Laicità, fenomeno religioso e Costituzione.

P O S I T I O N PA P E R
1
SETTEMBRE 2012
Laicità, fenomeno
religioso e
Costituzione.
di VINCENZO PACILLO, GIANFRANCO MACRÌ,
MARKUS KRIENKE
Religione e laicità
Vincenzo Pacillo
L’esperienza religiosa è prima di tutto un’esperienza
di stupore e di senso. Di stupore giacché – secondo
Rudolph Otto – il fenomeno religioso è essenzialmente
incontro con il sacro, ovvero con un’entità di
straordinario valore vitale che è allo stesso tempo
fonte, fine e arbitro della dimensione esistenziale
dell’uomo. L’essere umano prova stupore di fronte a un
“totalmente altro” rispetto alla caducità e alla finitezza
del profano, e tale stupore lo pone in una dimensione di
soggezione e di ascolto1.
Ma l’esperienza religiosa è anche esperienza di senso.
Il sacro, entrando in rapporto con l’uomo, svela a
quest’ultimo i motivi del suo stare al mondo e unisce a
un messaggio epifanico (si manifesta attraverso il sacro
il significato del mondo in cui viviamo e della vita delle
creature) un messaggio talora soteriologico (promessa
di una dimensione esistenziale altra che riscatti
l’individuo dalla sofferenza patita in vita)2.
La dimensione di stupore e di senso che si collega
all’esperienza religiosa fa di essa, in molti casi, un
momento fondamentale di determinazione della
personalità. La struttura ontologica dell’uomo si radica
e si definisce nel suo rapporto con il sacro, che giunge
così a indirizzare le scelte di vita, le passioni, lo stile
esistenziale.
Questo processo di radicamento viene peraltro
amplificato e agevolato dalla strutturazione organizzata
delle esperienze di incontro con il sacro che prendono
il nome di “religioni”. Propriamente le religioni sono
metanarrazioni (ovvero grandi sistemi concettuali di
visione del mondo e della vita) radicate in una ierofania,
ovvero in una manifestazione del sacro percepita a
livello collettivo e ritenuta autentica e degna di sequela
da un numero indeterminato di persone. Le religioni
strutturano la ierofania e la racchiudono in un set di
credenze, miti, riti e simboli che i fedeli accolgono (o
sono tenuti ad accogliere) come elementi costitutivi
della propria dimensione esistenziale, nel senso che
l’accettazione di tali credenze, la perpetuazione di
tali miti, la celebrazione di tali riti e la venerazione
di tali simboli consentono al credente una piena
estrinsecazione della sua personalità e rendono la sua
vita degna di essere vissuta3.
Solitamente le credenze di religione sono caratterizzate
da una serie di precetti diretti a vincolare il
comportamento dei propri fedeli: tali precetti
possono essere di ordine morale (non producono,
cioè, la reazione dell’ordinamento religioso in caso
di trasgressione, se non nella forma del rimprovero
etico) ovvero di ordine giuridico. In quest’ultimo caso
si deve parlare di “diritti religiosi”, ovvero – per usare
le parole di Silvio Ferrari – di un nucleo centrale di
norme che devono essere osservate dai fedeli se questi
non vogliono subire sanzioni o altre conseguenze di
carattere giuridico4. La sistematizzazione dei precetti
religiosi, unitamente a funzioni di controllo sulla loro
osservanza e alla custodia dell’integrità di credenze,
riti, miti e simboli legati alla ierofania sono funzioni
che vengono svolte solitamente da corpi morali più
o meno grandi e più o meno strutturati, i quali sono
espressione collettiva del sentimento religioso. Tali corpi
morali possono prendere il nome di Chiese, confessioni
religiose ovvero – più semplicemente – di associazioni,
sia di fatto che di diritto. Non sempre tali gruppi
offrono una precisa definizione di se stessi: sovente
è lo stato che decide a quale categoria essi debbano
appartenere, richiedendo altresì determinati requisiti
per il loro riconoscimento. Di fatto, in questa sede, a
noi interessa notare come – perlomeno nell’esperienza
europea – le religioni tendano a strutturarsi in enti
esponenziali di primo livello, solitamente chiamati
Chiese o associazioni religiose (l’espressione
“confessioni” è strettamente legata all’esperienza
italiana) che si presentano come i custodi dell’integrità
e dell’ortodossia di quel set di credenze, riti, miti e
simboli su cui si fonda una certa religione. Tali enti
sono solitamente dotati di una certa organizzazione
interna e di norme di funzionamento che disciplinano
diritti e doveri dei credenti o di altri soggetti che con
questi ultimi entrino in contatto.
Le norme giuridiche (e morali) delle religioni non
sono dunque soltanto prodotte dalla ierofania nel
suo divenire storico, ma un ruolo fondamentale nella
produzione di queste ultime spetta anche al potere
legislativo del gruppo che pretende di essere il custode
dell’autenticità di quella ierofania.
Le norme giuridiche delle religioni sono generalmente
osservate dai credenti per tre ordini di motivi.
Vi è il caso in cui i credenti ritengono giusto e salutare
conformarsi alla legge religiosa, la quale diviene uno
strumento di realizzazione della propria personalità.
L’individuo trova dunque un’intima condivisione tra
precetto religioso e progetto esistenziale.
1. R. Otto, Il sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale, (Das Heilige, 1917), ed. a cura di A.N. Terrin, Brescia, Morcelliana,
2010; cfr. altresì J. Hastings, “Holiness” in Encyclopedia of Religion and Ethics, vol. VI, Edinburgh, Clark, 1913, pp. 731-41.
2. Cfr. R. Boyer, “L’esperienza del sacro”, in AA. VV., Le origini e il problema dell’homo religiosus, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 59 ss.
3. Cfr. M. Eliade, The sacred and the prophan. The nature of religion, Orlando, Harcourt, 1987, pp. 11 ss.
4. S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi, Bologna, Il Mulino, 2002.
POSITION PAPER _1
Gli altri due casi di osservanza del precetto religioso
nascono da un atteggiamento di timore che i credenti
provano ipotizzando un’infrazione della legge. Da un
lato essi temono la reazione dell’ordinamento, ovvero
paventano la sanzione che può essere loro irrogata
dalle autorità confessionali preposte al mantenimento
dell’ordine interno; d’altra parte – soprattutto nelle
religioni con una forte valenza soteriologica – il fedele
decide di adeguarsi ai precetti religiosi temendo che una
loro infrazione possa pregiudicare la salvezza eterna
della propria anima.
Questa estrema imperatività dei precetti religiosi nella
vita personale dei credenti può creare qualche problema
di fronte all’obbedienza che questi ultimi devono alle
leggi dello stato in cui risiedono, dimorano ovvero del
quale essi sono cittadini. In primo luogo può darsi che
tra le norme religiose e le norme statuali alle quali il
credente è sottoposto venga a determinarsi un vero
e proprio conflitto di doveri; in secondo luogo può
avvenire che più credenti si organizzino per plasmare
le leggi della comunità politica alla quale sono
soggetti secondo le norme della religione alla quale
appartengono.
Il caso del conflitto di doveri si ha quando l’obbedienza
all’ordinamento religioso di appartenenza non può
essere realizzata senza infrangere una o più norme
dell’ordinamento statuale al quale il fedele è sottoposto,
o viceversa. In tal caso il soggetto si troverà nella
situazione di oboedire Deo vel hominibus, e dunque si
troverà a dover scegliere se infrangere la legge religiosa
o la legge dello stato5.
Il caso dell’intervento delle religioni nella sfera politica
si ha invece allorché:
a) i credenti pretendano di organizzarsi in uno o
più partiti politici aventi l’obiettivo di produrre
norme giuridiche – valide per tutti i consociati – che
traspongano nell’ordinamento dello stato norme
confessionali;
b) i credenti diano vita a partiti politici di ispirazione
religiosa aventi però l’obiettivo di produrre norme
giuridiche rispettose dei principi del costituzionalismo
democratico e, in particolare, del pluralismo, della
libertà di coscienza, della tutela delle minoranze e della
libertà di manifestazione del pensiero;
c) i credenti diano vita a gruppi di pressione capaci di
influenzare i processi di produzione e interpretazione
del diritto, oppure di orientare l’azione della pubblica
amministrazione verso l’osservanza delle proprie norme
religiose di riferimento.
La laicità nasce per regolamentare, limitare ovvero per
LAICITÀ, FENOMENO RELIGIOSO E COSTITUZIONE.
impedire l’esercizio di queste tre forme di intervento dei
credenti nella vita pubblica. La necessità di un principio
diretto a conformare la partecipazione dei credenti alla
vita pubblica si giustifica partendo dal presupposto
che lo stato ispirato al costituzionalismo democratico
non è uno stato etico; sia la libertà di opinione che la
libertà di religione implicano la neutralità dello stato
e la necessaria fondazione dei processi di produzione
legislativa sulla ragionevolezza delle disposizioni
normative e non sull’origine divina e/o fideistica delle
stesse. La garanzia della libertà di religione non può
essere, infatti, effettiva se non comporta l’apertura nei
confronti di tutte le convinzioni religiose e filosofiche e
se lo stato non rifiuta di sorreggersi su autorità religiose
e/o di servirsi di argomentazioni confessionali per poter
giustificare (o semplicemente per motivare) la propria
azione politica, legislativa, amministrativa e giudiziaria.
Ecco dunque che la laicità dello stato contemporaneo
deve essere interpretata come un corollario del rispetto
della dignità umana: essa deriva da un iter storico che
affonda le sue radici nelle guerre confessionali del XVI
e XVII secolo e nella necessità storica di neutralizzare
gli effetti (politici, sociali e giuridici) del pluralismo
religioso, e ha lo scopo di garantire in tal modo la pace
sociale6.
D’altra parte, non si può – né pare giuridicamente
lecito – chiedere ai credenti di rinunciare a portare
nell’arena pubblica la propria visione del mondo e le
proprie istanze etiche, dal momento che (anche) questi
ultimi costituiscono la comunità politica, sono dotati
del diritto di partecipare attivamente alla vita pubblica
e costituiscono – con il loro bagaglio ideologico – una
risorsa capace di contribuire al progresso spirituale
della società. Il rapporto tra libertà religiosa e laicità si
sviluppa, dunque, attraverso il processo di costruzione
di un linguaggio comune, che consenta una reciproca
comprensione e un reciproco rispetto.
Laicità, dunque, come comprensione e rispetto. Questo
comporta prima di tutto che lo stato laico non può
disinteressarsi delle religioni, giacchè esse costituiscono
un serbatoio di senso e di valori sui quali si fonda il
proprio ordinamento costituzionale. Un serbatoio di
senso e di valori, non l’unico – beninteso – ma uno dei
più utilizzati. Ecco pertanto che esiste la necessità di
comprendere il religioso e di regolamentarne l’esercizio
attraverso una legislazione capace di valorizzarne la
forza positiva, rispettandone le peculiarità e garantendo
a esse – nei limiti della necessità di garantire valori
preminenti e inderogabili – il libero svolgimento di riti e
pratiche.
Nello stesso tempo le religioni sono chiamate a
comprendere le esigenze dello stato laico, e i cittadini
sono vincolati alla fedeltà alla Repubblica a prescindere
dalla fede professata. Per cui la laicità non consente un
illimitato diritto di vivere secondo coscienza, ma solo
un riconoscimento di una libertà morale compatibile
con i valori supremi ordinamentali (fuori dei casi,
legislativamente previsti, di obiezione di coscienza).
Queste considerazioni aprono alle riflessioni del
costituzionalista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde,
secondo il quale il buon funzionamento della
democrazia presuppone l’accettazione di valori prepolitici, orientati positivamente verso il rispetto
della dignità umana: tali valori – che costituiscono i
presupposti normativi fondativi dello stato liberale –
hanno anche una matrice religiosa che si ritrova nelle
confessioni storicamente radicate nel territorio.
Di qui muove l’idea che le “intuizioni ragionevoli”
delle religioni sono rappresentate da quel patrimonio
assiologico tradizionale che costituisce l’identità della
nazione. Le confessioni storicamente radicate nel
territorio sono ritenute un soggetto vettore di valori
generalmente condivisi: tali valori, a prescindere
dall’appartenenza confessionale individuale, sono
generalmente riconosciuti come una base assiologica
condivisa del patto che tiene insieme i cittadini, e
pertanto possono entrare all’interno del dibattito
pubblico senza alcuna intermediazione.
Ecco allora che un fattore essenziale capace di
costituire un dialogo tra diverse visioni del mondo
è individuato in alcuni dei valori su cui si fonda la
religione dominante. «La cultura» – scrive Böckenförde
– «è stata sostanzialmente formata da essa e, nella
misura in cui si è trasformata in cultura secolare,
ha in essa anche le sue radici, di essa si alimenta, sia
pure in misura sempre decrescente»7. In definitiva,
per il costituzionalista tedesco, la religione cristiana
rappresenta un ineliminabile sostegno per lo stato laico,
giacché ne garantisce il patrimonio assiologico e lascia
ai pubblici poteri il ruolo di custodi – imparziali garanti
della libertà di religione e dell’uguaglianza formale –
dell’ethos condiviso che da tale patrimonio di valori trae
linfa.
Queste osservazioni devono però essere affrontate
sulla base di due elementi di riflessione, che discendono
dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti
dell’uomo8:
- la laicità vieta la costruzione di uno stato (mono o
pluri)confessionale, ma si pone come strumento di
garanzia del pluralismo confessionale e culturale. Ciò
impedisce che una qualunque credenza di religione,
anche largamente diffusa tra la popolazione, possa
costituire il riferimento assiologico e normativo unico
del legislatore, il quale è invece tenuto – per rispettare il
principio di sovranità popolare – a elaborare un proprio
progetto politico di società al quale dare attuazione
attraverso principi e regole elaborate con gli strumenti
(laici) del dibattito parlamentare e del rispetto dei diritti
fondamentali;
- pluralismo, tolleranza e spirito d’apertura sono
elementi necessari perché possa parlarsi di “società
democratica”. La democrazia non si riduce alla
supremazia costante dell’opinione di una maggioranza
ma esige un equilibrio che garantisca alle minoranze
un trattamento giusto e atto a evitare ogni abuso di
una posizione dominante. Il pluralismo e la democrazia
devono anche basarsi sul dialogo e uno spirito di
compromesso, che implicano necessariamente da parte
degli individui concessioni diverse che si giustificano ai
fini della salvaguardia e della promozione degli ideali e
valori di una società democratica.
7. E.-W. Böckenförde, Lo stato secolarizzato nel suo rapporto con la religione, Reset- Dialogs on Civilization, 8 ottobre 2008, p. 8.
5. Cfr. G. Dalla Torre, Dio e Cesare, Roma, Città Nuova, 2008, pp. 106 ss.
6. Cfr. E.-W. Böckenförde, La formazione dello stato come processo di secolarizzazione, Brescia, Morcelliana, 2006.
8. Manoussakis e altri c. Grecia, sentenza del 26 settembre 1996 n. 18748/91, § 47, Hassan e Tchaouch c. Bulgaria (Grande Camera), sentenza del
26 ottobre 2000 n. 30985/96, § 78, Refah Partisi e altri c. Turchia, sentenza della Grand Chambre del 13 febbraio 2003, nn. 41340/98, 41342/98,
41343/98, 41344/98, § 99. Tutte le sentenze della Corte europea dei Diritti dell’uomo possono essere reperite sul portale Hudoc-Echr: http://cmiskp.
echr.coe.int/tkp197/search.asp.
POSITION PAPER _1
Laicità e Costituzione
Gianfranco Macrì
1. Il dibattito intorno alla laicità, all’interno di una
società dinamica e multiculturale qual è quella
italiana, richiede di essere affrontato partendo dalle
coordinate costituenti che la «categoria» in esame
presuppone (libertà, uguaglianza, dignità, solidarietà,
autodeterminazione) in quanto, solo la “traduzione”
pratica di queste pre-ferenze – legata alla ricerca
giuridica delle soluzioni ai problemi del pluralismo
sociale – consente di rinvigorire lo spazio (politico)
della democrazia e di alimentare, per connessione, le
«capacità inclusive» della nostra Costituzione. Queste
ultime rappresentano il precipitato di quella «apertura
del tessuto costituzionale» (artt. 11 e 117, comma 1
Cost.), cara ad alcuni padri costituenti (Calamandrei),
indirizzata all’integrazione e non all’esclusione e
finalizzata alla costruzione di una «Comunità [europea]
dei diritti fondamentali». All’interno di quest’«ordine»
costituzionale, frutto della feconda interazione tra livelli
ordinamentali diversi (dal locale al sovranazionale e
viceversa), gli stati sono vincolati a rimuovere dalle
rispettive legislazioni tutti gli elementi con probabilità
discriminatorie dal punto di vista del pluralismo
culturale, dando vita a un lessico dei diritti in grado di
assicurare la composizione tra uguaglianza e differenza.
Questa vocazione (sempre in bilico) alla composizione
– propria delle democrazie liberal-democratiche – si
nutre di parole (rectius: di principi-valori), la cui
caratteristica peculiare risiede nell’essere dotate di forza
“circolante” (in grado, cioè, di rinvigorire costantemente
il circuito democratico) e di poter essere diversamente
declinate sulla base di strumenti tecnici diversi tra
loro (diritto, politica, storia, sociologia, etc.); laicità,
dunque, come «narrazione» delle virtù trasformative
del costituzionalismo – di cui la convivenza tra culture
diverse rappresenta la sfida ultima più poderosa – e
come «antidoto» contro tutte le verità rivelate a priori.
2. Questa vocazione “responsabilizzante” della laicità
pone in primo piano, soprattutto nel dibattito politico
italiano, la questione del pluralismo (strettamente
connesso e funzionale al principio personalista),
inteso, s’intende, nella sua più ampia accezione
costituzionale (pluralismo culturale e religioso), dalla
cui pratica realizzazione è possibile desumere, ben
oltre le costruzioni teoriche, il grado di effettività del
complesso di garanzie poste in essere dall’ordinamento
repubblicano al fine di “assistere” i diritti inviolabili
dell’uomo, «sia come singolo, sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità» (art. 2 Cost.).
Giova premettere che il modello costituzionale
italiano non manca certo di «robusti punti di forza»
in grado di contenere le dinamiche del «presente
cosmopolita e del futuro (inevitabilmente) interculturale
LAICITÀ, FENOMENO RELIGIOSO E COSTITUZIONE.
della democrazia». La nostra, ricordiamolo, è una
Costituzione-programma che «invita all’azione», che
esorta la Repubblica (cittadini e istituzioni insieme)
ad «assicurare la pace e la giustizia» (art. 11 Cost.) a
conformare «l’ordinamento giuridico alle norme di
diritto internazionale» (art. 10 Cost.) e a rispettare i
«vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» (art.
117, comma 1° Cost.). Se opportunamente resi effettivi,
questi capisaldi possono rappresentare l’intelaiatura
valida (C.A. Ciampi) di una Costituzione multiculturale,
in grado di governare una società aperta e di favorire
la formazione di una mente «multiculturale» quale
presupposto per una «convivenza civile, pacifica e
costruttiva»; se concretamente “praticati” dal diritto
vivente questi presupposti sono in grado di meglio
delineare, arricchendolo, il profilo della «laicità in
versione italiana».
3. Il testo della Costituzione italiana mette a
disposizione degli operatori pratici del diritto (e della
politica) una serie di vettori normativi capaci (in teoria)
di rispondere alla domanda di gestione giuridica del
pluralismo democratico, compresa la pari libertà dello
stato e delle organizzazioni religiose. In pratica, però,
non sono assenti – soprattutto nella fase attuale –
sintomi preoccupanti di affievolimento dei valori in
essa sanciti, a cui bisogna prestare massima attenzione
elaborando programmi educativi (F.P. Casavola) in vista
di regole positive finalizzate alla tutela dei diritti civili,
dell’interesse religioso di tutti (art. 19 Cost.) in uno
spazio pubblico (per Costituzione) inclusivo e orientato
ai principi-valori del solidarismo. Occorre, però, al di là
dei meri enunciati contenuti nella Carta, una scelta di
«metodo», idoneo (quest’ultimo) a supportare l’adesione
della produzione normativa interna ai principi-valori
informanti l’ordinamento. Fare questo significa, però,
avere ben chiaro (a livello politico prima ancora che
giuridico) un progetto di spazio pubblico quale “casa di
tutti” (A.C. Jemolo), quel luogo neutro del confronto tra
persone e idee, continuamente disponibile ad accogliere
le opzioni culturali (dunque, anche religiose) di volta in
volta proposte, la «società di comunità» che ci avviamo
a essere. Stabilire a priori che quel luogo «appartiene»
a qualcuno o a qualcosa significa orientarsi in chiave
escludente verso i fatti nuovi emergenti nel contesto
sociale, rinunciare all’analisi delle differenze, nonché
sottrarsi all’obbligo costituzionale di misurare la
compatibilità legale di certe pratiche, simboli, stili di
vita, aprioristicamente ritenuti incompatibili (soltanto
perché pigramente non condivisi) con la nostra tavola di
valori e principi.
4. Mai come adesso, a nostro avviso, occorre una forte
dose di recupero del canone della laicità, intesa, però,
non in senso ideologico (come “ideologia di stato”,
alternativa e finanche intollerante verso le fedi religiose)
ma come «metodo» (N. Bobbio), appunto, quale
attitudine dei poteri pubblici a valorizzare le diverse
opzioni culturali e religiose senza identificarsi con
alcuna di esse.
In quest’opera di ri-assunzione delle coordinate
normative e valoriali contenute nella Carta repubblicana
attraverso cui ri-fondare un «ethos condiviso» (E.-W.
Böckenförde), in grado di costituire la rete delle regole
del pluralismo sociale italiano (ed europeo) assume
particolare significato la Corte costituzionale la cui
«funzione […] è essenziale al nostro modo di intendere
la democrazia». Soprattutto nelle questioni che toccano
la laicità dello stato, l’analisi della giurisprudenza della
Corte è servita e serve tutt’ora a cogliere l’evoluzione del
principio della distinzione tra ambito secolare e religioso
e ad aiutare il politico a ben comprendere che: «Le
leggi, la Costituzione innanzitutto, sono e devono essere
considerate come diritto dello stato, frutto di discussioni
e procedure democratiche, non come manifestazione
immediata di un’etica religiosa» (G. Zagrebelsky).
5. Nella oramai storica sentenza n. 203 del 12 aprile
1989 (relatore Casavola), la Consulta afferma la
sussistenza nell’ambito del nostro sistema costituzionale
del principio supremo di laicità. In realtà la Corte
non “scopre” nulla di nuovo che non fosse già ben
chiaro, sotto il profilo delle «linee-guida», nel testo
della Carta. Indubbiamente, nella Costituzione del
1947 non si ritrova alcuna menzione esplicita della
laicità (come nella Costituzione francese del 1946)
né, successivamente, la proposta di inserire la laicità
nel progetto di legge sulla libertà religiosa (di cui si
discute in Italia, senza esito alcuno, da diversi anni) ha
trovato felice accoglienza: resistenze si sono registrare
non solo in ambito politico. Quel che giova rilevare,
concretamente, è che già a partire da prima della
sentenza in esame, parte degli studiosi del diritto
ecclesiastico (e non solo) in Italia aveva suggerito la
necessità di una lettura armonica del sotto-sistema della
disciplina costituzionale del fenomeno religioso (artt.
19, 20, 8 e 7 Cost.) con l’impianto generale dei rapporti
civili e sociali disegnato nella Costituzione. A distanza di
anni, questa impostazione si è quasi del tutto affermata,
a dimostrazione della giusta definizione del diritto che
studia il fenomeno religioso come legislatio libertatis
(Vitali), funzionale alla più ampia garanzia della tutela
e promozione della libertà religiosa individuale e
collettiva in ogni sua forma. Non si tratta, perciò, nel
caso della laicità, di una «“invenzione” della Corte»,
bensì del risultato di un «dialogo giurisprudenziale in
senso lato» che, tra alti e bassi, procede lungo il sentiero
della massima inclusione e interazione possibile di
sempre ulteriori diritti (di libertà e di uguaglianza).
6. Contano i valori. Quelli, s’intende, faticosamente
diventati patrimonio della Repubblica e disponibili ad
«arricchirsi della maturità dei tempi»; a partire da quelli
contenuti negli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione
che concorrono, insieme ad altri (nel caso in esame
gli articoli 7, 8 e 20 Cost.), a «strutturare il principio
supremo della laicità dello stato, che è uno dei profili
della forma di stato delineata nella Carta costituzionale
della Repubblica» (sent. n. 203/1989, punto 4 in
diritto). Dire principio supremo significa attribuire
a un concetto tutta la forza giuridica scaturente da
un “insieme valoriale” (cosiddetto «nucleo duro»)
corrispondente (tutta la parte prima della Costituzione),
qualificandolo come «indispensabile» al fine della
compiuta definizione della forma di stato italiana.
Da qui la sua piena inderogabilità, neppure in sede
di revisione costituzionale (art. 138 Cost.), oltre che
prevalenza sui contenuti del sistema normativo di
relazioni bilaterali tra stato e confessioni religiose (artt.
7, comma 2° e 8, comma 3° Cost.). La laicità, dunque,
in quanto principio supremo, opera come medium,
«attraverso il quale il mondo dei valori entra in quello
giuridico e il mondo giuridico si apre ai valori»; la sua
essenza materiale serve, insomma, a “tenere in vita”
il diritto, fermo restando l’impegno da parte delle
istituzioni repubblicane a non abbassare la guardia, a
non ritenere la laicità un valore scontato.
7. Quanto al “contenuto” della laicità, la “costante”
è rappresentata – e non poteva essere diversamente
all’interno di un sistema costituzionale che riconosce le
«ragioni» delle istituzioni politiche e di quelle religiose
– dal fattore religioso (diversamente declinato nel corso
del tempo), preso in considerazione alla luce, sia delle
complesse dinamiche storico-politiche che avevano
caratterizzato la società italiana nei decenni precedenti
la pronuncia del 1989 (riforma del Concordato del
1929, evoluzione dei comportamenti sciali, avvio
della “stagione delle intese”, etc.), sia delle nuove basi
politiche che l’Europa getta con la firma del Trattato
di Maastricht sull’Unione europea del 1992, che segna
una nuova tappa nel processo di «consolidamento della
democrazia e dello stato di diritto, rispetto dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali».
Secondo i giudici della Consulta, la laicità: «Implica
non indifferenza dello stato dinnanzi alle religioni ma
garanzia dello stato per la salvaguardia della libertà
di religione, in regime di pluralismo confessionale
e culturale»; infatti: «L’attitudine laica dello statocomunità […] risponde non a postulati ideologizzati
e astratti di estraneità, ostilità o confessione dello
stato persona, o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla
religione o a un particolare credo, ma si pone a servizio
di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei
cittadini» (sent. n. 203/1989, punti 4 e 7 in diritto). La
Corte, come si evince da questo importante passaggio
della sentenza, offre alla società e agli interpreti una
nozione ampia e articolata della laicità – sicuramente
POSITION PAPER _1
non de combat (proteggere lo stato dalla religione) –
sottratta a qualunque tipo di approccio “ideologico”
riguardo al fenomeno religioso, in grado di valorizzare
le potenzialità della democrazia pluralista (a patto,
beninteso, che le si vogliano concretamente ricercare
e affermare queste potenzialità: operazione non
sempre attuata in ambito politico né supportata dalla
giurisprudenza ordinaria e, soprattutto, amministrativa)
e di contenere i contrasti inevitabili insiti nel processo di
“apertura” dello spazio pubblico.
Altre sentenze (non tantissime), successive a quella del
1989, hanno contribuito a meglio definire i confini della
laicità italiana. Nuovi tasselli sono stati aggiunti ma,
secondo alcuni attenti osservatori, ulteriori «aspetti
importanti necessitano ancora di un chiarimento»
per meglio riempire di contenuti il disegno iniziale.
Il principio, dunque, continua a essere posto “sotto
osservazione”, soprattutto da parte di chi rileva un
certo sbilanciamento, in alcune pronunce della Corte,
tra rilevanza dell’elemento religioso (in senso stretto) e
opzioni di coscienza, con progressiva svalutazione del
primo elemento a vantaggio di istanze riconducibili ai
più generali processi di individualizzazione della società
italiana ed europea; da qui il dibattito sulla rilevanza
giuridica della nozione di laicità, vivace sino a qualche
anno fa.
8. A distanza di più di vent’anni, è indubbio che la
sentenza n. 203/1989 costituisca una vera e propria
«pietra miliare» per la normativa e per gli studi in
materia di rapporti tra stato e religione in Italia. Intorno
a essa si sono così venuti compiendo passi importanti
in direzione del «soddisfacimento dei […] bisogni e
interessi» religiosi (sent. n. 195/1993) dei soggetti (libertà
religiosa), individuali e collettivi.
Come fattore sociale positivo, all’interno di un contesto
pubblico finalizzato all’inclusione delle credenze, di fede
e non (il pluralismo religioso e culturale di cui la sent. n.
203/1989), nonché impegnato nella lotta contro tutte le
forme di discriminazione, la giurisprudenza della Corte
costituzionale (ha messo e) mette a disposizione della
legislazione (e prima ancora della politica), finalizzata
alla promozione della religiosità umana, argomentazioni
giuridiche utili a facilitare la circolazione di quei “canali
normativi” (artt. 2, 3, 19 Cost.) attraverso i quali la
Costituzione si presenta come «luogo di affermazione
e di equilibrato bilanciamento di valori essenziali per
la vita delle istituzioni e della stessa società civile». La
laicità diventa, così, precondizione e strumento basilare
della democrazia. Come tale essa vincola le istituzioni
pubbliche a non «ricorrere a obbligazioni di ordine
religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti»
(sent. n. 334/1996) – una laicità, dunque, nel senso di
non confessionalità e quale principio di «distinzione degli
ordini», secolare e religioso – a non stabilire differenze
di trattamento fra confessioni religiose sulla base del
LAICITÀ, FENOMENO RELIGIOSO E COSTITUZIONE.
solo criterio numerico e sociologico (sentt. n. 925/1988,
440/1995, 508/2000), a riconoscere la giusta rilevanza
e protezione alla piena realizzazione della libertà di
coscienza di ciascuna persona, i cui elementi costitutivi
coprono ambiti anche diversi da quelli propri della laicità
(sentt. n. 149/1995, 334/1996, 329/1997), a non operare
distinzioni e disuguaglianze di trattamento tra confessioni
religiose con o senza intesa (sent. n. 195/1993), facendo
ricorso all’ampio ventaglio di opzioni semantiche
contenute in Costituzione al fine di meglio identificare le
diverse “forme associate” di religiosità.
9. Il principio di laicità necessita di una costante opera
di manutenzione che significa, praticamente, agire
sui punti di forza dell’impianto costituzionale da cui
esso trae linfa vitale. Se da un lato, nel nostro Paese, il
principio supremo di laicità non ha mai, concretamente,
messo in discussione il ruolo della religione come fatto
sociale rilevante né, tanto meno, quello delle confessioni
religiose (Chiesa cattolica in primis) quali attori di
prima grandezza nelle dinamiche del dibattito pubblico,
la persistenza di alcune norme di matrice confessionista
nella legislazione vigente e l’introduzione nel tempo
di disposizioni normative «indifferenti» alla laicità
costituiscono un fattore di potenziale «neutralizzazione
del principio», che nei fatti può risultare “alleggerito”,
dunque, irrilevante dal punto di vista giuridico. Da
ciò scaturisce che nello stato laico, alle affermazioni
di principio sulla libertà di coscienza e di religione di
tutti, i poteri pubblici (legislatore, giudici, pubblica
amministrazione) devono rispondere praticando la
regola aurea del pluralismo, garanzia di uguaglianza
e libertà (degli individui e delle formazioni sociali a
carattere religioso).
Ma è in una prospettiva europea, spazio ampio di
maggiore garanzia e tutela dei diritti umani, che
la laicità può trovare terreno fertile utile alla sua
progressiva implementazione. Seppur lontani dalla
enucleazione di «un livello minimo apprezzabile ed
effettivo di tutela della laicità» e della stessa libertà
religiosa in ambito “euro-unitario” (Unione europea,
Consiglio d’Europa) – i recenti pronunciamenti
operati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo
(Strasburgo) in materia di simboli religiosi nelle scuole
pubbliche, dall’esposizione del crocifisso al porto del
velo (Lautsi c. Italia del 18 marzo 2011; Drogu c.
Francia e Kervanci c. Francia del 4 dicembre 2008)
riconoscono un discreto margine di apprezzamento in
capo ai singoli ordinamenti giuridici – siamo di fronte
a un processo il cui linguaggio (quello, appunto, dei
diritti) andrà progressivamente a colmare le trincee
delle identità nazionali – oltre il «dogma della sovranità
nazionale» (G. Napolitano) – modificando antichi
istituti e tradizioni e mobilitando le virtù trasformative
del costituzionalismo, di cui la convivenza tra culture
diverse rappresenta la sfida più complessa.
Laicità, libertà della Chiesa,
e impegno politico dei
cristiani: la “Democrazia
cristiana”
Markus Krienke
1. Quando Leone XIII pubblicò nel 1891 la prima
enciclica sociale, Rerum novarum, diede – seppur
involontariamente – inizio all’esperienza della laicità
all’interno di ciò che fin ora era il milieu cattolico,
schierato come un bastione intorno al Papa, sui
fondamenti delle encicliche antimoderne di Gregorio
XVI e di Pio IX, e della definizione dell’infallibilità del
Concilio Vaticano I. Era l’inizio dell’esperienza della
“Democrazia cristiana”, vera e propria esperienza
politica del cattolicesimo ossia in altre parole:
esperienza della laicità nel campo politico. Dalla
“Democrazia cristiana” di Murri fino al “Partito
popolare” di Sturzo e alla “Democrazia cristiana” di
De Gasperi, dallo “Zentrum” di Godehard Ebers o
Josef Joos alla “Cdu” di Adenauer, per citare solo le
esperienze italiane e tedesche, alle quali si potrebbero
aggiungere le storie di tanti altri Paesi europei, tutti
riconoscevano nella Rerum novarum e nella Dottrina
sociale della Chiesa che da essa partiva, uno dei loro
fondamenti e un vero e proprio centro di gravitazione.
Ironia della storia: Leone XIII aveva inteso tutto tranne
legittimare una tale esperienza politica dei cristiani,
e di conseguenza nel 1901 con l’enciclica Graves de
communi proibiva l’uso del termine “Democrazia
cristiana” in senso politico. Il principio di laicità, che
è un’esperienza di libertà, non era ancora pensato al
livello dei documenti ufficiali della Chiesa. Per Leone
XIII, l’esperienza politica non sta sotto il segno della
libertà individuale, quindi delle dimensioni di sovranità
popolare, di divisione dei poteri, di diritti fondamentalliberali e della democrazia, ma era costituita dall’alto: al
centro della riflessione politica non stava la libertà della
persona, ma la verità del potere politico.
All’affermazione della libertà dell’azione sociale, della
libertà economica, fondata sulla proprietà privata,
e della libertà dei lavoratori, sancita per la libertà di
associazione, seguiva quindi un rifiuto inequivocabile
della libertà politica. Recuperando quest’ultima,
l’esperienza della laicità è stata sin dall’inizio un
contributo importantissimo allo sviluppo di una
vera e propria etica politica cattolica, impossibile
all’interno della sistematica di Leone XIII: nella Rerum
novarum e nelle altre sue encicliche sviluppava una
“dottrina di stato” ma non un’etica politica vera e
propria, intesa come la dimensione etica – con il suo
fondamento nella coscienza del cristiano – dell’agire
politico nello stato secolare moderno. Grazie a Murri e
Sturzo, Hertling, Ebers e Joost, la laicità poteva essere
intesa sempre di più come esperienza della libertà
non divisibile del cristiano in questo “nuovo” stato
secolare e democratico: la centralità della coscienza
cristiana nell’unità della sua esperienza di libertà.
Ciò significa: la libertà del cristiano nella società –
come la libertà della persona in quanto tale – o è una
e indivisibile, in quanto espressione unitaria della
persona, o non è. Questo fatto, già tema centrale delle
riflessioni da parte dei cattolici liberali ottocenteschi
come Montalembert e Rosmini, era poi il momento
scatenante dell’esperienza politica dei cristiani e dei
primi che diventarono protagonisti in politica. Si
sentivano pienamente legittimati dalla Rerum novarum,
anche se in senso stretto, come abbiamo visto, non si
trova espresso, in essa, il principio della “Democrazia
cristiana” nell’ambito politico. E la stessa esperienza si
può riscontrare nell’atteggiamento dei cattolici liberali
sotto l’esperienza del totalitarismo di destra in Italia e
Germania, e dopo la guerra nel progetto europeo di De
Gasperi, Adenauer e Schuman.
Merito di questi pensatori ed esponenti della
“Democrazia cristiana” è stato quello di aver portato
a una sintesi storica l’esperienza cattolica della libertà
politica (laicità) con l’intransigentismo cattolico che
animò la nascita dell’attività sociale dei cristiani
nell’Ottocento che vede impegnarsi vescovi, preti
e laici in associazioni che organizzarono le opere
di carità per le nuove fasce povere della società, le
prime organizzazioni dei lavoratori e i primi centri
di studi sociali del pensiero cattolico. Pensiamo a
von Ketteler, Kolping e von Vogelsang di lingua
tedesca, oppure ad Albani o Toniolo di lingua italiana.
Il loro antiliberalismo e la loro propensione per
modelli solidaristici e corporativistici doveva essere
integrato con il principio democratico. In tal modo,
la “Democrazia cristiana” si contraddistingue sia dal
movimento liberale sia da quello socialista proprio
per il suo concetto di “liberalismo” e di “laicità” nella
conciliazione tra le libertà individuali e le dimensioni del
bene comune, dei corpi intermedi e dell’importanza dei
costumi cristiani e del principio religioso per la società.
2. Una delle concezioni più chiare e conseguenti sulla
giustificazione di tale impegno, troviamo in un autore,
i cui scritti in merito sono stati messi all’indice già
nel 1849: Delle cinque piaghe della santa Chiesa e La
Costituzione secondo la giustizia sociale di Antonio
Rosmini. Nella prima opera, tra le più conosciute di
questo pensatore ancora troppo poco studiato, egli
analizza i cinque mali principali che affliggono il corpo
della Chiesa nella modernità. Secondo Rosmini, il
rapporto tra Chiesa e stato nella modernità è ancora
erede del feudalesimo medievale, poi modificato
nell’alleanza tra trono e altare, e definito da Bellarmino
come il rapporto tra due societates perfectae. Ma se si
concepisce la Chiesa, analogamente allo stato, come
societas perfecta, allora non si coglie più la specifica
POSITION PAPER _1
funzione che essa ha per la società e per lo stato. Tutte
le cinque piaghe – la divisione tra clero e popolo di
Dio, l’insufficiente educazione e istruzione del clero, la
disunione dei vescovi, la nomina dei vescovi da parte
del potere secolare, e la servitù dei beni ecclesiastici
– mirano quindi a ridare alla Chiesa il suo mandato
originale che essa ha nei confronti dello stato: ossia
di formare le coscienze delle persone e di realizzarsi
nell’esperienza della laicità in politicis. Nei confronti
delle logiche secolari, che a partire dal feudalesimo
hanno offuscato questa missione della Chiesa, la
Chiesa si deve quindi riconcentrare sulla funzione
della religione e dell’elemento spirituale nella società e
riaprire così lo spazio all’esperienza della laicità che non
è nient’altro che la realizzazione del Caesari Caesaris
Deo Dei. A ben vedere, però, sono proprio le condizioni
dello stato secolare moderno, basato sulla libertà e sui
diritti individuali della persona, che lo fanno apparire
come il luogo adatto per la realizzazione di questa
esperienza. In questo senso, Rosmini anticipa le analisi
di Böckenförde sullo stato liberale secolare come
risultato dell’etica politica dello stesso cristianesimo, e
quindi il cristianesimo come protagonista della nascita
di un nuovo ordinamento politico, basato sulla dignità
della persona e sulla libertà religiosa. Per Rosmini,
quindi, la “laicità” non è semplicemente un “risultato”
delle vicende politiche della modernità, ma in quanto
principio cristiano il loro vero principio propulsore.
In questo “distacco” dalle logiche secolari e nella
riconcentrazione sul suo mandato spirituale, Rosmini
non concepisce una “spiritualizzazione” della Chiesa,
ma le sue considerazioni sono motivate dalla seguente
ragione: prevedendo che la Chiesa nella modernità e
“dopo” non realizzerà più la sua funzione sociale e
politica tramite la classica “alleanza tra trono e altare”,
Rosmini individua come il suo luogo appropriato la
società civile. Centottant’anni prima della Caritas
in veritate, che riscopre questa intuizione, Rosmini
collocava la Chiesa non come societas perfecta
accanto e in concorrenza allo stato, perché questo
comporterebbe solo la definizione della Chiesa secondo
criteri che non le sono propri. Come principio spirituale,
il suo luogo è nelle persone – Guardini dirà del XX
secolo: «La Chiesa rinasce nelle anime degli uomini» – e
stabilisce attraverso la vita e l’esperienza dei cristiani la
base valoriale del funzionamento delle istituzioni sociali
e politiche.
Di conseguenza, come sottolinea Rosmini nella
Costituzione secondo la giustizia sociale: «La religione
cattolica non ha bisogno di protezioni dinastiche, ma
di libertà: ha bisogno che sia protetta la sua libertà
e non altro. Il più grande degli assurdi si è che in un
popolo libero sia schiava la religione ch’egli professa».
Nell’insegna di questo principio, Rosmini rifiutava il
regolamento dello Statuto albertino che definiva la
religione cattolica religione di stato. Non la Costituzione
LAICITÀ, FENOMENO RELIGIOSO E COSTITUZIONE.
dello stato, il concordato o qualsiasi rapporto giuridico
tra stato e Chiesa è il luogo dell’esperienza religiosa, ma
la persona. Questo non significa che di tali istituzioni
non ci sarebbe più bisogno, anzi senza un’adeguata
impostazione di questo rapporto sarebbe a rischio anche
l’esperienza della laicità. Ma la ratio dell’impostazione
giuridica è sempre l’esperienza personale della laicità
come libertà positiva, non viceversa. A partire da questa
esperienza, Rosmini riformulava la riforma della Chiesa
come anche la riforma dello stato come due facce della
stessa medaglia istituzionale, presentando un vero e
proprio progetto complessivo di riforme.
Per Rosmini, la Rivoluzione francese come la
Costituzione non sono mali in sé o hanno dato l’avvio
a uno stato di per sé ostile alla religione. Al di là di
alcuni momenti concreti e contingenti che potevano
davvero pregiudicare una tale impressione, e anche al di
là della sua critica decisa che non ometteva a esprimere,
egli capiva che la scoperta della persona al centro
dell’esperienza politica è un elemento importantissimo
per un’etica politica cristiana. Per questo, come formula
sempre nella Costituzione, la «cosa migliore che si
fece nell’89 fu certamente la Dichiarazione de’ diritti
dell’uomo e del cittadino».
In queste considerazioni, e nel ritenere l’esperienza
americana molto più adatta che quella francese,
Rosmini si è molto ispirato alla sua lettura di
Tocqueville, il quale riteneva che la democrazia e la
scoperta della dimensione della società civile nella sua
priorità sussidiaria allo stato non si possono avere
senza presupposti. E questi presupposti sono, per il
pensatore cattolico-liberale, le dimensioni etiche del
personalismo cristiano. Non basta mettere la persona
al centro e valorizzare le associazioni e i gruppi
spontanei e intermedi, in quanto queste dimensioni sono
sempre sorrette da una certa idea o visione dell’uomo.
Altrimenti anche la democrazia correrebbe il rischio di
degenerare in una forma di tirannia, come Tocqueville
ha sottolineato avvertendo del pericolo della «tirannia
della maggioranza». E Rosmini considerava: «Per me,
quando sento la mano del potere appesantirsi sulla
mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime,
e non sono maggiormente disposto a infilare la testa
sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo
porge». Non è difatti il sistema politico che sarebbe
un automatismo per la realizzazione della “perfetta”
organizzazione politica, ma ci sarebbe bisogno anche di
una dimensione etica e fondamentale, che per i nostri
due autori è sempre un’esperienza di libertà. Ecco
perché questa dimensione non può essere organizzata
dallo stato, che qualora diventa troppo “forte” o
“perfetto” risulta addirittura il maggiore antagonista
dell’esperienza della libertà. Infatti, per Rosmini e
Tocqueville lo stato può soltanto creare le condizioni
– corrispondenti ai diritti fondamentali di libertà –
per la realizzazione dell’esperienza politica, ma mai
pregiudicarla. Il sistema perfettamente organizzato,
secondo Rosmini, non esiste, e proprio una tale illusione
sarebbe il presupposto teoretico per quella vera e
propria perversione dell’esperienza di libertà politica,
che è il totalitarismo. Analizzando i primi autori
socialisti nella prima metà dell’Ottocento, Rosmini
formula perciò il suo principio dell’antiperfettismo:
«Il perfettismo, cioè quel sistema che crede possibile
il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni
presenti alla immaginata futura perfezione, è un
effetto dell’ignoranza. Egli consiste in un baldanzoso
pregiudizio, pel quale si giudica dell’umana natura
troppo favorevolmente, se ne giudica sopra una pura
ipotesi, sopra un postulato che non si può concedere
[…]. [P]arlai del gran principio della limitazione
delle cose e ivi dimostrai, che vi sono de’ beni la cui
esistenza sarebbe al tutto impossibile senza l’esistenza
di alcuni mali». Per questa ragione, l’esperienza di
laicità è un principio antitotalitaristico, perché valorizza
l’esperienza di libertà personale in politica contro ogni
perfettismo. Per questo motivo, tale cultura è anche
sempre rimasta profondamente contraria ai totalitarismi
di destra in Italia e in Germania, come poi anche contro
i totalitarismi di sinistra in altri Paesi d’Europa.
3. Ma l’esperienza della libertà cristiana, nel filone del
cattolicesimo liberale, prendeva le distanze non solo
dallo statalismo socialista alla base dei totalitarismi
di destra e di sinistra, ma anche dall’individualismo
riduzionistico che stava alla base di ciò che era
inteso, in maniera unilaterale, come “liberalismo”
(G. Toniolo). Per Toniolo, l’esperienza della libertà
cristiana è un’esperienza etica che ha in sé quella
potenzialità che la mera libertà politica non ha: oltre le
dialettiche della politica e dell’economia sta la coesione
sociale, e in questo modo si rivolgeva anche contro un
liberalismo che distruggeva questa coesione sociale,
perché concepiva la persona solo come individuo
egoisticamente calcolando. Infatti, il cattolicesimo
liberale rifiutava sempre la riduzione dell’esperienza di
libertà a un mero individualismo, anche se riteneva però
che non tutti i pensatori liberali erano automaticamente
anche individualisti metodologici. In questo senso,
il protestante Röpke, che come uno dei padri
dell’ordoliberalismo e dell’economia sociale di mercato
ha formato l’esperienza politica della “Cdu” – che
contrariamente allo “Zentrum” voleva essere sempre
un’esperienza ecumenica tra cattolici e protestanti – si
rifaceva alla distinzione dello stesso Hayek tra un «vero
individualismo» e un «falso individualismo»: mentre
l’ultimo isola le persone e le rende perciò deboli nei
confronti anche di stati totalitaristici, il primo rafforza
eticamente le persone nelle loro relazioni interpersonali.
E per questo fatto, quest’ultimo è anche aperto
all’esperienza etica e religiosa in politicis.
Come si vede in modo chiaro in Sturzo, solo su una
concezione etica della persona si può basare l’equilibrio
della giustizia sociale nella tensione dialettica tra i
partiti e le parti sociali. È il rispetto della persona
in tutti i suoi aspetti, anche nella sua esperienza
religiosa, che costituisce la base che sorregge una tale
“giustizia sociale”. Attraverso questa esperienza, i
cristiani in politica ora acquistarono pian piano sempre
di più la consapevolezza di presentare una vera e
propria “terza via”, intesa come “alternativa” tra un
liberalismo individualistico e un socialismo statalista:
e le dimensioni fondamentali di questa “terza via”
erano la libertà della persona nell’armonia sociale e
nel conseguimento universale del bene comune. In
questo senso, per Sturzo la “Democrazia cristiana”
si realizzava come l’«ordinamento civile nel quale
tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella
pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano
proporzionalmente al bene comune, rifluendo in ultimo
risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori».
Questi aspetti si esprimevano in modo particolarmente
riflettuto nel manifesto di Luigi Sturzo, reso pubblico
all’albergo Santa Chiara a Roma il 18 gennaio 1919,
dopo l’abrogazione del Non expedit, espresso da Pio
IX nel 1868 e ribadito da Leone XIII e in linea di
massima ancora da Pio X. E l’esperienza democratica
come cattolico egli la descrive proprio come una
“terza” esperienza, tra quella del cristiano privatamente
religioso, e quello del mero funzionario partitico: «È
superfluo chiarire perché non ci siamo chiamati partito
cattolico: i due termini sono antitetici, il cattolicesimo è
religioso, è universalità; il partito è politica, è divisione».
Quest’esperienza, che è l’esperienza della laicità nel
“Partito popolare”, è ripresa da De Gasperi, che ancora
fu segretario del “Partito popolare”, e per il quale la
libertà è il primo movente della sua attività politica:
«La libertà politica sarà quindi il segno di distinzione
del regime democratico; così come il rispetto del
metodo della libertà sarà il segno di riconoscimento
e l’impegno d’onore di tutti gli uomini veramente
liberi. Una democrazia rappresentativa, espressa dal
suffragio universale, fondata sull’uguaglianza dei
diritti e dei doveri e animata dallo spirito di fraternità,
che è fermento vitale della civiltà cristiana: questo
deve essere il regime di domani». Inoltre, di Dossetti
è la seguente affermazione: «Ho cercato la via di una
democrazia reale, sostanziale, non nominalistica:
che voleva anzitutto cercare di mobilitare le energie
profonde del nostro popolo, e cercare di indirizzarle
in modo consapevole verso uno sviluppo democratico
sostanziale, cioè in larga misura favorente non solo
una certa eguaglianza, una certa solidarietà, ma
favorente soprattutto il popolo: non nel senso di solo
oggetto dell’opera politica, ma di soggetto consapevole
dell’azione politica».
4. Luigi Sturzo, nel suo Appello a tutti gli uomini liberi
POSITION PAPER _1
e forti sottolinea l’importanza di formare la realtà
morale e sociale della politica con i principi cristiani:
perché la libertà – il «vero senso della libertà», come
sottolinea Sturzo, – non è meramente indifferenza o
libertà negativa, ma essenzialmente libertà morale che
si realizza nei «nuclei» e negli «organismi naturali»
quali soprattutto la famiglia e anche i comuni. Ma il suo
«vero senso» la libertà lo acquisisce nella dimensione
religiosa. Quindi anche Sturzo viveva la religione come
esperienza di libertà da realizzare in tutti gli ambiti della
vita sociale: da lì la sua vocazione di politico cristiano.
Nel suo scritto Coscienza e politica, Sturzo descrive
come la politica si genera a partire dalla coscienza
della persona, considerando la specificità dell’agire
umano il quale, considerando le condizioni generali, le
convinzioni personali e altre circostanze orienta sempre
mezzi e fini particolari verso un «fine generale» che
nell’ambito della politica è il bene comune. Ora, se la
politica si genera da una tale analisi e comprensione
dell’agire umano, allora essa, in quanto «attività
sociale e razionale», sarebbe «intrinsecamente morale»:
«Non si può dare politica immorale che sia veramente
politica cioè attività diretta al bene comune; mentre si
potranno dare, e purtroppo non mancano, individui
o gruppi che nel campo politico, di proposito ovvero
occasionalmente, violino le leggi morali che sono anche
leggi della comunità cui appartengono». In Sturzo,
quindi, è evidente la comprensione della persona umana
non come un “individuo neutrale”, ma come “libertà
morale”, persona che costitutivamente è sempre in
relazione con altri perché l’agire fa parte della sua
natura. Si evince subito: a partire da una determinata
comprensione della persona umana, nella concretezza
della sua personalità, sembra assurdo voler pensare
lo stato e la politica come strutture indipendenti o
neutrali nei confronti della morale, perché sono sempre
strutture che derivano e che si basano sull’agire delle
persone concrete – e solo questa prospettiva permette
un’esperienza di libertà “all’interno” o “sotto” queste
strutture. E per la stessa sistematica, a Sturzo è chiaro
che per la politica e per lo stato non vale “un’altra”
morale che differirebbe da quella della persona, ma si
tratta sempre della stessa morale – proprio perché si
tratta sempre della stessa libertà identica e indivisibile.
La scoperta della coscienza – libertà morale individuale
che allo stesso momento si sa intimamente legata a Dio
e agli altri – è il grande contributo del cristianesimo
all’etica politica. E per questo Sturzo può esprimere il
suo ottimismo sano e critico: «Se dal punto di vista della
lotta anticristiana, che la storia ci presenta costante da
circa duemila anni, le fasi moderne di apostasia, prima
borghese e poi anche proletaria, mostrano le difficoltà
della completa cristianizzazione storica del mondo,
difficoltà la cui radice è nella coscienza individuale di
ciascuno di noi; dal punto di vista delle nuove conquiste
oltre che interiori, nel campo del vivere civile, tale
LAICITÀ, FENOMENO RELIGIOSO E COSTITUZIONE.
lotta è salutare e conquistatrice e ci deve riempire di
ottimismo, come lo avevano i primi cristiani pieni di
fede nella seconda venuta del Cristo».
Bibliografia
Religione e laicità
5. Infine, la Centesimus annus afferma sulla democrazia:
«La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in
quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle
scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità
sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di
sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno.
[…] Un’autentica democrazia è possibile solo in uno
stato di diritto e sulla base di una retta concezione della
persona umana. […] La Chiesa rispetta la legittima
autonomia dell’ordine democratico e non ha titolo
per esprimere preferenze per l’una o l’altra soluzione
istituzionale o costituzionale». L’esperienza della
laicità è quindi quella personalistica della crescita
e del perfezionamento della persona umana nello
stato liberale e secolare della modernità. Parte di
questa crescita e del perfezionamento è anche la sua
partecipazione politica attiva. Per questo, l’esperienza
politica della laicità è un’espressione autentica
dell’essere cristiano nel contesto politico. In quanto
esperienza della libertà indivisibile del cristiano, tale
esperienza politica rimanda a quella dimensione etica
della libertà individuale che trova il suo radicamento
più profondo nella dimensione trascendente della
persona. Infatti, la dimensione religiosa è essenziale e
non soltanto accidentale a questa visione della persona
umana. Per questo, la libertà religiosa risulta la prima
conseguenza politico-costituzionale dell’immagine
cristiana di persona, autenticamente “laica”, e la
Dignitatis humanae è da considerare il suo punto di
riferimento centrale e indispensabile, fondamento di
tutte le libertà e dell’esperienza di libertà del cristiano
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