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La lacrima che svela l’invisibile
L’occhio vede il dolore del mondo e si apre alla speranza
di Luciano Manicardi
monaco di Bose, biblista
Sperare la morte della morte
La speranza cristiana è paradossale. Ma il cristianesimo stesso è, nella sua interezza,
paradossale: l’incarnazione proclama il Dio-uomo, annuncia che la divinità di Dio non
esclude, ma include l’umanità, così come afferma che l’umanità di Gesù di Nazaret narra
pienamente la divinità. Dalla rivelazione del Dio fatto uomo e dall’annuncio fondante del
Cristo morto e risorto sgorga la fede che crede l’incredibile. Il credente sa l’incredibilità di
ciò che crede: “Chi crederà al nostro annuncio?”, dice il profeta in Is 53,1 introducendo la
scandalosa rivelazione contenuta nel IV canto del Servo del Signore. Rivelazione che nel NT
suona così: il crocifisso, l’appeso al legno, il maledetto dalla Legge santa, lo schiavo, l’uomo
privato di dignità, è il Messia, è il salvatore del mondo, è la diretta rivelazione della potenza e
della sapienza di Dio.
Se la fede cristiana è un credere l’incredibile, l’amore cristiano è un amare il non amabile, il
nemico, e la speranza cristiana è uno sperare l’insperabile. Già la fede di Abramo si configura
come speranza contro ogni speranza, contro ogni evidenza, come speranza folle (Rm 4,18:
“[Abramo] credette sperando contro ogni speranza”); la fede cristiana, fondata sull’evento
della morte e della resurrezione di Gesù Cristo, dà vita a una speranza che osa sperare
l’insperabile per eccellenza, ovvero, la morte della morte (“Non ci sarà più la morte”: Ap
21,4). La speranza cristiana è intimamente attraversata dalla dinamica pasquale di morte e
resurrezione: porta anch’essa le stigmate della croce, è abitata dal pieno del Regno, ma anche
dal vuoto della tomba, crede la resurrezione, ma osa guardare il cadavere. La speranza è il
paradossale sperare la resurrezione di Colui che è morto ed è stato tumulato, è lo sperare al
cuore stesso della morte, degli inferi, della disperazione.
Vedere il paradosso
I santi del XX secolo hanno saputo vivere la speranza nei luoghi infernali creati dagli uomini:
nei lager nazisti e nei gulag sovietici, ma anche nei luoghi degli inferni interiori: l’angoscia, la
disperazione, la desolazione. La forza della speranza cristiana è contenuta nella sua stessa
paradossalità che è, in particolare, il paradosso dello sguardo della speranza.
Dice Paolo: “Ciò che si spera, se visto, non è più speranza: infatti, ciò che uno già vede, come
potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con
perseveranza” (Rm 8,24-25). La speranza spera l’invisibile. L’oggetto della speranza è
sottratto al potere di chi spera, non gli è disponibile. La speranza suppone un’assenza e un
ignoto, un non possedere e un non sapere. In certo modo la speranza suppone anche un non
vedere. Eppure la fiducia e la perseveranza che caratterizzano la speranza dicono che essa
vede qualcosa. Forse vede l’invisibile, come Mosè che lasciò l’Egitto e senza paura e con
saldezza fece il suo cammino “come se vedesse l’invisibile” (Eb 11,27). Ma che significa
vedere l’invisibile? Forse bisogna chiedersi: come vede la speranza? Gabriel Marcel parla di
una forma di visione velata: “Non si può certo dire che la speranza veda ciò che sarà; ma essa
afferma come se vedesse; si direbbe ch’essa attinga la sua autorità da una forma di visione
velata, ascosa, della quale non può godere, ma su cui può fare assegnamento”. Una visione su
cui si può fare assegnamento è quella fondata sulla memoria, e quella di cui non si può godere
è quella del futuro che ancora ci sfugge. Forse questa visione velata è quella dell’occhio che
piange, dell’occhio velato dalle lacrime. Vede la morte e invoca la resurrezione. Vede il dolore
e anela la sua redenzione. Ricorda la sofferenza e opera in modo da non ripeterla. Ci si può
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chiedere: e se il proprio dell’occhio umano fosse il pianto, più che il vedere? E anche gli occhi
del cieco sanno piangere. “Se le lacrime vengono agli occhi, se possono anche velare la vista,
forse rivelano, nel corso stesso di questa esperienza, un’essenza dell’occhio… Nel momento
stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscir
fuori dall’oblio in cui lo sguardo le tiene in riserva sarebbe niente meno che la verità degli
occhi di cui le lacrime rivelerebbero così la destinazione suprema: avere in vista
l’implorazione piuttosto che la visione, indirizzare la preghiera, l’amore, la gioia, la tristezza
piuttosto che lo sguardo” (Jacques Derrida).
L’occhio della compassione
Gli occhi velati dalle lacrime vanno al di là del vedere e del sapere e ci avvicinano all’essenza
delle cose: alla verità del dolore e della speranza. Ora, tutto questo ha un sorprendente
riscontro biblico. È l’Apocalisse che ce lo mostra: l’Apocalisse spera l’insperabile, spera la
morte della morte, la fine del peccato e del male, spera un Dio che asciugherà le lacrime da
tutti i volti, spera un mondo in cui “non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno”
(Ap 21,4). La Gerusalemme celeste o, se vogliamo, il paradiso, è espressa nell’Apocalisse con
l’immagine del Dio che asciuga le lacrime dai volti degli umani (Ap 7,17; 21,4). Una simile
immagine del mondo redento chi la elabora? Chi nutre una simile speranza se non chi patisce
nel quotidiano l’esperienza del soffrire e del piangere? Quale contesto produce una simile
immagine se non l’esperienza storica del patire e del soffrire? Un mondo simile è sperato da
chi soffre, dalle vittime della storia, non da chi è soddisfatto. Questa speranza è la speranza
sperata dai poveri. E in tale speranza consiste anche la loro beatitudine. Ma questa immagine
del mondo salvato nasce anche dall’esperienza storica dell’asciugare le lacrime a chi soffre,
dall’attiva compassione, dal rifiuto dell’indifferenza, dalla lotta contro il male. L’occhio della
speranza è l’occhio della compassione, l’occhio che sa vedere il dolore del mondo e crederne
la redenzione. E che già oggi opera per rimuovere le cause delle sofferenze e delle lacrime
degli oppressi e degli afflitti.
Il tema è approfondito nel fascicolo:
Luciano Manicardi, Sperare l’insperabile. Il paradosso della speranza cristiana, Qiqajon,
Bose 2008 (Testi di meditazione 141), pp. 32.
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