia reale, sostanziale, non nominalistica: che voleva anzitutto cercare di mobilitare le energie profonde del nostro popolo, e cercare di indirizzarle in modo consapevole verso uno sviluppo democratico sostanziale, cioè in larga misura favorente non solo una certa eguaglianza, una certa solidarietà, ma favorente soprattutto il popolo: non nel senso di solo oggetto dell’opera politica, ma di soggetto consapevole dell’azione politica». 4. Luigi Sturzo, nel suo Appello a tutti gli uomini liberi POSITION PAPER _1 e forti sottolinea l’importanza di formare la realtà morale e sociale della politica con i principi cristiani: perché la libertà – il «vero senso della libertà», come sottolinea Sturzo, – non è meramente indifferenza o libertà negativa, ma essenzialmente libertà morale che si realizza nei «nuclei» e negli «organismi naturali» quali soprattutto la famiglia e anche i comuni. Ma il suo «vero senso» la libertà lo acquisisce nella dimensione religiosa. Quindi anche Sturzo viveva la religione come esperienza di libertà da realizzare in tutti gli ambiti della vita sociale: da lì la sua vocazione di politico cristiano. Nel suo scritto Coscienza e politica, Sturzo descrive come la politica si genera a partire dalla coscienza della persona, considerando la specificità dell’agire umano il quale, considerando le condizioni generali, le convinzioni personali e altre circostanze orienta sempre mezzi e fini particolari verso un «fine generale» che nell’ambito della politica è il bene comune. Ora, se la politica si genera da una tale analisi e comprensione dell’agire umano, allora essa, in quanto «attività sociale e razionale», sarebbe «intrinsecamente morale»: «Non si può dare politica immorale che sia veramente politica cioè attività diretta al bene comune; mentre si potranno dare, e purtroppo non mancano, individui o gruppi che nel campo politico, di proposito ovvero occasionalmente, violino le leggi morali che sono anche leggi della comunità cui appartengono». In Sturzo, quindi, è evidente la comprensione della persona umana non come un “individuo neutrale”, ma come “libertà morale”, persona che costitutivamente è sempre in relazione con altri perché l’agire fa parte della sua natura. Si evince subito: a partire da una determinata comprensione della persona umana, nella concretezza della sua personalità, sembra assurdo voler pensare lo stato e la politica come strutture indipendenti o neutrali nei confronti della morale, perché sono sempre strutture che derivano e che si basano sull’agire delle persone concrete – e solo questa prospettiva permette un’esperienza di libertà “all’interno” o “sotto” queste strutture. E per la stessa sistematica, a Sturzo è chiaro che per la politica e per lo stato non vale “un’altra” morale che differirebbe da quella della persona, ma si tratta sempre della stessa morale – proprio perché si tratta sempre della stessa libertà identica e indivisibile. La scoperta della coscienza – libertà morale individuale che allo stesso momento si sa intimamente legata a Dio e agli altri – è il grande contributo del cristianesimo all’etica politica. E per questo Sturzo può esprimere il suo ottimismo sano e critico: «Se dal punto di vista della lotta anticristiana, che la storia ci presenta costante da circa duemila anni, le fasi moderne di apostasia, prima borghese e poi anche proletaria, mostrano le difficoltà della completa cristianizzazione storica del mondo, difficoltà la cui radice è nella coscienza individuale di ciascuno di noi; dal punto di vista delle nuove conquiste oltre che interiori, nel campo del vivere civile, tale LAICITÀ, FENOMENO RELIGIOSO E COSTITUZIONE. lotta è salutare e conquistatrice e ci deve riempire di ottimismo, come lo avevano i primi cristiani pieni di fede nella seconda venuta del Cristo». Bibliografia Religione e laicità 5. Infine, la Centesimus annus afferma sulla democrazia: «La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno. […] Un’autentica democrazia è possibile solo in uno stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. […] La Chiesa rispetta la legittima autonomia dell’ordine democratico e non ha titolo per esprimere preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale». L’esperienza della laicità è quindi quella personalistica della crescita e del perfezionamento della persona umana nello stato liberale e secolare della modernità. Parte di questa crescita e del perfezionamento è anche la sua partecipazione politica attiva. Per questo, l’esperienza politica della laicità è un’espressione autentica dell’essere cristiano nel contesto politico. In quanto esperienza della libertà indivisibile del cristiano, tale esperienza politica rimanda a quella dimensione etica della libertà individuale che trova il suo radicamento più profondo nella dimensione trascendente della persona. Infatti, la dimensione religiosa è essenziale e non soltanto accidentale a questa visione della persona umana. Per questo, la libertà religiosa risulta la prima conseguenza politico-costituzionale dell’immagine cristiana di persona, autenticamente “laica”, e la Dignitatis humanae è da considerare il suo punto di riferimento centrale e indispensabile, fondamento di tutte le libertà e dell’esperienza di libertà del cristiano nella società secolare moderna: la laicità. E.-W. Böckenförde, Religionsfreiheit. Die Kirche in der modernen Welt (Schriften zu Staat – Gesellschaft – Kirche, 3), Freiburg u. a. 1990; E.-W. 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