⇔ Definizione operativa di `Grandezza Fisica`:

Definizione operativa di ‘Grandezza Fisica’:
“Ente suscettibile di misura introdotto per la descrizione di un fenomento fisico”
• Grandezze la cui misura è diretta (“grandezze fondamentali”):
- definizione di un procedimento (ripetibile) di misura, ossia di un
confronto tra l’oggetto in esame e un oggetto omogeneo assunto come
unità di misura
- definizione di un “campione” di riferimento e di una unità di misura
Esempi:
grandezza fisica
lunghezza
tempo
massa
temperatura
⇔
unità di misura
metro, pollice (“inch”),...
secondo
chilogrammo, oncia,...
grado (Celsius,Farenheit,…)
• Grandezze la cui misura è indiretta (“grandezze derivate”):
Sono espresse in funzione delle “grandezze fondamentali”
Esempi: velocità (metri al secondo), accelerazione (metri al secondo2),
corrente elettrica, etc...
Evoluzione nel tempo della definizione delle unità di misura
Esempio: la grandezza fondamentale “lunghezza”
1 metro ≡
- 1/107 distanza tra polo nord ed equatore calcolata
sul meridiano di Parigi;
(1791)
- “metro campione” : dist. tra 2 righe incise su una barra di
platino-iridio conservata a Sevrès (Parigi) ; (1889)
- 1.650.763,73
2 p10 →5d 5
Kripton 86, nel vuoto
λ
- 1/ 299 792 458 dello spazio percorso
dalla luce nel vuoto in 1 secondo
(1960)
(1983)
Sistema Internazionale (S.I.) di Unità di Misura
( adottato dalla XIV Conferenza Generale di Pesi e Misure, Parigi, 1971 )
Grandezza fondam.
Unità
• Lunghezza
Metro
Simbolo
m
Definizione
1/299792458
dello spazio percorso dalla luce
nel vuoto in 1 s
• Tempo
Secondo
s
9192631,77
periodi della radiazione
prodotta dalla transizione tra i due
livelli iperfini dello stato fondamentale
dell’atomo di Cesio 133
• Massa
Kilogrammo
kg
massa di un campione cilindrico
di Pt-Ir conservato a Sevrès
• Temperatura Grado Kelvin
K
1/273,16 della
temperatura assoluta del
punto triplo dell’acqua
Sistema Internazionale (S.I.) di Unità di Misura
( adottato dalla XIV Conferenza Generale di Pesi e Misure, Parigi, 1971 )
Grandezza fondam.
Unità
Simbolo
Definizione
• Corrente elettrica Ampère
A
intensità di corrente
che in due conduttori rettilinei
paralleli e di lunghezza infinita
posti a distanza di 1 m produce
-7
una forza di 2x10 N
• Intensità luminosa Candela
cd
intensità luminosa
di una sorgente di frequenza
5x1014 Hz la cui intensità
energetica é 1/683 W/sterad
• Quantità di sostanza Mole
mol
quantità di sostanza
contenente tante “unità
elementari” (atomi /molecole/ioni...)
pari al numero di Avogadro
NA = 6,02252  10
23
Incertezza nella misura delle grandezze fisiche
“Ogni misurazione è un’operazione chiaramente definita che dà un determinato
risultato numerico e che, se immediatamente ripetuta, darà lo stesso risultato”.
E.Schröedinger
Come abbiamo visto, alla base di ogni teoria fisica c’è un
processo di misura, ossia di confronto tra un oggetto da
misurare, ad es. una grandezza fisica B, e un opportuno
oggetto ad esso omogeneo assunto come unità di misura [b].
Il risultato della misura sarà dunque un numero b che
esprime il rapporto tra la grandezza fisica e la sua unità di
misura, ossia ci dice quante volte l’unità di misura è contenuta
nell’oggetto misurato:
b=
B
→ B = b [b]
[b]
Ad esempio, se B è una lunghezza, allora [b] sarà il metro
(m) e un ipotetico risultato di misura sarà del tipo: B = 2.5 m
In realtà però l’espressione B = 2.5 m è incompleta poichè nessuna misura di una
grandezza fisica è precisa in assoluto. Ogni risultato numerico ottenuto tramite un
processo di misura è infatti affetto da un errore, il quale non è un difetto eliminabile
bensì un elemento intrinsecamente connesso alla misura stessa e che in qualche modo ne
definisce la qualità. Avremo quindi: B = b ± Δb [b] , dove Δb è appuno l’errore.
Potenze di Dieci
E’ prassi comune, nel linguaggio scientifico, scrivere i numeri coinvolti in un processo di
misura sotto forma di numeri decimali con una sola cifra nella parte intera moltiplicati per
una opportuna potenza di dieci, ovvero nella cosiddetta “notazione scientifica”.
Ad esempio: 36900 = 3.96  104 oppure 0.0021 = 2.1  10-3
Se l’esponente è positivo:
la potenza di 10 è uguale al numero 1
seguito da tanti zeri quant’è il valore
dell’esponente.
Se l’esponente è negativo:
la potenza ha per base il reciproco della base e
per esponente l’opposto dell’esponente.
Esempio
Esempio
101 = 10
10-1= 1/101= 0,1 ; 10-2 =1/102=0,01 ; 10-3 = 0,001
102 = 100
Nota: una potenza di 10 cambia il segno
dell’esponente se “viene trasferita” dal
numeratore al denominatore.
103 = 1 000
104 = 10 000
.
.
.
Esempio
10-2 = 1/102 = 0,01
10-5 = 1/105 = 0,00001
Se l’esponente è 0 la potenza vale sempre 1 con
qualsiasi base, purché diversa da zero.
1010 = 10 000 000 000
Esempio
100 = 1
PROPRIETÀ DELLE POTENZE:
Prodotto Il prodotto di due o più potenze aventi ugual base è uguale a una potenza che ha per base
la stessa base e per esponente la somma algebrica degli esponenti.
Esempio
103 · 104 · 102 = 103+4+2 = 109
104 · 10-2 = 10 4-2 = 102
Quoziente Il quoziente di due potenze aventi ugual base è uguale a una potenza che ha per base la
stessa base e per esponente la differenza degli esponenti.
Esempio
104 /105 = 104 -5 = 10-1
105/10-3 = 105 – (-3) = 108
Potenza di potenza Per elevare a potenza una potenza si moltiplicano gli esponenti.
Esempio
(103)3 = 10 3 · 3 =109
(103) -2 = 10 3· (-2) = 10-6
Radice La radice di una potenza è uguale ad una potenza che ha per base la stessa base e per
esponente il rapporto fra l’esponente del radicando e l’indice della radice.
Esempio
10 4 = 104/2 = 102
3
10 9 = 109/3 = 103
Ordini di Grandezza: distanze
• velocità della luce: 299792458 m/s ≅ 2.99  108 m/s
• 1 anno luce (a.l.) ≅ 2.99 108 m/s

365.25 d
86400 s/d ≅ 0.946 1016 m

• dimensioni del sistema solare ≅ 1010 Km ≅ 10 ore-luce
Diametro del:
5
Terra : 1,274 104 Km Giove: 1,4 10 Km
Sole:1,4106 Km
• dimensioni della nostra galassia (Via Lattea)
≅ 1.6
1021 m (≅ 1.6  105 a.l.)

• distanza della galassia più vicina (Andromeda , M31)
≅ 2.5

1022 m (≅ 2.5  106 a.l.)
• dimensioni dell’ Universo conosciuto ≅ 1026 m (≅ 1010 a.l.)
Ordini di Grandezza: tempi e masse
log T(s)
Tempi:
10
-15
-3
5
7
15
17
Periodo di
Periodo di
“anno”
Età dell’
oscillazione di una
oscill. del
Universo
nota musicale
“giorno”
10
campo e.m.
(ν = 440 Hz)
(10 anni)
della luce visibile
La
Periodo di rivoluzione
( c = λν = λ / T)
del Sole nella nostra Galassia
(∼220 milioni di anni)
Masse :
log M (Kg)
10
-30
elettrone
-27
-7
2
24
30
protone batterio Uomo Terra Sole
42
Galassia
LA CINEMATICA
I tre concetti fondamentali della cinematica
E’ l’insieme di tutti gli oggetti rispetto ai quali il movimento
avviene con le stesse caratteristiche
E’ la linea che unisce tutte le posizioni
attraverso le quali è passato un oggetto
(un punto materiale) in movimento
E’ un oggetto così piccolo rispetto alle
dimensioni della traiettoria da esso
percorsa che può essere considerato un
punto geometrico (però dotato di massa).
Talvolta ci riferiremo ad esso utilizzando
altri termini quali “corpo” o
“particella”.
Il Diagramma Orario x = f (t)
Il Diagramma orario permette di rappresentare la posizione di un oggetto o di
un punto materiale in moto unidimensionale al passare del tempo sotto forma
di una curva (da non confondere con la traiettoria dell’oggetto nello spazio
reale) descritta dalla funzione x(t), ossia x=f(t).
x(t)
x4
x2
oggetto fermo
x3
x1
x0=x(t0)
t0 t1
t2
t3
t4
t
Diagramma orario
della posizione di un armadillo al passare del tempo
Qual’è la velocità
dell’armadillo?
Diagramma della Velocità: v = f (t)
La veocità di un oggetto si definisce come la distanza percorsa dall’oggetto
durante il suo cammino divisa per il tempo impiegato a percorrere tale distanza
velocità costante
velocità variabile
Anche la velocità, come lo spostamento, è una grandezza vettoriale. Nel caso
unidimensionale il suo modulo coincide con la velocità scalare. Una velocità negativa
indica semplicemente un verso di percorrenza nel senso delle x decrescenti.
Velocità scalare media =
Diagramma orario
coefficiente
angolare
In generale la velocità scalare
media è uguale alla pendenza
(coefficiente angolare) della retta
che unisce i due punti tra i quali si
verifica il moto.
Nel caso dell’armadillo avremo:
Δx 6m
v=
=
= 2 m /s
Δt
3s
distanza percorsa
tempo trascorso
Δx x 2 − x1
v=
=
Δt
t 2 − t1
unità di misura: metri
al secondo (m/s)
La velocità istantanea
Grazie al nuovo metodo introdotto da Cartesio,
già nel XVII secolo si era in grado di calcolare la
velocità media di un corpo. Ma nè Galileo, nè
Cartesio, nè i loro contemporanei, erano in grado
di calcolare la velocità istantanea di un corpo nè
tantomeno di descrivere il moto di un corpo che
procede a velocità variabile, accelerando o
decelerando.
Δx → 0
Δt → 0
La soluzione al problema fu trovata un secolo più
tardi da Isaac Newton, il vero gigante della
Scienza Classica, e da Gottfried Leibniz, i quali
nel XVIII secolo inventarono un nuovo metodo
matematico noto come calcolo infinitesimale.
Con questo metodo la velocità istantanea
resta definita attraverso un ‘passaggio al
limite’ come la velocità media durante un
intervallo di tempo infinitamente piccolo
(cioè, al limite, per Δt tendente a zero):
Δx
v=
→
Δt
Δx
v(t) = lim
Δt→0 Δt
La velocità istantanea è la derivata dello spostamento
A questo punto è semplice rendersi conto che la velocità
istantanea definita in precedenza non è nient’altro che la
derivata prima dello spazio rispetto al tempo:
v(t) = lim
Δt→0
Δx dx
=
Δt
dt
Esempio: La posizione x(t) (curva oraria) di una particella che si muove sull’asse x è data
dall’espressione:
x = 7.8 + 9.2t − 2.1t 3
dove x è espresso in metri e t in secondi. Qual’è la velocità della particella al tempo t=3.5s?
Sapendo che la velocità istantanea è la derivata prima rispetto al tempo della funzione
posizione x(t), possiamo scrivere:
dx
d
=
(7.8 + 9.2t − 2.1t 3 ) → v(t) = 0 + 9.2 − (3)(2.1)t 2
dt dt
m
v(3.5s) = 9.2 − (6.3)(3.5) 2 = −68
...che per t=3.5s diventa:
s
v(t) =
dove il segno meno indica che la particella si muove nel senso delle x decrescenti.
Accelerazione istantanea
L’accelerazione istantanea (o semplicemente accelerazione) è la rapidità di
variazione della velocità in un certo istante ed è matematicamente rappresentata
dalla derivata prima della velocità rispetto al tempo:
Δv dv
a(t) = lim
=
Δt→0 Δt
dt
Geometricamente rappresenta dunque la pendenza della curva v(t) in quel punto.
Combinando questa equazione con quella che descrive la
velocità istantanea per una particella avremo:
dv d ⎛ dx ⎞ d 2 x
a(t) =
=
=
dt dt ⎝ dt ⎠ dt 2
che ci dice che l’accelerazione della particella in un certo
istante è la cosiddetta derivata seconda (ossia la derivata della
derivata prima) della sua posizione rispetto al tempo.
Moto con accelerazione costante
In molti dei più comuni tipi di moto
l’accelerazione è costante o pressochè
costante (ad esempio quando deceleriamo
avvicinandoci a un semaforo rosso, o
quando acceleriamo ripartendo al verde).
Quando l’accelerazione è costante, la
distinzione tra accelerazione media e
istantanea perde di significato e quindi
possiamo scrivere:
v − v0
a= a =
t−0
dove v0 è la velocità al tempo t=0 e v è la
velocità al generico istante di tempo t.
Avremo quindi la seguente relazione tra
velocità e accelerazione:
v(t) = v 0 + at
che è l’equazione di una retta, cioè del tipo:
y = mx + q
Accelerazione nel moto di caduta libera
Uno degli esempi più comuni di moto uniformemente accelerato unidimensionale è quello di
un oggetto lasciato libero di cadere in prossimità della superficie terrestre.
Galileo fu il primo a rendersi conto che non è vero che
gli oggetti più pesanti cadano più velocemente di
quelli più leggeri e ad ipotizzare che, in assenza di
aria o di altre resistenze, tutti gli oggetti
cadrebbero con la stessa accelerazione costante.
Somma di vettori
Un altro metodo per sommare i vettori è il cosiddetto metodo del parallelogramma (b),
completamente equivalente al metodo coda-punta (a). In esso i due vettori vengono tracciati a
partire da una stessa origine (ossia sovrapponendone le code) dopodichè si costruisce il
parallelogramma che ha questi vettori come lati adiacenti: il vettore risultante sarà dato dalla
diagonale del parallelogramma tracciata a partire dalla comune origine.
Rappresentazioni polare e cartesiana di un vettore
Abbiamo dunque due modi per rappresentare un vettore in un dato sistema di coordinate:
a) Darne il modulo V e l’angolo che il vettore forma con l’asse x (rappresentazione polare)
b) Darne le componenti Vx e Vy (rappresentazione cartesiana)
Esempio. Supponendo che il vettore in figura (a) rappresenti uno spostamento di 500m in
direzione 30° nord, rispetto ad est, e sapendo che sen 30° = 0.500 e cos 30° = 0.866, dalle
formule viste poco fa avremo, nella rappresentazione cartesiana:
Vx = V cos(30°) = (500m)(0.866) = 433m (est)
Vy = Vsen(30°) = (500m)(0.500) = 250m (nord)
...da cui è anche possibile tornare indietro e ricavare il modulo e l’angolo (rappresentazione
polare) per mezzo delle trasformazioni:
V = Vx + Vy
2
2
tgθ =
Vy
Vy
→ θ = arctg
Vx
Vx
Moto di un proiettile in due dimensioni
Se l’oggetto è lanciato con un certo angolo iniziale verso l’alto,
l’analisi è simile a quella fatta nel caso precedente ma stavolta è
presente anche una componente verticale della velocità vy0>0 che a
causa della gravità decresce uniformemente fino a quando l’oggetto
raggiunge il punto più alto della traiettoria, dopodichè cresce
nuovamente in modulo e con verso opposto. La componente
orizzontale vx0 resta invece costante come nell’esempio precedente.
Equazioni del moto uniformemente accelerato (a=cost)
in due dimensioni
componente x (orizzontale)
(I-x)
v x = v x 0 + ax t
(II-x)
1 2
x = x 0 + v x 0 t + ax t
2
(III-x) v x 2 = v x 0 2 + 2ax (x − x 0 )
componente y (verticale)
(I-y)
v y = v y 0 + ay t
(II-y)
1 2
y = y 0 + v y 0 t + ay t
2
(III-y) v y = v y 0 + 2ay (y − y 0 )
2
2
Caso particolare:
Equazioni del moto di un proiettile (ax =0, ay = – g = cost)
moto orizzontale, unif. (ax=0, vx=cost.)
moto verticale, unif.accel. (ay= – g)
(I-y)
v y = v y 0 − gt
(II-x) x = x 0 + v x 0 t
(II-y)
1
y = y 0 + v y 0 t − gt 2
2
v x 0 = v 0 cos θ ; v y 0 = v 0 senθ
(III-y) v y = v y 0 − 2g(y − y 0 )
(I-x)
vx = vx0
2
2
Problema concettuale n.1
Un ragazzo su una collina punta la sua fionda caricata con un palloncino ad
acqua orizzontalmente verso un secondo ragazzo che fa da bersaglio
(poverino!) e che sta appeso al ramo di un albero (non avendo evidentemente
di meglio da fare!). Nell’istante in cui il palloncino viene lanciato, il ragazzobersaglio, pensando di fare una furbata e di evitare così di essere colpito,
abbandona istintivamente la presa e si lascia cadere dal ramo...
Ha fatto bene o ha fatto male
a mollare la presa?
Ha fatto malissimo!
Problema concettuale n.2
Una bambina è seduta su un carretto che si
muove verso destra con velocità costante. La
bambina stende la mano e lancia una mela
verticalmente verso l’alto (nel suo sistema di
riferimento), mentre il carretto continua a
muoversi con velocità costante.
Trascurando l’attrito dell’aria, la mela cadrà
(A) dietro il carretto, (B) sul carretto, (C)
davanti al carretto?
Suggerimento
Ragionare ponendosi nel sistema di
riferimento del terreno...
La risposta corretta è la B!
La Prima Legge della Dinamica
Isaac Newton riconobbe subito l’importanza del concetto di inerzia, cioè di
questa tendenza di un oggetto a mantenere il suo stato di quiete o di moto
rettilineo, tanto che nei suoi famosi “Principia Mathematica” (1687),
opera che per trecento anni costituì la base della Meccanica classica,
promosse il principio di inerzia a Prima Legge della Dinamica.
L’enunciato originale della prima legge di Newton (o Principio di Inerzia) è
quindi: Ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo
uniforme fino a quando non agisca su di esso una forza risultante diversa
da zero.
Esempio concettuale
Uno scuolabus fa una brusca frenata e tutti gli zaini
appoggiati sul pavimento scivolano in avanti. Quale
forza produce questo movimento?
Non è una forza a causare lo slittamento ma l’inerzia
degli zaini, che tendono a mantenere la velocità che
avevano prima della frenata!
La Massa
Di solito il termine “massa” viene usato come sinonimo di “quantità di materia”, ma è meno
ambiguo definire la massa di un corpo come una misura della sua inerzia, cioè una misura
della resistenza che il corpo oppone al tentativo di modificarne il moto: maggiore è tale inerzia,
maggiore sarà la massa del corpo!
Massa e Peso
L’unità di misura della massa nel Sistema Internazionale (SI) è,
come sappiamo, il kilogrammo (kg). Ma bisogna stare attenti a non
confondere la massa di un oggetto con il suo peso: infatti la massa è
una proprietà intrinseca dell’oggetto (essendo legata alla sua
quantità di materia o alla sua inerzia) mentre il peso è – come
vedremo – una forza, cioè la forza di gravità che agisce sull’oggetto
a causa dell’attrazione gravitazionale esercitata dalla Terra, e dunque
dipende dall’entità di tale forza di attrazione.
Ne consegue che se ad
esempio portassimo un
corpo sulla Luna, la sua
massa resterebbe la stessa
mentre il suo peso
risulterebbe essere un
sesto di quello misurato
sulla Terra!
La Seconda Legge della Dinamica
Dalla prima legge della dinamica abbiamo appreso che una forza netta non nulla applicata ad
un corpo deve modificarne necessariamente la velocità, cioè provocare un cambiamento del
modulo, della direzione o del verso del vettore velocità.
Dunque l’azione di una forza produce una accelerazione.
Ma qual’è la relazione funzionale esatta tra forza e accelerazione?
Da semplici esperimenti è possibile verificare che applicando una forza doppia ad un certo
oggetto, l’accelerazione prodotta sarà due volte più grande, applicando una forza tripla,
l’accelerazione sarà tre volte più grande, e così via. Quindi è facile convincersi che
l’accelerazione di un corpo (e non la sua velocità, come pensava Aristotele!) è
proporzionale alla forza risultante ad esso applicata.
Ma è facile convincersi che l’accelerazione prodotta da una forza dipende
anche dalla massa dell’oggetto a cui è applicata: a parità di forza risultante,
infatti, più grande è la massa minore sarà l’accelerazione osservata. Quindi
l’accelerazione di un corpo è inversamente proporzionale alla sua massa.
Basandosi su queste evidenze Newton enunciò e formalizzò
matematicamente la sua celebre seconda legge della dinamica:
La forza netta agente su un corpo è uguale al prodotto
della sua massa m per l’accelerazione assunta dal corpo.
La Terza Legge della Dinamica
La seconda legge della dinamica, o seconda legge del moto di Newton, descrive
quantitativamente come le forze influenzano il moto. Ma come si originano le forze?
L’osservazione mostra che ogni volta che un corpo esercita
una forza su un secondo corpo, il secondo esercita sul primo
una forza uguale in modulo e direzione ma di verso
opposto. Ad esempio, se premete la vostra mano contro lo
spigolo del banco che avete di fronte, sentirete che il banco
esercita sulla vostra mano una forza esattamente uguale e
contraria. E più forte premerete contro il banco, più forte
sarà la reazione che il banco opporrà alla vostra spinta.
La terza legge della dinamica formulata da Newton,
conosciuta anche come “Principio di azione e reazione”,
sintetizza queste osservazioni ed afferma che: Ad ogni azione
corrisponde una reazione uguale ed opposta.
Il Principio di Azione e Reazione
Ma allora sorge spontanea una domanda: come mai, se ad ogni forza applicata ne
corrisponde un’altra uguale ed opposta, queste due forze non si annullano tra di loro?
Pensate a cosa accade quando una pattinatrice sul ghiaccio
esercita una forza (spinta) su un muro per ricevere a sua
volta una spinta all’indietro da parte del muro: come mai
queste due forze uguali ed opposte non si elidono per
dare una risultante vettoriale nulla come accadeva invece
nell’esempio del libro spinto sul tavolo, dove la spinta e
l’attrito si annullavano permettendo al libro di muoversi a
velocità costante?
Semplicemente perchè mentre nel caso del libro entrambe le
forze in gioco, la spinta e l’attrito, agiscono sul libro e
dunque è lecito sommarle, le forze in gioco nell’esempio
della pattinatrice sono esercitate su oggetti diversi (il muro
e la pattinatrice) e dunque non possono essere sommate!
Importante: due o più forze possono essere sommate vettorialmente tra loro solo ed
esclusivamente se agiscono sullo stesso corpo.
Il Principio di Azione e Reazione
Perchè se il principio di azione e reazione è perfettamente simmetrico, quando una bambina
imprime al terreno una spinta per giocare a saltare con la corda è lei a spostarsi verso l’alto e
non è invece la Terra a spostarsi verso il basso?
seconda legge

FBT

FTB

F

→ aB = BT
mB

FTB

→ aT =
mT
mT >> mB → aT << aB
Verso una legge della Gravitazione Universale...
La leggenda narra che Newton, mentre guardava la Luna
seduto sotto un albero nel suo giardino, sia stato colpito da una
mela caduta dall’albero e abbia esclamato: “Una mela?
Strano, io sono seduto sotto un pero!”
Pero o melo che fosse, il colpo però evidentemente gli fece
bene perchè subito dopo ebbe la geniale intuizione che sia
proprio la forza di gravità della Terra, che si sapeva già essere
responsabile dell’accelerazione (g=9.80m/s2) verso il basso che
subiscono tutti i corpi sulla superficie del nostro pianeta, a
trattenere la Luna nella propria orbita. E fu questa ispirazione a
permettergli di elaborare le idee che lo portarono a sviluppare
la sua teoria della gravitazione universale.
Il problema, a quei tempi, era che si aveva difficoltà ad
accettare l’idea di un’interazione a distanza, cioè di una forza
che si esercita tra due corpi senza che questi vengano in
qualche modo, direttamente o indirettamente, a contatto.
Newton invece affermava proprio questo, che la gravità agisse
tra due corpi anche senza contatto, e anche se questi due
corpi sono molto distanti tra loro, come ad esempio la Terra e
la Luna.
Verso una legge della Gravitazione Universale...
Dalla cinematica del moto circolare uniforme sappiamo che
l’accelerazione centripeta della Luna, dovuta alla forza di gravità della
Terra (che quì gioca quindi il ruolo di forza centripeta), è pari a 2.72 *10-3
m/s2, che equivale a circa 1/3600 g : ciò significa che l’accelerazione
della Luna verso la Terra è circa 1/3600 dell’accelerazione di un oggetto
sulla superficie terrestre.
Dai suoi calcoli Newton si accorse che la distanza della Luna dalla Terra,
pari a 384000 km, equivale a circa 60 volte il raggio terrestre (6380 km), e
che dunque la Luna è 60 volte più lontana dal centro della Terra di quanto
lo sia un oggetto dalla superficie terrestre. Ma 60*60=3600, che è l’inverso
del numero trovato prima in riferimento all’accelerazione: una bella
coincidenza!
Noi ci saremmo giocati il numero al superenalotto, ma poichè ai suoi
tempi il superenalotto non era ancora stato inventato, Newton si limitò a
dedurne che la forza gravitazionale esercitata dalla Terra sulla Luna
doveva decrescere con il quadrato della distanza dal centro della
Terra. Inoltre, a Newton sembrò verosimile che tale forza di attrazione
fosse proporzionale non solo alla massa della Luna ma, per la sua terza
legge della dinamica, anche a quella della Terra.
La Legge di Gravitazione Universale
Mettendo assieme tutte queste intuizioni e deduzioni, ed estendendole audacemente dal caso
Terra-Luna al caso di due corpi qualunque dell’Universo, dotati di masse m1 ed m2 e posti ad
una distanza reciproca r , Newton enunciò (sempre nei “Principia Mathematica” del 1687) la
sua celebre legge di gravitazione universale:
Ogni corpo dell’Universo attrae ogni altro corpo con una forza, agente lungo la linea che
congiunge i centri dei due corpi, la cui intensità è direttamente proporzionale al prodotto
delle rispettive masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra di esse:
m1m2
F=G 2
r
Ovviamente il valore della costante di proporzionalità G, detta costante di gravitazione
universale, non poteva essere ricavato per deduzione ma solo sperimentalmente, anche se si
sapeva che doveva essere molto piccolo, in quanto normalmente non notiamo nessuna
attrazione tra due oggetti di dimensioni ordinarie ma solo tra gli oggetti e la Terra, che ha una
massa enormemente maggiore.
Solo nel 1798, circa 100 anni dopo l’enunciazione da parte di Newton, il fisico
inglese Henry Cavendish riuscì a confermare sperimentalmente l’ipotesi di
Newton e a determinare con sufficiente precisione il valore della costante G.
Il suo valore oggi comunemente accettato è: G = 6.67*10-11 Nm2/kg2.
Esercizio
I due ragazzi in figura sono evidentemente attratti l’uno dall’altra
e ci chiediamo se questa forza di attrazione possa essere di natura
gravitazionale. A tale scopo, stimiamo l’ordine di grandezza
dell’intensità della forza gravitazionale che essi esercitano l’uno
sull’altra, sapendo che le loro masse sono m1=75kg ed m2=50kg e
supponendo che la loro distanza reciproca sia r=0.5m (anche se
quest’ultima, come si vede in figura, sembrerebbe in procinto di
tendere a zero...)
Arrotondando G a 10-10 Nm2/kg2, ed utilizzando la legge di
gravitazione universale di Newton, avremo:
F=G
m1m2
−10
2
2 (50kg)(75kg)
−6
≈
(10
Nm
/kg
)
≈
10
N
2
2
r
(0.5m)
che è un’intensità troppo piccola per poter essere apprezzata.
Ne concludiamo che la forte attrazione sperimentata dai due ragazzi non deriva sicuramente
dalla forza gravitazionale ma da qualche altro tipo di forza difficile da calcolare
matematicamente. Ad ogni modo, da ipotesi empiriche su come evolverà la faccenda,
potremmo forse supporre che sia in azione una legge di gravidazione universale...
La Legge di Gravitazione Universale
Utilizzando la legge di gravitazione universale possiamo finalmente comprendere per via
analitica perchè l’accelerazione di gravità g sulla superficie terrestre non dipende dalla
massa dei corpi in caduta libera, come aveva intuito Galileo per via sperimentale.
Se infatti scriviamo la seconda legge di Newton in modo da ricavare l’accelerazione g a cui è
soggetto un corpo di massa m sulla superficie terrestre a causa della forza di gravità FG, di cui
ormai conosciamo l’espressione dalla legge di gravitazione universale, avremo:
FG = mg → g =
FG
mm 1
m
→ g = G 2T
→ g = G T2
m
rT m
rT
dove mT e rT sono, rispettivamente, la massa e il raggio della Terra, e dove si è supposto che la
massa inerziale, quella che compare nel prodotto mg, e la massa gravitazionale, quella che
compare nell’espressione di FG, siano equivalenti (supposizione corroborata dai dati
sperimentali ed utilizzata da Einstein nella nota forma del “principio di equivalenza”, che sta
alla base della teoria della Relatività Generale).
In realtà, una volta misurato G, e sapendo che g = 9.80 m/s2, fu lo
stesso Cavendish ad utilizzare l’equazione appena ottenuta per
stimare la massa della Terra, fino ad allora sconosciuta:
grT 2 (9.80m /s2 )(6.38 ⋅10 6 m) 2
→ mT =
=
= 5.98 ⋅10 24 kg
−11
2
2
G
6.67 ⋅10 Nm /kg
La Legge di Coulomb
Abbiamo visto dunque che le cariche elettriche sono di due tipi e interagiscono
mediante una forza elettrica che può essere sia attrattiva che repulsiva. Il primo a
determinare con precisione l’espressione esatta dell’intensità della forza elettrica fu
l’ingegnere e fisico francese Charles-Augustin Coulomb, il quale verso la fine del
XVIII secolo eseguì una serie di esperimenti con una bilancia di torsione simile a
quella usata da Cavendish per determinare il valore della costante di Gravitazione Charles Coulomb
(1736-1806)
Universale.
Per mezzo dei suoi esperimenti con la bilancia di torsione Coulomb si rese
conto che il modulo della forza elettrica che un corpo di carica Q1 esercita su
un secondo corpo di carica Q2, di piccole dimensioni, era direttamente
proporzionale alla carica esistente su ciascuno dei due corpi mentre era
inversamente proporzionale al quadrato della distanza r tra i loro centri. Da
ciò dedusse immediatamente che la forma funzionale dell’intensità della
forza elettrica dovesse essere del tipo:
F=k
Q1 ⋅ Q2
r2
con k costante di proporzionalità: è questa la famosa Legge di Coulomb, che
fornisce appunto il valore del modulo della forza elettrica che si esercita tra
due corpi carichi. La direzione della forza è quella della retta congiungente i
due corpi laddove il verso dipende invece, come sappiamo, dal segno delle
cariche: se i segni delle cariche sono concordi i corpi si respingono (dunque
i vettori della forza elettrica punteranno all’esterno come nelle figure a e b)
mentre se sono discordi i corpi si attraggono (e i vettori della forza elettrica
punteranno l’uno verso l’altro, all’interno, come in figura c).
Coulomb versus Newton
F=k
Q1 ⋅ Q2
r2
F=G
m1 ⋅ m2
r2
Il Campo Elettrico
Abbiamo visto che una delle proprietà comuni sia all’interazione gravitazionale che a quella
elettrostatica è la cosiddetta “azione a distanza”, cioè la capacità di tali tipi di forze di esercitare
attrazione o repulsione senza bisogno di un contatto diretto tra gli oggetti coinvolti nell’interazione
(come invece accade per le forze più comuni con cui abbiamo a che fare, tipo la forza di attrito,
quella esercitata da una mano che tira o che spinge, o da una racchetta che colpisce la palla, etc.).
Ma come è possibile esercitare una azione a distanza?
Già Newton e Cartesio avevano qualche problema ad accettare l’esistenza di una
interazione che, come quella gravitazionale, sembrava avvenire istantaneamente,
indipendentemente dalla distanza e in assenza di un mediatore noto. Fu per rimediare
a un tale disagio che nella prima metà dell’800 lo scienziato britannico Michael
Faraday introdusse, nello studio dei fenomeni elettromagnetici, il celebre concetto
di “campo”, che poi si è rivelata essere una idee delle più fruttuose nella storia della
fisica moderna.
Michael Faraday
(1791-1867)
Faraday suggerì che ogni carica elettrica Q producesse attorno a sè un
“campo elettrico” che pervade l’intero spazio (vedi figura), e dunque
una seconda carica che venisse posta in un punto P nelle vicinanze di Q
risentirebbe della forza elettrica esercitata su di essa non già direttamente
dalla carica Q ma indirettamente dal campo elettrico prodotto da Q: in
questa descrizione dell’interazione elettrostatica, quindi, le cariche non
interagiscono più direttamente tra loro ma attraverso la mediazione
dei campo elettrico da esse generato, campo che sarà tanto più intenso
quanto più ci si trova nelle vicinanze della carica che lo ha prodotto.
Lavoro compiuto da una Forza Costante
Il termine “lavoro” in fisica assume un significato molto preciso
che elimina le ambiguità legate all’uso dello stesso termine nel
linguaggio naturale.
Il lavoro W compiuto da una forza costante F su un oggetto
qualunque è definito come il prodotto del modulo dello
spostamento d per la componente della forza parallela allo
spostamento stesso:
W = F|| d
Supponendo che la forza costante F formi un angolo θ con la direzione dello spostamento, la
componente ad esso parallela sarà uguale
  a F|| = F cosθ e dunque potremo scrivere, utilizzando la
notazione del prodotto scalare: W = F ⋅ d → W = (F cos θ )d = F|| d
Nelle unità di misura del SI
(MKS) il lavoro si misura in
Joule (J): 1J = 1N * 1m .
Nel sistema CGS invece si misura
in erg: 1erg = 1dyna * 1cm.
James Joule
Prodotto scalare di due vettori
La relazione appena trovata, W = Fd cos θ , è una relazione scalare che in realtà deriva dalla
definizione più generale di lavoro, una definizione che fa uso della nozione di prodotto
scalare tra due vettori.
→
→
Dati due vettori a e b, di moduli rispettivamente a e b e
che formano un angolo Φ (< 180°) l’uno rispetto all’altro,
il loro prodotto scalare è definito dall’espressione:
 
a ⋅ b = abcosφ
Tale prodotto si legge “a scalar b” ed evidentemente dà come risultato uno scalare, cioè un
valore numerico che dipende dal valore dei moduli a e b e dal valore del coseno dell’angolo
Φ (che è compreso tra 1 e –1).
Al variare dell’angolo Φ avremo dunque:
 
φ = 0° → cosφ = 1 → a ⋅ b = ab > 0
 
φ = 180° → cosφ = −1 → a ⋅ b = −ab < 0
 
φ = 90° → cosφ = 0 → a ⋅ b = 0
Φ
Φ
Φ
Lavoro compiuto da una Forza Costante
Se un uomo è fermo in attesa dell’ascensore con un pesante pacco in mano,
il senso comune ci direbbe che sta compiendo lavoro, ma se siete stati
attenti a quanto detto finora avrete capito che dal punto di vista della fisica
l’uomo... non compie alcun lavoro!
Infatti, nostante egli eserciti una forza FP diretta verso l’alto per contrastare
la forza peso (e quindi, dal suo punto di vista, sta certamente faticando!),
essendo il suo spostamento nullo (d=0) la fisica ci dice che W = 0.
Ma la cosa strana è che, a ben guardare, l’uomo non ha compiuto
lavoro nemmeno durante il tragitto nel quale ha trasportato il
pacco camminando a velocità costante dal supermercato
all’ascensore... Perchè???
θ=90°
Semplicemente perchè durante il tragitto la
forza applicata è sempre perpendicolare
allo spostamento e dunque, come appena
visto, si ha cos90°=0, cioè W=Fdcos90°=0 e
la forza non compie lavoro!
Lavoro ed Energia Cinetica
Riassumendo, quindi, possiamo considerare il lavoro come una forma
di energia in transito da un oggetto ad un altro (un po’ come il denaro
transita da un conto corrente ad un altro). Infatti un lavoro totale
positivo su un oggetto fa aumentare la sua energia cinetica (proprio
come un versamento di denaro fa aumentare il saldo di un conto
corrente), mentre un lavoro totale negativo la fa diminuire (come un
prelievo fa diminuire il saldo di un conto corrente). Se invece il lavoro
totale su un oggetto è nullo, la sua energia cinetica resta costante, e
quindi resta costante anche la sua velocità.
Dalla definizione di energia cinetica K =
1 2
mv ricaviamo che:
2
1) l’energia cinetica, nel SI, viene misurata con la stessa unità di misura del lavoro, cioè in
Joule, come del resto è naturale che sia, visto che il lavoro è energia in transito. Infatti
dall’analisi dimensionale dell’espressione di K si ricava che: [K] = [m][v]2 = kg m2/s2 = Joule
2) l’energia cinetica è direttamente proporzionale alla massa ma direttamente proporzionale
al quadrato della velocità: ciò significa che, se la massa di un corpo raddoppia, la sua
energia cinetica raddoppia, ma se è la velocità del corpo a raddoppiare, la sua energia
cinetica diventa quattro volte maggiore: il corpo sarà quindi in grado di compiere un lavoro
quattro volte maggiore (e, se si tratta ad es. di un’auto che urta contro un altra auto, dei
danni quattro volte maggiori!)
Energia Potenziale
Come abbiamo visto, l’energia cinetica posseduta da un corpo dipende esclusivamente dalla
sua massa e dalla sua velocità, quindi essa è presente in ogni corpo in movimento a
prescindere dall’esistenza o meno di altre forze che agiscono sul corpo stesso.
Esiste invece un’altra fondamentale forma di energia legata alla capacità di un corpo di
compiere lavoro a causa della sua configurazione o della sua posizione rispetto ad altri corpi:
questa forma di energia si chiama energia potenziale e, pur essendo anch’essa legata alla
capacità di un corpo la sua definizione varia a seconda del tipo di forza da cui essa trae origine.
Un tipico esempio di energia potenziale (legata alla configurazione) è quella associata ad una
molla compressa: in questo caso, finchè la molla è tenuta in compressione (b), essa non si
muove, quindi non possiede energia cinetica, ma è comunque potenzialmente in grado di
compiere lavoro, come diventa chiaro non appena si lascia la molla libera di espandersi (c) e di
trasmettere energia cinetica ad altri corpi eventualmente a contatto con essa.
Ad esempio, la molla di un giocattolo a carica acquista la sua energia
potenziale grazie al lavoro che viene compiuto su di essa da chi carica il
giocattolo per mezzo della chiavetta. Dopodichè, quando la molla si svolge,
essa restituisce l’energia potenziale immagazzinata esercitando a sua volta
una forza e compiendo così il lavoro necessario per far muovere il giocattolo.
Energia Potenziale Gravitazionale
L’esempio più comune di energia potenziale è comunque quello di energia potenziale
gravitazionale, cioè di quell’energia potenziale associata all’azione della forza di gravità.
Se infatti consideriamo un mattone tenuto fermo
dalla nostra mano ad una certa altezza h dal suolo,
esso possiede evidentemente una certa energia
potenziale, in quanto se lasciato libero di muoversi,
esso cadrà verso il suolo acquisendo velocità e
dunque energia cinetica, e potrà a sua volta
compiere lavoro su un eventuale oggetto su cui
cadrà (ad esempio su un picchetto, piantandolo nel
terreno).
Diversamente da quanto accadeva per la molla, in
questo caso l’energia potenziale del mattone sospeso
è dovuta alla sua posizione rispetto alla Terra, che
esercita su di esso una attrazione gravitazionale.
Potremmo dunque calcolare calcolare l’energia
potenziale gravitazionale del mattone
indirettamente, attraverso una misura del lavoro
necessario a sollevarlo.
Energia Potenziale Gravitazionale
Se adesso lasciamo cadere il mattone da fermo
dall’altezza h sotto l’azione della gravità, un attimo
prima di toccare il suolo esso avrà acquistato una
velocità pari a:
v 2 = 0 + 2g(y 2 − y1 ) = 2gh
e quindi una energia cinetica:
1 2 1
mv = m(2gh) = mgh
2
2
corrispondente alla sua capacità di compiere lavoro.
Quindi il lavoro speso per sollevare il mattone, mgh,
è esattamente uguale al lavoro che esso diventa in
grado di effettuare in virtù della sua posizione
acquisita.
In generale, definiamo allora l’energia potenziale
gravitazionale Ug di un oggetto, dovuta alla gravità
della Terra, come il prodotto del suo peso mg per la
sua quota y al di sopra di una quota di riferimento
(ad esempio il terreno):
U g = mgy
Pietre che cadono
Un semplice esempio di conservazione dell’energia meccanica è dato da una pietra che viene
lasciata cadere da un’altezza h sotto l’azione della gravità:
→ E1 = K1 + U1 =
1
mv12 + mgy1 = 0 + mgy1
2
E1 = E 2 = E
→ E 2 = K2 + U2 =
1
1
mv 2 2 + mgy 2 = mv 2 2 + 0
2
2
Teoria Atomica della Materia
Una delle prove sperimentali più evidenti dell’esistenza degli atomi è il cosiddetto moto
Browniano, scoperto dal botanico britannico Robert Brown nel 1827 mentre osservava al
microscopio il moto di granelli di polline in sospensione nell’acqua i quali, anche se quest’ultima
era apparentemente immobile, si muovevano lungo dei cammini tortuosi. La spiegazione della
teoria atomica è che i grani siano urtati dalle molecole d’acqua in rapido movimento: da quì si
dedusse che gli atomi (o le molecole) di qualunque sostanza devono sempre essere in
movimento o in vibrazione, cosa che avevamo già anticipato parlando degli stati della materia (nel
1905, studiando il moto browniano da un punto di vista teorico, Albert Einstein riusci anche a
calcolare la dimensione degli atomi, il cui diametro tipico è stato valutato in circa 10-10 m).
solidi
U(x)
((
))
((
))
((
))
((
))
liquidi
Moto Browniano
((
((((
))
((
))
((((
gas
Robert Brown
(1773-1858)
La Temperatura
Nel contesto della teoria atomica appena riepilogato diventa immediato fornire una
interpretazione microscopica di una delle grandezze fisiche più importanti, la Temperatura. In
fisica, come nella vita di tutti i giorni, la temperatura è considerata come la misura di quanto un
oggetto è freddo o caldo: infatti diciamo che un oggetto è caldo se ha un’alta temperatura, mentre
è freddo se ha una bassa temperatura.
Ebbene, la teoria atomica ci permette di affermare che la temperatura è una proprietà emergente
legata alla vibrazione o al movimento dei miliardi di atomi e di molecole di cui sono costituite le
sostanze solide, liquide o gassose. Questo significa che i singoli atomi non sono caldi o freddi,
ma si limitano a muoversi o vibrare ad una certa velocità: maggiore è questa velocità, maggiore
sarà la temperatura misurata come effetto collettivo emergente dal moto atomico.
Non c’è da sorprendersi, dunque, che molte delle proprietà della
materia cambino al variare della temperatura. Ad esempio, la maggior
parte dei materiali si espande se viene riscaldata: una barra di ferro è
più lunga quando è calda che non quando è fredda, così come le
strade o i marciapiedi si espandono o si contraggono al cambiare
della temperatura (questo spiega perchè vengano installati spaziatori
comprimibili o giunti espandibili a intervalli regolari lungo le strade o
i binari della ferrovia). Anche la resistenza elettrica di un materiale
(che studieremo più avanti) o il colore irraggiato dagli oggetti
variano con la temperatura: la luce bianca di una lampadina
incendescente proviene da un filo di tungsteno estrememente caldo,
mentre la temperatura del sole e delle altre stelle può essere misurata
dal colore della luce che emettono.
Teoria Cinetica dei Gas Perfetti
Abbiamo già detto più volte che è possibile dare una interpretazione
microscopica della temperatura e della pressione di un gas in termini del
moto frenetico e casuale dei suoi atomi o delle sue molecole e dei loro urti
con le pareti del contenitore: in linea di principio si potrebbe dunque
pensare di applicare le leggi della meccanica classica di Newton alle sia
pur numerosissime (circa 1025/m3, a STP) molecole di un gas perfetto, per
studiare come dal loro moto emergano le caratteristiche macroscopiche (P,
V, T) del sistema considerato.
Il problema è che, attualmente, un tale compito va al di là delle capacità di
qualsiasi moderno computer, dunque per capire come le proprietà
macroscopiche di un gas perfetto emergano dalle caratteristiche
microscopiche delle sue molecole bisogna ricorrere a ragionamenti di tipo
statistico.
Di questo si occupa la cosiddetta “teoria cinetica”, una teoria che a partire da alcune ipotesi
semplificative (cioè che (1) il gas sia, appunto, perfetto, che (2) le sue molecole siano
numerossissime, che (3) obbediscano alle leggi della meccanica classica e che (4) gli urti delle
molecole con le altre molecole o con le pareti del contenitore siano perfettamente elastici e di
breve durata – il che permette di trascurare l’energia potenziale associata alle collisioni) riesce a
ricavare una relazione della massima importanza che lega l’energia cinetica media delle
molecole di un gas alla sua temperatura assoluta.
Equilibrio Termico e Calore
Abbiamo visto che la possibilità di misurare la temperatura di un oggetto con un
termometro è legata all’evidenza sperimentale che, quando due corpi a diverse
temperature vengono posti a contatto, essi raggiungeranno dopo un po’ di tempo
la stessa temperatura: quando ciò avviene diciamo che i due corpi hanno
raggiunto l’equilibrio termico.
Quando mettiamo una pentola piena d’acqua su un fornello acceso, sappiamo che
il calore in qualche modo “fluisce” spontaneamente dalla fiamma del fornello, più
calda, all’acqua della pentola, più fredda, finchè la temperatura di quest’ultima
non diventa sufficiente a portarla all’ebolizzione. Dunque, la temperatura sembra
essere una misura del calore... ma cos’è esattamente il calore?
Poichè esso sembra fluire dai corpi più caldi a quelli più freddi (dal fornello alla pentola, dal Sole alla
Terra, dal nostro corpo al termometro per la febbre), nel XVII-XVIII secolo si pensava che esso fosse
appunto una sostanza fluida, chiamata fluido “calorico”, che con la sua minore o maggiore
concentrazione era responsabile della diversa temperatura dei corpi: si credeva che quando due corpi,
con temperature diverse, vengono messi a contatto, il calorico passasse da quello in cui era più
concentrato all'altro, fino a trovare una condizione di equilibrio ad una concentrazione di fluido
calorico intermedia. Il problema era che però non si riusciva in alcun modo a individuare
sperimentalmente tale fluido!
Il Calore
Nel corso dell’800 cominciò invece a diffondersi l’idea (stavolta corretta) che il
calore fosse una delle forme con cui i corpi si scambiano energia: si capì infatti che,
come il lavoro, anche il calore poteva essere considerato energia in transito da
un corpo all’altro. Mentre però il lavoro può essere considerato un trasferimento
di energia ordinato (potremmo paragonarlo all’azione di un esercito che avanza,
che ha un moto e una forza di impatto ben direzionata), il quale si traduce in un
aumento dell’energia cinetica o potenziale complessiva (macroscopica) degli
oggetti coinvolti, il calore corrisponde a un trasferimento di energia disordinato
(paragonabile all’azione di una folla, dove gli individui si muovono ciascuno in una
direzione diversa), che si traduce in un aumento dell’energia cinetica o potenziale
(microscopica) delle particelle che costituiscono gli oggetti stessi!
Prima che l’idea del calore come scambio di energia si affermasse, il calore veniva misurato in
funzione della sua capacità di innalzare la temperatura dell’acqua: si era introdotta infatti la caloria
(cal), definita come la quantità di calore necessaria ad innalzare la temperatura di 1 grammo
d’acqua da 14.5°C a 15.5°C.
Osservazione 1: la quantità di calore necessaria per innalzare la temperatura di 1 grammo d’acqua in
generale cambia leggermente con la temperatura, ma poichè nell’intervallo 0-100°C la differenza è
inferiore all’1%, di solito si può trascurare tale effetto nella maggioranza dei casi.
Osservazione 2: spesso, invece della caloria, si utilizza la kilocaloria (kcal), che
equivale a 1000 calorie; quindi 1 kcal è il calore necessario a innalzare 1 kg di
acqua di 1°C. Talvolta la kilocaloria è chiamata Caloria (con la “C” maiuscola),
o “grande caloria”, ed è l’unità di misura con cui ancora oggi viene specificato il
valore energetico dei cibi.
Calore ed Energia Interna
Con il suo esperimento Joule svelò dunque definitivamente la vera natura
del calore: il calore non è una sostanza, un fluido calorico e nemmeno una
forma di energia, ma può essere definito come il modo attraverso il quale
l’energia viene trasferita da un corpo più caldo ad un altro più freddo a
causa della loro differenza di temperatura.
Generalizzando questo discorso, possiamo descrivere un certo oggetto o
insieme di oggetti come un sistema che si trova ad una data temperatura Ts
e che interagisce con l’ambiente esterno ad esso, alla temperatura Ta: se Ts
è diversa da Ta, allora Ts si modificherà finchè le due temperature non
saranno uguali (equilibrio termico). Ora sappiamo che tale cambiamento di
temperatura è dovuto al trasferimento di un qualche tipo di energia dal
sistema all’ambiente o viceversa: questa energia è detta “energia interna”,
o a volte anche “energia termica”, ed è data dalla somma delle energie
cinetiche e potenziali associate ai moti casuali degli atomi, delle molecole e
degli altri corpi microscopici all’interno degli oggetti che compongono il
sistema o l’ambiente. Quando viene trasferita, l’energia interna si chiama,
appunto, calore e si indica con il simbolo Q.
Nella situazione (a) della figura quì accanto, Ts>Ta, quindi viene trasferita
energia dal sistema all’ambiente: in questo caso il sistema perde energia
interna e lo scambio di calore si considera negativo, cioè Q<0; nella
situazione (b) Ts=Ta, quindi sistema e ambiente sono già in equilibrio
termico e non c’è scambio di calore, cioè Q=0; infine, nella situazione (c),
si ha Ts<Ta quindi l’energia interna viene trasferita dall’ambiente al
sistema, che guadagna energia e incrementa la propria temperatura: in tal
caso lo scambio di calore si considera positivo, cioè Q>0.
Ricapitolando...
La Termodinamica
Termodinamica è il nome che viene dato allo studio di tutti quesi processi che coinvolgono il
trasferimento di energia sotto forma di calore e di lavoro.
lavoro
Ricordiamo che la differenza tra lavoro e calore sta
nel fatto che il calore è un trasferimento di energia
“disordinato” dovuto ad una differenza di temperatura
mentre il lavoro è un trasferimento di energia
“ordinato” non dovuto ad una differenza di
temperatura ma a cause di origine meccanica.
calore
In termodinamica è d’uso riferirsi spesso all’oggetto o agli oggetti presi in considerazione con il
termine, già incontrato, di “sistema”, mentre tutto ciò che del sistema non fa parte (tutto il resto
dell’Universo) verrà definito con il termine “ambiente esterno”.
Va precisato, quì, che con “sistema aperto” si intende un sistema in grado di scambiare sia energia che
materia con l’ambiente, mentre con “sistema chiuso” un sistema in grado di scambiare con l’ambiente
solo energia ma non materia: molti dei sistemi ideali che si studiano in fisica sono chiusi, mentre la
maggior parte dei sistemi reali, compresi anche piante, animali ed esseri umani, sono aperti, poichè
oltre all’energia scambiano materiali (ossigeno, nutrimento, prodotti di rifiuto) con l’ambiente.
Infine, un sistema che non può scambiare nè energia nè materia con l’ambiente esterno si dice
“isolato”: spesso in termodinamica si fa riferimento a sistemi isolati, anche se l’unico vero sistema
isolato che si conosca è (per definizione!) l’Universo nel suo complesso. Non potendo scambiare con
l’esterno nè materia nè energia, per un sistema isolato vale sempre la conservazione dell’energia, nel
senso che il calore perso da una parte di esso (a maggiore temperatura) deve essere sempre uguale al
calore guadagnato da un’altra parte (a minore temperatura).
Il Primo Principio della Termodinamica
Consideriamo adesso un sistema chiuso, cioè in grado di scambiare solo energia con l’ambiente.
Sappiamo che, dal punto di vista macroscopico, un sistema può possedere energia cinetica (dovuta al
suo eventuale movimento) ed energia potenziale (dovuta ad eventuali forze conservative che agiscono
su di esso), mentre dal punto di vista microscopico esso possiede sicuramente una energia interna (o
termica) dovuta alla somma delle energie cinetiche e potenziali degli atomi e/o delle molecole che lo
compongono. Sappiamo anche che l’energia interna del sistema aumenta se esso assorbe calore e che,
invece, l’energia interna diminuisce se esso perde in qualche modo calore.
Per il principio di conservazione dell’energia meccanica, sappiamo inoltre che il lavoro compiuto su
un corpo è in grado di farne variare in maniera ben definita l’energia cinetica e quella potenziale: a
questo punto potremmo aspettarci, quindi, che se estendiamo il principio di conservazione
dell’energia anche all’energia interna, quest’ultima potrebbe aumentare se viene compiuto lavoro sul
sistema o diminuire se il sistema compie lavoro sull’ambiente.
In effetti è proprio questo ciò che accade in natura e questa nuova formulazione del principio di
conservazione dell’energia, che viene così esteso dai soli fenomeni meccanici anche ai fenomeni
termici, è conosciuta con il nome di primo principio della termodinamica. Esso recita che la
variazione di energia interna ΔE di un sistema chiuso, è uguale all’energia aggiunta al sistema
mediante il calore assorbito meno l’energia persa mediante il lavoro compiuto dal sistema
sull’ambiente esterno. Sotto forma di equazione il primo principio diventa:
ΔE = Q − W
dove Q è il calore complessivo assorbito dal sistema e W il lavoro complessivo compiuto dal sistema.
Occorre fare attenzione ai segni di Q e W perchè se ad esempio W, nell’equazione quì sopra, fosse il
lavoro compiuto sul sistema, esso sarebbe negativo ed E aumenterebbe; e anche Q sarebbe negativo se
fosse il calore ceduto dal sistema.
Il Primo Principio della Termodinamica
Abbiamo detto che il primo principio della termodinamica è nient’altro che il principio di
conservazione dell’energia meccanica esteso anche ai fenomeni termici e a processi termodinamici che
coinvolgono sia il calore che il lavoro. Questi ultimi, lo sappiamo, sono solo modi in cui l’energia
viene trasferita dal sistema all’ambiente o viceversa, e dunque Q e W non sono variabili di stato,
(variabili, cioè, caratteristiche dello stato di un sistema) come invece lo sono la pressione P, il volume
V, la temperatura T, la massa m, il numero di moli n e, ovviamente, l’energia interna E.
Per esprimere il primo principio con un’equazione che sia veramente completa, cioè che includa
oltre al calore, al lavoro e all’energia interna di un sistema anche la sua eventuale energia cinetica (K) e
quella potenziale (U), dovremmo scrivere:
ΔK + ΔU + ΔE = Q − W
Esempio
Un proiettile di 3.0 g che viaggia a 400 m/s perfora il tronco di un albero
ed esce dall’altra parte con una velocità di 200 m/s. Dove è finita l’energia
cinetica persa dal proiettile e quale energia è stata trasferita?
Quì il nostro sistema è formato dal proiettile + l’albero, e in esso non è coinvolta energia potenziale
(quindi ΔU=0). Non viene compiuto lavoro su (o dal) sistema da parte di forze esterne (W=0), nè vi è
aggiunta di calore dall’esterno, poichè non vi è trasferimento di energia da o per il sistema dovuto ad
una differenza di temperatura (Q=0). In sostanza, quello che accade è che l’energia cinetica del
proiettile si trasforma in energia interna (energia termica) del proiettile e dell’albero; infatti il primo
principio della termodinamica ci dice che:
1
1
ΔK + ΔE = 0 → ΔE = −ΔK = −(K f − K i ) = m(v i2 − v 2f ) = (3.0 ⋅10 −3 kg)[(400m /s) 2 − (200m /s) 2 ] = 180J
2
2
Dunque, le energie interne di proiettile ed albero crescono entrambe, ed entrambi subiscono un
aumento di temperatura. Se avessimo scelto come sistema il solo proiettile, allora sarebbe stato
compiuto lavoro su di esso e vi sarebbe stato trasferimento di calore.
Il Secondo Principio della Termodinamica
Abbiamo visto che il primo principio della termodinamica stabilisce che l’energia totale (meccanica +
termica) di un sistema chiuso si conserva durante qualsiasi trasformazione di stato. Esso non spiega
però come mai in natura si osservino, ad esempio, solo trasformazioni in cui il calore fluisce dagli
oggetti più caldi a quelli più freddi e perchè non possa avvenire spontanemante il contrario (nel qual
caso l’energia totale continuerebbe ancora comunque a conservarsi).
Esistono moltissimi esempi in natura di trasformazioni che avvengono solo in un senso ma mai nel
senso inverso: perchè quando mettiamo una pentola sul fuoco il calore passa dal fuoco alla pentola e
non viceversa? perchè un sasso che cade a terra dall’alto si riscalda a causa del’urto col terreno, ma
un sasso che si trova già a terra, se riscaldato, non si solleva? Perchè i vasi di vetro si rompono in
mille pezzi, mentre mille pezzi di vetro non si ricompongono mai spontaneamente a formare un vaso?
Perchè se mettete il caffè nel latte e mescolate ottenete un caffellatte, ma se mescolate un caffellatte
non otterrete mai spontaneamente la separazione tra latte e caffè?
In tutti questi esempi, il primo principio della termodinamica non sarebbe violato da nessuna delle
trasformazioni inverse, ma esse non avvengono comunque perchè in tal caso sarebbe violato un altro,
secondo e fondamentale, principio della termodinamica, formulato dai fisici nella seconda metà
dell’Ottocento. Esso può essere enunciato in molti modi diversi ma equivalenti, uno dei quali è quello
dovuto al fisico tedesco R.J.E. Clausius (1822-1888) e che sembra quasi tautologico: “Il calore fluisce
naturalmente da un oggetto caldo a uno freddo, ma non fluisce spontaneamente da un oggetto
freddo a uno caldo”. La domanda resta però ancora la stessa di prima: perchè questo avviene?
L’Entropia
La formulazione però forse più nota del secondo principio della termodinamica non ha a che fare
esplicitamente con le macchine termiche, bensì con una grandezza fisica molto importante ed
affascinante, la cosiddetta entropia: “In qualsiasi trasformazione spontanea, l’entropia totale, cioè
l’entropia di un sistema più quella dell’ambiente, aumenta sempre”.
Ma che cos’è l’entropia?
Il concetto di entropia fu introdotto da Clausius nel 1860 ed è essenzialmente una
misura del disordine di un sistema fisico. Dato un sistema ad una certa
temperatura, volume, pressione ed energia interna, esso avrà anche una dato valore Rudolf Clausius
dell’entropia S, che è anch’essa una variabile di stato del sistema e la cui
(1822-1888)
variazione è in relazione termodinamica con il calore Q fornito al sistema per
Q
mezzo di una trasformazione reversibile a temperatura T costante (in Kelvin):
→ ΔS =
T
Contrariamente alle leggi di conservazione viste finora, il secondo principio della termodinamica ci
dice che l’entropia di un sistema isolato non solo non si conserva ma addirittura cresce sempre,
cioè si ha sempre ΔS > 0 (solo nelle trasformazioni ideali si può avere, al limite, ΔS=0). La ragione di
ciò risiede nella definizione di entropia come misura del disordine di un sistema, e spiega
definitivamente perchè il calore fluisce dai corpi più caldi a quelli più freddi, perchè i vasi rotti non si
ricompongono da soli o perchè il latte e il caffè, una volta mescolati, non si separano mai
spontaneamente (in utima analisi, spiega cioè perchè esiste la cosiddetta “freccia del tempo”): tutto
ciò succede per motivi statistici, cioè semplicemente perchè il passaggio dall’ordine al disordine è
molto, ma molto, più probabile del passaggio dal disordine all’ordine. Dunque in natura
avvengono spontaneamente solo processi che fanno aumentare il disordine di un sistema, cioè ne
fanno aumentare l’entropia!
La Corrente Elettrica
Fino al 1800 la tecnologia coinvolta nello studio dell’elettricità era molto
primitiva e gli scienziati si limitavano a produrre elettricità statica mediante
strofinio dei corpi. Tutto cambiò all’improvviso quando nel 1801 il già citato
Alessandro Volta presentò a Napoleone la sua pila elettrica, una batteria che
si dimostrò in grado di produrre per la prima volta un flusso continuo di
carica, cioè quella che oggi chiamiamo una corrente elettrica continua.
Abbiamo già mostrato che, in condizioni statiche, all’interno di un conduttore il campo elettrico è
nullo: in caso contrario, dicevamo, le cariche (gli elettroni) presenti nel conduttore dovrebbero
muoversi. Rovesciando il discorso, appare chiaro che per mettere in moto le cariche all’interno di un
conduttore e per poi continuare a mantenerle in moto, è necessaria la presenza di un campo elettrico e
dunque di una differenza di potenziale (tensione): collegando ai poli di una pila elettrica le estremità
di un filo di materiale conduttore (filo elettrico) si ottiene infatti una corrente di cariche in
movimento e, dunque, quello che generalmente viene chiamato un “circuito elettrico”, al quale è
possibile collegare poi un qualunque dispositivo elettrico (una lampadina, una stufa, una radio, etc.)
La corrente elettrica che fluisce nel filo viene definita come la
quantità di carica ΔQ che attraversa la sezione trasversale del
filo nell’unità di tempo, cioè:
I=
ΔQ
Δt
La sua unità di misura sarà dunque il
Coulomb al secondo, detto Ampère (A):
1 A = 1 C/s
Il Magnetismo
La storia del magnetismo ha inizio alcune migliaia di anni fa in Asia minore dove,
in una regione greca chiamata Magnesia, furono scoperte alcune rocce in grado di
attrarsi reciprocamente, alle quali fu dato il nome di “magneti”.
Lo stretto legame tra il magnetismo e l’elettricità fu però scoperto solo nel corso del XIX secolo,
quando ci si accorse che le correnti elettriche sono in grado di produrre effetti magnetici proprio
come i magneti: oggi moltissimi dispositivi di uso comune sfruttano le proprietà magnetiche
dell’elettricità, dai motori agli altoparlanti, dalle memorie dei calcolatori ai generatori elettrici.
Tutti abbiamo avuto esperienza di come una calamita (un esempio tipico di magnete) sia
in grado di attrarre piccoli oggetti di ferro. Qualunque sia la sua forma, un magnete
possiede sempre due estremità, dette poli, dove gli effetti magnetici sono più evidenti.
L’ago magnetico di una bussola ne è un esempio: una delle sue estremità tende a puntare verso il
polo nord terrestre, e per questo viene detta “polo nord” (N) del magnete, mentre l’altra viene detta
“polo sud” (S).
Tra i poli di un magnete si genera un’interazione che può essere sia attrattiva
che repulsiva ed esiste anche se i magneti non vengono a contatto (azione a
distanza): in analogia a quanto accade per le cariche elettriche, si verifica
sperimentalmente che poli magnetici dello stesso tipo si respingono mentre
poli magnetici opposti si attraggono.
Ma i poli magnetici differiscono dalle cariche per una loro caratteristica molto
importante e per certi versi strana: spezzando una barretta magnetica non si
ottengono un polo nord e un polo sud separati, bensì si ottengono due nuovi
magneti completi, ciascuno dotato di un polo nord e un polo sud, e così via.
Un polo magnetico isolato (monopòlo) non è ancora stato osservato in natura!
Relazioni tra fenomeni elettrici e magnetici
Nelle lezioni precedenti abbiamo mostrato che i fenomeni elettrici e quelli magnetici sono in
stretta relazione gli uni con gli altri. In particolare abbiamo visto che:
( 1 ) l e c o r re n t i e l e t t r i c h e
producono campi magnetici:
Filo elettrico
rettilineo infinito

B
r
(2) i campi magnetici esercitano
una forza sulle cariche
elettriche in moto o sui
conduttori percorsi da corrente:
Solenoide o Bobina
ad N spire

 
F = qv × B
.P
  
F = Il × B
Magnetismo nella Materia
A questo punto diventa immediato comprendere da cosa ha origine il
atomo
magnetismo nella materia e quali sono le sue proprietà. Infatti, da un punto di

vista miscroscopico, è plausibile pensare che ogni atomo possegga delle
m
e
proprietà magnetiche a causa del movimento degli elettroni intorno al nucleo,
movimento che costituisce a tutti gli effetti una corrente: in questo ciascun
atomo si comporterebbe
come una minuscola spira dotata di un momento di

i
dipolo magnetico m e associato al moto orbitale degli elettroni (si consideri che
il moto di un singolo elettrone e– equivale ad una corrente i, circolante nel verso

ems
opposto al senso di rotazione dell’elettrone, di circa 1.6*10-3 A, in grado di
generare un campo magnetico di 20 T al centro dell’atomo!).
In realtà i momenti magnetici orbitali degli elettroni di un atomo multielettronico, non essendo le orbite
dei vari elettroni complanari tra loro, tendono ad annullarsi reciprocamente. Ogni elettrone però possiede
un altro momento magnetico legato al suo cosiddetto spin, che è una proprietà quantistica intrinseca
classicamente interpretabile come dovuta ad una rotazione dell’elettrone su se stesso. Di solito gli
elettroni hanno, a coppie, spin antiparalleli che ancora
 una volta si compensano, ma gli atomi con un
elettrone “spaiato” mantengono un momento di spin m s dello stesso ordine di quello orbitale.
Sostanze come il ferro, il cobalto o il nichel, sono dette
ferromagnetiche e sono utilizzate per costruire magneti
permanenti: esse sono caratterizzate da momenti magnetici
atomici di spin che normalmente sono disallineati (figura a
sinistra) ma che in presenza di un campo magnetico esterno
anche molto debole tendono ad allinearsi producendo una
materiale
magnetizzazione macroscopica del materiale, che permane
ferromagnetico a lungo anche una volta che il campo viene rimosso.
L’Induzione Elettromagnetica
Per approfondire questa sensazionale scoperta, Faraday condusse ulteriori esperimenti che mostrassero
in azione il fenomeno dell’induzione elettromagnetica. Un esperimento tipico consiste ad esempio
nell’introdurre rapidamente un magnete all’interno di una spira collegata ad un galvanometro e
verificare come la conseguente rapida variazione del campo magnetico intercettato dalla spira sia in
grado di indurre in essa una f.e.m., e dunque una corrente, rivelata da uno spostamento verso destra
dell’ago del galvanometro (a). Analogamente, allontanando bruscamente il magnete dalla spira, si
osserverà uno spostamento dell’ago del galvanometro nella direzione opposta, indizio di una corrente
indotta che circola nella spira in senso opposto rispetto al caso precedente (b). Infine, mantenendo
magnete e spira a riposo l’uno rispetto all’altro non si osserverà alcun passaggio di corrente e l’ago
del galvanometro resterà fisso sullo zero (c). Ovviamente i risultati di questo esperimento sarebbero
esattamente gli stessi se a muoversi fosse la spira piuttosto che il magnete: quello che conta, ai fini
dell’induzione di una f.e.m., è solo il moto relativo dell’uno rispetto all’altra!
Le Equazioni di Maxwell nel vuoto
1) Legge di Gauss
per il Flusso Elettrico
3) Legge dell’induzione
di Faraday
 
dΦ B
∫ E ⋅ dl = − dt
  Q
∫ E ⋅ dA = ε 0
2) Legge di Gauss
per il Flusso Magnetico
 
∫ B ⋅ dA = 0
James Clerk Maxwell
(1831-1879)
4) Legge di Ampère
generalizzata
 
dΦ E
∫ B ⋅ dl = µ0I + µ 0ε 0 dt
Le equazioni scritte sopra sono le equazioni di Maxwell in forma integrale valide nel vuoto, cioè in
assenza di materiali dielettrici o magnetici. In ulteriore assenza di cariche (Q=0) e di correnti (I=0), le
equazioni di Maxwell finiscono per dipendere solo dalla presenza di campi elettrici e magnetici variabili
ed assumono una forma ancora più semplice e simmetrica:
1) Legge di Gauss
per il Campo Elettrico
 
∫ E ⋅ dA = 0
2) Legge di Gauss
per il Campo Magnetico
 
∫ B ⋅ dA = 0
3) Legge di Faraday
 
dΦ B
E
⋅
d
l
=
−
∫
dt
4) Legge di Ampère-Maxwell
 
dΦ E
B
⋅
d
l
=
µ
ε
0 0
∫
dt
La Luce come Onda Elettromagnetica
Ed ecco il colpo di scena: questa velocità trovata da Maxwell, che poteva essere riscritta così
2.99792 ⋅10 8 m /s ≈ 3.00 ⋅10 8 m /s = 300000 km /s
corrispondeva ad una velocità già ai suoi tempi sperimentalmente ben nota....
Maxwell aveva dunque scoperto che la luce visibile era nient’altro che un’onda elettromagnetica,
scoperta per quel tempo importantissima in quanto, se pure si era già stabilito che la luce si comportava
come un’onda, nessuno era ancora riuscito a spiegare quale fosse la natura di quest’onda, cioè a capire
cosa effettivamente oscillasse nelle onde luminose. Adesso Maxwell aveva trovato la risposta: ad
oscillare era il campo elettromagnetico!
Fu però solo 8 anni dopo la morte di Maxwell, cioè nel 1887, che lo scienziato tedesco Heinrich Hertz
riuscì a produrre sperimentalmente le prime onde elettromagnetiche e ad osservarne gli effetti, che
coincidevano perfettamente con tutti i comportamenti tipici della luce. Si capì anche che la luce visibile
era solo un particolare tipo di onda elettromagnetica ed occupava solo una piccola porzione di uno
spettro molto più ampio:
Heinrich Hertz
(1857-1894)