Relazione della Professoressa Francesca Simonelli

Relazione della Professoressa Francesca Simonelli (Convegno 19 aprile 2008)
La Retinite Pigmentosa è una malattia rara e molto
complessa . Nonostante gli studi compiuti negli ultimi anni,
rimangono molti punti oscuri e questo, naturalmente, crea le
condizioni per una non semplice soluzione del problema
terapeutico. E’ evidente che solo investendo in progetti di
ricerca mirati alla comprensione delle cause della malattia,
in prospettiva futura si potrà arrivare finalmente ad una
terapia. I passaggi sono complessi e richiedono tempo.
La Retinite Pigmentosa è una malattia ereditaria che si manifesta in
maniera molto varia sia dal punto di vista clinico che genetico. Perché è
eterogenea clinicamente? Perché esistono delle forme tipiche, ma
esistono anche delle forme atipiche; perché esistono delle forme che
riguardano solo l’occhio e delle forme che, invece, si associano ad altre
malattie del corpo nell’ambito di sindromi.
Ma è anche eterogenea dal punto di vista genetico, perché può
trasmettersi nelle famiglie in vario modo e perché, alla base della
malattia, sono coinvolti circa cinquanta differenti geni. Ciò significa che
probabilmente ci sono anche molti difetti genetici alla base della
malattia che possono essere differenti tra loro.
Le forme tipiche si riconoscono facilmente perché c’è l’accumulo di
pigmento, il pallore del nervo ottico, la riduzione del calibro dei vasi. La
diagnosi è molto semplice quando la malattia si manifesta così. Ma ,
purtroppo, vi sono delle forme che non si manifestano in questo modo
ma che, in realtà, sono completamente prive del pigmento e che, per
esempio, già creano dei problemi di riconoscimento della malattia.
Questa si può ipotizzare dalla sintomatologia del paziente, dal fatto che
il paziente riferisce di non vedere bene la sera, di avere dei problemi nel
campo visivo, nella visione laterale di sguardo, ma non si può essere
sicuri della diagnosi.
Ci sono, poi, delle forme atipiche in cui il pigmento c’è, ma solo in
piccole parti della retina, se non si vanno a cercare possono sfuggire
(forme a settore),; ci sono delle altre forme in cui il pigmento forma
degli anelli attorno al nervo ottico e alla papilla ottica (forme
pericentrali), anche queste differenti dalla classica forma. Ci sono ancora
delle forme particolari in cui il pigmento sta solo in alcune porzioni della
retina risparmiando tutte le zone lungo i vasi sanguigni e ci sono ancora
delle forme in cui la malattia interessa la parte centrale del fondo oculare
, la macula (forme centrali); già il fatto di poter constatare che esistono
tante forme differenti, pone l’attenzione sul fatto che, probabilmente,
anche le cause di queste forme possono essere differenti. Probabilmente,
quei differenti geni coinvolti nella malattia possono, ognuno di essi,
determinare un’espressione clinica differente.
Poi, ci sono delle forme che non interessano solo l’occhio, ma che,
per esempio, si associano alla sordità oppure a malattie endocrine oppure
a disordini del metabolismo oppure a malattie neurologiche o a malattie
renali o a malattie dello sviluppo scheletrico. In questi casi, la Retinite
Pigmentosa è solo una parte di malattia in un ambito più generale di
coinvolgimento degli organi. Per esempio, esiste una Retinite
Pigmentosa associata alla sordità: si parla di Sindrome di Usher; una
Retinite Pigmentosa associata alla polidattilia, i bambini hanno delle dita
soprannumero delle mani o dei piedi, obesità, ritardo mentale (Sindrome
di Bardet-Biedl); oppure esiste una Retinite Pigmentosa associata
all’insufficienza renale: molto spesso questi pazienti vanno incontro al
trapianto di reni (Sindrome di Senior Locken). Esiste la Retinite
Pigmentosa associata a disordini neurologici, ad alterazioni scheletriche,
a sordità, a malattie della pelle, accumulo di acido fitanico nella
Sindrome di Refsum .
Quindi, abbiamo già potuto osservare da questo primo excursus quanto
varia sia la malattia sia per quanto riguarda la manifestazione all’occhio
e sia per quanto riguarda le associazioni con le altre parti del corpo e
abbiamo detto nella definizione che è una malattia ereditaria. Ma anche
nella trasmissione delle famiglie è differente.
Ci sono delle forme in cui la patologia colpisce tutte le generazioni.
Di conseguenza, il nonno, il padre, il figlio, senza salti di generazioni.
Queste sono le forme dominanti.
Ma esistono anche delle forme in cui la trasmissione della malattia
avviene con salti di generazione. Per esempio, la malattia colpisce il
nonno, non c’è nel padre, riappare nel nipote e queste sono le forme
recessive che, poi, riguardano molto spesso famiglie in cui ci si sposa fra
cugini, tra consanguigni.
Ci sono ancora altri casi di ereditarietà, cosiddetta X linked, in cui la
malattia colpisce solo i maschi, mentre le femmine sono portatrici sane,
cioè trasmettono la malattia ma non si ammalano.
Quindi, possiamo osservare che anche dal punto di vista genetico
della trasmissione ereditaria, in realtà, ci sono forme differenti, almeno
tre modelli diversi. E adesso entriamo nell’altra parte, molto complessa,
che è quella che riguarda i geni, le mutazioni del DNA che poi causano
la malattia.
Fino ad oggi sono stati riconosciuti circa cinquanta geni come
potenziali cause della malattia e questi geni sono differenti a seconda
che si tratti di forme recessive, dominanti o X linked. Per esempio, nelle
forme di ereditarietà recessiva, quelle in cui la malattia si trasmette con
salti di generazione, sono ad oggi conosciuti circa venti differenti geni,
ognuno dei quali può essere causa della malattia. E’ evidente che ci
poniamo il problema, allora attraverso un prelievo di sangue di sapere, di
fronte ad un paziente con la forma recessiva, qual è il gene interessato
perché se riusciamo a capire questo, probabilmente possiamo capire
anche perché è venuta la malattia a quel paziente, cioè che cosa manca
nel suo occhio, quale proteina, quale pezzo sbagliato c’è che poi
determina i problemi visivi che compaiono nell’individuo. E qui c’è un
ostacolo molto grande perché purtroppo per individuare questi difetti
genetici non siamo assolutamente attrezzati, nel senso che sono indagini
molto lunghe, molto costose e che si fanno prevalentemente nell’ambito
di progetti di Ricerca e, quindi, se non si riesce a valutare il DNA dei
propri pazienti nell’ambito di ricerche che in quel momento sono in
corso, è praticamente impossibile procedere a questo che è un passaggio
fondamentale per dare un nome alla malattia di quel paziente, per sapere
quale proteina non funziona nel suo ’occhio e, di conseguenza, per
capire che la malattia si è sviluppata perché si è alterato quel particolare
meccanismo. Solo conoscendo ciò si può pensare di correggere il
meccanismo alterato con un farmaco o con l’inserimento nell’occhio
della proteina che non c’è o non funziona. Per esempio, negli Stati Uniti
su venti geni delle forme recessive sono stati fatti dei lavori Si sono
prese in considerazione trentacinque famiglie e si sono esaminati tutti i
geni delle forme recessive. Possiamo però constatare che anche quando
si è andati a verificare tutti i geni conosciuti solo nel venti per cento di
queste famiglie, si è trovata la mutazione. E questo sottolinea ancora la
complessità del problema, perché in realtà o le tecniche di analisi non
sono ancora abbastanza sofisticate tali da rilevare le mutazioni, o
esistono ancora altri geni non conosciuti che riguarderebbero l’ottanta
per cento dei pazienti che risulta negativo.
Le forme, invece, X linked, quelle che colpiscono i maschi, sono più
semplici da esaminare perché esistono solo due geni causativi, uno si
chiama RP 2 e qui noi stessi abbiamo fatto dei lavori con i colleghi
spagnoli alcuni anni fa ma anche in questo caso soltanto nel dieci per
cento dei pazienti esaminati con quella forma, abbiamo trovato il gene
malattia. Lo stesso per l’altro gene RPGR, la percentuale fu del sedici
per cento.
Poi, vi sono le forme dominanti, quelle che colpiscono più persone
nelle varie generazioni ed anche in questa forma si riconoscono circa
dodici geni ad oggi e qui abbiamo introdotto, proprio noi in Italia, il
primo studio di questi geni valutandoli tutti in un campione di pazienti
che abbiamo reclutato in uno studio multicentrico che ha coinvolto la
Lombardia, la Toscana, la Liguria il Lazio, la Campania e la Sicilia con
noi capofila della Ricerca. Anche in questo caso, l’analisi genetica che
prendeva in considerazione tutti i geni a quel momento conosciuti, portò
a trovare il gene malattia solo nel ventisette per cento dei pazienti.
Rimaneva, quindi, un settanta per cento circa di soggetti, in cui pur
trattandosi di una forma dominante, non si rilevava il gene malattia. E
questi screening sono fatti da laboratori molto attrezzati, sono tutti
laboratori Telethon, gli unici che in questo momento stanno supportando
le nostre ricerche in merito. Forse un superamento verrà da questo punto
di vista nel prossimo anno perché sono stati creati dei microchip, in
grado di diagnosticare in tempi molto brevi più geni
contemporaneamente ed a minor costo.
In Italia, abbiamo individuato delle famiglie con Retinite Pigmentosa
in cui erano implicati cinque geni differenti. E allora ci siamo posti il
problema di capire se, per esempio, la Retinite Pigmentosa legata al gene
della Rodopsina, quello più comunemente implicato, potesse portare ad
una forma più grave o meno grave rispetto alle forme legate ad altri
geni. Le osservazioni hanno messo in evidenza che quando la Retinite
Pigmentosa è legata a mutazione del gene Rodopsina, che è la proteina
fondamentale per la visione perchè serve ad innescare il ciclo visivo, si
manifestava una forma molto grave di Retinite Pigmentosa. Che
significa molto grave? Significa che in una famiglia venivano colpite
quattro generazioni con dieci pazienti affetti e in tutti quanti la malattia
era già comparsa prima dei sei anni d’età. Già a trent’anni i pazienti
avevano la vista molto ridotta a livello di movimento mano, con un visus
molto scarso, con un elettroretinogramma estinto. Quindi, sicuramente,
le forme di Retinite Pigmentosa legate al gene della Rodopsina, si
associano ad una forma molto grave di Retinite che si manifesta molto
presto nell’infanzia e che, purtroppo, molto presto fa ridurre il visus.
Ma non è sempre così perché, per esempio, un altro gene che può
portare la malattia si chiama RP 1. Abbiamo analizzato una famiglia
composta da un padre ottantenne e da due figli rispettivamente di
quaranta e quarantuno anni. Mentre il padre a ottanta anni aveva
praticamente perso la vista, i due figli quarantenni avevano dieci decimi
e, a dire il vero, non sapevano di avere la malattia. E’ stato proprio il
rilevamento della mutazione nel padre, che ha allertato la famiglia e ha
indotto il padre a far visitare i figli.
Insomma conoscere il gene serve anche a poter dire se la forma è più
grave o meno grave, cioè a definire una prognosi.
Un altro gene è l’NRL, presente nel due per cento della nostra
popolazione e che si associa ad un’altra forma molto grave. Si riporta il
caso di una famiglia: il papà con la Retinite Pigmentosa con quattro figli
affetti e uno soltanto no. Anche in questo caso la diagnosi della malattia
è stata fatta molto presto nella primissima infanzia. Conseguentemente
le forme di Retinite Pigmentosa associata a questo gene sono molto
gravi.
E così ancora altri geni, per esempio RP 13 ,che sarebbe associato ad
una forma di gravità intermedia. In una famiglia con sei soggetti affetti,
il visus a cinquant’anni è ancora di quattro decimi anche se
l’Elettroretinogramma è estinto.
Da quello che abbiamo commentato, il messaggio è questo: di fronte
ad un paziente con la Retinite Pigmentosa oggi non bisogna più fermarsi
alla sola diagnosi clinica, ma bisogna puntare anche ad una diagnosi
genetica con l’individuazione del modello di trasmissione ereditaria, e
ad una diagnosi molecolare, con la scoperta del gene malattia. Quindi il
paziente con la Retinite Pigmentosa dovrebbe poter ottenere tre
diagnosi: la diagnosi clinica, la diagnosi del modello di trasmissione
ereditaria e il riconoscimento del gene malattia.
La diagnosi clinica, almeno nelle forme classiche, è una diagnosi
semplice. Si basa sull’esame del fondo oculare, sull’esame del campo
visivo e sull’Elettroretinogramma.
Poi serve un secondo livello diagnostico, che è quello genetico. Che
cosa significa? Significa che l’oculista deve capire se quel paziente ha da
solo la malattia nella famiglia o se ci sono altri casi: fratelli, sorelle
cugini, genitori, figli. Quando si tratta di casi familiari, cioè in cui
vengono riferiti altri affetti nella famiglia, bisogna cercare di capire il
modello di trasmissione ereditaria, cioè se è una forma dominante, se è
una forma recessiva o se è una forma X linked. Questo a che cosa serve
poi nel pratico? Serve perché se il paziente si sposa e vuol sapere che
probabilità ha di avere dei figli affetti, si può rispondere, dando
un’informazione di massima sul rischio di ricorrenza della malattia.
Serve anche perché le forme dominanti sono meno gravi di quelle
recessive e quindi serve a definire in qualche modo meglio la prognosi
del paziente, a rispondere alla domanda che ci viene fatta: a che cosa
andrò incontro? E poi serve moltissimo il riconoscimento del modello di
trasmissione ereditaria, perché guida l’analisi del gene senza la quale è
impossibile procedere.
E, quindi, la terza diagnosi, la diagnosi molecolare, cioè la
individuazione del gene malattia. Ma perché un paziente affetto da
Retinite Pigmentosa dovrebbe puntare a sapere qual è il gene che gli ha
causato la malattia? Prima di tutto per la prevenzione, perché se
conosciamo il gene malattia, possiamo con una diagnosi prenatale
stabilire con precisione se c’è stata la trasmissione della malattia.
Quindi, non in quel calcolo di probabilità che il genetista clinico può
fare quando la domanda viene posta, ma proprio il sapere se, attraverso
la villocentesi ancor prima dell’amniocentesi , a venti giorni dal
concepimento, la malattia è stata trasmessa o meno con certezza.
L’individuazione, poi ,del gene malattia serve moltissimo a definire
la prognosi,come abbiamo osservato dagli esempi presentati, che è tra
l’altro momento fondamentale nella comunicazione medico-paziente.
Conoscere il gene malattia è condizione indispensabile per capire quale
meccanismo è alterato nell’occhio del paziente e quindi conoscere la
patogenesi della malattia per poter arrivare alla correzione del difetto e
quindi alla terapia.
In conclusione, solo se si conosce il gene malattia e quindi la
proteina che manca nell’occhio, che determina l’insorgenza della
Retinite Pigmentosa, si può arrivare ad una terapia sostitutiva cioè alla
terapia genica. Ma come si fa ad avere una diagnosi molecolare, a
conoscere la propria forma di Retinite Pigmentosa a quale gene è
dovuta? Un paio d’anni fa, abbiamo costituito la Società Italiana di
Oftalmologia Genetica, che ha puntato faticosamente a creare in Italia
una rete diagnostica clinico -genetica individuando degli ambulatori di
Oftalmogenetica e dei laboratori di genetica molecolare in cui si
potessero effettuare le analisi del gene.
Si è partiti con l’individuazione di tre grossi ambulatori, uno
collocato al Nord all’Ospedale San Raffaele di Milano, un altro al
Centro Nord, al Dipartimento di Oftalmologia dell’Università di Firenze
e il terzo ambulatorio al Dipartimento di Oftalmologia della Seconda
Università di Napoli. La rete si sta allargando, si deve allargare, deve
poter rappresentare le varie realtà territoriali.
Come si accede alla rete diagnostica? I pazienti vengono sottoposti ad
una visita oculistica di base per la diagnosi, ad una consulenza genetica
per stabilire il modello di trasmissione e, quindi, ad un prelievo di
sangue per l’analisi del DNA. Tutti i dati dei pazienti vengono raccolti in
cartelle cliniche computerizzate che sono in rete tra i vari ambulatori e i
laboratori perché questi non procedono all’analisi del DNA se il
campione di sangue del paziente non è accompagnato dalla cartella
clinica.
Ad oggi in Italia sono valutabili solo alcune malattie genetiche
dell’occhio, alcune forme di Retinite Pigmentosa come per esempio
l’Amaurosi congenita di Leber, che è molto grave e ad insorgenza
precoce. Perché è importante conoscere il gene malattia? Perchè è
cominciata a prospettarsi una possibilità terapeutica, che si fonda proprio
sulla possibilità di inserire nell’occhio del paziente con la malattia il
gene che manca. Si è partiti nella sperimentazione con l’Amaurosi
congenita di Leber. In questa forma manca un gene che si chiama RPE
65, mancando il quale il soggetto non riesce a sviluppare una visione
corretta. Si è creato in laboratorio un animale che si è fatto nascere senza
questa proteina nella retina e da circa sette anni si è cominciata a
sperimentare la possibilità di inserire la proteina corretta nell’occhio. Da
qui si è partiti nel 2001 con la prima terapia ad un cane a cui è stato dato
il nome di Lancelot. L’intervento è perfettamente riuscito, ha dato un
miglioramento dell’Elettroretinogramma, della visione complessiva che
in un cane si può valutare con dei test di mobilità, con dei test ad
ostacoli e si è visto, ad esempio, che il cane nell’occhio operato evitava
gli ostacoli, assumendo un comportamento più corretto.
Sono ormai passati sette anni da allora e questi cani mantengono il
recupero visivo. Considerato, quindi, che stavano maturando le
condizioni di applicazione di tale terapia all’uomo, circa due anni fa si
sono reclutati in Italia pazienti con l’Amaurosi congenita di Leber. E’
stato il primo studio in cui si sono raccolti e individuati, con dei
parametri clinici particolari, proprio dei pazienti con tale mutazione. Si è
trattato di sei pazienti italiani, di un’età compresa tra i sette e i ventisei
anni, che avevano, appunto, una mancanza di questa proteina nell’occhio
e un minimo di capacità visiva, perché ovviamente se la retina è
completamente degenerata, se non ci sono delle condizioni almeno
minime di spessore della retina, non c’è neanche lo spazio per poter
iniettare la proteina. Questo studio, il primo di terapia genica al mondo,
è partito ad ottobre del 2007 e ha coinvolto due Centri: il Children
Hospital di Philadelphia, Responsabile il Dottor A Maguire e il Centro
della Clinica Oculistica della Seconda Università di Napoli sotto la mia
responsabilità. Lo studio si è appena concluso. I risultati di questo studio
saranno presentati il 27 aprile negli Stati Uniti in occasione di un grosso
Congresso della Ricerca in Oftalmologia. In quell’ambito, si è deciso di
presentare i dati. Però, posso comunicarvi, in maniera confidenziale e
generica, che i risultati sono stati molto, molto incoraggianti ed hanno
aperto una speranza concreta per la soluzione di tale malattia.
Naturalmente, questo è uno studio di fase uno; in medicina, si dice così
quando si deve per la prima volta provare un farmaco: si va a vedere non
tanto che faccia effetto, ma che non provochi effetti tossici. Lo studio
serviva a dimostrare che questo tipo di interventi potesse essere praticato
nell’uomo senza complicazioni. Non solo è stato dimostrato cio’ma poi,
sorprendentemente, ci sono stati anche dei risultati di efficacia. Si tenga
anche presente che in questa prima fase di studio, si è usato anche il
dosaggio più basso del farmaco. Abbiamo già cominciato una seconda
fase terapeutica con una quantità più alta e poi ci sarà una terza fase con
un dosaggio ancora maggiore. Se la seconda fase darà dei risultati
ancora maggiori di dosaggio intermedio, ci si fermerà a quello perché
aumentando il dosaggio possono aumentare gli effetti tossici: si userà la
quantità minima tale da dare un risultato.
Credo che da oggi si possa guardare con maggiore fiducia al futuro.
Certamente sono moltissimi i passaggi da fare, in particolare nella fase
di individuazione del gene malattia e, soprattutto, implementando
sempre di più questo tipo di approccio alla malattia anche per i pazienti
con Retinite Pigmentosa che potranno anch’essi , in futuro, essere curati
con la terapia genica.