L`intervento della Rappresentante degli Studenti Elisabetta

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Ringrazio il Magnifico Rettore per la parola concessami.
Colleghi studenti, signori Professori e ricercatori, signori del personale tecnico
amministrativo, illustri ospiti, autorità.
Vorrei iniziare questo mio intervento a nome di tutti gli studenti della Statale portando alla
vostra attenzione alcuni dati fortemente significativi della situazione nazionale per poi
svolgere un'analisi seguita da alcune riflessioni. Nel suo bollettino mensile, la Banca
Centrale Europea ha posizionato il nostro paese tra gli ultimi posti, insieme a Spagna e
Grecia, della classifica che misura il tasso di disoccupazione giovanile, ormai giunta a
percentuali ben oltre il 40%.
Ad inizio mese è inoltre stato pubblicata l’indagine statistica “noi Italia” dell'ISTAT. La
ricerca indica in 2 milioni il numero dei NEET, cioè quei giovani italiani che non sono né
inseriti in un percorso formativo, né in uno lavorativo, con disuguaglianze di genere e di
appartenenza geografica, valori tra i più alti d'Europa.
Infine, negli ultimi giorni apprendiamo da diversi articoli di giornale che nell'ultimo
decennio il sistema universitario nazionale italiano ha avuto, in media, 8mila matricole in
meno ogni anno accademico. A calare non è solo il numero dei laureati, ma anche il numero
degli studenti delle superiori, che non si iscrivono più all'Università preferendo, i più
fortunati, entrare fin da subito nel mondo del lavoro mentre gli altri vanno ad ingrossare le
fila dei giovani NEET. E questo ci ha fatto guadagnare l'ennesimo triste primato: quello del
minor numero di laureati d'Europa tra i 30 e i 34 anni in rapporto alla popolazione
nazionale.
Molte delle cause del contesto appena fotografato risiedono nel fatto che l'istruzione, non
solo universitaria, non è più vista oggi come il principale ascensore sociale del paese, non è
più ritenuta essere l'investimento, individuale e collettivo, per un futuro, personale e
dell'intera società, migliore. È stato affermato da qualcuno che con la “Cultura non si
mangia”: un buon esempio di quanto in basso sia caduta la nostra società.
Intervengo su questi temi oggi perché è necessario combattere questo nuovo e distruttivo
pensiero egemonico nella società e perché non c'è circostanza migliore di oggi per farlo.
Penso all'inaugurazione dell'anno accademico di un’Università, luogo che fa dell'istruzione
e della formazione la sua vocazione e missione quotidiana, come l'occasione migliore per
svolgere un'analisi e una riflessione che abbraccino le problematiche che investono la nostra
comunità, che, ricordo, non è composta solo da noi studenti. E' dunque necessario che tutti
coloro che vivono, a vario titolo, l'Accademia si interroghino sulle difficoltà che stiamo
affrontando.
Consideriamo innanzitutto il welfare studentesco e i finanziamenti statali: da questo palco ci
avete sentiti parlare della situazione del Diritto allo Studio Universitario, portando alla
vostra attenzione le numerose criticità. Vorrei prima sottolineare una nota positiva che
riguarda la scelta dell’Amministrazione della nostra Università per questo Anno
Accademico di destinare fondi propri alla copertura delle borse di studio non assegnate per
mancanza di finanziamenti : è sicuramente un segnale forte verso questi studenti e queste
famiglie il garantire il sostegno economico per il proseguo degli studi, un segnale che
abbiamo chiesto fosse dato e che apprezziamo davvero sia stato ascoltato e accolto.
Non possono però essere i singoli Atenei a stringere le cinture dei loro bilanci per colmare le
falle di un sistema costantemente e progressivamente sempre più sottofinanziato!
Deve essere lo Stato, attraverso le Regioni, a rendersi garante di un diritto sancito
costituzionalmente promuovendo un sistema integrato di strumenti e servizi per favorire la
più ampia partecipazione agli studi universitari sul territorio nazionale e ricercando mezzi
finalizzati a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano l'uguaglianza
dei cittadini nell'accesso all'istruzione superiore.
Negli ultimi anni queste legittime aspettative sono state invece continuamente disattese.
Disattese dallo Stato, che mette in ginocchio gli Atenei con tagli al Fondo di Finanziamento
Ordinario e con interventi che mirano ad una ripartizione premiale di una crescente quota
dell’ FFO, andando in realtà a indebolire ulteriormente gli Atenei stessi: in un sistema
sottofinanziato e a somma zero le Università, in una logica tutt’altro che premiale, “si
ritrovano a spartirsi” le poche risorse disponibili entrando in palese concorrenza, con criteri
di ripartizione poco indicativi delle reali condizioni e delle esigenze degli atenei, e parametri
sbilanciati su una discutibile valutazione della ricerca a scapito della didattica, dell’offerta
formativa e dei servizi agli studenti. E’ una finta idea di premialità che si nasconde dietro la
retorica del merito producendo di fatto differenze enormi tra gli Atenei in un’ottica punitiva
e non incentivante
Le aspettative sono state disattese dalla nostra Regione.
Nell’anno 2012/2013 si è arrivati ad una copertura delle borse dell’85%, ma questo è da
attribuirsi quasi esclusivamente all’aumento della tassa regionale, pagata dagli studenti, che
ha portato ad un incremento dei fondi di 8 miliardi e mezzo circa, mentre solo 36000 € di
fondi regionali sono andati ad aumentare i finanziamenti in questo settore.
Non può essere che il sistema del diritto allo studio veda come principale voce di
finanziamento le tasse studentesche e non è legittimo sbandierare l’aumento della copertura
delle borse come un obiettivo politico raggiunto.
Per quanto riguarda l’anno in corso le risorse regionali sono sostanzialmente confermate: ci
saranno quindi ancora idonei non assegnatari, insicurezza nella garanzia della borsa,
percorsi di studio irregolari per potersi mantenere e studenti che sceglieranno di
abbandonare l’Università perché nessuno li può sostenere.
Noi chiediamo che tutto ciò non accada: noi esigiamo un forte cambio di rotta!
Alla nostra Regione perché investi nell’Università una percentuale del proprio PIL, il più
alto d’Italia, almeno pari alle altre regioni italiane. Perché, oltre che locomotiva economica
del paese, diventi anche esempio virtuoso di politiche sull’istruzione.
Lo chiediamo allo Stato e al nuovo governo che lo guiderà: si delinei un percorso chiaro e
coraggioso per i prossimi anni. Senza ricorrere a stratagemmi come l’inasprimento dei
criteri di accesso al diritto allo studio, o un sostegno economico erogato attraverso i prestiti
d’onore che è per noi assolutamente inaccettabile, o politiche che tendano a creare atenei di
serie A e di serie B in base ai finanziamenti ricevuti, aumentando di fatto le disuguaglianze e
le ingiustizie.
Lo chiediamo al nostro Rettore e all’intera CRUI, le cui denunce e prese di posizione sono
troppe volte risultate tardive. Chiediamo loro di farsi carico di rappresentare puntualmente
le istanze degli studenti nelle sedi regionali e statali, con impegno e determinazione.
Investire nelle borse di studio però non è sufficiente.
I dati sulla disoccupazione si aggravano nelle fasce più povere e deboli della società.
L’accesso all’istruzione superiore dipende ancora fortemente dalla famiglia di partenza, e
l’abbandono scolastico riguarda principalmente chi proviene dalle fasce più povere
In Italia, quindi, la selezione è ancora di censo e si è creato un sistema che, con la
giustificazione della meritocrazia, di fatto discrimina i più deboli della società.
Per questo motivo disprezziamo e rispediamo al mittente le dichiarazioni di certi rampolli
dell'alta società italica che pretendono di venire a darci lezioni di meritocrazia senza aver
altro merito se non quello di essere nati in famiglie ricche della borghesia industriale e
finanziaria.
A causa di questi, di taluni politici e di molti media, il termine meritocrazia ha ormai
assunto in Italia un valore simbolico, la soluzione miracolosa per tutti i mali, per rendere più
efficienti, e possibilmente più economici, tutti i settori, dall’amministrazione pubblica
all’università, per rilanciare l’economia del Paese, abbattere la disoccupazione e garantire
un futuro di prosperità e pace sociale.
Ma non si può parlare di meritocrazia se si dimentica la difesa dell’uguaglianza.
Invece oggi è dato per acquisito il senso positivo della parola meritocrazia, quando in molti
casi serve solo a giustificare furbescamente il familismo e a nascondere l’immobilità sociale
e le disuguaglianze. La meritocrazia intesa come ideologia fornisce persino una dimensione
“etica” della sconfitta di chi non si afferma nella vita, con un’accettazione quasi fatalista del
proprio insuccesso sociale e della condizione migliore degli altri.
Ma troppo continua a dipendere dalle enormi disparità sociali.
Certo è giusto promuovere la competenza e anche premiare l’impegno e il merito
individuali, ma questa premialità non può essere costruita su un sistema che si basi sulla
discriminazione di tutti gli altri, di coloro che non fanno parte della categoria dei “migliori”.
Da una parte deve cambiare il mondo dell'istruzione, al quale non manca tanto un sistema di
monitoraggio della preparazione degli studenti quanto la garanzia di un sistema di relazioni
e di rapporti tra docenti e discenti che chiarisca ai ragazzi perché e come devono sapere
determinati concetti, che cosa effettivamente possano farci, e che si adegui per quanto
possibile alle doti e alle peculiarità dei giovani offrendo a tutti l’accesso a un novero sempre
più ampio e complesso di conoscenze, a prescindere dal punto di partenza. In caso contrario
la scuola rimarrà la mera cancelleria di un ufficio pubblico, atta ad approvare il risultato del
mio studio apponendo sulla mia preparazione un timbro, quello del voto.
Dall'altro lato, perché l’istruzione possa realmente assurgere al ruolo di ascensore sociale, è
necessario eliminare le profonde disuguaglianze sociali e contrastare le selezioni a priori,
come i test d'ingresso, basate su criteri di selezione discutibili, che costituiscono l'ennesima
e vigliacca ingiustizia.
L’esempio virtuoso al quale abbiamo il dovere di ispirarci è quello dei paesi scandinavi, in
testa alle classifiche di mobilità sociale perché capaci di porre un limite forte alle
diseguaglianze e di scegliere l'istruzione e l'Università come elemento sul quale investire per
trainare il paese fuori dalla crisi.
Certo, questo sarà possibile anche quando cesseranno le campagne di discredito e falsa
informazione sul sistema universitario e sui giovani.
É stato detto che i laureati in Italia sono troppi, che i poli universitari sono un numero
esagerato, che l'università costa poco o nulla, che gli Atenei non gestiscono bene le risorse,
che gli universitari sono tutti mantenuti fuori corso, che il pubblico è sinonimo di spreco e
fannullaggine, che la ricerca universitaria è costosa e inefficiente.
E questo è troppo spesso stato detto da chi chi è stato chiamato a governare il nostro Paese,
tra i quali figuravano anche docenti e rettori universitari.
È necessario che l'intera comunità accademica ricominci a parlare alla politica e alla società,
demistificando le tante falsità e facendosi promotrice di esigenze di cambiamento e
miglioramento del sistema, dal livello comunale fino a quello nazionale.
È poi irrinunciabile, da parte del governo e delle amministrazioni, il coinvolgimento di tutte
le componenti, anche quella studentesca, nei tavoli che gestiscono e governano il processo
di trasformazione dell'Università: dagli organi d'Ateneo, alle commissioni regionali, agli
organi ministeriali. Coinvolgimento che deve essere continuo, attivo e reale, e non
sbandierato senza fondamento o ricercato solo dopo che un tribunale ha dato ragione
all'altra parte o dopo che i problemi sono stati denunciati pubblicamente.
Perché la nostra Università possa poi attrarre nuovamente i giovani e venga riconosciuta
come uno strumento di formazione efficace, ne vanno modificate e ripensate alcune
caratteristiche.
Ne cito solo alcune:
• la didattica, per la quale vanno riviste e modernizzate le modalità di erogazione,
integrandola, dove possibile, con metodologie non formali e sperimentali;
• i programmi, le integrazioni dei corsi e la possibilità di personalizzare la propria
formazione;
• l'internazionalizzazione, che non può essere semplicemente uno slogan rappresentato
con cartelli e manifesti di dubbio gusto! La possibilità di una formazione all'estero
deve essere garantita agli studenti di tutti i corsi di laurea, abbandonando presuntuose
logiche secondo le quali “altri Atenei non garantiscono una formazione di pari
livello”. È inoltre necessario rivedere e migliorare il meccanismo delle equipollenze
rendendole note a priori e non lasciandole sempre e comunque alla discrezione del
docente, spesso post erasmus;
• i tirocini professionalizzanti e gli stage...
È un sistema che va ripensato nella sua totalità, partendo e mettendo al centro gli studenti, le
valutazioni che essi danno del sistema e le loro aspettative e ambizioni. Non si possono più
fare scelte sulla base degli interessi del privato che nel sistema investe, degli interessi e dei
poteri delle cattedre, della necessità di pubblicità verso l'esterno. L'Università deve ritrovare
il suo spirito originario. Dobbiamo riscoprire la nostra vocazione iniziale che era
innanzitutto formare la classe dirigente del futuro e far progredire la società verso la
conoscenza universale.
Infine, l'Università non deve essere al servizio del mercato.
Ad oggi il sistema industriale italiano non investe sufficientemente in ricerca e sviluppo e
questo determina il mancato assorbimento delle competenze e delle abilità che l'Università
trasmette agli studenti, futuri lavoratori.
La realtà attuale di un sistema di piccole-medie imprese che non possono e non vogliono
puntare su questi settori limita di fatto la possibilità di spendere un titolo di studio
faticosamente conquistato, e quindi fa venir meno l'importanza di una formazione
universitaria.
Perché dovrei perdere tempo in un'istruzione universitaria superiore quando nemmeno
questa mi garantisce un futuro?
Questo sistema però non regge il confronto con il mercato e la competizione globale e crolla
d’innanzi a chi produce a costi più bassi e in tempi più brevi.
Solo investendo fortemente in ricerca e innovazione, sostenendo realmente quanti dedicano
la loro vita allo sviluppo delle conoscenze, modificando il sistema industriale perché possa
assorbire le nuove competenze sviluppate, potremo forse risollevarci da questa crisi
economica profonda e tornare a guardare con fiducia al futuro.
Oggi il termine “futuro” genera nei giovani inquietudine e senso dell'incertezza, derivanti
dalla consapevolezza che il loro avvenire, in termini di opportunità lavorative, benessere e
previdenza sociale, sarà con ogni probabilità meno roseo di quello dei propri genitori.
È quindi giunto il momento di politiche coraggiose, di abbandonare l'idea che tutto sia
imprescindibile e inevitabile, di un impegno collettivo per trovare soluzioni condivise e
comunitarie.
Bisogna ripartire dall'Università e dalla ricerca pubblica, elementi imprescindibili per la
vitalità economica, civile e culturale del Paese. Il “mancato guadagno” derivante dalle
politiche di disinvestimento adottate negli ultimi anni per questo settore si è fatto sentire
gravemente acuendo le ferite di un Paese in gravi difficoltà.
Concludo con una frase di Pepe Mujica, presidente dell'Uruguay, “paese dell'anno” secondo
l'Economist: “Investiamo prima di tutto in educazione, secondariamente nell'educazione, e
in terzo luogo in educazione. Un popolo istruito ha le migliori aspettative di vita, ed è molto
difficile che venga imbrogliato dai corrotti e dai bugiardi”.
Oltre a vedere nell’investimento nell’istruzione, nella formazione e nell’innovazione una
politica lungimirante, dobbiamo ritenerlo giusto e un valore in sè. Oltre a produrre un
progresso culturale e sociale, che va al di là dei misuratori economici, risponde alla
necessità dell’uomo di investigare i campi della conoscenza che più lo affascinano e
realizzano la sua felicità
Grazie.
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