Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa “ALLA RICERCA DELLE RADICI DELLA NOSTRA CULTURA” MAURIZIO MIGLIORI ALESSANDRO GHISALBERTI MARIO SARCINELLI EUGENIO CORTI ATTILIO NICORA n. 2 GAZZADA, VILLA CAGNOLA 8-9 MAGGIO 2008 Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa “ALLA RICERCA DELLE RADICI DELLA NOSTRA CULTURA” MAURIZIO MIGLIORI ALESSANDRO GHISALBERTI MARIO SARCINELLI EUGENIO CORTI ATTILIO NICORA n. 2 Sede: Presso Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano, Largo A. Gemelli, n. 1 Segreteria: Presso Banca Popolare Commercio e Industria - Milano, Via Moscova, 33 - Tel. 62.755.1 Cassiere: Presso Banca Popolare di Milano - Milano, Piazza Meda n. 2/4 - c/c n. 40625 Per ogni informazione circa le pubblicazioni ci si può rivolgere alla Segreteria dell’Associazione - tel. 02/62.755.252 - E-mail: [email protected] sito web: assbb.it “È un grandissimo bene per l’uomo ogni giorno ragionare intorno alla virtù: una vita senza ricerca di tal fatta è indegna dell’uomo” Platone “La speranza ha due figli bellissimi, lo sdegno per le cose come sono e il coraggio per cambiarle” S. Agostino 3 Abbiamo ripreso il cammino iniziato lo scorso anno scavando nelle radici antiche in cui affonda la nostra cultura occidentale ritrovando i primi elementi in cui possiamo riconoscere la nostra identità. Socrate attraverso Platone ci svela i principi che stanno all’origine dello sviluppo della nostra civiltà. Dall’ellenismo antico al pensiero di Agostino abbiamo riconosciuto l’innesto del Cristianesimo ponte dal Medioevo verso l’Era moderna. Nelle prossime edizioni insisteremo in questo suggestivo percorso fidando nella riscoperta di valori perduti da ritrasmettere con più forza in un contesto che soffre ancora delle conseguenze di ideologie fallimentari. Ora, dopo le grandi illusioni del passato: dall’illuminismo al comunismo allo scientismo, sembrerebbe che la società moderna scivoli inconsapevolmente, forse, in quello che pare riconoscersi in un relativismo strisciante e generalizzato in cui si appannano o addirittura scompaiono le secolari certezze e i punti di riferimento in cui agganciare l’attuale convivenza umana. È di fronte a questo preoccupante scenario che stentiamo individuare il segno dei tempi e quindi il percorso della Storia nella sua dinamica prospettiva. Il senso di questi incontri invita a rimeditare la comune esperienza di vita al fine di riorientare le nostre scelte confortate da una nuova felice e luminosa speranza. giuseppe vigorelli 5 Prof. Maurizio MIGLIORI, Professore Ordinario di Storia e Filosofia Antica nell’Università di Macerata “Platone, una razionalità consapevole non rinunciataria: metafisica e limite umano” Parlo con piacere di un tema che mi è molto caro e sono onorato di inserirmi in una serie di incontri che ha visto la presenza di tanti illustri colleghi. Non farò un discorso “sofisticato” o tecnico. A riprova mi permetto di cominciare con un’osservazione che forse risulterà di una banalità sconcertante. Lo faccio perché resto convinto che “i fondamentali” è bene ricordarli sempre, sia pure in modo breve. Se dunque qui parliamo delle “radici” può essere utile sottolineare che, mentre se analizziamo enti biologici c’è un’assoluta corrispondenza tra la radice, il tronco, le foglie e i frutti (per cui, se stiamo parlando della radice di un melo, possiamo essere tranquilli che sopra, alla fine, troviamo delle mele e non altro) nelle analisi sociali questo non è altrettanto vero. Per dirla in breve, come tutti sappiamo l’autonomia dei sottosistemi sociali è estremamente superiore all’autonomia dei sottosistemi biologici. Ho voluto dire questo perché ciò che diremo in certi momenti sembrerà molto vicino al nostro mondo, cosa ovvia visto che parliamo di un suo legittimo “padre”, ma in altri momenti sembrerà di parlare di un “altro mondo”. Ciò non deve stupirci perché, appunto, è tipico della (relativa) autonomia delle realtà umane e sociali. Per prima cosa, devo sottolineare quanto sia giusto cominciare questa indagine sulle radici del nostro mondo da Platone. Questo filosofo ha infatti una caratteristica che lo 7 rende unico. Io dico sempre: se una divinità malvagia dovesse, con un colpo di bacchetta magica, far scomparire dalla nostra storia la filosofia, otterrebbe la scomparsa di Kant, di Hegel, di Aristotele, ma non di Platone, perché egli non è semplicemente un grande filosofo, ma è anche uno dei più grandi scrittori dell’Occidente, alla pari con Shakespeare o Dante. Siamo a livelli altissimi di letteratura. La parte finale del Fedone, la morte di Socrate, è una pagina memorabile che tiene il confronto con qualsiasi altro testo. Con i suoi dialoghi questo filosofo ha segnato in modo ineliminabile l’immaginario dell’Occidente, cioè l’immaginario di tutte le persone qui presenti, qualunque sia il loro livello di conoscenze e di studi. Pensate solo alle stanze di Raffaello al Vaticano, a quella bellissima immagine con La scuola di Atene che ormai troviamo rappresentata dappertutto. Al centro di quel dipinto, in una bellissima fuga di archi, ci sono Platone e Aristotele, Platone è quel bellissimo vecchio, con una magnifica barba bianca, un po’ leonardesco. Un esempio ancora più evidente: Socrate, una figura centrale che l’Occidente ha sempre amato e in qualche caso anche odiato, a conferma della sua rilevanza paradigmatica. Ma Socrate non ha scritto nulla! In compenso tutti i suoi allievi hanno pubblicato moltissimi testi mettendo in scena Socrate. Nel IV secolo a.C. ad Atene circolavano dozzine di dialoghi filosofici di autori diversi, ognuno dei quali presentava un suo Socrate. Ma per noi che veniamo 2500 anni dopo, l’unico che ci è rimasto è il Socrate di Platone, l’unico che noi conosciamo perché ci è stato miracolosamente conservato. Dei 28 dialoghi che, grosso modo, possiamo attribuire certamente a Platone, 22 vedono in scena Socrate con la funzione di maestro. Questo è il Socrate che l’Occidente si è trovato di fronte e che è entrato dentro di noi. Un ultimo dato per sottolineare che stiamo proprio parlando di radici, di qualcosa che anche chi non lo sa ha dentro. 8 Io sto cercando di dire “perché” stiamo davvero parlando di radici e il porsi questa domanda è proprio una delle cose che noi occidentali abbiamo appreso dalla filosofia greca. La persona che si pone tale domanda può non sapere di essere figlia della filosofia greca, ma lo è lo stesso. Ciò vale anche per l’altra domanda fondamentale: “che cos’è?”. Se fossimo figli di una cultura orientale queste domande non ci verrebbero altrettanto automaticamente. In sintesi, la filosofia greca, e quindi Platone, hanno determinato profondamente il nostro modo di pensare. Allora partiamo proprio dal Socrate che Platone ci presenta, con una osservazione. Un numero molto elevato di quei ventidue dialoghi in cui Socrate è presente come maestro, è ambientato nei giorni immediatamente prima e dopo il processo del 399 a.C., in cui Socrate fu accusato di corrompere i giovani e poi condannato a morte. Perché Platone pone molti di questi dialoghi proprio nei giorni immediatamente precedenti o seguenti a questa disgraziata vicenda? Se dovessimo prendere queste fiction come reali, dovremmo dire che in quel periodo Socrate ha avuto giornate di 48 ore, tante sono le cose che fa e di cui discute. Perché - ecco la domanda - Platone ha voluto così tanto insistere su questa tragedia? L’Autore non ce lo dice, quindi vi propongo una mia interpretazione: è di fronte alla morte, è di fronte a una decisione drammatica come quella di accettare una condanna ingiusta che un individuo si pone le domande di fondo, che ogni riflessione diventa necessariamente seria. Nella nostra vita noi siamo continuamente attanagliati da questioni che sappiamo secondarie, ma che tuttavia fanno parte della nostra esperienza, per cui non possiamo e non vogliamo farne a meno. Noi siamo anche questo insieme di sciocchezze ed è giusto che ce le teniamo. Ognuno di noi ha degli hobby, degli affetti, dei ricordi: perché dovremmo disprezzarli? Ma nel momento in cui si è di fronte alla morte tutte queste cose tornano necessariamente nella loro dimensione reale, si rivelano 9 per quello che sono, piccolezze; in quel momento ogni fatto comincia a rivelare il suo vero peso e si deve iniziare a fare dei bilanci: le storie si giudicano alla fine, non a metà o all’inizio. Quasi tutte le storie cominciano bene, il problema è farle finire bene. Ogni volta che noi imbocchiamo una strada sappiamo benissimo che questa può essere foriera di grandi gioie, ma tanto più questa scelta è importante, tanto più grandi sono i rischi che corriamo. È alla fine che si può dire: la mia vita è stata felice. Complessa, complicata, piena di cose, ma felice, è andata bene. È valsa la pena trascorrere questo tempo. Credo che in questa chiave si può capire perché Platone ha tanto insistito sugli ultimi giorni di Socrate. Infatti è in carcere che incontriamo uno degli insegnamenti fondamentali del Socrate platonico. È un dialogo famoso, breve e bellissimo, un dialogo da consigliare, anche perché si può leggerlo persino a letto: il Critone. Socrate è stato condannato, è in prigione e il suo più caro amico, Critone, va da lui per cercare di convincerlo a salvare la sua vita scappando. Fuggire dalle carceri ad Atene era una cosa relativamente semplice. Per quello che riusciamo a capire in quel momento gli ateniesi si aspettavano questa fuga, che avrebbe peraltro risolto il problema. Nulla di strano, quindi, che Critone arrivi dicendo che ha già corrotto chi di dovere e che domani il filosofo può fuggire. E porta una serie di argomenti per dimostrare che la fuga è giusta. Ma Socrate glieli smonta tutti. La cosa più importante è che Platone in questo episodio drammatico (Socrate accetta la morte sulla base di una condanna che è ingiusta) mette due “picchetti” decisivi nel pensiero dell’Occidente. Il primo è «che non il vivere è da tenere nel più alto conto, ma il vivere bene … E che vivere bene è la 10 stessa cosa che vivere secondo onestà e secondo giustizia». Socrate afferma che la proposta di Critone è basata solo sul principio che occorre salvare la propria vita, mentre egli chiede di essere convinto che facendo così vivrà “virtuosamente”. Il problema non è quello di vivere, ma di vivere “bene”. Il Bene diventa un criterio “decisivo”. Il secondo picchetto riguarda il metodo con cui individuare questo bene: «Perché io, non ora per la prima volta, ma sempre, sono stato uno che non dà ascolto a nessun’altra cosa se non alla ragione: a quella, dico, che, ragionando, mi sembri la migliore. E i ragionamenti che facevo nel passato, non posso ora buttarli via perché m’è capitata questa disgrazia, ma su per giù mi sembrano gli stessi, e quindi ne ho venerazione e rispetto non meno di prima; e se non sappiamo in questo momento trovare altro di meglio, tu devi essere persuaso che io non consentirò mai a quello che mi proponi». Siamo di fronte a una decisiva scelta etica, che riguarda vita o morte, fatta sulla base della pura ragione. Non da oggi, ma ancora oggi, anche in questa disgraziatissima situazione, Socrate è disposto a seguire solo un ragionamento che sia convincente. Ma nello stesso tempo si segnano subito i limiti di questa razionalità. Non è una ragione superba, ma una che dice che bisogna seguire ciò che sembra meglio. Il testo dice infatti “Se non troviamo niente di meglio”. Non si parla di assoluti, pur facendo affermazioni tanto forti da giocarci la vita. In realtà, questo primato della ragione Socrate l’aveva affermato fin dal processo, in un’altra opera platonica, la Apologia di Socrate. Il processo si svolgeva davanti a un’assemblea di 500 persone che poi votavano, quindi di fronte a un consesso che ben rappresentava la città di Atene. Socrate dunque si lamenta perché non gli credono adesso nel processo, come non gli credevano prima, quando era uomo libero, e giunge a dire: «Se io vi dicessi che il bene più grande per l’uo11 mo è fare ogni giorno ragionamenti sulla virtù e sugli altri argomenti intorno ai quali mi avete ascoltato discutere e sottoporre ad esame me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta; ebbene, se vi dicessi questo, mi credereste ancora di meno» (Apologia, 38 A). Una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta. Questo è un altro pilastro dell’Occidente, che ha cercato sempre e ha trovato anche molto, di buono e di cattivo. L’indagine è dentro di noi ed è figlia della filosofia, delle domande già ricordate: che cosa è? Perché è così? Con tutto quello che ne consegue. Noi abbiamo accumulato in 2500 anni il gusto della ricerca, non riusciamo a vivere senza. Anche se non siamo radicali come Platone, resta tuttavia in qualche modo vero che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. Alla luce di questa affermazione si comprende anche meglio il modo peculiare con cui Platone scrive. Per dirla in poche parole, egli non propone tanto le soluzioni, che pure aveva, ma i problemi, perché chi scrive le soluzioni impedisce al lettore di fare la propria personale ricerca. Colui che dice la soluzione è, in sintesi, un cattivo maestro perché costringe il lettore a impararla, è un maestro che preferisce cervelli di carta, magari carta raffinata, a cervelli che invece s’interrogano e che quindi trovano, anche con l’aiuto della carta, la risposta alle loro domande. Ma per il soggetto è più importante la domanda che non la risposta. La domanda è quella che mi fa indagare e vivere una vita di ricerca. Platone non ha dubbi che la soluzione ci sia e ci debba essere e poiché scrive tanto, ogni volta dice qualcosa di più, ma lo fa in funzione di problemi ancora più complicati. Potete pensare ai dialoghi di Platone come ad una gigantesca serie di esercizi, per cui, più gli esercizi diventano difficili, più bisogna presupporre che il lettore sia in grado di affrontarli e quin12 di bisogna dargli di più in modo che sia in grado di trovare soluzioni via via più complicate. Ecco perché Platone è stato uno dei “grandi” nella storia dell’Occidente: non tanto per la sua filosofia, che è stata rapidamente fraintesa, per non dire persa, ma perché ha continuato a porre per 2500 anni una serie di problemi di cui il pensiero occidentale si è nutrito. Per questo hanno potuto imparare da Platone i mondi più diversi, i dogmatici e gli scettici, i musulmani e i cristiani. È il legittimo effetto di una impostazione di scrittura filosofica che ritiene fondamentale condurre una vita di ricerca e che quindi questo propone al suo lettore. Platone giustifica questa scelta in modo molto provocatorio: questa è la cosa giusta che un essere umano deve fare perché non bisogna pensare mai di essere sapienti. Dio solo è sapiente, solo lui sa. Gli uomini non sanno, al massimo possono amare la sapienza, cercare di essere amici della sapienza. La radice greca con cui si indica l’amicizia (la filìa) è fil-, per cui l’uomo che ama la sapienza, la sofìa, è filo-sofo. Il massimo a cui può aspirare l’essere umano è di essere amante della sapienza, desiderarla, cercarla, coltivarla, ma senza mai illudersi di diventare come Dio, sapiente. Sapiente mai, filosofo, se riesce, sempre. Questo Platone lo dice in modo quasi brutale. Torniamo all’Apologia, che probabilmente è la prima opera che egli ha scritto. Socrate nella sua difesa ricorda la sentenza della profetessa di Apollo Pitico, che a Delfi dava vaticini a tutti i Greci. Interrogata, la sacerdotessa aveva detto che Socrate era il più sapiente di tutti i Greci, cosa che lo stesso interessato non riesce a giustificare. Al contrario sa di non sapere nulla, per cui non è possibile che egli sia il più sapiente. Eppure, visto che l’ha detto Apollo Pitico per bocca della sua profetessa deve essere vero perché non è possibile che il Dio abbia mentito. Dopo lunga ricerca, Socrate capisce l’affermazione del Dio: egli è sapiente proprio perché sa che la sapienza umana vale poco o nulla. Questa non è un’affermazione del 13 giovane Platone, o un dato del Socrate storico che Platone ricorda. Se infatti passiamo alle Leggi, la sua ultima opera, in cui per di più Socrate non è presente, troviamo l’affermazione che l’essere umano è un burattino fatto da Dio forse per gioco o forse per qualche altra ragione che ignoriamo. Poi si ribadisce che dobbiamo «condurre la vita secondo quella natura per cui siamo quasi totalmente burattini, che partecipano di piccole parti della verità» (Leggi, VII, 804 B 2-4). In sostanza, la stessa cosa che aveva detto nell’Apologia. Ma non poteva dire diversamente: solo Dio è sofòs, mentre noi partecipiamo molto parzialmente della verità. Potrebbe sembrare un’affermazione che porta quasi allo scetticismo. Ma non è così, come Platone stesso chiarisce. Infatti subito dopo il maestro di questo dialogo, l’ospite ateniese, dice: «Non stupirti, Megillo, ma comprendimi: infatti ho detto quello che ora ho detto guardando la divinità e subendone l’influenza. Ma, se questo ti è caro, sia pure il nostro genere umano non privo di valore e degno di una certa attenzione» (Leggi, VII, 804 B 7 - C 1). In sostanza, Platone prima ha detto quello che ha detto perché pensava in chiave divina e quindi ha dovuto dire che il nostro sapere è ridicolo di fronte a quello di Dio. Se invece prendiamo come punto di vista quello dell’essere umano e riconosciamo che anche l’uomo ha una sua dignità, dobbiamo fare un discorso del tutto diverso. Basta cambiare ottica e il discorso cambia in modo anche radicale. Su questa distinzione dei punti di vista in Platone, potrei parlare a lungo, perché è un tema cardine del suo pensiero, purtroppo molto sottovalutato dalla critica. Platone è il primo che ci dice con chiarezza che i ragionamenti dipendono, diremmo noi, dai postulati fondamentali, dalle premesse che abbiamo posto. Questa distinzione in Platone si trova dappertutto e spiega perché sembra che Platone si contraddica di continuo. Faccio solo un esempio, a partire dal Fedone, il dialogo 14 del giorno della morte di Socrate. Si discute se l’anima è immortale o no, perché Socrate vuol capire se deve sperare e credere che andrà verso il meglio o se non c’è alcuna certezza razionale. La conclusione è che l’anima è immortale e si può affrontare con questa convinzione la fine. Anzi si dice che la scelta del filosofo è di prepararsi alla morte, quasi di desiderarla, perché così l’anima si libera e va in una realtà diversa e superiore. Siamo quindi in un dialogo “mortuario”: è la situazione stessa che lo impone. Non si può parlare di vita con uno che non vedrà il giorno dopo. In altri dialoghi si dice una cosa del tutto diversa. Faccio solo due citazioni, ma potrei farne molte di più: «questo diciamo essere degno della massima attenzione: bisogna che ciascuno viva la sua vita in pace il più a lungo e nel miglior modo possibile. Quale sarà dunque il modo corretto? Bisogna condurre la propria vita dilettandosi con qualche gioco, facendo sacrifici, cantando e danzando in modo da riuscire a renderci favorevoli gli dèi, a tenere lontani i nemici e a vincerli in combattimento» (Leggi, VII, 803 D 6 - E 4); «infatti, come io direi parlando seriamente, l’unione di anima e corpo non è affatto meglio della separazione» (Leggi, VIII, 828 D 4-5). Dunque, nel Fedone Platone dice che dobbiamo quasi desiderare la morte, qui che dobbiamo cercare di vivere più a lungo possibile; nel Fedone afferma che l’anima deve liberarsi dal corpo per vivere meglio, qui che l’unione di anima e corpo non è affatto meglio della separazione. L’apparente contraddizione si risolve se ci chiediamo chi è l’essere umano, chi sono io. Questo tema è affrontato in uno dei primi dialoghi, l’Alcibiade I. La risposta è che io sono anche quello che si vede, ma il vero io è l’anima. Quando uno parla ad un altro, certo il corpo è implicato, ma la vera comunicazione è quella tra le due anime. Lo psichismo intero, diremmo noi nel nostro linguaggio, è coinvolto, non la struttura corporea esteriore. Ma poi, sulla base dei nostri normali conflitti interiori, 15 Platone giunge a pensare ad un’anima tripartita: c’è un’anima dei desideri, la parte concupiscibile, c’è un’anima della volontà, la parte irascibile, c’è l’anima del pensiero. La domanda a questo punto si ripresenta: qual è la vera anima? Platone non ha dubbi: è quella razionale. Infatti quando deve raffigurarla, la immagina come una biga alata, con due cavalli, uno buono e uno cattivo, e l’auriga: due bestie e un uomo, che rappresenta la ragione. Questo modello Platone lo ripropone sempre. Ad esempio nella Repubblica descrive l’anima come un composto di tre elementi: un mostro stranissimo, pieno di membra diverse, (l’anima concupiscibile, che infatti desidera tante cose diverse), poi un leone (anima irascibile), infine un uomo. Come si vede, sempre due bestie e un uomo. Non c’è dubbio quindi su qual è la vera anima: quella rappresentata come una figura umana, quella razionale. Ma così abbiamo tre modi di vedere l’io: come insieme di anima e corpo, come anima tripartita, come anima razionale. Se quindi parliamo di un soggetto dal primo punto di vista, possiamo augurargli lunga vita, piena di gioie e di soddisfazioni, mentre se ci poniamo dal punto di vista di un’anima immortale la questione cambia, l’augurio è di una vita virtuosa, fino alla morte e oltre, nell’Aldilà. Spero che l’esempio sia chiaro: il punto di vista che assumiamo è, per Platone, fondamentale. Posso dire “lunga vita” da un certo punto di vista, ma dall’altro devo dire - per usare il linguaggio cristiano - che, dal punto di vista dell’anima, l’importante non è quanto è lunga la vita, ma andare in Paradiso. La cosa da sottolineare è che questo non è relativismo, ma il suo contrario. Infatti questo modo di procedere richiede tutta una serie di distinzioni, poi delle scelte, e sia le une sia le altre devono essere razionalmente giustificate. Il relativismo è all’opposto la posizione di chi dice che qualunque affermazione va bene e che quindi non si può giudicare, e 16 ancor meno condannare, una posizione diversa dalla propria, perché tutti i punti di vista sono legittimi. Ciò porta ad avere come unico giudice il soggetto che sceglie A o B a seconda dei suoi interessi, o sentimenti, o umori, senza doversi in nessun modo giustificare neanche di fronte a se stesso. Ma questo dimostra che non ha posto dei principî, dei postulati, alla luce dei quali poi esprime una decisione (si spera) razionale. Qui invece è proprio questo il tema su cui si insiste: si assume un punto di vista, cosa che deve essere giustificata, e si svolge un ragionamento che porta a conseguenze razionali, cioè giustificate. Questa è l’impostazione di Platone, che gli ha consentito di cercare la verità, affrontando anche discorsi sull’assoluto, di cui poi l’Occidente si è nutrito. Ma nello stesso tempo lo ha obbligato a ricordare ogni volta che il risultato di questa ricerca sull’assoluto è un risultato umano, non assoluto. Per questo ho scritto “non rinunciataria” nel titolo. Uno può dire: l’uomo è un essere limitato, quindi deve rinunciare all’assoluto. Platone invece pensa che, nella misura in cui anche l’assoluto è un oggetto razionalmente affrontabile, bisogna imporsi questo sforzo, a condizione di ricordarsi sempre che il risultato che si ottiene non sarà mai assoluto, perché la conoscenza umana è sempre limitata e relativa. Spero di aver spiegato la ragione per cui, a mio avviso, Platone - convinto che la vita umana è costante ricerca - ha potuto impostare quella che è la movenza fondamentale del pensiero metafisico occidentale: noi siamo di fronte a un mondo che è finito, contingente, che cambia sempre, che non è conoscibile davvero appunto perché si modifica di continuo e non è stabile, oggi diremmo perché ha un margine di imprevedibilità enorme. Non posso avere una conoscenza stabile di ciò che stabile non è. Inoltre, questa realtà, che non è conoscibile perfettamente, non 17 17 ha in sé le proprie ragioni d’essere, non ha in se stessa la spiegazione del proprio esistere. Tutto ciò porta a pensare, per spiegare l’esistenza del mondo e per avere una conoscenza scientifica, che ci sia un’altra realtà, che mi permette di capire e giustificare un mondo che da sé non si spiega, una realtà più stabile, in grado di giustificare l’esistenza di questa realtà, che non ha in sé la propria giustificazione. Ecco perché possiamo - e per Platone dobbiamo - pensare anche in termini metafisici: per spiegare la nostra vita e tutte le realtà che ci circondano, da quelle inferiori a quelle somme. Nella Lettera Settima, che è una delle più belle lettere di Platone, molto lunga, con una parte filosofica densissima, il filosofo scrive che ci sono quattro passaggi che ci portano alla conoscenza dell’oggetto, a partire dalla parola per arrivare al quarto livello in cui si raggiunge la scienza. Ma il quinto è dato dall’oggetto stesso, qualunque esso sia. Certo, Platone pensa al mondo ideale, alle Idee somme, ma il discorso vale per qualsiasi conoscenza: l’oggetto è sempre oltre la nostra scienza. Nessun sapere esaurisce perfettamente l’oggetto e quindi è aperto ad ulteriori approfondimenti, scoperte, esplorazioni, anche quando si è raggiunto il livello della “scienza” somma. L’oggetto resta sempre oltre, fuori, al quinto posto: io mi avvicino all’oggetto, lo colgo, e tuttavia qualcosa mi sfugge sempre; ho scienza, ma mai perfetta, perché il quinto livello è oltre la mia conoscenza. Che però ha raggiunto il suo culmine! Ecco perché all’inizio ho voluto retoricamente sottolineare che Socrate dice che se non trova niente di meglio segue il ragionamento che gli sembra migliore. Il massimo livello a cui noi arriviamo non è adeguato all’oggetto, e tuttavia è valido e, come tale, condanna tutte le prospettive inferiori e, a maggior ragione, quelle errate. Questo ci permette di scoprire la ricchezza del pensiero platonico e, nello stesso tempo, di cogliere anche la sua concretezza. Questo gioco di distinzioni e questo continuo affer18 mare che dobbiamo salire, ma ricordandoci che i piedi sono per terra, permette a Platone di fare discorsi elevatissimi, ma di non perdere mai il senso del reale. Questo ci porta anche a prendere atto che difficilmente egli afferma qualcosa in modo unilaterale. Faccio un esempio. Troverete in tanta manualistica che Platone condanna il piacere, ma non è vero. Al contrario egli distingue piaceri misti a dolori, come tale anche pericolosi, e piaceri puri, come quelli che accompagnano il sapere, degni della stessa divinità. Una condanna unilaterale, peraltro, non avrebbe senso: nelle Leggi, egli dice che non è possibile convincere un essere umano a fare una buona scelta di vita se poi non gli mostriamo che da questa gli verranno maggiori piaceri, gioie, soddisfazioni rispetto ad altre possibili scelte. Anche il martire cristiano affronta la morte solo perché è convinto di andare verso la totale soddisfazione, quella che avrà per mano di Dio, altrimenti non lo farebbe mai. Platone non condanna il piacere, ma solo quello che ci sconvolge o che ci domina, mentre dobbiamo essere noi a sceglierlo e dominarlo. Concludo con due esempi che, a mio avviso, confermano quanto sto cercando di sostenere. Sappiamo che la Repubblica è spesso considerata la prima opera utopica dell’Occidente, il che è anche vero ma è soprattutto falso. Già nella Repubblica si capisce che Platone sta presentando un modello, per il quale non si deve chiedere se è realizzabile così come è stato costruito. Ciò, ovviamente, vale per ogni “modello”. Ma ancora più esplicitamente nel Politico Platone ci dice che questo modello utopico va tenuto separato dalle costituzioni possibili come Dio dagli uomini. Si tratta di un modello superiore, non di questo nostro mondo, tuttavia utile, per non dire necessario, visto che le costituzioni possibili sono imitazioni dei modelli ideali. Senza utopia siamo sprovvisti di una bussola, non abbiamo un criterio per giudicare i sistemi in cui viviamo e siamo condannati ad un 19 mero pragmatismo, che può ammantarsi di affermazioni ideali solo per ragioni di opportunità. Per sapere cos’è meglio dobbiamo sempre sapere che cos’è il bene, senza per questo pensare che dobbiamo realizzarlo perfettamente. Platone dice esplicitamente che chi cerca di attuare questo modello perfetto apre la strada alla tirannide perché abitua a non rispettare le leggi, segno della nostra limitatezza. È la storia del XIX e del XX secolo: alla luce dello sforzo di realizzare una società perfetta si può giustificare qualunque delitto. Quindi Platone non condanna l’utopia, che anzi resta necessaria, in quanto devo sapere se le mie scelte mi avvicinano o mi allontanano dal “bene”, ma la pretesa di realizzarla. Infine, vorrei tornare al Fedone. L’immaginario dell’Occidente è segnato dal “ricordo” di Socrate che affronta il suo ultimo giorno discutendo con gli amici sull’Aldilà e sull’immortalità dell’anima. Ma non è questo che ci dice Platone. Questo è solo l’effetto di un grandissimo scrittore che vuole fare una operazione teorica e consacrare Socrate per l’eternità, cosa che gli è perfettamente riuscita. Ma per rispetto della verità e del limite umano egli racconta come le cose sono davvero andate. Ma la magia dell’artista ci fa velo. Rompiamolo dunque e vediamo come il testo racconta questa giornata. Gli amici entrano nella prigione appena possono, prima del solito, e trovano Socrate con sua moglie Santippe che comincia a disperarsi; per questo il filosofo chiede a Critone - l’amico - di farla portare a casa. Segue la lunga discussione, che sembra riempire la giornata, ma certamente non è così, se calcoliamo le ore che può aver impegnato. Di sicuro resta molto tempo ancora. Infatti, finita la discussione, il filosofo parla con Critone e gli altri del suo funerale, prendendo in giro il suo amico che non riesce a convincersi che tra poco non avrà più davanti 20 Socrate, ma solo il suo corpo. “Tra poco” perché ora c’è ancora Socrate, anima e corpo, e di questo bisogna evidentemente occuparsi. Infatti egli, lasciando gli altri “filosofi” a discutere, dedica il tempo necessario ai lavaggi con il solo Critone. Potremmo dire che Socrate e il suo più caro amico preparano quello che sarà il cadavere di Socrate, evitando alle donne la fatica di lavarlo. Fatto questo, gli vengono condotti i tre figli e la moglie, con cui si trattiene in un’altra stanza, e solo alla fine li manda via e torna nel luogo in cui lo attendevano gli amici. Il testo è netto: «Il sole era ormai vicino al tramonto perché egli era rimasto molto tempo nell’altra stanza» (116 B). Platone ci ha onestamente raccontato che Socrate ha dedicato tempo alla filosofia, tempo alla cura del corpo in compagnia di Critone, debole filosofo ma caro amico, e molto tempo alla famiglia. Come è giusto e ovvio, per qualsiasi essere umano. Aristotele ci ricorda (Politica, I, 2, 1253 a 29) che l’uomo è un animale sociale e che chi vive senza gli altri è o una bestia o un dio. Questo è un dato della vita concreta e vale anche per il miglior uomo. Socrate è sempre e solo un essere umano, coerente e limitato fino alla fine: appunto filo-sofo, ma insieme anche padre e marito. 21 Biografia Nato il 5-10-1943, laureato in filosofia con lode nel 1967 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, specializzazione presso la stessa università nel 1969. Docente di scuola media inferiore nell’anno scolastico 1967/68, vincitore di concorso nell’anno scolastico 1973/74, ha insegnato in istituti medi superiori dall’anno scolastico 1968/69 al 1990/1991. Vincitore di concorso a professore associato di storia della filosofia antica bandito con decreto ministeriale 28 luglio 1990, in servizio presso l’Università Statale di Macerata, Facoltà di lettere e filosofia, Dipartimento di filosofia e scienze umane dal 1/11/1991. Vincitore di concorso a professore ordinario di storia della filosofia antica bandito con DR 326 del 25/3/2000, approvato il 30/11/2000, nominato con DR del 1/2/2001 presso l’Università Statale di Macerata, Facoltà di lettere e filosofia, Dipartimento di filosofia e scienze umane. Ha avuto più volte l’incarico per un modulo di Filosofia Politica Presidente del consiglio di corso di laurea dall’AA. 2001/2002 al 2003/2004 Direttore del Dipartimento di Filosofia e Scienze Umane dall’AA 2005/2006 Responsabile della collana di Lecturae Platonis, pubblicata presso l’Academia Verlag di Sankt Augustin (D). Responsabile del settore di Filosofia antica nella Collana Filosofia, Nuova Serie, edita dalla Morcelliana. Membro eletto per l’Europa nell’ Executive Committee della International Plato Society dal 2001 al 2007. Membro del Comitato Scientifico della Rivista “Ordia Prima - Revista de Estudios Clásicos”, Córdoba (Arg). ALCUNE PUBBLICAZIONI Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento di M. Migliori, Loffredo, Napoli 1976. Dialettica e verità. Commentario filosofico al “Parmenide” di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1990, 2000 2. L’uomo fra piacere, intelligenza e Bene. Commentario storico-filosofico al “Filebo” di Platone, Vita e Pensiero, Milano, 1993, 1998 2 22 Arte politica e metretica assiologica. Commentario storico-filosofico al “Politico” di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1996. De la critique de Schleiermacher aux commentaires recents. Evolution et articulation du nouveau paradigme de Tübingen-Milano, Les Études philosophiques, 1998, pp. 91-114. La prassi in Platone: realismo e utopismo, in Il dibattito etico e politico in Grecia tra il V e il IV secolo, a cura di Maurizio Migliori, La Città del Sole, Napoli 2000, pp. 239-282. L’anima in Platone e Aristotele, «Studium», 96 (2000), pp. 365-427. Dialektik und Prinzipientheorie in Platons Parmenides und Philebos, in Platonisches Philosophieren, Zehn Vorträge zu Ehren von Hans Joachim Krämer, von K. Albert, M. Erler, G. Figal, J. Halfwassen, V. Hösle, M. Migliori, K. Oehler, G. Reale und W. Schwabe, herausgegeben von Thomas Alexander Szlezák unter Mitwirkung von Karl-Heinz Stanzel, Georg Olms Verlag, Hildesheim-Zürich-New York 2001, pp. 109-154. Ontologia e materia. Un confronto tra il Timeo di Platone e il De generatione et corruptione di Aristotele, in Gigantomachia, Convergenze e divergenze tra Platone e Aristotele, Ed. M. Migliori, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 35-104. Sul Bene. Materiali per una lettura unitaria dei dialoghi e delle testimonianze indirette, in New Images of Plato, Dialogues on the Idea of the Good, Edited by G. Reale and S. Scolnicov, Accademia Verlag. Sankt Augustin 2002, pp. 115-149. Cura dell’anima. L’intreccio tra etica e politica in Platone, Ordia prima (Cordoba, Arg.), I (2002), pp. 25-65 La filosofia politica di Platone nelle Leggi, The Trevor J.Saunders Memorial Lecture, in Plato’s Laws: From Theory into Practic, Proceedings of the VI Symposium Platonicum, Selected Papers, Edited by S. Scolnicov and L. Brisson, Accademia Verlag, Sankt Augustin 2003, pp. 30-41 Il problema della generazione nel Timeo, in Plato Physicus, Cosmologia e antropologia nel Timeo, a cura di C. Natali e S. Maso, Adolf M. Hakkert Editore, Amsterdam 2003, pp. 97-120; ora anche in versione portoghese. O problema da geraçao no Timeu , in Cosmologias, Cinco ensaios sobre filosofia da natureza , org. R. Gazolla, Paulus, Sao Paulo 2008. La domanda sull’immortalità e la resurrezione. Paradigma greco e paradigma biblico, in L’anima, Seconda navigazione, Annuario di filosofia 2004, Mondadori, Milano 2004, pp. 183-206; pubblicato anche su Hypnos, D Alma - Soul’s, 10 (2005), pp. 1-23. 23 What is Fair and Good about Virtue, in Plato Ethicus. Philosophy is Life, Proceedings of the International Colloquium, Piacenza 2003, M. Migliori, L. M. Napolitano Valditara Editors, Davide Del Forno Co-editor, Academia Verlag, Sankt Augustin 2004, pp. 177-226. Comment Platon écrit-il? Exemple d’une écriture à caractère “protreptique”, in La philosophie de Platon, sous la direction de M. Fattal, II, L’Harmattan, Paris 2005, pp. 83-118, ed. italiana Come scrive Platone. Esempi di una scrittura a carattere “protrettico”, Annali della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Macerata, 37 (2004), pp. 249-277, pubblicato poi anche in Educaçao e Filosofia, 20 (2006), pp. 41-80. Il Sofista di Platone. Valore e limiti dell’ontologia . Cinque lezioni e una successiva discussione con Bruno Centrone, Arianna Fermani, Lucia Palpacelli, Diana Quarantotto, Morcelliana, Brescia 2006; versione inglese Plato’s Sophist. Value and Limitation of Ontology, Academia Verlag, Sankt Augustin 2007 24 Prof. Alessandro GHISALBERTI, Ordinario di Storia della Filosofia Medievale nell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano “Agostino Padre dell’Occidente” 1. Dall’impero romano all’Europa cristiana: Agostino forma l’Occidente. Nella sua forma più ampia di realizzazione, l’impero romano venne identificato con l’ecuméne, esprimente l’unificazione sotto il governo di Roma della quasi totalità delle aree allora conosciute e identificabili con il bacino del Mediterraneo. Sotto Cesare Ottaviano Augusto, nel tempo ancora inaugurale della costituzione dell’impero romano, nasce ed inizia la sua diffusione il Cristianesimo, e gli scrittori cristiani dei primi secoli dell’era cristiana scrivono in greco ed in latino, nel contesto dell’ecuméne che abbraccia l’Oriente e l’Occidente dell’impero unitario, termini della topologia storiografica assunti per sottolineare quelle che si vanno configurando come due sensibilità differenziate nell’interpretare il kérygma o annunzio cristiano. La diversità linguistica di greco e latino dice della situazione storica dell’impero, che ha accolto il bilinguismo, ma non dice differenze circa il come il cristiano intende abitare la storia e circa il modo di esplicitare la sua certezza dell’appartenenza alla patria metastorica, al regno che si costruisce a partire dall’esistenza terrena ed è proiettato verso il suo compimento definitivo fuori dalla storia, al termine della storia stessa. All’interno di questo processo, nel secolo IV dopo Cristo, irrompe la scrittura e l’opera evangelizzatrice di un retore africano, con grande sensibilità filoromana, Agostino d’Ippona (Tagaste, 354 - Ippona 430), al quale con sempre maggiore 25 insistenza la storiografia degli ultimi decenni attribuisce il titolo di “Padre dell’Occidente”, dove per Occidente ci si intende riferire alla storia successiva ad Agostino, quella che si distribuisce nel Medioevo e nella Modernità, in cui la nozione di Occidente si è andata sovrapponendo a quella di Europa. Agostino sta ancora nella stagione dell’ecuméne romana, seppure nei tempi della sua grande fragilità e della progressiva restrizione; nel contempo, il cristianesimo ha avuto modi e tempi per essere riconosciuto come elemento costitutivo della romanità, al punto che Costantino ha fondato nel 330 Costantinopoli, una nuova Roma sul Bosforo, la “seconda Roma”, ossia carica dei segni di novità che dovrebbero fermentare vitalmente nella sua storia futura, assolvendo al compito epocale del tutto nuovo, quello di fare fruttificare al massimo l’incontro dell’ecuméne politica con l’ecuméne cattolica, dell’universalismo romano con l’universalismo della fede cristiana. Ai tempi di Agostino propriamente non c’era ancora l’Europa cristiana nel significato che oggi si dà a queste espressione, e che rinvia piuttosto all’Europa costituitasi geograficamente e politicamente nel Medioevo, in particolare a partire dal sec. IX, con la nascita in Occidente del sacro romano impero, dove l’aggiunta di “sacro” è fatta perché in esso il cristianesimo divenne religione maggioritaria; contemporaneamente la lingua latina è assunta come lingua ufficiale delle istituzioni, sia imperiali, sia ecclesiastiche. Al forgiarsi delle linee culturali ed istituzionali, religiose e politiche, dell’Occidente latino altomedievale ha contribuito in modo decisivo proprio la figura e l’opera di Agostino, con il quale hanno dialogato ininterrottamente gli intellettuali di ogni area, come pure tutti i responsabili dei progetti di vita comunitaria in ambito civile come in ambito ecclesiastico. Tento di enucleare alcuni riferimenti che possano aiutarci a comprendere l’influenza del magistero agostiniano, e sottolineo anzitutto la sua complessità, la sua scelta di tentare un 26 accordo tra il sapere mondano, includente la filosofia greca ed ellenistico-romana, e la sapienza del Vangelo di Gesù Cristo, in cui l’amore dei valori metastorici deve prevalere sull’amore di sé e delle istituzioni umane, per far crescere quella che Agostino ha chiamato la “città di Dio”. Agostino è tra gli inauguratori dello spazio che sarà identificato con la categoria di “Occidente”, perché si posiziona in modo diversificato rispetto ai Padri della chiesa che avevano scritto in greco e che chiamiamo orientali. Pensiamo a Clemente Alessandrino e ad Origene: due grandi intellettuali cristiani, che vedevano la necessità di una scelta radicale, tra l’essere cittadini di questo mondo e l’aspirare ad essere cittadini del regno dei cieli, i quali si devono impegnare nella rinunzia ai valori terreni, estraniandosi dalle pulsioni e dai desideri della sensibilità dell’uomo. Non così Agostino, per il quale il corpo e l’anima sono indisgiungibili nell’esistenza attuale: le inclinazioni e le necessità del corpo vanno controllate e vanno fatte coesistere con le esigenze dello spirito, certamente primarie, ma non esclusive. Si produce in questo modo una grande drammaticità dell’esistenza umana, che implica la paradossalità del vivere in perenne conflitto, sempre nella tensione per il carico di difficoltà e di sofferenza, che accompagna la scelta della sequela evangelica esemplare e rigorosa. Agostino ha trovato nell’incarnazione del Verbo la luce che gli consentì di farsi una ragione di questa permanente conflittualità: tramite la carne assunta realmente dal Figlio di Dio, l’intero cosmo è segnato da un immancabile destino di luce e di gloria definitiva. Tutto ciò che di male, di tenebra, di angustia, di sofferenza avvolge l’esistenza terrena dell’uomo nella sua unione di anima e corpo, è da contrastare e da sopportare, nella convinzione che è dentro questa storia che si costruisce la vera storia, quella della città di Dio. Purificata dalle scorie della negatività e del dolore, anche la materia e il corpo saran27 no accolti nel definitivo; solamente nel definitivo metastorico il male, la tenebra e il dolore saranno sconfitti per sempre. Per lo strutturarsi dell’Occidente medievale, dell’Europa dalla cattolicità romana e dall’universalità della lingua latina, Agostino ha in tal modo offerto un percorso capace di fare spazio alla fede nel Dio di Gesù Cristo ed insieme alla scansione temporale della storia; una storia che ha conosciuto l’irruzione della “luce immutabile” della rivelazione cristiana, ma che vive nella contraddizione della mutabilità del nascere e del morire, nell’impegno a costruire forme di convivenza civile che mirano alla pace, ma che non si possono liberare dalla guerra, nella ricerca della giustizia, ma che non ha possibilità di essere piena e totale, perché circondata da ingiustizie e malfattori. Sopra tutto ciò spicca la grande cifra dell’agostinismo, ossia la convinzione dell’accordabilità intrinseca di fede e ragione, dove l’ossequio della ragione alle verità rivelate che superano le sue scoperte non è una rinunzia alla razionalità, non umilia l’intelligenza dell’uomo, ma la riposiziona nello spazio del mistero: l’obsequium è rationabile! Il mistero, e, al limite, lo stesso esito ineffabile dell’unione mistica, non sopprimono la ragione, ma le assegnano il compito di comprendere (intelligere, avere l’intelligenza) le altitudini della rivelazione. L’esito del credere è l’incremento di intelligenza (credo ut intelligam!), che consente all’intelletto di pervenire alla visione perfetta, alla sorgente luminosa della verità e del bene, che sazia ogni desiderio di conoscenza. La grande Scolastica del medioevo centrale sarà concorde nel riconoscere l’imprescindibilità della ragione nel cammino del credente; anche quando alla ragione sarà richiesto di sottomettersi al mistero, sarà evidenziato che il risultato finale non è la sua dissoluzione, ma l’apertura al riconoscimento di una dimensione più grande, che, ancorché inafferrabile, non la annulla né la rende inutile. Così l’uomo è consapevole di stare nella situazione propria del finito: la luce dell’intelligen28 za lo rende consapevole di quello che è, gli offre spunti per capire quello che vorrebbe essere ed insieme quello che può realmente conseguire del grande desiderio di felicità che gli sta dentro. 2. L’abisso della creatura e l’abisso divino È noto che il contributo più originale di Agostino alla filosofia è consistito nello sviluppo del tema dell’interiorità, della dimensione interiore, emozionale, passionale e più propriamente spirituale del soggetto, e che egli ha esplorato più volte nelle sue opere maggiori. Uno dei percorsi più originali in questo scavo è costituito dal tema dell’abisso, come chiave di lettura dell’interiorità dell’uomo; l’abisso è preso anzitutto nel senso primo e più comune, di luogo dove si è continuamente esposti al rischio dell’instabilità, alle insidie di un luogo melmoso o vorticoso, senza un fondo che possa dare ancoraggio, o senza un fondamento che consenta di stare fermi. Questo è stato il tema idoneo a descrivere le turbolenze dell’adolescenza di Agostino, nella sua autobiografia intitolata Confessioni, ma anche atto in generale a configurare lo stato in cui si trova a condurre la propria vita quotidiana l’uomo. Agostino si domanda perché l’uomo, nonostante che conosca le legge morale e sia pieno del desiderio di essere felice, di godere nella ricerca della verità, scelga di perdersi nell’abisso, perché scelga lo sterminio. A questa domanda: “perché l’uomo sceglie l’abisso”, Agostino dà una doppia risposta, assai importante. In primo luogo, l’abisso ha il suo fascino, il fascino riposto nelle bellezze che costellano l’universo: queste molteplici bellezze si offrono all’uomo perché ne goda secondo una giusta forma, secondo una linea di fruizione e di godimento temperata dalla ragione, rispettando la misura e la proporzione tra l’uomo, le cose belle, il loro uso, e la loro bontà. 29 Per rispettare il punto di equilibrio, c’è una linea forte di appoggio, la ragione, mediante la quale l’uomo dovrebbe vigilare e fare sì che la fruizione del creato resti nel parametro del giusto e del buono: “Le belle forme nei corpi e l’oro e l’argento e ogni cosa simile attraggono gli occhi col loro aspetto; nel senso del tatto importa moltissimo la consonanza della carne e del suo oggetto, come gli altri sensi ricevono dagli oggetti una loro specifica e conveniente modificazione. Anche l’onore mondano, il potere, il dominio posseggono una loro dignità, origine fra l’altro nell’uomo del desiderio di vendetta. Tuttavia per ottenere tutti questi beni non occorre allontanarsi da te, Signore, né deviare dalla tua legge. La vita stessa che viviamo qui sulla terra possiede un suo fascino, che le deriva da una certa misura di grazia sua propria e dall’armonia con tutte le altre minime bellezze dell’universo. E l’amicizia fra gli uomini non è forse deliziosa per l’amabile nodo con cui unifica molte anime? Tutte queste cose e le altre ad esse simili sono fonte di peccato soltanto nel caso che ad esse tendiamo smoderatamente e per esse, che sono beni infimi, trascuriamo gli altri migliori e sommi: te, Signore, Dio nostro, e la tua verità e la tua legge. Perché, sì, anche questi infimi beni dilettano, ma non quanto il mio Dio, autore di ogni cosa, in cui appunto gode l’uomo giusto e appunto è delizia dei cuori retti”1. L’abisso ha la sua bellezza, è la bellezza dei beni infimi, che non vanno perseguiti a svantaggio dei beni più grandi. C’è il fascino dell’abisso! Scegliamo qualche altra riflessione su come l’abisso AGOSTINO, Confessioni, II, 5.10; ed. a cura di M. Bettetini, Einaudi, Torino 2002, p.51. 1 30 attrae, sviluppa un cammino che coinvolge l’intenzione dell’uomo. Ecco, ad esempio, come l’abisso muove la psiche: “Perciò nella ricerca del movente di un delitto non si è paghi di solito, se non quando si scopre la brama di ottenere l’uno o l’altro dei beni che abbiamo definito minimi, oppure il timore di perderlo, perché essi, sebbene abietti e vili a paragone dei beni superiori e beatificanti, posseggono una loro bellezza e grazia. Qualcuno ha ucciso: perché l’ha fatto? Vagheggiava la moglie o il podere del morto, oppure cercò di predare per vivere, oppure temeva di perdere uno di questi beni per mano del morto, oppure era arso dal desiderio di vendicare un affronto subito. Avrebbe mai perpetrato un omicidio senza ragione, per il solo piacere di uccidere un uomo? Chi lo crederebbe? Persino alle follie e alle crudeltà estreme di un uomo, del quale fu detto che sfogava abitualmente per nulla la propria malvagità e crudeltà, fu premessa una ragione: “perché nell’inattività - dice il suo storico - non s’intorpidisse la mano e lo spirito”. Domandati anche questo: a che scopo? Perché questo? Evidentemente per ottenere mediante la pratica dei delitti e una volta padrone della città, onori, potere, ricchezze; per liberarsi dal timore delle leggi e dalle angustie che gli derivavano dalle esiguità del patrimonio e dal rimorso dei delitti. Dunque neppure Catilina amò i propri delitti, ma altro: lo scopo, cioè, per cui li commetteva”2. È chiaro: l’abisso esiste con tutte le caratteristiche descrivibili; è una categoria retorica, è un appannaggio possibile all’uomo, all’uomo Agostino, all’uomo di ogni tempo, a noi uomini d’oggi! Ci riguarda! Seconda risposta alla domanda “perché la scelta dell’abisso”: oltre al fascino della seduzione, e del male, nell’abisso 2 Ibi, II, 5.11; pp. 51-53. 31 è inclusa una sfida prometeica. L’uomo vuole costruirsi un territorio proprio senza delimitazioni, un luogo non finito, non segnato da argini e confini, ma infinito, abissale; è l’uomo che si fa “simia Dei ”, che tenta la via di Dio, pensa di poter essere infinito e senza limiti, di essere come Dio, il quale Dio sì, che è l’abisso: nulla può contenerlo, nulla può limitarlo, nulla può impedirgli di essere ogni bene e ogni bellezza. In una immagine simbolica di rara efficacia, Agostino dice: “Perverse te imitantur omnes, qui longe se a te faciunt et extollunt se adversum te”3. “Tutti ti imitano perverse = alla rovescia, quindi si allontanano da te (= si inabissano) quanti vogliono stabilire un abisso al rovescio, rovesciato rispetto all’abisso ontologico costituito da Dio, erigendosi contro Dio”. È chiaro il senso: la creatura che si allontana da Dio, lo fa per imitare Dio (ecco la “simia Dei”, la scimmia di Dio): contrappone il proprio abisso all’abisso di Dio, in un’ottica di delirio prometeico, tentando di costituire un vero abisso rovesciato. Agostino non può non rilevare come la creatura, anche quando va alla deriva della deriva, ossia si muove nello sforzo di rovesciare l’abisso di Dio per appropriarsene in autonomia, non fa altro che mostrare la propria cifra creaturale, per la quale è inevitabilmente portato ad imitare la propria causa fattrice; il suo essere non può non esprimere il legame con la causa che l’ha messo nella condizione di essere e di agire: “Ma anche imitandoti, a loro modo, provano che tu sei il creatore dell’universo, e quindi che non è possibile allontanarsi da te in alcun modo”4. E prosegue, applicando a se stesso, alla propria volontà di onnipotenza esibita nella circostanza del furto delle pere, l’a- 3 4 Ibi, II, 6.14; p. 55. Ibidem. 32 berrazione di questa operazione prometeica, e la stigmatizza con parole di fuoco. L’esito dell’abisso umano è chiamato: putredo, marciume; monstrum vitae, mostruosità vivente; mortis profunditas, abisso di morte, tenebrosa omnipotentiae similitudo, buia caricatura di onnipotenza. Stupefacente e molto lucida lettura dell’abisso cui si volge la creatura, dove c’è il marciume della putredine melmosa dei fondali privi di fondo stabile, dove vivono i mostri, dove di abissale vero c’è solo la morte che inghiotte. E ciò è il risultato di chi (mortis profunditas) imita Dio “vitiose atque perverse”, in modo malvagio e rovesciato. Di fronte alla presa di coscienza dell’abisso della creatura, che nelle sue contorsioni dimostra di testimoniare che il vero abisso, quello di grandezza e felicità, è solo l’abisso ontologico, che costituisce la forma piena dell’essere perfetto, del sommo bene, cioè di Dio, e dimostra altresì che la creatura non potrà mai avere felicità e stabilità cercando dimora nell’abisso degli esseri finiti, l’unico atteggiamento che ad Agostino pare consentito al fine di non cadere nella disperazione o nella rinunzia totale alle proprie aspirazioni, diventa quello di discernere l’abisso, di abitare l’abisso delle creature con la massima attenzione, nella vigile ricerca dell’orientamento, per captare i segnali di richiamo, i passaggi che aiutano a varcare l’abisso, gli ancoraggi numerosi che Dio manda all’uomo (i suoi “giudizi”): “Tutti i tuoi cavalloni e i tuoi flutti passano sopra di me. I flutti in ciò che subisco, i cavalloni in ciò che tu minacci. Ogni colpa che sento è una tua ondata; ogni tua minaccia, è un tuo rinvio. Nelle ondate questo abisso invoca, nei rinvii invoca l’altro abisso. In ciò che soffro, tutte le tue ondate, in ciò che tu minacci di più grave, tutti i tuoi rinvii si sono rovesciati su di me. Colui che minaccia non opprime, ma rinvia. Ma poiché tu liberi, questo ho detto all’anima mia: spera in Dio perché lui loderò; è la salvezza del mio volto, Dio mio. 33 Quanto più frequenti sono le sciagure, più dolce sarà la tua misericordia”5. La grandezza di questa lettura agostiniana dell’uomoabisso sta nel fatto di aver scavato nell’intimità del vissuto, nel mondo della vita o Lebenswelt dell’uomo, quello di Agostino, ma altresì quello dell’uomo di ogni tempo, e di avere scoperto le strutture contrastanti, il laceramento permanente cui è sottoposta l’esistenza umana, nel suo desiderio congenito di felicità , nella sua aspirazione a conoscere se stesso e le cose così come sono, e cioè nella loro verità, nella difficoltà di restare fedele a ciò che si riconosce prioritario e di maggiore valore in ordine alla ricerca della felicità e della verità. Nessuno è felice se viene ingannato, dice con finezza Agostino; e ciò equivale a dire: nessuno desidera stare fuori dalla verità, solo la verità (il sapere come stanno le cose nella realtà) rende felici. Questo scavo nella profondità delle contraddizioni, delle lacerazioni, delle aspirazioni a tentare nuove vie di accesso alla felicità, è riassumibile nel triplice ordine delle tentazioni cui è quotidianamente sottoposta l’esistenza di Agostino, così come egli ne parla nel libro X delle Confessioni. I capitoli dal trentesimo al trentanovesimo del libro X delle Confessioni sono dedicati alle tre forme della tentatio, come modalità del defluxus, del vacillare nel decadimento, nel tentativo di poter dominare la connessione tra felicità e piacere, e trattano il nesso tra verità e apparenza di verità. Bisogna evitare di prendere le riflessioni di Agostino sulle tentazioni come cavilli da moralista, o come narcisismi di un retore che si sbizzarrisce nell’indagine psicologica; è il cercare l’ancoraggio che nella vita attuale è pieno di difficoltà, dato che la AGOSTINO, Esposizione sul Salmo 41, n. 15. In: http://www.santagostino.it/italiano/esposizioni_salmi 5 34 vita umana appare tutta una tentatio. La prima forma di tentazione è denominata concupiscentia carnis, dove concupiscenza, dal latino con-cupiscere vale come “desiderare insieme”, “desiderare con”, con la carne, con gli occhi (seconda forma: concupiscentia oculorum), con l’io interiore proteso nel desiderio di gloria, nell’affermazione di sé (terza forma: ambitio saeculi). Il desiderio con la carne appare nella memoria ad esempio con il permanere in essa delle immagini degli antichi amplessi: si riaccendono nel sonno, mentre sono deboli quando Agostino è desto, per cui egli si domanda: forse che non sono io nel sonno? Nella veglia resisto, ma nel sonno dove va la ragione? Le esperienze oniriche appartengono comunque al mio mondo, al mondo della mia vita. Ancora, la fame e la sete del corpo vengono soddisfatte, ma quella che è una necessità, un bisogno fisico della carne, si trasforma in diletto; l’aver bisogno di cibo è soave, il dolore viene estinto con piacere, ossia la cura dei nostri bisogni diventa piacevole, per cui sorge la domanda: si soddisfano la fame e la sete per il bisogno della cura del corpo, oppure perché dalla soddisfazione se ne trae piacere? Accade che quanto basta alla salute, è poco per il piacere. Da questo si coglie la conflittualità della vita, perché il desiderio della vita felice passa attraverso tutte le forme di desiderio che sollecitano la sensibilità, la capacità estetica, anche attraverso il mio desiderio quotidiano di cibo, da cui misuro la mia vigilanza nel protendermi verso il genuino esse beatus. Dopo la pulsione sessuale e la brama del cibo, ecco le sinuose attrazioni degli odori, apparentemente innocui, ma in realtà sempre pronti all’invasività, e poi quelle dei suoni vocali e dei suoni musicali, ossia dei piaceri degli orecchi, capaci di portare al bene o di convergere sul male: la voce (parole, modulazioni della voce, sospiri, gemiti, ecc.), e i suoni ritmati (melodie, sacre e profane, ecc.) possono attivare gli affetti dello spirito, ma sono capaci anche di deviare lo spirito dalla giusta concentrazione. 35 È poi la volta della tentazione della vista, che ogni giorno ci mette alla presenza di forme e colori veicolati dalla luce, e che evidenziano la nostra dipendenza da essi e la nostra fragilità, al punto che non reggiamo il buio. Le cose e le loro immagini create dagli uomini aggravano questa situazione di vulnerabilità, perché insistono nell’accrescimento dei prodotti da guardare, e, nell’intento di ampliare le percezioni estetiche, incrementano il campo delle sconcezze, del materiale pornografico per gli occhi. Agostino stigmatizza tutto il campo degli oggetti esteriori che attirano la vista, in cui riconosciamo il mondo mediatico e mediatizzato dei nostri giorni, che provoca la dispersione della visione, allontanandola dal piacere della vita beata, che sta ferma nella verità, che è il mondo vero; la bellezza autentica non è il mondo mediatico o il mondo virtuale. Grande tentazione, dice Agostino, quella di incamminarsi nelle bellezze esteriori e perdere la bellezza interiore della luce della verità. Con la seconda forma della tentazione: concupiscentia oculorum, siamo sempre sul fronte degli occhi e della vista, ma mentre nel precedente livello la vista era nella carne (in carne), ora siamo al vedere attraverso la carne (per carnem), all’esperire mediante la carne, sviluppando una smodata curiosità, un forte appetito di conoscere. Questa bramosia si traveste con il nome di scientia, si riveste di ornamenti e paludamenti che la fanno apparire conoscenza, scienza, sapere, e che attiva gli occhi della mente. Questa bramosia di cose nuove da vedere, per il gusto solo del conoscere, del mero vedere, compromette la passione per la verità, porta al cuore della memoria una catena di curiosità senza Dio. Il terzo genere della tentazione è costituito dall’amore della lode e della stima degli altri per sé. È l’autocompiacimento, l’egocentrismo che esprimono l’attenzione e il desiderio a che ricadano su di sé la fama, la gloria, la stima degli altri. La lingua ne è il principale veicolo, perché il sermo, il discorso costruito dalla lingua degli uomini, espone il mondo 36 del sé al mettersi in opera in vista degli altri. Parla il retore Agostino, facitore di sermoni persuasivi, esperto nell’uso della lingua, che è definita come una “fornace”, un crogiuolo in cui sono sottoposti quotidianamente a verifica l’io individuale e gli altri in riferimento a sé. La lingua è veicolo delle parole che noi pronunciamo, come delle parole che gli altri pronunciano su di noi, lasciando ampio spazio all’inautenticità, alla dissimulazione, all’atteggiarsi, all’esibizione. Il vero piacere, quello che dà la felicità compiuta, deve vertere sul dono ricevuto dall’uomo, e perciò sul riconoscere che la lode è prerogativa del creatore delle cose, più che di colui che ne viene in possesso. La verità è solida, certissima in sé e non fondata nella bocca degli altri; la verità non dipende dagli altri, non teme il biasimo; la verità è raccolta in sé stessa, è nella continentia, sta nella giustizia della realtà e non nella cura dell’apparenza. Al termine di questa analisi dei rischi cui è esposto quotidianamente, Agostino dichiara tutta l’angoscia che prova nell’avere sé stesso tra tanti pericoli e travagli: “Ma fra tutte le cose che passo in rassegna consultando te, non trovo un luogo sicuro per la mia anima, se non in te. Soltanto lì si raccolgono tutte le mie dissipazioni, e nulla di mio si stacca da te. Talvolta mi introduci in un sentimento interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che, qualora raggiunga dentro di me la sua pienezza, sarà non so cosa, che non sarà questa vita. Invece ricado sotto i pesi tormentosi della terra. Le solite occupazioni mi riassorbono, mi trattengono, e molto piango, ma molto mi trattengono, tanto è considerevole il fardello dell’abitudine. Ove valgo, non voglio stare; ove voglio, non valgo, e qui e là sto infelice”6. 6 AGOSTINO, Confessioni, X, 40.65; pp. 405-407. 37 3. Conclusioni Abbiamo in precedenza dato ampio rilievo al fatto che la proposta antropologica di Agostino tratta il corpo e l’anima come modalità proprie dell’esistenza umana, senza pensare che si possano disgiungere; abbiamo visto come le inclinazioni e le necessità della carne vanno contemperate e fatte coesistere con le istanze dello spirito. Ciò produce una grande drammaticità e la loro convivenza richiede l’accettazione della paradossalità del vivere in perenne conflitto, sempre nella tensione, nell’insopprimibile confronto con le difficoltà e con la sofferenza. Dalle Confessioni sappiamo anche che Agostino, dopo i trent’anni, ha trovato, attraverso il percorso della conversione, nell’incarnazione del Verbo la luce che gli consente di farsi una ragione di questa permanente conflittualità: l’intero cosmo, attraverso la carne assunta realmente dal Verbo di Dio, è segnato da un immancabile destino di luce, che lo proietta verso la salvezza definitiva. Agostino tuttavia non scappa, non si rifugia nel platonico mondo ideale e disincarnato; il male, le angustie, le tenebre sono reali e vanno trattate come tali, sopportando, contrastando, lottando, nella convinzione che è dentro questa storia che si costruisce la vera storia, quella che libera dalla contraddizione. Agostino insegna che al suo definitivo instaurarsi, la città di Dio, purificata dalle scorie della negatività e del dolore, sarà il territorio ospitale che accoglierà anche la materia e il corpo e le loro dinamicità. È una voce nuova questa: nessuna filosofia dello spirito anteriore ad Agostino aveva proposto questo percorso! Nessuna lettura dell’esistenza umana, includendo anche quelle fatte alla luce della rivelazione del Vangelo, aveva proposto un percorso come quello di Agostino; a ragione, perciò, viene perciò indicato come il padre dell’Occidente medioevale. L’agostinismo medioevale ha accolto questa via alla pacificazione dei conflitti interiori dell’uomo, senza rinunziare alla 38 propria identità, all’essere uomini così come l’uomo è. Nei territori dell’abisso, nella vicenda interiore di ciascun io, si è manifestato un firmamento solido, un punto di luce riconoscibile perché fatto di carne, un uomo che offre un appoggio fermo e sicuro per attraversare l’abisso, perché è l’Abisso ontologico; con tutta la mia riflessione razionale tengo insieme la mia vita tra i flutti che ancora su di lei si frangono, nella ferma adesione al “firmamento” cui mi aggancio come àncora di salvezza. Nella prima modernità, un agostinismo diverso da quello medioevale, ossia l’agostinismo luterano e dei teologi della Riforma protestante proporrà all’uomo l’opzione della sola fides, proporrà cioè di affidarsi alla sola fede e di abbandonare la ragione. Ma, senza la ragione, che fa da ponte tra la fede che salva e l’abisso che minaccia di inghiottire, tutta l’antropologia si troverà in difficoltà nei confronti del vivere quotidiano e della storia. E l’Europa conoscerà una stagione diversa, una diversa concezione della storia, quella assai controversa dell’illuminismo, in cui fede e ragione camminano separatamente e porterà alla lacerazione del razionalismo e del fideismo. 39 Biografia Professore ordinario per il settore scientifico-disciplinare M-Fil 08, è docente di Filosofia teoretica e di Storia della filosofia medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ricopre la carica di Direttore del Dipartimento di Filosofia della stessa Università ed è direttore della “Rivista di Filosofia neo-Scolastica”. Già docente di Storia della filosofia medievale all’Università della Calabria, è stato Visiting Professor nelle Università di Lisbona, San Paolo, Campinas, Porto Alegre, Sorbonne di Parigi. Socio della Società filosofica italiana, membro della Siepm (Société internationale pour l’étude de la philosophie médiévale), membro della SISPM (Società italiana per lo studio del pensiero medievale), membro del Consiglio direttivo dell’Istituto internazionale di Studi Piceni, dell’Istituto di Studi umanistici F. Petrarca, del Comitato direttivo del Centro per le ricerche di Ontologia, Metafisica ed Ermeneutica (CROME) dell’Università Cattolica di Milano, del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, dell’Istituto “Veritatis Splendor” di Bologna, della Rivista “Medioevo”, dell’Anuario de Historia de la Iglesia (Pamplona). 40 Prof. Mario SARCINELLI* Presidente Dexia - Crediop Il futuro dell’impresa bancaria, tra malia della finanza e richiamo del territorio Col vostro permesso, comincerò con una citazione da Aurelii Augustini Confessionum Liber Secundus: Cui narro haec? Neque enim tibi, Deus meus, sed apud te narro haec generi meo, generi humano, quantulacumque ex particula incidere potest in istas meas litteras. Et ut quid hoc? Ut videlicet ego et quisquis haec legit cogitemus... (III, 5) (Ma a chi racconto queste cose? Non certo a te, Dio mio, ma rivolgendomi a te le rivolgo al genere cui appartengo, al genere umano, per minuscola che sia la parte di esso che potrà imbattersi in questo scritto. E questo, perché? Evidentemente perché io e chiunque altro legga tali cose su di esse rifletta....) Con questo riferimento voglio solo stabilire un legame formale con la conferenza precedente e sottolineare che l’ansia della conoscenza, della riflessione e soprattutto dell’insegnamento è comune al discorso teologico-morale come a quello economico. Devo anche avvertire che non cercherò di scavare intorno alle origini della banca, non solo perché non sono uno storico dell’economia, ma soprattutto perché mi sembra più interessante e produttivo andare alle radici della crisi finanziaria che oggi ci investe e ai modi per curarla. Ringrazio il prof. Alessandro Roncaglia per avere letto una precedente versione di questo scritto; di errori, opinioni e omissioni resto unico responsabile. * 41 1. Introduzione - Credo di avere affrontato, per la prima volta in un convegno, il tema delle prospettive della banca in Italia una quindicina di anni or sono (Sarcinelli 1993). A quell’epoca avevo responsabilità esecutive nell’ambito della BERS, la banca per la ricostruzione e lo sviluppo dei paesi dell’ex impero sovietico, esterno (i c.d. paesi satelliti) ed interno (le repubbliche federate dell’URSS). In ragione del mio incarico venivo a conoscenza del travaglio dei nuovi governanti per la trasformazione dei loro sistemi economici e politici verso il mercato e verso la democrazia e ad essi mi sforzavo di contribuire con l’aiuto delle giovani strutture della neonata banca (Sarcinelli 1992a). In qualche misura, anche il sistema finanziario italiano, che aveva attraversato senza sconvolgimenti istituzionali e con alcuni dissesti aziendali la seconda guerra mondiale, la ricostruzione, lo sviluppo, la caduta di Bretton Woods, le crisi petrolifere, la stagninflazione e la grande accumulazione di debito pubblico, si presentava come una creatura degli anni ’30, caratterizzata dal ruolo preponderante del regolatore pubblico, da quello scarso del mercato, dall’assoluta prevalenza della componente bancaria. Quest’ultima era costituita da aziende di credito, operanti quasi esclusivamente sul breve termine con provvista sul mercato dei depositi, e da istituti speciali di credito, dediti a finanziare investimenti nei settori di loro elezione con raccolta sul mercato obbligazionario. La deregolamentazione, la liberalizzazione, l’incipiente globalizzazione per la raggiunta libertà nel movimento dei capitali, i propositi di privatizzazione e, soprattutto, l’emergere di una volontà di far fare un formidabile passo in avanti all’Europa con il passaggio alla moneta unica resero evidente la vetustà del nostro ordinamento finanziario e necessario il suo adeguamento alle nuove sfide che l’Europa preparava. Frutto di questa volontà di riforma delle strutture fu la Commissione nominata dal Ministro Carli per la bisogna (Ministero del Tesoro 1991). L’attuazione della seconda Direttiva bancaria con il testo unico (TUB) nel 1993 costituì 42 l’occasione per una profonda revisione del nostro ordinamento, completato cinque anni dopo da un altro testo unico, quello finanziario (TUF). A chi scrive e presumibilmente a tutti coloro che si occuparono della banca, della sua collocazione nel sistema e del suo ruolo nell’economia agli inizi degli anni ’90 non fu difficile trovare punti di riferimento nella legislazione europea che si andava infittendo e, soprattutto, nell’esperienza dei sistemi orientati al mercato, come quelli anglosassoni, che venivano affermandosi quali ordinamenti vincenti rispetto a quelli basati sulla banca, tipici della tradizione renana (Sarcinelli 1997). L’arretramento dello stato nella proprietà delle imprese produttive e delle banche, la sostituzione della vigilanza strutturale con quella prudenziale, l’eliminazione dei vincoli diretti quasi sempre usati per finalità di controllo macroeconomico, la libertà di scelta del modello d’impresa e di quello organizzativo da parte dei singoli intermediari trovava giustificazione, tra accademici e politici, nella fiducia accordata al mercato, nella sua capacità di autodisciplina1 e nei meccanismi che assicurano l’allineamento degli interessi tra l’azionista mandante e l’amministratore mandatario attraverso la “voce” negli organi sociali, l’”uscita” dalla compagine azionaria, la “scalata” mediante l’offerta pubblica d’acquisto. Nel momento in cui si scrive - primavera del 2008 - il quadro che si offre alla nostra attenzione è profondamente diverso. Il mercato finanziario ha assunto un ruolo decisamente più importante a livello mondiale attraendo nella sua orbita ancor più che in passato le banche, ma ha dimostrato anche un’insufficiente capacità di autoregolazione. Nei primi anni di Secondo la BCE, l’attuale crisi è sopravvenuta quando la volatilità di mercato si è innalzata e la qualità dei crediti sottostanti ai titoli si è deteriorata, ponendo fine alla spirale tra crescente liquidità di mercato, aumento della leva finanziaria e riduzione degli spreads che aveva caratterizzato la fase di boom (ECB, December 2007, p. 12). 1 43 questo nuovo secolo si è dovuto registrare negli Stati Uniti, il paese leader in campo finanziario, lo scoppio di due grandi crisi dovute alla bolla di Internet prima (1995-2001) e a quella dei mutui ipotecari subprime dopo2. Quest’ultima si sta allargando ad altri segmenti finanziari e ha coinvolto pesantemente le banche americane e in minor misura anche quelle europee; ha portato al fallimento, come in Germania, anche qualche piccola istituzione che si era imbarcata in affari dalla dimensione spropositata. L’innovazione finanziaria ritenuta sempre socialmente benefica si è rivelata “matrigna” non solo con i prenditori subprime di prestiti ipotecari, ma anche con gli intermediari che hanno proceduto alla cartolarizzazione di mutui e di altre attività di non primaria qualità nel tentativo di alienare con essi i relativi rischi. Questi ultimi, però, sono ricaduti sugli intermediari cedenti, necessitati a difendere la propria reputazione o ad onorare un obbligo esplicito, allorché il mercato si è inceppato per una crisi di liquidità che perdura. L’impegno delle maggiori banche centrali per alleviarla è stato senza precedenti e, nel caso della Fed, con modalità al limite dell’ortodossia. Il mercato e lo stato sono le due grandi istituzioni che, con ruoli diversi, rendono la vita economica passabilmente ordinata: al primo spetta un compito di coordinamento nell’allocazione corretta delle risorse che può avvenire solo se esprime prezzi concorrenziali, al secondo incombe di predisporre regole, sorvegliarne l’applicazione e garantire che non si formino posizioni dominanti, distorsive della concorrenza. Il quantum di intervento pubblico, la combinazione tra regolazione, supervisione e tutela della concorrenza, le procedure di consultazione, applicazione ed eventuale 2 Su bolle finanziarie, crisi economiche e un nuovo ordine finanziario per combattere l’instabilità si veda Sarcinelli (2003b). Nel momento in cui si scrive, secondo alcuni osservatori, una terza bolla si sta formando sulle materie prime e su quelle energetiche. 44 impugnazione da parte degli interessati variano di tempo in tempo e da un ordinamento all’altro. Un “fallimento del mercato”, vero o presunto, sollecita la politica e la pubblica opinione a favorire un’estensione dell’intervento dello stato, cui gli intermediari reagiscono con la promessa di un’autoregolamentazione altrettanto efficace e meno invasiva. Infatti, un’intelaiatura di vincoli e di controlli nel campo gestionale, informativo e comportamentale troppo pesante aumenta i costi, svantaggia gli operatori interni rispetto a quelli esterni e non necessariamente evita gli eccessi del mercato; prima o poi, le pressioni degli operatori e la concorrenza estera segnalano il “fallimento dello stato” e il pendolo si rimette in moto a favore della deregolamentazione. Sono corsi e ricorsi vichiani... Ovviamente, questi movimenti sono permessi o aiutati dalla prevalente “filosofia” politica che se liberale o liberista spinge per aumentare il ruolo del mercato, se garantista o protettiva di particolari interessi promuove quello dello stato. D’altro canto, l’autoregolamentazione spesso non ha adeguati meccanismi di controllo o di enforcement e comunque è scarsamente credibile all’indomani di una crisi che il comportamento degli intermediari ha creato o aggravato. Infatti, essa è stata innescata sì dalla speculazione immobiliare alla quale hanno partecipato, in modo consapevole o no, molte famiglie americane non in grado di onorare i mutui quando sono divenuti più cari a causa del tasso contrattuale variabile, ma è stata amplificata dall’azione senza scrupoli di broker allettati dalle laute commissioni, nonché dalla tecnica di cartolarizzazione e dal supposto isolamento dai rischi trasferiti. Dinanzi alla dimensione della crisi finanziaria che ha colpito Wall Street, il segretario al Tesoro americano, Paulson, ha prospettato in un lungo rapporto (Department of the Treasury 2008) una revisione del complesso e frammentato sistema di supervisione del sistema finanziario negli Stati 45 Uniti, suddividendola in misure per il breve, per il medio e per il lungo termine. D’altro canto, da studiosi (ad es., Spaventa 2008b) e da istituzioni internazionali (IMF April 2008a) viene raccomandato di non reagire all’attuale crisi con una corsa alla regolamentazione. Ogni eccesso, soprattutto se dettato dall’emotività o dal mero desiderio di far vedere alla pubblica opinione che si reagisce agli avvenimenti, è da evitare, ma dopo un’analisi dei meccanismi di mercato che non hanno frenato innovazioni rivelatesi socialmente dannose è necessaria una nuova regolazione di alcuni segmenti dell’industria finanziaria. Dopo questi sconvolgimenti e le attese reazioni delle autorità, quali ulteriori vincoli l’azienda bancaria si vedrà addossare? Quale configurazione assumerà il sistema bancario? Poiché è impossibile fare previsioni attendibili sui tempi e sui modi in cui questa ridefinizione della cornice regolatoria avverrà negli Stati Uniti, si farà riferimento alle traiettorie che erano state delineate poco prima dell’ultima crisi, nel 2004 (§§ 2, 2.1-3). Seguirà un’analisi delle condizioni che hanno permesso alla crisi da subprime di svilupparsi (§ 3). Anche l’Europa sarà necessariamente influenzata da ciò che accadrà negli Stati Uniti non solo perché la crisi americana l’ha già toccata in buona misura, ma perché molte delle regole prudenziali vengono sviluppate da (o con la collaborazione di) istituzioni e consessi internazionali (FMI, OCSE, FSF, JF, BCBS, IIF). Comunque, il futuro della banca nel nostro Continente continua ad essere una preoccupazione della Commissione, delle altre istanze europee e di centri di ricerca; alle loro proposte e a quelle di alcuni ministri dell’Eurozona si farà riferimento per delineare lo scenario (§§ 4, 4.1-3). La riforma della struttura di supervisione finanziaria in America è un compito soprattutto per il lungo periodo (§ 5). I crucci e le iniziative non solo ministeriali per rendere più integrata in Europa la supervisione sulle banche transnazionali sono argomenti all’ordine del giorno (§§ 6, 6.1). Un esame di coscienza ha preso il posto delle conclusioni (§ 7). 46 2. Tendenze probabili nell’industria bancaria americana: prima della crisi da subprime - Nel 2004, dopo 17 anni da una precedente ricerca (FDIC 1987), la Federal Deposit Insurance Corporation promosse un altro studio (FDIC 2004; Hanc 2004) volto a delineare l’evoluzione della struttura e della performance dell’industria bancaria americana nel successivo quinquennio-decennio e a individuare i conseguenti problemi di politica settoriale. Si parte dalla constatazione che nell’intervallo tra i due studi la crescita quasi continua dell’economia e la deregolamentazione hanno indotto un netto miglioramento della redditività e della capitalizzazione delle banche. A sua volta, la caduta o la riduzione dei vincoli a prodotti e mercati hanno favorito la concorrenza tra banche e tra queste ultime e gli altri intermediari; inoltre, la tecnologia dell’informazione ha accresciuto le possibilità di consolidamento del sistema bancario attraverso fusioni e acquisizioni. Ne sono emerse alcune organizzazioni gigantesche di grande complessità sia per la loro presenza sul territorio di più continenti sia per la creazione e diffusione di prodotti ad alta sofisticazione, in ciò aiutate dall’innovazione finanziaria. L’indagine del 2004, definita come esercizio del pensiero strategico, affronta le seguenti questioni: a) quali mutamenti sono da attendersi nell’ambiente in cui opera la banca; b) quali prospettive si aprono per i differenti segmenti dell’industria bancaria; c) quali problematiche di policy le banche e i regolatori si troveranno ad affrontare. 2.1. Mutamenti ambientali - La dimensione economica è la prima ad essere esaminata sub a); si ipotizza sia la prosecuzione di una crescita moderata dell’economia con effetti benefici sulla solidità e sulla redditività bancaria, sia la formazione di bolle speculative come quelle degli anni ’80 nei settori dell’energia, degli immobili commerciali e dell’agricoltura, che portarono alla caduta di banche, o negli anni ’90 nel comparto della tecnologia delle comunicazioni. Tra le altre dimensioni sono menzionate quella demografica caratterizza47 ta da invecchiamento della popolazione e forte immigrazione, quella della deregolamentazione che è prevista continuare per effetto di sviluppi nel mercato o di azioni dei singoli stati piuttosto che di interventi federali, quella tecnologica con sviluppi nei campi dell’imaging, della banda larga, delle reti senza fili e dei servizi sul web, quella relativa ai sistemi di pagamento con l’”elettronizzazione” degli assegni, quella infine della concorrenza. Alla complessità operativa e a quella tecnologica si assoceranno necessariamente maggiori rischi operativi. A quest’ultimo riguardo, si rileva che le quote di debito possedute dalle banche commerciali e dalle istituzioni che raccolgono risparmi sono cadute rispetto ai decenni precedenti; sebbene alcuni abbiano interpretato questa flessione come un segno di debolezza su di un mercato competitivo o addirittura di obsolescenza di questo tipo di intermediari, il declino è in parte dovuto alla proliferazione dei canali di intermediazione finanziaria, che spesso comporta l’emissione di strumenti per finanziare altri strumenti. Infatti, la riduzione della quota delle banche nel mercato del credito è il riflesso del mutamento nel modo in cui i prestiti sono alla fine finanziati. La cartolarizzazione di attività, quali i mutui ipotecari e i crediti al consumo, in precedenza tenute sui libri sino a scadenza ha permesso il loro finanziamento attraverso il mercato dei titoli. Questo spostamento dal canale indiretto, o bancario, verso quello diretto, cioè attraverso il mercato, sta interessando anche altri paesi, tra cui quelli europei, che così si avvicinano al modello americano, come risultato di forze (Rajan and Zingales 2003) che hanno aumentato l’efficienza dei mercati; tra queste vi sono i miglioramenti nel trattamento dell’informazione, lo sviluppo del commercio internazionale e dei flussi di capitale, l’integrazione politica. 2.2. Prospettive per le diverse categorie di banche – Il punto b) concerne l’evoluzione dei diversi segmenti dell’industria, cioè: i) le grandi organizzazioni bancarie definite come le 25 più grandi in termini di attività; ii) le medie e regionali 48 che si collocano al di sotto delle 25 grandi e al di sopra delle banche locali; iii) le locali definite come quelle che hanno un totale dell’attivo inferiore a un miliardo di dollari; iv) infine, le banche speciali, vale a dire quelle per le carte di credito, quelle che si dedicano al segmento di clientela subprime e quelle che operano soltanto attraverso Internet. Alla fine del 2003, le 25 più grandi banche e istituzioni di risparmio con depositi assicurati, escluse perciò le banche d’affari che non ne raccolgono, rappresentavano il 56 per cento del totale delle attività del settore. Tra il 1984 e il 2003, le prime 10 sono passate dal 19 al 44 per cento, le successive 15 soltanto dal 10 al 12 per cento. A questo notevole aumento della concentrazione al vertice della classifica ha contribuito in modo determinante il Riegle-Neal Act del 1994 e il GrammLeach-Bliley Act del 1999 che ha abolito la legislazione roosveltiana del Glass-Steagall Act. Sui guadagni di efficienza di organizzazioni così ampie, le conclusioni degli economisti sono tutt’altro che univoche; le economie di scala e di scopo facilmente individuabili in segmenti specializzati, ad esempio la gestione del risparmio o le carte di credito, sono spesso più che compensate dalle diseconomie dovute alla dimensione e alla complessità (G10 2001; Prefazione Sarcinelli a Comana 2003). Sebbene i modelli di business siano diversi, alcune tendenze sono comuni a tutte o alle maggiori tra le grandi banche. Queste ultime hanno fortemente aumentato la quota di reddito rappresentata da commissioni per ridurre la sensibilità del conto economico al ciclico andamento del tasso d’interesse, per trarre vantaggio dalla legislazione che ha ampliato le capacità operative della banca e soprattutto per ridurre il “consumo” di capitale, a parità di reddito; hanno fatto assegnamento più sull’indebitamento garantito (collateralized) che sui depositi per la provvista e si sono distinte anche nelle tecniche di gestione del rischio per ridurre la propria vulnerabilità. Secondo la FDIC, nell’immediato futuro le grandi banche continueranno a crescere sia per via interna sia attraverso acquisizioni, anche se nel tempo non potranno evitare i proble49 mi derivanti da diseconomie gestionali, difficoltà nel governamento societario, criticità nei sistemi per il controllo dei rischi finanziari e operativi. Per le banche medie e regionali il ROA (return on assets) dopo il 1996 è stato spesso superiore a quello delle grandi, ma la loro quota sul totale dell’attivo bancario si è ridotta per la grande crescita di queste ultime; il loro numero nello stesso periodo si è accresciuto del 13 per cento. Nonostante i buoni risultati, v’è chi ritiene che questa categoria sarà assorbita in buona parte dalle grandi o sospinta verso le banche locali, previsione non condivisa dalla FDIC, anche se non sono affatto da escludere fenomeni di aggregazione. Le banche locali continuano a rappresentare per numero il 94 per cento del sistema bancario americano (95% nel 1985). Il quadro, tuttavia, è molto cambiato dopo la crisi degli anni ’80 e i provvedimenti di liberalizzazione geografica. Il numero delle banche locali si è ridotto del 47% dal 1985 a causa sia dei fallimenti in una prima fase sia delle fusioni volontarie nella seconda; comunque, la loro quota in termini di attività depositi e sportelli è diminuta. La FDIC ritiene che esse rappresentino ancora un modello di business vincente, poiché sono in grado di usare soft information in modo efficace nella valutazione del rischio di piccoli operatori piuttosto opachi. Delle banche a operatività specializzata oggi interessano soprattutto quelle attive nel segmento di clientela subprime, cioè con una storia creditizia travagliata o debole. La loro individuazione da parte della FDIC è avvenuta prendendo in esame tutte le banche con prestiti subprime superiori al 25 per cento del capitale regolamentare di primo livello (tier one). Una più penetrante azione di sorveglianza su adeguatezza del capitale e pratiche predatorie da parte dei supervisori hanno ridotto, se non eliminato i vantaggi che le 50 banche con depositi assicurati avevano rispetto ad altri intermediari. La diffusione, tuttavia, di questo tipo di attività nei segmenti non regolamentati del mercato ha innescato la più grande crisi finanziaria dai tempi della Grande Depressione... 2.3. Problematiche di policy - A questo proposito la FDIC formula proprie raccomandazioni ancorandole ai seguenti principi: il sistema bancario dovrebbe evolversi in funzione delle forze di mercato e delle esigenze di protezione del consumatore piuttosto che in risposta a quelle della regolamentazione; i rischi posti da grandi e complesse organizzazioni bancarie dovrebbero essere affrontati attraverso la regolamentazione prudenziale e la supervisione; per assicurarne l’efficacia, la struttura istituzionale di queste ultime andrebbe riformata. L’ente assicuratore dei depositi si attende nuove ondate di fusioni e acquisizioni, sia pure di minore forza rispetto al passato. Il fallimento di una grande banca, evento molto improbabile ma altamente disastroso, non può essere escluso, sicché si raccomanda di rafforzarne il capitale sommando al coefficiente derivato dalla valutazione interna dei rischi un altro deciso dalle autorità di supervisione. Ciò in effetti contrasta con le aspettative delle megabanche che hanno intravisto in Basilea II l’opportunità per ridurre il fabbisogno di capitale... Quanto all’aumento della concentrazione e alla riduzione della concorrenza, la capacità di ingresso di nuove banche che possono contare sull’assicurazione dei depositi sin dall’inizio testimonia che non vi sono barriere, anche se queste possono materializzarsi nell’esercizio ove il carico di segnalazioni imposto dai diversi regolatori e supervisori si riveli eccessivo. La concorrenza, quindi, continuerà a dominare i mercati bancari e presumibilmente assicurerà la disponibilità di credito per la piccola impresa, argomento di grande rilievo ed ogget51 to di numerose ricerche empiriche non solo in America ma anche in Italia3. Poiché la crescita dei depositi di base (totale meno quelli a tempo superiori a 100.000 dollari) non ha tenuto il passo con quella dell’attivo, vi è stata una spinta a far ricorso a enti di rifinanziamento e soprattutto a raccogliere fondi sul mercato finanziario. Sino a quando le condizioni prevalenti su quest’ultimo sono favorevoli, non vi sono difficoltà, ma quando un qualsiasi shock intacca la fiducia dei partecipanti rapidamente le fonti di finanziamento all’ingrosso si inaridiscono, nonostante l’alta sensibilità al tasso, e il rischio di liquidità si manifesta anche nella forma di minore capacità o addirittura impossibilità di realizzare attività sul mercato senza perdite. E’ questo rischio di collasso del sistema che le principali banche centrali con azioni coordinate stanno cercando di alleviare sui mercati... Fino a quando la liquidità non sarà tornata a livelli di normalità, una ripresa del processo di consolidamento appare del tutto improbabile. Sulla struttura istituzionale delle funzioni di regolamentazione e supervisione finanziaria la FDIC fa notare come questa continui ad essere altamente frammentata, mentre nel resto del mondo v’è stata e continua una tendenza all’accorpamento; su questo tema si tornerà allorquando si menzioneranno le proposte del rapporto Paulson. È forse ingeneroso da parte mia, ma inevitabile chiudere questa carrellata sullo studio strategico della FDIC con la seguente affermazione: “Per tutte le banche, le possibilità di bolle economiche in mercati ai quali esse partecipano ... non Per il nostro Paese si vedano i lavori di Beretta e Del Prete 2007; Gobbi e Lotti 2004; Bonaccorsi di Patti e Gobbi 2003a, 2003b e 2001; Sapienza 2002; Focarelli et al. 2002. Un sintetico riferimento a queste problematiche è in Sarcinelli (2003a). 3 52 possono essere del tutto scontate. [/] Noi consideriamo queste e similari possibilità come eventi con bassa probabilità e alto impatto entro l’orizzonte dei cinque-dieci anni di questo studio” (FDIC 2004, p. 25). Non solo gli economisti ma anche gli assicuratori-regolatori sembrano non avere il dono della predizione temporale... 3. La crisi da subprime - Poiché sono indubbie, non mi dilungherò sulle responsabilità della Fed per avere condotto una politica monetaria permissiva troppo a lungo, soprattutto per non avere ampliato in tempo gli strumenti a difesa del consumatore-acquirente di casa che il Congresso le aveva attribuito sin dal 1994 e per non avere dato ascolto a un suo governatore, Edward M. Gramlich, sui pericoli della bolla immobiliare (Sarcinelli 2008).4 Vi sono, però, anche altri attori in questo dramma. In primo luogo, sono da citare i mercati che, grazie alla globalizzazione, si sono estesi in ogni parte del mondo e che a causa di innovazioni fondamentali come la strutturazione dei crediti, la loro cartolarizzazione e la segregazione dei medesimi in veicoli speciali; hanno aumentato enormemente la trasferibilità del rischio e la sua dispersione tra una vastissima platea di investitori.5 Al tempo stesso, ciò ha reso difficile conoscere con sufficiente accuratezza dove esso si localizzi, poiché un crescente numero di intermediari, ad esempio hedge funds, non hanno obblighi informativi nei confronti delle autorità di supervisione. Se per avventura o per disegno, il rischio si concentra in determinate aree, come è accaduto con i prestiti ipotecari subprime, sono da attendersi effetti sociali e soprattutto sistemici. Il § 5 di Sarcinelli (2008) è stato trasfuso nel § 3 del presente lavoro. Su vantaggi e rischi dei derivati sul credito, quelli che hanno avuto il maggior sviluppo negli ultimi tempi, si veda Portnoy and Skeel (2006); sul trasferimento di rischio con CDO e sul rischio sistemico nell’industria bancaria si veda Krahnen and Wilde (2006). 4 5 53 A questa difficoltà se ne aggiunge un’altra, quella di valutare nuovi strumenti per difetto di informazioni, incertezza su quelle disponibili, inadeguatezza dei modelli matematici o almeno insufficiente affidabilità dei medesimi al mutare delle condizioni al contorno. Quando ciò accade, diventa difficile “scoprire il prezzo” e la liquidità del prodotto scompare, ponendo in crisi gli intermediari che detengono gli strumenti innovativi. Si è avuta così una trasformazione nella finanza: dal mark-to-market che si ha sul mercato regolamentato al mark-to-model tipico delle transazioni OTC, cioè dalla realtà osservabile, anche se mutevole, a quella forse più stabile della costruzione matematica, ma dipendente, oltre che dalle ipotesi sottostanti, da input che un mercato in difficoltà non è più in grado di dare (ECB December 2007, p. 14). Nella crisi in corso il dito è spesso puntato, e con ragione, verso le agenzie di rating.6 Queste non soltanto sono portatrici del conflitto di interesse originale, quello dovuto al pagamento dei loro servigi da parte di chi emette gli strumenti finanziari sul mercato, ma vi hanno aggiunto anche quello dovuto alla manifattura di strumenti strutturati di credito. In questo caso, vi è stato ricorso a modelli statistici per calcolare le probabilità di insolvenza, ma i risultati si sono rivelati deboli poiché il periodo di osservazione era troppo breve e troppo favorevole per permetterne un’estrapolazione, la correlazione supposta bassa tra eventi di inadempienza aumenta fortemente quando la situazione finanziaria e quella economica peggiorano, l’assenza nella valutazione del rischio di liquidità non permette di valutare se e in che misura vi sarà la possibilità sul mercato di alienare lo strumento senza forti perdite e di poter ricorrere al finanziamento. (Spaventa 2008a, pp. 8-9 datt.). Una responsabilità particolare l’hanno i banchieri, poiché costoro hanno sostituito il modello operativo originate-to-hold 6 Su questa tematica si veda Mason and Rosner (2007). 54 con quello originate-to-distribute; è questa un’innovazione fondamentale che ha creato un ponte ulteriore, forse il più pericoloso, tra la finanza e la banca, rendendo ancor meno significativa l’antica divisione dei sistemi finanziari tra bankbased e market-based. Nel primo dei due modelli, la capacità della banca di accumulare rischi nel proprio bilancio incontra un limite nell’avversione al rischio del suo management o, più realisticamente ai nostri giorni, nel capitale minimo che i regolatori l’obbligano ad avere. Nel secondo, il limite è dato dalla capacità del mercato globale di assorbire attività confezionate, valutate e commerciate over the counter, il che espone a rischi di volatilità e di liquidità al mutare delle condizioni. A differenza del primo, il secondo modello genera un feedback positivo che spinge a intensificare l’attività per guadagnare maggiori commissioni e soprattutto a costruire nuovi prodotti sempre più strutturati, in grado quindi di produrre più alti compensi. Tanto il rischio - si pensa con cinismo e si ripete con leggerezza - è trasferito altrove... In verità, anche se le attività scompaiono dal bilancio bancario sopra la linea, spesso sono presenti sotto quest’ultima attraverso facilitazioni di credito ai veicoli strutturati che hanno comprato le attività cartolarizzate. Anche quando non vi sono impegni espliciti, il rischio reputazionale induce a sovvenire il veicolo che ha difficoltà a finanziarsi. Inoltre, restano e si cumulano nel conto patrimoniale le equity tranches, quelle più rischiose perché esposte per prime alle alee di insolvenza, e per necessità di negoziazione altri titoli a minor rischio emessi dai suddetti veicoli. Infine, sono rimasti sui libri contabili delle banche i prestiti ponte destinati a operazioni di cartolarizzazione, non realizzate per le mutate condizioni di mercato (ivi, pp. 9-10). Anche nel settore bancario soggetto a vigilanza prudenziale, l’informazione sulla distribuzione del rischio è stata carente; dallo stillicidio di svalutazioni annunciate anche da colossi come City Group o UBS sta emergendo la dimensione della crisi. Secondo Standard and Poor’s si dovrebbe essere vicini 55 alla fine del processo, ma le istituzioni internazionali si mostrano prudenti e sembrano ritenere che la crisi costerà molto7 e non sarà breve. Dal canto loro, le autorità monetarie stanno moltiplicando gli sforzi e gli sportelli per rifornire il mercato di liquidità; in aggiunta alle banche che raccolgono depositi, la Fed ha ammesso al risconto i primary dealers, esteso la durata delle operazioni di rifinanziamento, ampliato enormemente le attività da vincolare a garanzia e creato la TAF (term auction facility), il prestito in titoli per 200 miliardi di dollari (TSLF), gli swap in dollari per permettere alle altre banche centrali di intervenire in questa moneta.8 La crisi si è comunicata abbastanza presto al paese, la Gran Bretagna, che condivide maggiormente il modus operandi della finanza americana, ed ha generato addirittura una corsa ai depositi come nei tempi andati...9 Pure la BCE ha fornito liquidità a piene mani e anche con operazioni a tre mesi (nell’aprile 2008 a sei mesi), inizialmente criticate dal governatore della Bank of England come distorsive della struttura dei tassi di mercato.10 Come ha affermato Spaventa (2008b, p. 1), rispetto alle precedenti «questa crisi ... ha natura più strutturale nelle cause Il Fondo monetario internazionale ha stimato per il sistema economico in 565 miliardi di dollari le perdite potenziali dovute ai prestiti subprime; il totale sale a 945 miliardi di dollari se si aggiungono quelle di altri segmenti di mercato, come i mutui con ipoteche su proprietà commerciali, i crediti derivanti da carte di credito, ecc. (IMF April 2008a). 8 Per un sintetico richiamo alle facilitazioni di credito concesse dalla Fed si veda Bernanke (2008). La TAF, gli swap con le banche centrali e i titoli stanziabili alle aste TSLF sono stati ulteriormente ampliati con decisione del 2 maggio 2008. 9 Il Governo è dovuto intervenire con la promessa che garantiva tutti i depositi. Nel Regno Unito si è avuto non solo il salvataggio e la successiva nazionalizzazione della Northern Rock, ma anche lo swap, per un anno, rinnovabile sino a tre, tra titoli forniti dal Tesoro contro obbligazioni derivanti da cartolarizzazioni di mutui britannici, purché forniti del rating AAA (Bank of England 2008). 10 Sul fronte del tasso di policy, la Banca centrale europea ha resistito a causa dei prezzi in aumento, mentre dal picco precedente l’ha abbassato di 75 punti base la Bank of England e di 325 la Fed, nonostante i segnali inflazionistici. 7 56 e nelle conseguenze». Tuttavia, non sembra che le determinanti fondamentali della crisi siano mutate: la febbre da speculazione e l’inosservanza di principi fondamentali nella condotta finanziaria. La speculazione che attira masse crescenti di neofiti desiderosi di arricchirsi è quella al rialzo; più i prezzi delle attività crescono, più famiglie si precipitano sul mercato per approfittare della bonanza; fino a quando ciò accade, i prezzi continueranno a salire e le aspettative si auto-realizzeranno. Ad un certo punto, il meccanismo si inceppa, la realtà si impone sul sogno e il ciclo dei prezzi si inverte. Nel 2007 hanno rappresentato un quarto del mercato ipotecario americano i prestiti subprime contratti da famiglie meno abbienti, spinte dall’aumento dei valori, dal teaser rate iniziale, dalla prospettiva allo spirare di quest’ultimo di rinegoziare il mutuo a condizioni favorevoli o, in mancanza, di realizzare il guadagno di capitale vendendo la casa. 4. Un mercato unico per la finanza in Europa - È tempo di guardare all’Europa e di richiamarne le grandi tappe. Una singola area finanziaria è da tempo in corso di costruzione nel nostro Continente. All’inizio negli anni ’60 i tentativi furono timidi, ma portarono comunque ad abolire le restrizioni alla libertà di stabilimento e a quella di offerta di servizi. Negli anni ’80 e ’90 vi furono l’Atto Unico e la creazione dell’Unione Economica e Monetaria, di cui l’euro è il frutto più prestigioso. Nel 1999 la Commissione Europea lanciò il Financial Services Action Plan e nel 2005 il White Paper on Financial Services Policy (2005-10), tra i cui obiettivi al primo posto figura il consolidamento dinamico verso un “integrato, aperto, inclusivo, competitivo ed economicamente efficiente mercato finanziario europeo” (ivi, p. 4). Com’era da attendersi, un mercato unico per i servizi finanziari all’ingrosso è quasi completato; esso ha lo scopo di permettere agli imprenditori di raccogliere fondi sull’intera area dell’UE e di permettere a investitori e intermedia57 ri di accedere a tutti i mercati da un unico punto di ingresso. Per converso, l’integrazione in altri segmenti, come quello dei servizi finanziari al dettaglio, non è così avanzata; essa comporta non solo la rimozione delle barriere ai servizi finanziari transfrontalieri, ma la fornitura ai clienti al dettaglio di informazioni e garanzie che permettano loro un potenziale accesso ai servizi offerti nell’intera UE. Anche questo risultato non sorprende, poiché minore è l’azione della concorrenza estera su prassi, modelli e comportamenti che si sono stabiliti da tempo in un’area tra la banca e la sua clientela. Tuttavia, un mercato non può dirsi veramente unico se non riguarda, almeno potenzialmente, anche il consumatore, a prescindere dalla zona dell’Unione in cui egli vive o lavora. In linea di principio v’è oggi libertà di offerta di servizi bancari e di apertura di filiali, grazie al mutuo riconoscimento e al passaporto unico che sono a base della Seconda Direttiva. Il principio che l’autorizzazione spetta all’home country ha avuto un ruolo fondamentale nell’eliminare le restrizioni della regolamentazione ai flussi transfrontalieri. L’intervento della host country, che spesso si sovrappone al primo, dà a quest’ultima la possibilità di agire in un’ottica nazionale, soprattutto nella difesa del consumatore e nelle regole di condotta per emittenti e intermediari. Solo se l’una e le altre fossero altamente armonizzate a livello europeo sarebbe possibile eliminare ogni interferenza da parte del paese ospitante. Tuttavia, spesso si sente ripetere da chi all’integrazione è piuttosto “allergico” per una qualsiasi ragione che la banca e il servizio bancario non sono assimilabili, ad esempio, all’industria automobilistica e ai suoi prodotti; la banca finanzia l’attività economica di una comunità, locale o nazionale, sicché se ci si deve aprire all’ingresso di banche non regionali o straniere vi deve essere reciprocità. Hanno fatto perno su questi concetti gran parte delle polemiche che si sono avute in Italia dopo la sparizione di un sistema bancario autoctono nel Mezzogiorno e durante il periodo in cui si è tentato di sbarrare la strada alle 58 banche comunitarie desiderose di acquisire il controllo di consorelle italiane. In verità, bisogna distinguere tra due diversi tipi di servizi bancari: transattivi e di relazione (Fundaciòn BBVA-CEPR 2005). I primi sono tipici dell’investment banking e si sono sviluppati soprattutto negli Stati Uniti, i secondi afferiscono alle relazioni tra prestatori e prenditori e fanno sorgere il quesito se la proprietà della banca non sia rilevante per l’insorgere e per il perpetuarsi di quelle relazioni. Il relationship banking è ritenuto fondamentale non solo nell’opinione dei banchieri ma anche in quella di molti accademici per il finanziamento di piccole e anche medie imprese. Empiricamente, ne è stata provata l’esistenza in Germania, in Giappone, negli stessi Stati Uniti; la sua caratteristica è che la banca tende a realizzare il massimo profitto nel breve periodo dalla relazione e l’impresa è disposta a pagare un premio di assicurazione implicito nelle condizioni dei periodi buoni per poter essere sovvenuta in quelli difficili. Queste compensazioni richiedono necessariamente impegni non scritti di fedeltà tra le due parti e soprattutto una vicinanza fisica. Ecco perché l’acquisizione di una banca locale da parte di un’altra ben più grande e con direzione localizzata fuori della regione o addirittura del paese solleva apprensioni e pulsioni protezionistiche: più una banca è geograficamente articolata, più è strutturata nell’organizzazione, più è diversificata nella scheda dei prodotti offerti, maggiore è il suo orientamento a favore del transaction banking. Un altro fattore che spinge a preferire la relazione con una banca vicina rispetto ad una lontana è l’incompletezza dei contratti e la necessità di rinegoziarli in tempi di crisi; una banca lontana può non essere sensibile ai bisogni della zona e una straniera potrebbe anteporre l’interesse dei propri azionisti a quelli di un lontano e piccolo cliente. Infine, il regolatore nazionale può essere sensibile alle richieste delle political constituencies, ovviamente locali. Le problematiche connesse alla banca di relazione e alla sua proprietà finiscono, quindi, 59 col rendere più difficile l’azione della concorrenza in alcuni segmenti dell’attività bancaria. In un contesto di trasformazione del modello per l’attività bancaria, diventa rilevante il concetto di banque universelle de proximité che si trova nella letteratura francese (Pujals 2006), con la quale una banca de detail arricchisce l’offerta alla propria clientela con servizi finanziari specializzati (ad esempio, credito al consumo, gestione di portafoglio, assicurazioni). In tal modo una grande banca cerca di conservare la caratteristica relazionale della tradizione, pur cercando di orientarsi alle transazioni per ragioni organizzative o strutturali, per conseguire economie di scala, di scopo, di costo, ecc. 4.1. La definizione di integrazione e le ragioni che la giustificano - L’integrazione è termine che va definito in modo preciso per evitare che la molteplicità dei significati la renda una parola “vuota”, buona per ogni discorso e priva di contenuto operativo. Secondo la BCE, “un mercato per un dato insieme di strumenti finanziari e/o di servizi può dirsi integrato se tutti i suoi potenziali partecipanti devono affrontare un singolo insieme di norme, hanno ad esso uguale accesso, sono trattati allo stesso modo quando sullo stesso operano” (ECB, March 2007, p. 5). Come si vede, essa individua subito il limite più stringente che oggi incontriamo nell’integrazione europea: la pluralità degli ordinamenti e delle regolamentazioni. Perciò, l’Europa che non è uno stato, né una federazione, ma soltanto una costruzione per un federalismo progressivo può tendere al limite di un’integrazione perfetta, senza mai raggiungerla. Del resto, questa è ancora la situazione degli Stati Uniti dove concorrono con quelle federali la legislazione e la regolamentazione dei singoli stati… L’uguaglianza di accesso e di trattamento sono invece più facili da assicurare e probabilmente oggi sono garantiti ad un livello elevatissimo, anche per l’esistenza di un potere giudiziario cui si può ricorrere in caso di violazione di un proprio diritto. 60 Tuttavia, val la pena di chiedersi: Abbiamo bisogno di una maggiore integrazione? Ebbene sì, non solo per tener fede a trattati liberamente sottoscritti, ma per cinque buone ragioni (EBF 2007): a) Perché la crescita economica dipende in modo cruciale da un sistema bancario e finanziario sano, efficiente, competitivo. L’obiettivo di lungo termine a questo riguardo, grazie anche a Internet, dovrebbe essere un mercato competitivo e flessibile in grado di offrire a ciascun cliente, risieda egli in una città o in un villaggio, sia un imprenditore o un agricoltore, di beneficiare di una vasta offerta di servizi attraenti e rispondenti alle proprie esigenze. Un sistema del genere è anche sano se riesce ad evitare che i risparmiatori-investitori si comportino come un gregge, se gli intermediari riducono al minimo i conflitti di interesse, se l’asimmetria delle informazioni tende a scomparire. b) Perché una maggiore efficienza in senso aziendale si ottiene attraverso la riduzione unitaria dei costi di back office e conseguendo economie di scala e di scopo nelle fasi di distribuzione e di “fabbricazione” dei prodotti. Ciò, ovviamente, dipende in modo cruciale dalle dimensioni, ma la crescita di queste ultime per linee esterne comporta anche costi organizzativi maggiori, perdita di specificità o addirittura di identità, diseconomie spesso sottovalutate e in alcune aree anche riduzione della concorrenza. c) Perché la concorrenza è spinta dal confronto sul mercato unico di diversi modelli operativi e gestionali, di differenti strutture societarie, di varie forme legali. Solo così possono emergere accanto ai colossi con prodotti ampiamente collaudati le boutique di nicchia, con le loro specifiche forme organizzative e legali, con le best practice informative, operative e gestionali. Alla condizione, tuttavia, che lo stesso tipo di attività vada incontro agli stessi rischi e sia governato dallo stesso tipo di regole. 61 d) Perché la concorrenza sul mercato globale che si sta ampliando alle aree emergenti, come la Cina o l’India, Singapore o Dubai, e ai loro aggressivi operatori richiede che l’Europa e le sue componenti finanziarie facciano di tutto per mantenere il proprio ruolo nel mondo. Questa dimensione esterna della concorrenza richiede, anche se ciò può apparire paradossale, che la regolamentazione varata dall’Unione Europea venga applicata e resa cogente in tutto il suo territorio e in tutti i segmenti. e) Perché all’efficienza aziendale e allocativa che sono spinte dalla concorrenza devono accompagnarsi la regolamentazione e la supervisione, di cui nessun mercato finanziario può fare a meno. Oggi meno che mai, poiché la globalizzazione dei mercati è in grado di diffondere l’instabilità dovuta a cattive pratiche di un solo centro finanziario a molti o a tutti gli altri ben più velocemente e più profondamente che in passato.11 La liberalizzazione e la globalizzazione hanno fatto molto per favorire il benessere e per allargare la crescita a paesi afflitti dal sottosviluppo, ma hanno anche ampliato a dismisura le possibilità di contagio. Ne discende che vi è un obbligo per ciascun paese di avere una regolamentazione e una supervisione finanziaria in grado di evitare e di non diffondere i semi dell’instabilità. Non va mai dimenticato che liberalizzazione e globalizzazione sono fenomeni reversibili, come la storia del ‘900 insegna, e che il free riding non paga nel lungo termine… 4.2. Come misurare l’integrazione in Europa - Prima di tutto va chiarito che il processo non è promosso soltanto dalle politiche dell’UE e dall’introduzione dell’euro, ma anche dalla globalizzazione che ha investito tutte le attività 11 Dubbi sui benefici della globalizzazione finanziaria sono stati espressi di recente da Rodrick and Subramanian (2008) e in precedenza da Rajan (2005). 62 economiche e in particolare la finanza, dagli sviluppi tecnologici nel campo della TIC e dell’elaborazione dei dati, dall’innovazione finanziaria.12 Inoltre, la diversa velocità con cui gli stati membri si adeguano alle direttive comunitarie, la progressiva estensione dell’euro e quella dei confini dell’Unione rendono il panorama differenziato geograficamente ogni qual volta lo si osserva. Nel valutare il grado di integrazione, si può fare ricorso a tecniche qualitative come l’esame degli ostacoli istituzionali o legali alle attività finanziarie transfrontaliere; questo approccio è stato seguito dalla Commissione Europea proprio per individuare i paesi ritardatari e stimolarli ad adeguarsi alla legislazione comunitaria, la quale è stata a sua volta promossa proprio dalla diversità degli ordinamenti negli stati membri. Se si opta per una metodologia quantitativa, si aprono due strade: la prima è quella di accertare se i prezzi di servizi finanziari comparabili hanno avuto tendenza a convergere per effetto dell’arbitraggio e della competizione; se il prezzo è identico l’obiettivo dell’integrazione è stato raggiunto (one price law). Un altro metodo è quello di osservare se e in quale misura si sviluppano transazioni transfrontaliere nei segmenti che interessano. La BCE li ha adottati entrambi (ECB March 2007). Guardando ai singoli mercati, essa ha affermato che il mercato monetario non garantito raggiunse uno stato di integrazione quasi perfetta subito dopo l’introduzione dell’euro; infatti, la deviazione standard dei tassi EONIA nei paesi membri per i prestatori cadde sostanzialmente a zero e tale è rimasta stabilmente. Usando la stessa metodologia, anche i pronti contro termine, sempre in termini di prezzo, si rive- 12 Sul ruolo dei mercati finanziari e su quello dell’innovazione in Europa si veda Hartmann et al. (2007). 63 larono altamente integrati grazie alla connessione dei mercati con i LVPS (Large-Volume Payments Systems), in particolare TARGET. I mercati per i debiti pubblici divennero fortemente integrati nella fase di preparazione per l’adozione dell’euro. Fece seguito il mercato delle obbligazioni societarie, soprattutto dopo l’arrivo dell’euro. Progressi si sono registrati anche nei mercati azionari dell’eurozona, dove si nota che i rendimenti sono sempre più determinati da fattori specifici di quest’ultima. Tuttavia, lamenta la banca centrale, l’infrastruttura necessaria al funzionamento dei mercati obbligazionari e azionari è ancora frammentata ed offre nuove opportunità di integrazione. Ciò spiega la decisione della BCE e dell’Unione di lanciare il progetto TARGET2-Securities. Con riferimento al mercato bancario, la BCE riconosce che le operazioni di fusione o acquisizione transfrontaliera sono il principale strumento per entrare sul mercato e acquisire rapidamente importanza e visibilità; esse sono sì rimesse alla piena autonomia di azionisti e manager, ma il processo può essere fortemente favorito dalla mano pubblica attraverso un adeguato, non discriminatorio quadro giuridico relativamente alla regolazione, alla supervisione e alla fiscalità. In Europa non si è avuta la corsa a fusioni e acquisizioni determinatasi negli Stati Uniti con l’abolizione delle restrizioni nel 1994 e nel 1999. Infatti, nel periodo 2000-04, le operazioni di M&A transfrontaliere nell’eurozona hanno rappresentato solo il 14% di quelle totali, poiché il consolidamento ebbe come determinante principale il rafforzamento sul mercato interno. Nel 2005-06, il valore delle operazioni transfrontaliere è balzato sul totale al 38% grazie ad operazioni, come quella di Unicredit-HVB (13,3 miliardi di dollari) di grande peso, ma il loro numero è caduto. L’acquisizione di Abn-Amro Bank, invece, da parte di RBS, Santander e Fortis, rivelatasi per l’aspra contesa particolarmente costosa, ha portato allo smembramento della preda e al passaggio di Banca Antonveneta, già oggetto di battaglie “cruente” tra banche italiane, al Santander 64 e da questi venduta in brevissimo tempo al Monte dei Paschi.13 Volendo scattare una fotografia, al 2005 vi erano 33 gruppi nell’eurozona con attivi consolidati pari al 53% del totale delle attività bancarie. Di questi gruppi 16 erano attivi in almeno la metà dei paesi della stessa area e ne rappresentavano il 38,7% in termini di totale dell’attivo. Secondo la rilevazione informale delle 100 maggiori banche europee condotto nel 2005 dal Comitato per la supervisione bancaria dell’ESCB vi era ancora un forte interesse per l’espansione transfrontaliera, ma l’eccesso di capitale esistente in quell’anno potrebbe essersi ridotto di molto e la carenza di liquidità che ancora persiste relegano in un incerto futuro simili propositi. 4.3. L’attività bancaria al dettaglio e il basso grado di integrazione nell’eurozona - La BCE sembra rammaricarsi che l’integrazione al livello retail sia ancora insufficiente e augurarsi che l’avvento della SEPA (Single Euro Payments Area),14 promossa dalla Federazione bancaria europea possa spingerlo a innalzarlo. L’integrazione di mercato, tuttavia, non deve essere riguardata come un fine in sé, poiché l’obiettivo finale di un mercato unico è quello di migliorare l’accesso ai servizi finanziari e può non richiedere o non condurre necessariamente a un alto grado di integrazione (Fundaciòn BBVACEPR 2005). Ciò che va eliminato sono le barriere artificiali all’ingresso o al commercio, soprattutto la regolamentazione differenziale. Infatti, in alcune aree, tra cui il retail banking, il livello “naturale” di integrazione può essere piuttosto basso, come dimostra la sopravvivenza negli Stati Uniti del 95% di banche piccole sul numero totale. Infatti, banche piccole e locali hanno o possono avere vantaggi informativi nei confronti di consorelle maggiori; sull’argomento esiste una vasta La corsa allo spin off si è avuta non solo a Wall Stret nei primi mesi di quest’anno, ma anche in Europa, spesso per la pressione dei fondi “attivisti” (Il Sole-24 Ore, 3 aprile 2008, p. 37 e p. 41). 14 Sui vantaggi che la SEPA apporterà all’economia italiana e a quella europea si veda Saccomanni (2007). 13 65 letteratura soprattutto per gli Stati Uniti (ad es., DeYoung, Hunter and Udell 2003) e per l’Italia (ad es., Bonaccorsi di Patti, Eramo and Gobbi 2005). A questo riguardo, vale la pena di riportare con qualche dettaglio un paio di recenti studi empirici, uno relativo al Belgio (Degryse, Laeven and Ongena 2007) e l’altro all’Italia (Bongini, Di Battista and Zavarrone 2006). I ricercatori belgi partono dalla considerazione che la struttura organizzativa di una banca è il riflesso della sua tecnologia nell’attività di prestito. Ne segue che una banca con una struttura gerarchica ben sviluppata nel concedere credito si baserà su hard information (dati di bilancio, ecc.), mentre una banca decentralizzata farà uso di soft information (rapporti di sostanziale correttezza, ecc.). Il modello teorico dei nostri autori illustra come l’organizzazione della banca che dà credito e quelle dei suoi concorrenti determinino sia la copertura geografica sia la strategia di prezzo di chi concede il prestito. Per la stima del modello si avvalgono di informazioni dettagliate contenute nei contratti di oltre 15.000 prestiti bancari erogati da una banca a piccole imprese, costituenti l’intero portafoglio prestiti della concedente, e di quelle relative alla struttura organizzativa di tutte le banche concorrenti presenti nelle vicinanze del prenditore. E trovano conferma dell’ipotesi che le strutture organizzative delle banche concorrenti come di quella che ha concesso il prestito sono rilevanti per il raggio di copertura della filiale e per il prezzo applicato al credito. L’ambito geografico della banca che fa il prestito risulta più piccolo quando le banche concorrenti sono grandi e gerarchicamente organizzate, ma tende ad aumentare quando queste ultime usano una tecnologia di comunicazioni inferiore, hanno una più ampia “maglia” organizzativa, sono più lontane da un’unità con capacità decisionali in tema di credito. Tendono a ridurre il prezzo la dimensione delle banche rivali e il numero di stadi che una proposta deve superare per diventare decisione. Ciò che interessa rilevare in questo studio 66 molto articolato è il diverso tipo di informazioni che una grande banca gerarchizzata e una piccola decentralizzata richiedono per la concessione del credito e il grado di concorrenza spaziale che tra esse si instaura. In Italia l’evidenza empirica è che le piccole banche non solo sopravvivono (Banca d’Italia 2005 e 2004), ma crescono anche ad un tasso maggiore delle concorrenti più grandi, ampliando la propria quota di mercato a danno di queste ultime e mantenendo un’alta redditività.15 Il citato studio della Bonaccorsi et al. (2005) ipotizza che la crescita dei prestiti delle piccole banche potrebbe essere dovuta a diseconomie organizzative presso le grandi banche a causa delle ristrutturazioni conseguenti a operazioni di M&A e all’introduzione di più avanzate tecniche di gestione del rischio, stimolata dalle previste riduzioni di capitale derivanti da Basilea II. Se questa soltanto fosse la spiegazione, i vantaggi per le piccole banche scomparirebbero non appena le grandi avessero superato questa fase transitoria di assestamento. Secondo Bongini, Di Battista and Zavarrone (2006), è possibile per “i Davide avere successo in un mondo di Golia”. Il primo stadio della loro ricerca è quello di distinguere le minori banche in tre gruppi (piccole cooperative, piccole banche controllate da gruppi, piccole banche indipendenti) e di stabilire per ciascuno di essi l’importanza di elaborare e utilizzare soft information. Nel secondo stadio, la relazione tra crescita dei prestiti, redditività e rischio di credito è investigata; la conclusione raggiunta sulla base di metodologie non parametriche è che il gruppo delle piccole banche non è omogeneo: la crescita per le migliori è dovuta a fattori strutturali La Banca d’Italia (2006 p. 191) rileva che la crescita dei prestiti delle banche di maggiori dimensioni si è allineata a quella delle banche piccole e minori, avendo le prime superato gran parte delle difficoltà create dai processi di riorganizzazione aziendale. 15 67 (capacità di sfruttare il proprio localismo, operatività di tipo relazionale, ecc.). Con l’uso di una matrice strategica lo studio individua quali piccole banche hanno un valido modello di business e determina nel 44% quelle in grado di prosperare anche quando le difficoltà per le grandi dovessero scomparire. Purché il desiderio delle piccole banche di ottenere gli stessi vantaggi delle grandi in termini di capitale non le spinga a ricorrere ai criteri hard di queste ultime per valutare il merito di credito e non crei, perciò, seri problemi al finanziamento delle piccole imprese, almeno nella fase iniziale...(Sarcinelli 2003a, pp. 41-42).16 5. La riforma della regolamentazione finanziaria negli Stati Uniti – Il Department of Treasury (2008) ha pubblicato un corposo rapporto, o blueprint, in cui sono state esposte le linee per la riforma della regolamentazione finanziaria e ne viene suddivisa la realizzazione nel breve, nel medio e nel lungo termine. Nell’illustrare il documento, il Segretario al Tesoro Paulson riconosce che l’attuale sistema è il risultato di decisioni del passato che non tengono affatto conto dell’enorme evoluzione cui il sistema finanziario è andato incontro; manca perciò un chiaro disegno nell’allocazione di compiti e responsabilità e viene di fatto favorito l’arbitraggio regolamentare. Il futuro, invece, dovrebbe vedere assegnato il perseguimento di una finalità a una singola agenzia con chiara individuazione delle responsabilità. È stato questo il criterio organizzativo prevalente nel mondo occidentale sino a quando non si è venuto affermando il principio del regolatore unico.17 Negli Stati Uniti il modello resta aspirational, da raggiungere Comunque, per la sopravvivenza delle piccole banche può sempre risultare utile l’esalogo di Pastré (2001): a) evitare i rami di attività dove predominano le economie di scala; b) specializzarsi; c) restare flessibili; d) evitare di prendere troppi rischi; e) sviluppare reti bancarie; f) prezzare correttamente il rischio. 17 Per uno sguardo panoramico alle problematiche della vigilanza sul sistema finanziario si veda Sarcinelli (2004a). 16 68 quindi dopo molti anni e da usare come faro nella lunga opera di ammodernamento. Il blueprint prevede un regolatore per la stabilità del mercato; ne sarebbe affidata la responsabilità alla Fed, in aggiunta a quelle di gestire la politica monetaria e di provvedere liquidità al sistema. La competenza della Fed si estenderebbe all’intero sistema finanziario e dovrebbe avere come obiettivo non la condizione di salute della singola istituzione, ma le prassi operative di un intermediario o di un’industria in grado di mettere in pericolo la stabilità del sistema. Per la regolamentazione prudenziale è prevista la fusione di tutte le esistenti agenzie federali in una sola, che dovrebbe avere competenza anche sulle assicurazioni, sino ad oggi ignorate dalla legislazione federale. Potrebbe ereditare questo compito l’Office of the Comptroller of the Currency. Il regolatore per la condotta degli affari deve preoccuparsi della protezione del consumatore-risparmiatore e riunirebbe le competenze della Commodity Futures Trading Commission (CFTC), della Security and Exchange Commission (SEC) e le funzioni di protezione della parte debole e di enforcement oggi disperse tra i vari regolatori bancari e assicurativi. A questa visione per il lungo termine si aggiungono delle misure nel breve che, a dire il vero, aumentano il numero degli enti con qualche ruolo nella regolamentazione finanziaria. Infatti, viene menzionato il Working Group on Financial Markets del Presidente Bush per coordinare l’azione dei disparati enti che oggi hanno una qualche responsabilità nel campo; nell’immediato dovrà accertare se il governo ha tutti gli strumenti e i poteri per gestire una crisi finanziaria... Per evitare che possa ripresentarsi una crisi del mercato ipotecario come quella che si sta vivendo, ai regolatori statali responsabili per le prassi di originazione dei mutui si sovrapporrà un’agenzia federale, la Mortgage Origination Commission col compito di stabilire standard minimi per l’operatività e per la revoca della licenza, nonché di esercitare una supervisione sui regolatori statali. 69 Per il medio termine sono in agenda: a) la creazione di uno statuto (charter) federale per tutti i sistemi di pagamento e regolamento di importanza sistemica la cui supervisione è da attribuire alla Fed, nonché uno, opzionale, per le assicurazioni; b) la revoca della Federal Thrift Charter con soppressione dell’Office of Thrift Supervision; c) la fusione tra la SEC, responsabile per i titoli, e la CFTC, con competenza sui derivati, da realizzare attraverso un certo numero di stadi e un approccio evolutivo in grado di preservare le migliori prassi di entrambe le agenzie. La cautela con la quale ne viene prospettata la fusione è indice delle difficoltà che l’intero processo incontrerà nel Congresso, dove ogni ente federale ha i propri difensori, e nella pubblica opinione, che annovera economisti come Krugman (2008) critici del mero rimescolamento dell’organigramma regolatorio. 6. I crucci dell’Europa nella supervisione finanziaria A differenza della regolamentazione che si origina unitariamente a Bruxelles e ancor prima a Basilea, la supervisione è ancora dispersa a livello nazionale. Al di là delle possibili, diverse interpretazioni che a singole disposizioni un’autorità nazionale può dare, talvolta con intendimenti protezionistici, v’è il problema crescente degli intermediari transfrontalieri costretti a dare informazioni ad una o più autorità in ciascuno dei paesi in cui operano. D’altro canto, le stesse autorità sono costrette a un coordinamento e a uno scambio di informazioni, spesso defatigante. Su questa tematica abbondano proposte e suggerimenti. La Banca centrale europea (ECB March 2007, p. 41) raccomanda la costituzione di meccanismi per la cooperazione tra paesi home e host aventi come oggetto uno specifico gruppo, una semplificazione degli obblighi di segnalazione periodica, lo sviluppo di una comune cultura della supervisione, il ricorso a nuovi strumenti, come la delega e la mediazione, per facilitare la convergenza e la cooperazione nella supervisione. 70 La stessa Federazione bancaria europea (EBF December 2007, pp. 39-43) ha posto tra le otto sfide18 fondamentali quella di rendere veramente operante la supervisione prudenziale consolidata. Essa trae origine dalla constatazione che le strutture di supervisione e la regolamentazione restano in gran parte segmentate e orientate su base nazionale, mentre le banche operano in concorrenza su più vaste aree ed hanno basi operative che spesso coprono più di un paese. Tra le evoluzioni positive al riguardo sono da segnalare l’estensione del processo Lamfalussy al settore bancario che ha indotto a cooperare le autorità di vigilanza e regolamentazione finanziaria dei singoli stati e l’art. 129 della Direttiva sul capitale minimo che ha riconosciuto la necessità di dare rilievo alla crescente attività bancaria transfrontaliera, attribuendo al supervisore principale, quello del paese dove la capogruppo ha la sede legale, la responsabilità di valutare i sistemi di misurazione interna del rischio anche per le filiazioni estere. A quest’ultimo riguardo, non sono pochi i problemi riguardanti le modalità e i poteri con i quali può agire il supervisore responsabile del consolidamento. L’attenzione delle autorità è attirata dalla FBE sulla necessità, da un lato, di una valutazione di come funziona di fatto la vigilanza consolidata, dall’altro, di una riflessione sull’ulteriore evoluzione dell’architettura di supervisione nello spazio europeo e delle modalità in cui potrà o dovrà realizzarsi. Su questo secondo tema, particolar- Le sfide fondamentali per la FBE sono le seguenti: a) rimuovere le barriere al consolidamento bancario attraverso le frontiere; b) avanzare verso un mercato al dettaglio integrato a livello europeo; c) conseguire un campo da gioco livellato tra differenti partecipanti al mercato; d) rendere veramente operante la supervisione prudenziale consolidata; e) attuare felicemente la SEPA; f) riformare il trattamento VAT dei servizi finanziari; g) gestire adeguatamente l’IFRS; h) intensificare la cooperazione internazionale, ad esempio con gli USA. Si tratta di obiettivi, con l’eccezione di quest’ultimo, che si inseriscono perfettamente nel quadro di una crescente integrazione europea attraverso la parità di accesso, quella di trattamento e l’unificazione di alcuni segmenti dell’assetto normativo primario e secondario. 18 71 mente sensibile per il settore, la FBE ha promesso un’approfondita riflessione per la primavera del 2008.19 Il più recente e il più autorevole contributo alle problematiche della supervisione, nel quadro ben più ampio della sua responsabilità istituzionale, l’ha fornito il Financial Stability Forum, in occasione della riunione primaverile dei ministri finanziari del G7, a Washington. Fondato nel 1999 lo FSF è oggi presieduto dal governatore della Banca d’Italia, Draghi, che avvalendosi anche del lavoro svolto in altre sedi ha pubblicato un sostanzioso rapporto (Financial Stability Forum, April 2008). La sua attenzione si è rivolta innanzitutto al rafforzamento: a) della supervisione prudenziale su capitale, liquidità e gestione del rischio da parte delle banche; b) della trasparenza e della valutazione di attività quali i prodotti strutturati e di entità fuori bilancio; c) della capacità delle autorità di tradurre l’analisi del rischio in azione. Altre raccomandazioni hanno riguardato: d) i mutamenti necessari nella formulazione e nell’utilizzazione dei credit rating; e) le intese, necessariamente robuste, tra le autorità per gestire il sistema finanziario in condizioni di stress. Si tratta di suggerimenti molto validi che richiedono la convinta collaborazione di molti attori e un tempo non breve per riorientare prassi e comportamenti; alle autorità ovviamente spetta il compito di promuoverne l’attuazione e la responsabilità di vigilare che alle parole e alle promesse seguano fatti. 6.1. Gli interventi dei ministri - Sulle problematiche europee della supervisione, il Ministro dell’economia e delle finanze, Padoa-Schioppa, ha inviato una lettera il 26 novembre È probabile che la FBE insista sull’eliminazione di ogni opzione e discrezionalità nazionale nella direttiva sugli obblighi di capitale, sull’elaborazione di una comune struttura per le segnalazioni di vigilanza e sulla previsione nell’ambito della stessa direttiva dei collegi di supervisione per gli intermediari con operatività transfrontaliera. 19 72 2007 al Presidente del Consiglio Ecofin, Teixera dos Santos, in cui prendendo spunto dall’esame che quel Consiglio è tenuto a fare a sette anni dal Rapporto Lamfalussy sull’adeguatezza del sistema di regolamentazione e vigilanza europeo, così esordisce: “La mia valutazione, fondata sull’esperienza di molti anni e sull’osservazione dei fatti, è che nuovi passi sono ormai necessari e urgenti e che essi possono essere compiuti sulla base del trattato vigente”. Se principi comuni sono stati sviluppati - egli osserva -, la convergenza nelle prassi rimane limitata, sicché una banca operante in una molteplicità di paesi è soggetta ad altrettanti obblighi di segnalazione alle autorità competenti e a una pluralità di obblighi per il capitale minimo. La comunicazione e la collaborazione tra autorità nazionali è affidata a una ragnatela di accordi bilaterali complessa, onerosa e lenta in caso di crisi. In più, la concorrenza tra ordinamenti spinge le lobbies a premere perché, anche nel quadro della regolamentazione europea, si creino preferenze e vantaggi per questa o quella piazza, per questo o quel tipo di intermediario. Secondo il Ministro, si dovrebbe puntare a due obiettivi: “un single European rule book, con regole e standard di vigilanza che assicurino piena uguaglianza di trattamento su tutto il mercato unico e risparmi di costi per le istituzioni finanziarie; una vigilanza integrata dei gruppi transnazionali attraverso la piena condivisione delle informazioni e il rafforzamento delle funzioni del collegio dei supervisori nonché, al suo interno, del ruolo del coordinatore (lead supervisor)”. Dopo avere indicato i passi da fare per rendere operative le sue proposte, Padoa Schioppa sottolinea che per conseguirli sono sufficienti un forte impulso politico e modeste variazioni alla legislazione comunitaria, poiché i poteri delle autorità nazionali non verrebbero in fondo compromessi, ma si aumenterebbero lo scambio di informazioni e il grado di consultazione. 73 Qualche dubbio è lecito a un non esperto di legislazione comunitaria circa la possibilità di conferire ai comitati di terzo livello uno status di agenzie o quasi-agenzie con possibilità di prendere decisioni vincolanti a maggioranza, ma l’interpretazione è la madre di ogni compromesso politico al quale il diritto finisce spesso con l’acconciarsi… Nella riunione del 4 dicembre vi furono obiezioni, soprattutto da parte dei britannici, ma l’iniziativa italiana ha fatto da battistrada ad altre. Il primo ministro ungherese, Gyurcsany, si è spinto molto più in là di Padoa Schioppa. Ha proposto che siano adottate “misure preparatorie per la creazione di una nuova struttura … in Europa, …. l’Istituto europeo di supervisione finanziaria. … strumentale per la creazione di un’Autorità in Europa per l’uniforme supervisione finanziaria … alla data più vicina possibile.” Va tenuto presente che il sistema bancario ungherese è per l’82% in mano a banche che hanno la sede centrale fuori del paese... Le turbolenze finanziarie che, come si è già detto, non hanno risparmiato il Regno Unito hanno spinto il Cancelliere dello Scacchiere, Darling, a scrivere al presidente sloveno dell’Ecofin proponendo la costituzione di collegi di supervisione20 per le imprese finanziarie transnazionali, indipendentemente dal settore in cui operano (bancario, assicurativo, ecc.), la creazione di gruppi per la stabilità transnazionale e la necessità di rivedere le esistenti disposizioni sulla garanzia dei depositi. A quest’ultimo riguardo, dopo la poco brillante figura delle autorità britanniche nella gestione della crisi della Northern Rock era il meno che ci si potesse attendere… Su questa misura è pienamente d’accordo la FBE, che propone anche il rafforzamento del ruolo del CEBS (Committee of European Banking Supervisors) e l’impegno dei supervisori a dare attuazione alle raccomandazioni di quest’ultimo (lettera indirizzata al ministro sloveno per l’Ecofin informale del 4-5 aprile 2008). 20 74 Personalmente sono stato convinto sin dalla ratifica del Trattato di Maastricht (Sarcinelli 1992b) che la vigilanza non poteva rimanere prerogativa assoluta degli stati membri dopo che la moneta fosse diventata unica per l’Europa comunitaria. Sull’argomento sono ritornato più volte sia con articoli di giornale sui limiti del processo Lamfalussy, sia con saggi sull’organizzazione di una regolamentazione e di una supervisione finanziaria nell’Unione Europea (Sarcinelli Prefazione a Carozzi 2007, 2004b, 2002a e 2002b). Confesso di avere un interesse… personale, sia pure di tipo scientifico, professionale nel vedere accolte le tesi di Gyurcsany, ma mi contenterei nell’immediato che fosse dato seguito alle proposte di PadoaSchioppa e di Darling. 7. Conclusioni - Più che conclusioni vorrei offrire un esame di coscienza, una agostiniana confessionem. Ho risposto al tema che mi sono proposto di illustrare? Non nascondo di avere difficoltà, nonostante la vastità del quadro che ho tracciato di qua e di là dell’Atlantico, a dire sì e altrettanta resistenza a dire no. La ragione di fondo è che siamo nel bel mezzo di una crisi che ha inequivocabili origini finanziarie e che sta facendo sentire i suoi effetti sul settore reale. Le autorità monetarie sia americane sia europee e giapponesi sono corse al soccorso dei mercati attraverso iniezioni di liquidità inusitate; al di là dell’Oceano e della Manica si sono ridotti anche i tassi guida, ma la struttura dei saggi a breve continua ad essere perturbata. Le autorità di supervisione stanno concentrando l’attenzione sui piani di liquidità degli intermediari, mentre si cerca di individuare i “colpevoli” di questa crisi, dal modello originate-to-distribute alle cartolarizzazioni gratificate, limitatamente ad una tranche, con la tripla A, alla finanza strutturata posta fuori del perimetro di consolidamento e affidata più ai modelli che ai mercati. È innegabile che tra i principi fondamentali la cui violazione è concausa della crisi, a mio avviso, vi sono il disallineamento delle scadenze nei SIV tra attivi cartolarizzati e quindi a 75 lungo termine e passivi costituiti da commercial paper di vario tipo ma a breve scadenza; quando questo mercato si è inaridito per mancanza di liquidità e di fiducia nelle controparti, le perdite dei conduit e il loro finanziamento sono ricaduti sulle banche che li avevano promossi. Un’altra violazione molto seria concerne il consolidamento dei bilanci: i SIV erano fuori dal perimetro, ma non della responsabilità, sia pure per motivi reputazionali, delle banche. Le garanzie esplicite o implicite da esse date sono state invocate al manifestarsi della crisi di liquidità, con conseguenze sulla dimensione dei loro bilanci, sui fabbisogni di tesoreria, sui requisiti di capitale e, come insegnano il caso Bear Stearns in America e quelli IKB e Sachsen Landesbank in Germania, anche sulla loro solvibilità. Le perdite continuano a colpire i bilanci di istituzioni di grande tradizione sulle due sponde dell’Atlantico, rovinando la fama dei loro manager, ma non necessariamente le loro liquidazioni...21 Il FMI (April 2008a) ha stimato nel Global Financial Stability Report le perdite potenziali a molte centinaia di miliardi di dollari. Inevitabili sono le sue ripercussioni sul fronte reale. La stessa istituzione (April 2008b) avverte nel World Economic Outlook che l’espansione economica sta perdendo velocità in presenza di una grossa crisi finanziaria, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa.22 Allo stesso tempo, La previsione di alcuni analisti di J.P. Morgan (2008) è che l’attuale crisi finanziaria, dovuta all’eccesso di rischio incorso nel credito per le abitazioni, nell’uso della leva finanziaria e nella trasformazione delle scadenze, influirà sulla struttura del mercato e sui prezzi almeno per i prossimi dieci anni, la zona di crisi sarà caratterizzata da minor ricorso alla cartolarizzazione e i CDO saranno limitati ai crediti alle imprese. 22 Secondo il Regional Economic Outlook (IMF April 2008c), i paesi sviluppati del nostro continente hanno dimostrato sinora una buona resilienza, attestata ad esempio dalla forte crescita del credito, ma sono aumentate, sia pure meno che negli Stati Uniti, le stime basate su dati di mercato delle attese di default per le banche; infine, aggravandosi la crisi al di là dell’Atlantico, questa non potrà in Europa non riverberarsi su altre forme di debito e sulle assicurazioni contro il rischio di insolvenza, allargarsi ai sistemi bancari dell’Est europeo, peggiorare ulteriormente le prospettive di crescita dell’economia. 21 76 l’inflazione ha rialzato la testa in tutto il mondo, soprattutto nei paesi emergenti dove la congiuntura produttiva si mantiene ancora buona, e l’aumento dei prezzi alimentari ha portato a disordini in molti paesi. Nonostante il rallentamento della crescita, le materie prime e soprattutto quelle energetiche hanno continuato a salire, anche per ragioni finanziarie; le commodities sono diventate una nuova classe di attività su cui si è riversata la speculazione. La riduzione della leva finanziaria sta interessando sia il canale bancario del credito sia quello non bancario; in America come in Europa si sta avendo un credit squeeze attraverso un innalzamento degli standard, anche se non un credit crunch, almeno per il momento... Guardiamo ai problemi senza farci troppo condizionare dalla situazione odierna. Da una parte, le famiglie sono diventate con la privatizzazione di buona parte del risparmio pensionistico sia in America sia in Europa arbitri nella scelta degli investimenti o almeno dei gestori delle risorse che serviranno a finanziare i consumi quando non si sarà più in grado di lavorare. Dall’altra, nonostante la globalizzazione, i mercati finanziari continuano a essere soggetti a crisi, dovute qualche anno fa alle dot.com e oggi ai prestiti subprime, in grado di compromettere il benessere attuale e futuro delle famiglie risparmiatrici. Anzi, queste crisi sembrano essere diventate più frequenti, anche se le loro conseguenze sono state piuttosto moderate, almeno sino all’episodio che stiamo vivendo. Il mercato, sulle cui spontanee forze si fa talvolta troppo affidamento per la sua autoregolamentazione, continua a dimostrare di essere una costruzione umana, quindi fallibile; la sua capacità nel permettere agli agenti economici coordinamento e previsione è talvolta oscurata da comportamenti degli operatori simili a quelli di un gregge, finendo col dare segnali errati. Nel campo finanziario, oggi caratterizzato da crescente innovazione, l’informazione asimmetrica tra chi vende un nuovo strumento, sia esso un titolo strutturato o un derivato, e chi lo compra può raggiungere livelli elevati; né si può esclu77 dere che in qualche raro caso l’informazione sia assente su ambo i lati della transazione… Sempre più si fa assegnamento sull’educazione al rischio dei risparmiatori-investitori, ma in attesa che questa sia in grado di riequilibrare i rapporti tra coloro che offrono al dettaglio mutui, titoli o prodotti più sofisticati e le famiglie che li domandano v’è spazio per misure di protezione del consumatore. Così ai fallimenti del mercato e alla protezione del contraente debole o non in grado di comprendere gli arcani della finanza moderna deve cercare di porre riparo lo stato, attraverso la regolamentazione e la supervisione. L’integrità dell’infrastruttura finanziaria, in particolare dei sistemi di pagamento, e la protezione dei consumatoririsparmiatori divengono obiettivi di public policy. Accanto ad una politica congiunturale volta da un lato a evitare che la mancanza di liquidità provochi fallimenti a catena e inneschi una spirale deflativa e dall’altra, almeno in America, a cercare di rivitalizzare i consumi con rimborsi fiscali alle famiglie e agevolazioni alle imprese, si impongono misure strutturali nel campo della regolazione e della supervisione bancaria. D’accordo che non bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca, ma non si può nemmeno abbandonare le vedove e gli orfani di un tempo e i pensionati di oggi e di domani alle ricorrenti procelle dei mercati. Il pendolo si moverà necessariamente nel senso della regolamentazione e della supervisione. Dove si fermerà in America? Basterà il riordino della vigilanza sulla base dell’obiettivo da perseguire o si tornerà come nell’epoca roosveltiana a qualche linea di demarcazione tra banca e finanza? Molto dipenderà dalla gravità della recessione che si sta materializzando e dagli equilibri politici che emergeranno dalle elezioni del prossimo novembre. La crisi che stiamo attraversando sarà di lezione ai banchieri desiderosi di apparire al vertice delle classifiche e di aumentare ogni anno utili per l’impresa e bonus per sé? Nel breve periodo certamente sì. In quello più lungo la finanza 78 sarà per essi sempre un’attrazione fatale, dalla quale la cura del territorio potrà in qualche misura immunizzarli. Comunque, è doveroso ricordare con Seneca: Quantum possumus nos a lubrico recedamus; in sicco quoque parum fortiter stamus. (Per quanto è possibile, ritiriamoci dai luoghi sdrucciolevoli; anche sull’asciutto a mala pena stiamo dritti). 79 Biografia Banchiere ed economista, si è laureato in giurisprudenza presso l’Università di Pavia. Vincitore della Borsa Stringher, ha perfezionato i propri studi di economia all’Università di Cambridge. È entrato nel 1957 in Banca d’Italia. Ha ricoperto diversi incarichi presso i servizi centrali dell’Istituto di emissione. Nel 1976 è stato nominato direttore centrale della vigilanza bancaria. Tra il 1976 e il 1981 è stato vicedirettore generale. Dal 1982 al 1991 è stato direttore generale del Tesoro. Nel 1986 è stato nominato “Officier de la Légion d’Honneur” dal Presidente della Repubblica Francese Mitterand. Da aprile a luglio 1987 ha fatto parte del Governo Fanfani come Ministro del Commercio Estero. Dal 1991 al 1994 è stato vicepresidente operativo della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo di Londra. Dal 1994 al 1998 è stato presidente della Banca Nazionale del Lavoro SpA. Nel 1996 è stato nominato Cavaliere del Lavoro dal Presidente Scalfaro. Dal 1999 al 2001 è stato presidente della Diners Club Sim del Gruppo Perna. Laureato h.c. in economia e commercio dall’Università di Bari, attualmente è docente presso la Facoltà di Scienze Statistiche dell’Università La Sapienza di Roma. È presidente di Dexia Crediop SpA e consigliere di amministrazione indipendente di alcune società bancarie, finanziare e assicurative. Bibliografia citata Banca d’Italia - Eurosistema, Relazione Annuale, Banca d’Italia, esercizi citati, Roma. Bank of England (2008), Special liquidity Scheme: Information, http://www.bankofengland.co.uk/ Beretta E. e S. Del Prete (2007), “Aggregazioni bancarie e specializzazione nel credito alle PMI: peculiarità per area geografica”, Banca d’Italia, Temi di discussione, n. 644, Roma. Bernanke B.S. 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Dalle mie “memore di ottuagenario”, anzi di ottantasettenne, cercherò d’estrarre alcuni punti che possano servire in questo dibattito. Cominciamo con una domanda che mi fanno spesso i giovani - in genere delle università milanesi - che mi vengono a trovare: quando e perché ho deciso di fare lo scrittore? Rispondo: molto presto, verso gli 11 o 12 anni, quando ho iniziato il primo anno di scuola media. Ci avevano messo in mano un testo di Omero, l’Iliade di Omero: io ignoravo addirittura l’esistenza di questo autore; ho cominciato a scorrerlo per mio conto, prima ancora che ce ne parlasse il professore in classe, e ne sono rimasto colpito come più non si potrebbe. Ecco uno che trasformava in bellezza tutto ciò che diceva… Decisi che avrei fatto anch’io la stessa cosa, senza pormi il problema se avrei scritto in versi o in prosa, e senza avere la più lontana idea della complessità del lavoro letterario. Il bello è che da quella decisione infantile successivamente non mi sono più staccato, essa seguita per me a essere valida ancora oggi, mentre continuo a sentire come mio compito quello di trascinare nel mondo e di mettere a disposizione del mio prossimo quanta più bellezza possibile. Prima di cominciare a scrivere, una decina di anni dopo, ventunenne, ho perfezionata e completata in modo definitivo quella scelta iniziale. Fu nella notte di Natale del 1942, mentre ero sottotenente d’artiglieria in un corpo d’armata accerchiato nella tragica “valle della morte” di Arbusov: di questa ulteriore scelta il dottor Vigorelli ha già fatto cenno. Poche erano le nostre speranze di sopravvivere, atroci le esperienze fatte, più atroce di tutte era per me la scoperta del punto raccapricciante cui può giungere l’odio tra gli uomini. In quei giorni di ecatombe io senti85 vo tangibilmente la presenza protettiva della preghiera di mia madre lontana: per parte mia promisi alla Madonna che, se fossi sopravissuto, avrei dedicata la mia vita futura all’affermazione del secondo versetto del Pater noster “venga il Tuo regno”: il regno di Dio, cioè dell’Amore e della Verità. Per questo poi nel mio lavoro la bellezza e la verità (in spirito d’amore per il prossimo) hanno costituito l’ossatura di ogni mia opera, anzi di ogni pagina. Veniamo a un secondo ambito della mia esperienza. Cos’è per me la letteratura, e cos’è il romanzo? La concezione della letteratura come coscienza critica del nostro tempo, che oggi prevale in Occidente, Italia compresa (dovuta in non poca parte a Jean Paul Sartre), e che si concreta sopratutto in denunce, a me sembra riduttiva e in conclusione non accettabile. Certo vanno bene, e occorrono anche le denunce, ma la letteratura non può limitarsi ad esse, riducendosi pressoché a sociologia. Campo dello scrittore è l’intera realtà, sono tutte le cose. Egli deve rendere sia quelle positive che quelle negative presenti nel suo tempo, e soprattutto deve affrontare tutto ciò che in profondità riguarda l’uomo. Deve dunque cercare di rispondere alle sue grandi domande: Donde vengo? Dove vado? Che senso ha la mia vita? Dato poi che l’essere umano si trova - come io sono convinto - in una realtà partecipe della sopranatura, compito dello scrittore ritengo sia anche di indagare i rapporti che ci sono nel tempo con l’eterno. Quanto ai modi di scrittura egli può liberamente utilizzare tutti quelli che gli servono, senza lasciarsi invischiare da mode e imposizioni del momento. Può essere dunque narrativo e descrittivo, ed epico, tragico, drammatico, elegiaco, comico, ironico e autoironico, e oggi - nel gusto del nostro tempo - può fare anche abbondante spazio all’umorismo, se gli torna utile. Io vedo la nostra letteratura come un grande albero radicato in Omero, che ha la parte più alta malata a causa delle 86 deviazioni (introdotte non solo da Sartre) per le quali oggi produce opere non vitali, e in genere - a causa del sopravenuto nichilismo - sempre più morenti, o addirittura nate morte. Sono perciò sceso lungo il tronco dell’albero finché ho trovato il tessuto sano nella prima metà del Novecento, e da lì sono ripartito seguendo con le mie opere il precedente indirizzo millenario. Sviluppandolo per quanto ho potuto in maniera originale, ma non arbitraria. Premesso questo, veniamo al romanzo. Come dev’essere oggi? A mio modo di vedere il romanzo deve semplicemente essere l’antico poema trasferito nella modernità. Deve dunque anzitutto essere in prosa, ciò che lo priva dell’armonia del verso, talmente determinante nell’antico poema, che esso si definiva canto. Ricordate? “Cantami o diva del pelide Achille l’ira funesta…”, in Virgilio: “Arma virumque cano (canto l’armi e l’uomo)…”, in Dante i capitoli si chiamano addirittura cantiche, e nel Tasso: “Canto l’armi pietose e il capitano che il gran sepolcro liberò di Cristo”, ma anche l’Ariosto: “Le donne, i cavalier, l’armi e gli amori… le audaci imprese io canto…”. Una volta perduta l’armonia del verso, occorre al romanzo un’altra armonia che incanti, che cioè affascini il lettore, e questa esiste, è contenuta dentro la prosa come nel marmo grezzo è contenuta l’opera d’arte, la statua, di cui parla Michelangelo: compito dello scrittore è appunto di estrarla. Non entro nei particolari, ma in pratica se voi in una riga di un mio romanzo (un’opera di narrativa, il saggio è un’altra cosa) levate una parola e la sostituite con un’altra di uguale significato ma con diverso accento (per esempio sostituite la parola “stesso” con “medesimo”) vi accorgete che la frase zoppica. È tale zoppicamento che va evitato: se il testo insieme alla verità di tutto ciò che espone (cioè insieme all’ “universale nel particolare”) possiede tale armonia, allora il lettore non se ne stacca più. Personalmente ne ho avuto conferma da centinaia di lettori che me lo hanno detto o scritto. Alcuni lamentandosi perché il mio Cavallo rosso finisce dopo 1.280 pagine: ne avrebbero volute ancora altre... 87 Due parole in merito a Il cavallo rosso, che è la mia opera maggiore. È un romanzo storico col quale cerco di rendere tutta l’esperienza della mia generazione. Prima di scriverlo ho affrontato la nota condanna del romanzo storico pronunciata dal Manzoni, il quale dopo avere scritto il maggiore romanzo storico della nostra letteratura, ha finito - in disamine con altri letterati - col condannare il genere “romanzo storico”. Perchè? Perché coi suoi completamenti di fantasia, inquinerebbe la storia nuda e pura. Fortunatamente Manzoni ha voluto anche esemplificare, scrivendo la Storia della colonna infame: opera nella quale la vicenda della peste in Milano descritta in modo così splendido nei Promessi sposi, è resa con rigore nel suo aspetto storico, senza completamento alcuno. Ho letto la Colonna infame con disponibilità e attenzione, ma alla fine come quasi tutti i suoi lettori ho constatato che la peste di Milano, e l’idea della peste in sé, nella mia mente è rimasta quella del romanzo, e non quella dell’opera storica. Ai miei occhi dunque è stato lo stesso Manzoni a smentire la propria condanna del romanzo storico. Veniamo ora alla lettura di due brani estratti dalle mie opere, per esemplificare in modo pratico ciò che ho asserito. Il primo brano viene da Gli ultimi soldati del re: lo presento non solo come esempio dell’armonia nella scrittura, ma anche perché ricorda un’inattesa scoperta dell’esistenza di Dio, che ho effettivamente fatto durante la guerra in Italia osservando alcune farfalle: “Osservatorio di Barbara: le farfalle. Ne venivano spesso, aleggiando, a posarsi sui bordi di terra smossa della nostra trincea, forse per suggerne l’umidità. Un pomeriggio ne arrivò una particolarmente bella: era nero-velluto, striata di fuoco, con macchie bianche. La mia attenzione fu attirata dalla leggiadria di quei colori, i quali - mi resi conto - non erano disposti a caso: anzi anche un grande pittore soltanto in un momento di particolare grazia avrebbe saputo comporli con tanta arte. 88 La considerai attento: quanto a lei, certo, non era così per propria scelta, non sapeva neppure di essere una farfalla, non se ne accorgeva. Nemmeno di esistere si accorgeva: esisteva e basta, e ferma sul bordo di terra della trincea muoveva ritmica le ali, come uno che respiri nel sonno, inconsciamente lieta del miracolo grande dell’estate di cui faceva parte. Quando però di lì a poco ne comparve un’altra della stessa specie, la farfalla si alzò in volo e prese a volteggiarle intorno, mostrando si sarebbe detto con intenzione all’altra i propri colori, ostentandoli, nascondendoli, ostentandoli di nuovo con somma grazia, come una provetta attrice. Insetto, concretamento di qualcosa che la trascendeva infinitamente, anche lei come noi. Specchio - minimo come il luccichio di un granello di sabbia al sole - della gioia e del colore che stanno nella mente di Dio. Una farfalla, mi resi improvvisamente conto, basterebbe da sola a dimostrare l’esistenza di Dio. Godevo di quell’inattesa festa di colori. La gioia incomparabile che dev’esserci in Dio!… Ecco, afferrai, ecco perché siamo stati creati noi uomini e gli angeli, chissà quanti miliardi d’esseri intelligenti e dotati di sensibilità: perché tutti si possa partecipare a una così incommensurabile gioia! Prima però, riflettei, c’è la prova (che ci dà merito: per il quale non siamo solo passivi) e per noi terrestri c’è anche la morte. Già… Presto le due farfalle sarebbero morte. Con un’ombra di turbamento immaginai le spoglie di tutte le farfalle morte, povere cose gualcite e rotte che le formiche, moriture anch’esse, sul finir dell’estate frettolosamente trascinano via. Che bene per noi che le farfalle esistano. E com’è giusto che loro non si accorgano d’esistere (non si accorgano dunque neanche di morire…)” Questo secondo brano viene da Il cavallo rosso: mi sembra esemplifichi l’epicità che è la connotazione di fondo dell’intero romanzo. L’episodio è storico, e io lo espongo come l’ho raccolto da alpini che l’hanno vissuto; ha avuto luogo nel gennaio 1943, durante la marcia della grande colonna della 89 divisione Tridentina da Arnautovo a Nicolaievca. Dopo la battaglia gli alpini hanno raccolto il capitano Grandi mortalmente ferito, e dietro la sua slitta si è messa in marcia l’intera compagnia, entrando nella grande colonna ch’era ripartita. “Col trascorrere del tempo l’ambiente tornò a farsi a grandi linee: per quanto si marciasse di buon passo, sembrava a momenti d’essere fermi nell’immensità. A un sobbalzo improvviso della slitta il capitano dal ventre squarciato aprì gli occhi. Prese lentamente coscienza della propria situazione e si guardò intorno: incontrò lo sguardo di un alpino che gli camminava a lato: “La battaglia è finita?” chiese. “Sì, è finita” “Ce l’abbiamo fatta, eh?” “Sì, abbiamo aperta la strada.” Accorse l’unico ufficiale rimasto alla compagnia: “Ce l’abbiamo fatta, signor capitano. Abbiamo riaperta la strada.” “Mm. Meno male.” “Come vi sentite signor capitano?” “Io? Ne ho per poco.” L’ufficiale non ribatté. “Loro erano tre battaglioni” disse invece: “Adesso lo sappiamo con certezza. Il Tirano è ridotto alla metà, però” ripeté “ha aperta la strada alla colonna.” “Se arrivi fuori, dillo a mia madre.” “Signorsì. Mi impegno a dirglielo.” “Dille che ho fatto il mio dovere, e perciò muoio in pace con gli uomini e con Dio.” Dall’una e dall’altra parte della slitta i suoi alpini, fattisi avanti, guardavano con facce angustiate il capitano; anche il conducente che camminava con le redini dei due muli girate intorno alle spalle alla brava, si voltava ogni poco a guardarlo, aveva le lacrime agli occhi. “Cosa sono quei musi lunghi?” esclamò a un tratto il 90 capitano Grandi: “Sotto piuttosto, cantate con me.” e con la voce che si ritrovava, che sarebbe stata ridicola in un momento meno tragico, attaccò la tremenda canzone alpina del capitano che sta per morire e fa testamento. “Il capitano l’è ferito l’è ferito e sta per morir” Subito i circostanti gli si unirono nel canto, più d’uno fece segno a quelli che seguivano, tutta la compagnia serrò sotto e si mise con grandissimo dolore a cantare. Nella canzone il morente prescrive che il suo corpo sia tagliato in cinque pezzi: “Il primo pezzo alla montagna che lo ricopra di rose e fior” Che struggimento, che pena il ricordo delle native montagne in quell’immensa pianura senza confini… “secondo pezzo al re d’Italia che si ricordi del suo soldà” Il terzo pezzo al reggimento. Nella sterminata colonna di formiche che procedevano frenetiche, eppure parevano ferme nella gelida immensità, c’era quel breve tratto che cantava. E la madre compariva nel canto, e la donna amata: “Il quarto pezzo alla mia mamma che si ricordi del suo figliol, il quinto pezzo alla mia bella che si ricordi del suo primo amor.” Addio dunque anche a te primo amore, addio per sempre, ciò che abbiamo sognato non sarà mai… Addio montagne, patria, reggimento, addio mamma e primo amore, cantavano gli alpini. Cantavano e piangevano gli alpini valorosi, e c’era nel loro canto paziente tutto lo struggimento della nostra umana impo91 tenza; cantarono anche quando ormai il capitano non cantava più e li accompagnava solo con gli occhi; cessarono di cantare solo quando si resero conto che il capitano Grandi era morto.” Visto il tempo che ci rimane, dal mio terzo libro distribuito ai convenuti dal dottor Vigorelli, Catone l’antico, estraggo un unico filo, che mi pare particolarmente confacente al tema del presente convegno. Si tratta dell’analisi del matematico ex sovietico Igor Safarevic nella sua opera Il socialismo come fenomeno storico mondiale, con presentazione di Alessandro Solgenitzin, opera che non è molto conosciuta in Italia, ma che a Parigi, ho visto, fa notevole presa. Safarevic sulla base non solo delle proprie ricerche, ma anche di almeno una ventina d’altri autori, fa presente come, ad eccezione di una, tutte le grandi società umane della storia hanno avuto uno sviluppo rigorosamente simile. Così il primo grande impero della storia, quello sumero accade sviluppatosi a cominciare dal quarto millennio a. C. nel vicino oriente, poi il secondo grande regno, che fu quello cinese, e in seguito gli altri in Asia e in Africa, nonché quelli formatisi al di là dell’oceano nella lontana America: l’Azteco, il Maia e l’Inca. Tutti si presentano strutturati nel medesimo modo su tre strati. Il primo strato è costituito da un uomo solo: un capo assoluto e divinizzato, detentore di ogni potere (in grado per esempio di far lavorare per venti anni alla propria tomba centomila uomini, come il faraone egiziano Cheope, oppure come l’antico sovrano cinese che ne ha impiegati settecentomila nella costruzione di una propria residenza). Il secondo strato della società è costituito da un insieme di funzionari o di nobili che governano per mandato del sovrano assoluto, e sono da lui investiti del potere religioso, militare e civile. Il terzo strato infine comprende la totalità dei sudditi, i quali sono rigorosamente organizzati in modo da produrre il più possibile nell’ordine economico. Poiché però l’uomo è nato libero, inevitabilmente costoro tendono a ribellarsi alla coercizione, e perciò 92 vengono sempre più coatti dall’autorità. Così da essere in conclusione non solo privati della libertà, ma anche addirittura, nei limiti del possibile, della loro individualità. Le descrizioni, minute e documentate, che Safarevic presenta delle diverse società, sono straordinariamente interessanti e insieme angoscianti. Egli, che ha fatto sulla propria pelle l’esperienza tragica e illuminante della società sovietica (simile in tutto, nonostante i suoi orpelli teorici ultramoderni, alle società della costrizione) applica a tutte queste società la qualifica di socialiste. Veniamo all’unica eccezione riscontrata da Safarevic, sulla scorta anche di altri autori. L’eccezione è costituita dalla società che noi potremmo per comodità chiamare occidentale, nata in Atene, sviluppatasi in Roma, quindi nell’Europa cristiana medievale, infine negli stati dell’Occidente moderno. Si tratta di una società di uomini tutto considerato liberi, non soggetti alla schiavitù generalizzata, salvo due brevi interruzioni che hanno avuto luogo in epoca moderna nell’ambito della Russia comunista e della Germania nazista. Safarevic registra tale realtà storica senza spiegarne la genesi, che facendomi coraggio io cerco di spiegare nel mio libro su Catone. Respingendo anzitutto la facile tentazione di addebitare all’egoismo dei due strati dominanti l’asservimento delle masse umane costituenti il terzo strato. Io credo che si sia invece dovunque tentato, certo molto in confuso, di andare incontro alla più universale aspirazione degli uomini: quella alla felicità. Avendo come scopo la felicità di tutti, si è dovunque finito con l’impegnare tutti nella produzione materiale, organizzandola il più possibile razionalmente, e non lasciandola all’arbitrio dei singoli. Ma si è dovunque incappati in due impervi ostacoli: anzitutto le fortissime disparità esistenti fra i singoli individui; in secondo luogo quell’ostacolo ancora più importante, di ordine non naturale, che solo il cristiano è in grado di spiegarsi: una realtà constatata come tale anche dal poeta pagano: “Video meliora, proboque, at deteriora sequor: 93 vedo il meglio, e lo approvo, ma seguo il peggio”, che è molto in sintesi la conseguenza del peccato originale. In breve ne deriva che l’uomo, essendo per sua natura libero, deve liberamente decidere di vincere sé stesso: se l’autorità lo costringe, egli reagisce, e all’autorità per aumentare la produzione materiale non resta altra strada che costringerlo sempre di più. Anche in età contemporanea noi abbiamo visto come non sia possibile cambiare la coscienza e la natura dell’uomo mediante gli strumenti forniti dall’economia. Due grandi nazioni: la Russia sovietica e a sua imitazione la Cina, programmaticamente contro gli indirizzi della rivelazione cristiana hanno impegnate tutte le loro forze per costruire, in base a criteri materialisti, “il paradiso in terra”. Nel loro tentativo di rendere gli uomini più felici, non sono arrivate a costruire altro che cataste di milioni e milioni di cadaveri. Come è stato invece possibile in Occidente costruire il progresso nella libertà? A noi sembra che ad avviarlo siano stati gli antichi greci grazie al loro straordinario senso della bellezza, per il quale hanno sempre anteposto ciò che è bello, intendo vitalmente bello, a tutto il resto; anche a ciò che è utile e molto utile. (In questo senso, aggiungo, a me sembra oggi perfettamente fondata la profezia di Dostoevskij: “il mondo sarà salvato dalla bellezza.”) Dopo i greci anche i romani, grazie al loro determinante senso del dovere, non si sono lasciati condizionare dall’economia, e dopo avere recepite le conquiste greche in arte e in filosofia le hanno inserite in tutto l’ecumene da loro conquistato, cioè nell’intera Europa. È visione di Dante che con ciò Roma e il suo impero sono stati preparatori dell’avvento del cristianesimo, per cui egli scrive: “la quale e il quale (Roma e il suo impero) a voler dir lo vero, fu stabilita per lo loco santo u siede il successor del maggior Piero (cioè il papa).” Secondo tale visione nel Medioevo la civiltà avviata da Atene e portata avanti da Roma si è rivelata dunque una preparazione alla grande del mondo cristiano; grazie al cristianesimo la schiavitù venne poi tolta di mezzo, e la 94 donna elevata all’altezza che sappiamo. Il progresso è proseguito nell’ambito degli stati occidentali fino ad oggi, con affioramento però di un imprevisto processo contrario nei due casi della Russia comunista e della Germania nazista. Che vennero con grande sforzo superati. Ma a mio parere c’è un terzo grande fenomeno negativo che si sta sviluppando nella nostra società, e questa volta dentro il campo dell’arte. Dalla quale viene sempre più scacciata la bellezza, e sostituita col deforme e col mostruoso (Picasso docet). Se tale sistematico disfacimento della bellezza dovesse continuare (anche dentro la letteratura, in cui tante opere nascono morte) non potrebbe che portare all’estinzione dell’arte occidentale. E di conseguenza della stessa civiltà occidentale. Lettura da il “CATONE L’ANTICO”: I cartaginesi Un popolo, il cartaginese, diversissimo da quello romano: un insieme di mercanti, affermatisi come tali in tutto il Mediterraneo e fuori, gente non solo straordinariamente capace nei commerci, ma anche di forma mentis interamente strutturata sull’economia. (Vogliamo azzardare un riferimento moderno? Auguriamoci che non sembri troppo bizzarro, proponiamo la forma mentis di Carlo Marx, il quale partiva dal presupposto che è l’economia a determinare tutta la realtà umana: incluse la coscienza e la natura stessa dell’uomo.) Per le necessità della loro enorme espansione commerciale (nel Mediterraneo e al di là delle Colonne d’Ercole, dove erano arrivati in una sola volta a trapiantare sulla costa africana dell’Atlantico fino a trentamila coloni - Mommsen, Libro III, cap.1) ai Cartaginesi occorreva un esercito, e si era perciò sviluppata tra loro una casta militare. Che era molto intelligente e capace, come l’appartenenza alla stirpe semitica comportava, ma non era molto amata dal popolo. Tanto che se un loro 95 generale perdeva una importante battaglia, la sconfitta veniva dalla città considerata soprattutto un cattivo affare, e il generale veniva crocefisso, come si faceva coi ladroni. Circa la feroce inconciliabilità tra il vecchio Catone (diciamo pure tra il mondo romano) e il mondo cartaginese, abbiamo già proposta la nostra opinione: che se nello scontro la vittoria fosse toccata a Cartagine, la successiva storia dell’Occidente sarebbe stata del tutto diversa. Cerchiamo di spiegare perché. L’analisi potrebbe partire da due passi di Tito Livio, dai quali emerge che a quel tempo doveva in qualche modo essere nell’aria una sorta di attesa dell’unificazione del mondo conosciuto. Leggiamo nel libro XXIX 16 l’affermazione dei messaggeri greci di Locri in Senato a Roma (anno 205 a.C.): “Il genere umano è ora in attesa di vedere se voi o i cartaginesi sarete i dirigenti del mondo”. Poi nel libro XXX 32 lo stato d’animo dei soldati romani e di quelli cartaginesi alla vigilia di Zama: “Sarebbero stati vincitori non per quel solo giorno, ma per sempre; all’indomani, prima di notte, avrebbero saputo se toccasse a Roma o a Cartagine dettare leggi ai popoli. Ne’ l’Africa ne’ l’Italia sarebbero state premio alla vittoria, ma tutto il mondo.” Certo l’uomo cartaginese non era inferiore per doti personali all’uomo romano (ricordiamo tra l’altro che la massima a nostro parere - fra tutte le scoperte umane: la scrittura alfabetica, fu opera dei Fenici). I Cartaginesi avevano però una visione della realtà dominata dall’economia, anzi in ultima analisi riducibile ad economia. Se dunque fosse toccato a Cartagine d’indirizzare la successiva storia dell’Occidente, noi riteniamo che si sarebbe venuto a formare un impero in qualche modo analogo a quello romano, forse anche per certi aspetti più progredito, ma a causa appunto di quella diversa impostazione mentale, alla fine privo di libertà per tutti, Cartaginesi inclusi. 96 Biografia Eugenio Corti (Besana Brianza, 21 gennaio 1921) è uno scrittore e saggista italiano. Primo dei dieci figli di un industriale, frequenta al paese le scuole elementari, ma, a causa di una malattia del padre, nel 1931 viene iscritto al collegio San Carlo di Milano, dove studia per dieci anni. Sempre al San Carlo, frequenta il ginnasio e il liceo classico. Nel 1940 gli studi si interrompono, poiché il 10 giugno l’Italia entra in guerra e viene chiamato alla leva e agli inizi di febbraio 1941, si reca alla caserma del Ventunesimo Reggimento Artiglieria Divisionale a Piacenza per un primo addestramento di sei mesi. Seguiranno altri sei mesi alla Scuola allievi ufficiali di Moncalieri, dove diventa sottotenente. La campagna di Russia Nel frattempo inoltra la richiesta di essere destinato al fronte russo, così motivata: «Avevo chiesto di essere destinato a quel fronte per farmi un’idea di prima mano dei risultati del gigantesco tentativo di costruire un mondo nuovo, completamente svincolato da Dio, anzi, contro Dio, operato dai comunisti». Raggiunge il fronte agli inizi del giugno 1942 e a luglio partecipa all’avanzata dal Donez al Don. Dopo mesi di stasi, il 16 dicembre inizia la controffensiva russa sul Don e il 19 la ritirata degli italiani. Questi 28 giorni sono i più drammatici della vita di Corti, narrati ne I più non ritornano: solo la sera del 16 gennaio riesce ad uscire dall’accerchiamento russo con pochi altri superstiti. Trascorre una settimana nell’ospedale di transito nella polacca Leopoli (oggi in Ucraina); poi, tornato in Italia, tre settimane all’ospedale “Emma” di Merano. Il 26 luglio 1943 rifiuta la licenza che i medici dell’ospedale di Baggio volevano accordargli per le condizioni di salute e afferma: «Sono sottotenente e devo fare la mia parte: se c’è da sostenere un’ultima difesa, non è decente che io la lasci sostenere solo ad altri». Rientrato in caserma a Bolzano, viene poi trasferito in Lazio, a Nettunia (oggi Nettuno), da cui, dopo l’armistizio dell’8 settembre, si dirige verso sud a piedi, in compagnia dell’amico Antonio 97 Moroni, per riunirsi all’esercito regolare. Queste vicende, e tutte quelle riguardanti la guerra di liberazione, sono narrate ne Gli ultimi soldati del Re. Dopo un periodo nei campi di riordinamento, Corti entra volontario nei reparti nati per affiancare gli Alleati nella liberazione dell’Italia. L’attività letteraria Finita la guerra e ritornato alla vita borghese, riprende gli studi e ottiene la laurea in giurisprudenza nel 1947. Nel giugno dello stesso anno pubblica presso Garzanti I più non ritornano, il suo primo libro, sulla ritirata di Russia. Dopo la laurea, inizia la stesura del suo secondo libro, I Poveri Cristi: l’argomento è la guerra di liberazione dell’Italia. Il lavoro verrà ripreso e darà alla luce, a decenni di distanza (nel 1994) Gli ultimi soldati del re. Nel 1951 comincia a lavorare nell’azienda del padre: pur non amando quel lavoro, continuerà a esercitarlo per una decina di anni. In questo periodo si dedica ad uno studio teorico e storico sul comunismo, forte anche della sua esperienza in URSS. Frutto di questi studi sarà una tragedia teatrale, Processo e morte di Stalin, scritta tra il 1960 e il 1961 e rappresentata la prima volta nel 1962. «Da questo momento Eugenio Corti, a causa del proprio ragionato anticomunismo, è ostacolato, in modo sistematico e mal dissimulato, dalla grande stampa e dal mondo della cultura, a quel tempo ormai fortemente orientati a sinistra»1. Agli inizi degli anni settanta, Corti matura la decisione di dedicarsi completamente alla scrittura. Inizia a scrivere un ritratto dell’Italia e dell’Europa dal 1940 al 1974, che intitola Il cavallo rosso, e che lo impegna per ben undici anni. Partecipa ai comitati antidivorzisti per il referendum del 1974 (esperienza che lo convincerà dello sbandamento presente nell’Azione Cattolica in quel periodo) e nella redazione di una serie di articoli per il quotidiano “L’Ordine” di Como. Nel 1983 il testo de Il Cavallo Rosso raggiunge la forma definitiva. Sorgono tuttavia problemi di pubblicazione (il manoscritto supera le 1500 pagine), ma anche ostacoli di natura politica. Corti si rivolge a Cesare Cavalleri, direttore delle Edizioni Ares, che pubblica il romanzo nel maggio 1983 con traduzioni in spagnolo, francese, inglese, lituano, rumeno e giapponese. Paola Scaglione nella sua biografia dello scrittore: Parole scolpite. I giorni e l’opera di E. Corti 1 98 Tra le opere successive, Il fumo nel Tempio, sulla crisi del mondo cattolico. Dopo Il Cavallo Rosso Corti si è dedicato alla creazione di nuovi romanzi, definiti racconti per immagini: La Terra dell’Indio (1998), L’Isola del Paradiso (2000), Catone l’Antico (2005). Collabora alla rivista Il Timone. Corti è stato insignito del Premio Internazionale Medaglia d’Oro al merito della Cultura Cattolica nel 2000. Il 7 dicembre 2007 è stato insignito dell’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano. Opere Narrativa • I più non ritornano (1947) • Il cavallo rosso (1983) • Gli ultimi soldati del Re (1994) Saggistica • Il fumo nel tempio (1995) • Breve storia della Democrazia Cristiana, con particolare riguardo ai suoi errori, Mimep-Docete, Pessano (MI), (1995) • Le responsabilità della cultura occidentale nelle grandi stragi del nostro secolo, Mimep-Docete, Pessano (MI), (1998) • Processo e morte di Stalin (con altri testi sul comunismo) (1999) Racconti per immagini • La terra dell’Indio (1998) • L’isola del Paradiso (2000) • Catone l’antico (2005) 99 Card. Attilio NICORA, Presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica Città del Vaticano “I fondamenti della libertà coniugata alla responsabilità” Servite Domino in iucunditate. Omnis servitus amaritudine plena est: omnes conditione servili obligati et serviunt, et murmurant. Nolite timere illius Domini servitutem: non erit ibi gemitus, non murmur, non indignatio; nemo se petit inde venalem, quia dulce est quod redenti omnes sumus. Magna felicitas, fratres, esse in ista domo magna servum. (…) Libera servitus est apud Dominum; libera servitus, ubi non necessitas sed caritas servit. (…) Servum te caritas faciat quia liberum te veritas fecit. Si manseritis, inquit, in verbo meo, vere discipuli mei estis; et cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos. Simul es et servus et liber: servus, quia factus es; liber, quia amaris a Deo a quo factus es; immo etiam inde liber, quia amas eum a quo factus es. Noli servire cum murmure; non enim id agunt murmura tua, ut non servias, sed ut malus servus servias. Servus es Domini, libertus es Domini; non te sic quaeras manumitti, ut recedas de domo manumissoris tui. (S. Agostino, Enarratio in psalmum 99, n. 7) 101 Considerando le altre tematiche del Convegno, ho pensato che avrei potuto anch’io trarre spunto da S. Agostino, come già è stato fatto ieri. Questo autore è una miniera inesauribile e sta veramente alle radici della nostra cultura. 1. Per sviluppare il tema affidatomi del rapporto tra libertà e responsabilità ho scelto un commento a un salmo che Agostino ha esposto nell’anno 412 a Cartagine. Si tratta del salmo 100 (99), una breve composizione innica di cinque versetti che invita il popolo di Dio a raccogliersi per la lode del Signore; al v. 2 dice così: “acclamate al Signore, voi tutti della terra, servite il Signore nella gioia”. In latino: servite Domino in iucunditate. Agostino che, come sapete, era un abilissimo retore, gioca un poco su questa espressione e dialoga con gli ascoltatori cercando di raccogliere e far proprie le loro reazioni immediate per rilanciarle poi in chiave catechetica; inizia perciò a farsi alcune domande. Si chiede: come il salmo può invitare a servire il Signore nella gioia? Si può servire con gioia? E risponde: no, almeno nella comune esperienza. Omnis servitus amaritudine plena est. Omnes conditione servili obligati et serviunt et murmurant. Normalmente chi è obbligato a servire serve perché non può farne a meno, ma si rivolta interiormente e se ne lamenta. Notate che qui lo scenario di fondo è quello della grande casa padronale romana. Oltre ai famigliari del dominus vi sono gli schiavi, e il termine ‘servire’ allude allo schiavo in senso proprio; noi abbiamo un po’ addolcita la parola “servo”, ma in questo contesto ha un senso molto più concreto. Allora Agostino, facendosi carico di questa obiezione che nasce istintiva nell’animo dei suoi ascoltatori, invita a operare un mutamento di scena: non collochiamoci nel quadro di una 102 grande casa padronale secondo l’esperienza ordinaria della vita quotidiana dell’Africa del Nord di allora, ma trasferiamoci in quell’altra grande casa, che è la “casa del Signore”, la Chiesa, la comunità cristiana. E raccomanda: nolite timere illius Domini servitutem. Non abbiate paura di essere schiavi nella casa di quel Signore, che è il Dio cristiano: non erit ibi gemitus, non murmur, non indignatio. Là non v’è né gemito, né lamento, né rivolta; piuttosto magna felicitas, fratres, esse in ista domo magna servum. È piuttosto un grande motivo di gioia, fratelli, essere servi in questa casa. Ma perché? Ecco qui il punto. Appaiono alcune espressioni icastiche di Agostino che sono davvero profonde e suggestive. Libera servitus ubi non necessitas, sed caritas servit. È l’affermazione centrale della riflessione agostiniana. Libera servitus è un ossimoro impressionante: si tratta infatti di due termini assolutamente, radicalmente contrastanti nella mentalità comune. Libertà dice pretesa e autonomia nel disporre di sé medesimo e delle scelte che si ritiene meglio fare, mentre servitus sembra alludere a una condizione totalmente predeterminata dall’altro, che non lascia spazio all’espressione di una propria autonomia. Ma Agostino non teme di proporre tale convinzione, perché – sottolinea – libera servitus est apud Dominum. Nella casa del Signore, questa grande casa che è la Chiesa, si può davvero fare questa paradossale esperienza: l’esperienza di una libera servitus, giacché libera servitus ubi non necessitas sed caritas servit. C’è schiavitù, con il corredo di desolazione, di protesta e di rivolta che essa porta con sé, quando il servizio è obligatus, è costretto; c’è invece un servizio che può essere libero e quindi generatore di gioia quando ciò che lo determina non è la necessitas ma la caritas. Quando cioè è l’amore che motiva e sollecita la scelta del servizio. Attraverso queste espressioni sintetiche e incisive, capaci di entrare nella sensibilità dei suoi ascoltatori in maniera 103 molto efficace, Agostino non fa che riesprimere quella che è un’esperienza umana abbastanza comune. Se due genitori rinunciano al week-end per stare accanto al loro bambino che ha la febbre, non ritengono di subire una schiavitù; essi vivono questa rinuncia non solo come un gesto dovuto dalla loro responsabilità genitoriale, che neppure per un momento si mette in questione, ma come un atteggiamento doppiamente ricco d’intensità e di affetto perché ciò che lo determina non è un obbligo esteriore. Si deve rimanere accanto al bimbo malato, ma ciò che induce a rimanere è l’amore. L’amore rende libero ciò che apparentemente sembrerebbe obligatus. Sì, libera servitus ubi non necessitas, sed caritas servit. Ma Agostino scava ulteriormente e prospetta una consegna conseguente: servum te caritas faciat, quia liberum te veritas fecit. È un’altra espressione d’una densità impressionante. L’amore ti renda servo, ti metta in atteggiamento di servizio, dal momento che la verità ti ha reso libero. E qui riprende dal Vangelo secondo Giovanni (8,31-32) una parola di Gesù: “se rimarrete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. 2. Appaiono così i quattro elementi fondanti quella che potremmo chiamare l’antropologia cristiana, che hanno generato nel tempo un’autentica rivoluzione e stanno alla radice della nostra cultura: essi sono verità, libertà, amore, servizio. Questi quattro elementi sono le quattro componenti decisive della concezione cristiana dell’uomo, e perciò sono oggi i quattro valori più sottilmente messi in difficoltà o addirittura sospettati e relativizzati, fin quasi ad essere rinnegati, da correnti culturali dominanti che hanno smarrito le radici. E dunque siamo a un punto davvero assai cruciale. Servum te caritas faciat, quia liberum te veritas fecit. 104 L’ordine in cui va letta la frase di Agostino è peraltro l’inverso di quello letterale. Si parte dalla verità: la fede in Gesù Cristo ti dà l’idea autentica di uomo. L’uomo è l’essere che non vive da se stesso e per se stesso, ma è l’essere che, ricevendo la vita da un altro a lui superiore e insieme ad altri a lui eguali, è nativamente fatto per essere aperto e impegnato in un rapporto di dedizione a colui da cui viene, Dio, e agli uomini che si ritrova come fratelli. Questa è la verità dell’uomo mostrata esemplarmente dalla parola e dalla vita di Gesù, il Dio fatto uomo. L’uomo non è l’unico, l’assoluto, una monade solitaria che ha il potere di decidere ma lo usa in un’ottica esclusivamente individualistica, tendendo a mettersi al centro e a ridurre tutto ciò che esiste fuori di lui a qualcosa che gli può servire. L’uomo è nativamente un ‘essere per’. Un essere per Dio che l’ha chiamato alla vita; un essere per gli altri, con i quali gode il dono della vita e ne condivide la responsabilità. Gesù Cristo è la realizzazione umanamente e storicamente concreta, definita, originalissima e unica di questa verità dell’uomo. L’uomo autenticamente realizzato è Gesù Cristo. Egli è l’uomo che è venuto - lo ha detto nel Vangelo - non per essere servito, ma per servire (Mt 20,28). L’uomo che ha messo la sua grandezza non nel farsi diverso e superiore rispetto agli altri rivendicando l’esser figlio di Dio, ma piuttosto nel farsi come noi, anzi, mettendosi all’ultimo posto in mezzo a noi e per noi, più ancora, andando a morire per noi sullo strumento infamante di morte che era la croce, quello riservato agli schiavi. Se la verità di Cristo diventa la verità dell’uomo nella fede, allora scopriamo l’autentica libertà, che consiste non nella pretesa di affermare se stesso usando degli altri come strumenti, ma nella possibilità di realizzare ciò che è giusto secondo la mia identità di uomo non per necessitas, cioè non 105 per obbligo esteriore, ma per la caritas che mi muove dal di dentro. Appunto un ‘essere per’. Questa libertà è alimentata e sostenuta dall’amore. Se l’amore mi inclina a servire, io posso realizzare il servizio non vivendolo come una necessitas che mi schiaccia e che rinnega la mia dignità umana, ma quale espressione di una dedizione che si celebra come vera libertà perché si modella sulla verità di Gesù Cristo, l’Uomo pienamente realizzato. Ne viene allora il servizio nella gioia. Servite Domino in iucunditate. Servite Dio accogliendo questo suo disegno, questo compito cui ci chiama e ci abilita: Egli ci ha creati e ci ha donato all’esistenza perché in qualche modo continuassimo liberamente e responsabilmente la sua opera creativa e provvida e amassimo gli altri nella gioia, riconoscendo che il senso ultimo della nostra libertà sta nel diventare autentici promotori della dignità e della verità umana di tutti, nessuno escluso. Questo è profondo motivo di gioia. 3. Dunque verità, libertà, amore, servizio sono i quattro valori fondamentali, i quattro profili strettamente incrociati tra loro di quella che possiamo chiamare l’antropologia cristiana. Agostino poi aggiunge: simul es et servus et liber, sei nello stesso tempo schiavo e libero. Servus quia factus es, schiavo perché sei povera creatura che si è fatta schiava concedendosi alla signoria del male e del peccato. Liber quia amaris a Deo a quo factus es, immo etiam inde liber quia amas eum a quo factus es. Libero perché Dio tuo creatore ti ama con un amore redentore, ma addirittura ancor più libero perché ti è stata data la dignità di poter riamare quel Dio che ti ha amato e per questo ti ha riscattato alla vita. Allora, conclude il santo, noli servire cum murmure. Non vivere il tuo servizio maledicendo la sorte: non enim id agunt 106 murmura tua ut non servias, sed ut malus servus servias. Il tuo continuare a lamentarti non ti sottrae alla condizione dell’esigente servizio, ma piuttosto fa sì che tu serva come un servo cattivo. Servus es Domini libertus es Domini. Sei schiavo di Dio e perciò stesso sei liberto di Dio, perché da Lui sei stato riscattato dalla schiavitù e reso libero. Vivi perciò questa tensione profonda, accoglila come la verità di te stesso. Non te sic quaeras manumitti ut recedas de domo manumissoris tui: non cercare altre liberazioni, altri riscattatori, perché rischieresti così di abbandonare la casa del tuo autentico liberatore, che è Dio. È l’eterna tentazione dell’uomo: pensare che fuori dal riferimento alla volontà di Dio, che diventa richiesta di filiale obbedienza nel libero servizio dell’amore, si possa trovare una felicità più grande; così si cercano altre liberazioni che rischiano di diventare nuove schiavitù. Mi pare che a questo punto siamo giunti al tema che mi era stato affidato nel quadro della tematica generale sulle radici della nostra cultura: “libertà e responsabilità”. 4. Sulla scorta di Agostino ho tradotto la “responsabilità” nella dimensione del “servizio”. La scelta radicale che la visione cristiana propone all’uomo è proprio questa: se celebrare la libertà come servizio mosso dall’amore, unendosi a Gesù Cristo che è la verità dell’uomo, o se invece concepire la libertà come ricerca della propria assoluta primazìa, rifiutando di collegare il proprio destino a quello degli altri e di piegare la propria autonomia al bene dei fratelli finendo nell’autocelebrazione di una libertà ultimamente sterile e solitaria. La proclamazione cristiana ha fatto entrare questa sfida nella storia e nella cultura dei popoli che ha raggiunto ed essa ha generato realtà ricchissime di valore liberante e solidale. L’annuncio cristiano ha immesso nella storia questa energia della verità e dell’amore, che ha continuamente provocato le 107 varie culture a mantenersi aperte alla prospettiva della libertà responsabile. Non si può dire che l’annuncio evangelico abbia vinto. Si può dire però che ha sempre provocato specialmente la cultura europea e che ha prodotto effetti, ha lasciato segni, e ancora oggi continua a realizzare possibilità che costituiscono un’enorme ricchezza. Si potrebbero fare tanti esempi, ma accenno solo a due profili originali dell’annuncio cristiano: l’evento della natività e quello della crocifissione che, non a caso, sono due dei grandissimi temi dell’arte della nostra storia occidentale (la parola ‘occidentale’ è peraltro una parola un po’ ambigua). La scena della Natività, la Madonna e il Bambino. Nella cultura antica, le donne e i bambini erano soggetti di serie B, erano personaggi fuori dalla possibilità di contare giuridicamente e socialmente. La scena della Natività, il Figlio di Dio che nasce come uomo, ha riportato la donna e il bambino al centro di una coscienza popolare diffusa. Ci sono voluti secoli perché questo desse frutti, però un’energia lievitante si è immessa e ha irrimediabilmente segnato la nostra tradizione. Oppure pensate a ciò che la scena della crocifissione di Gesù ha significato nella nostra cultura. Il Dio crocifisso, cioè il Dio che mette la sua grandezza non nel farsi invisibile, diverso, lontano, inaccessibile, al massimo grande signore che lascia piovere qualche briciola di bontà provvida verso chi gli è devoto, ma il Dio che decide di scomodarsi, di venire, di prendere carne, di mettersi dalla parte degli ultimi, dei sofferenti, degli schiavi, morendo anche Lui sullo strumento infamante che è la croce insieme ad altri due condannati. Questo è il Dio che da duemila anni viene proposto dall’annuncio cristiano. Ciò ha favorito il riscatto di ogni forma di emarginazione, 108 di povertà, di sconfitta. La pietas cristiana ha generato innumerevoli opere di accoglienza, di cura, di soccorso. È noto che ancora fino al 1900 la sanità e l’assistenza sociale erano realizzate principalmente dalle Opere Pie, come venivano chiamate, cioè da strutture che erano nate originariamente dalla pietas cristiana, la quale era nutrita dalla contemplazione del Crocefisso, di un Dio incarnato che ha vissuto nell’amore, un amore che si mette al servizio, un amore che condivide, cercando di curare, di riscattare, di promuovere, fino a dare la vita. È stata così immessa nella nostra cultura una tensione verso la solidarietà che non è presente in altre tradizioni religiose e in altre prassi sociali, quanto meno non ha la stessa intensità di fondamento valoriale, addirittura teologico. Altrove ci si appella piuttosto a un generico rispetto e sostegno verso la creatura, che non attinge però a una simile radice teologica: ci dobbiamo reciprocamente servire perché Dio, per primo, facendosi uomo e morendo per noi, ci ha servito dando la vita per noi. Tali valori hanno segnato la nostra storia anche in termini di cultura elaborata e di produzione di bellezza, per tornare ai temi cari a Eugenio Corti. Ma hanno anche generato il riscatto e la riscoperta del valore del lavoro umano. La grande tradizione benedettina è ampiamente riconosciuta come assolutamente meritevole dal punto di vista dello sviluppo dell’Europa, soprattutto medioevale, attraverso il rilancio della dignità del lavoro. Non più considerato come cosa riservata agli schiavi, il lavoro manuale viene esercitato dai monaci, dagli uomini di Dio per eccellenza, e fatto diventare scuola di lavoro per le popolazioni che allora si raccoglievano vicino ai monasteri, come luogo di riparo e di rifugio, con il conseguente riscatto della terra e col grande sviluppo che ha portato alla civiltà medievale. Pio XII e poi ancora Paolo VI celebrando S. Benedetto quale Patrono dell’Europa usano un’espressione molto bella: 109 S. Benedetto e i suoi figli portarono in tutta Europa la croce, il libro e l’aratro. Credo che poche espressioni come questa riassumono ed esprimono le nostre radici in chiave cristiana. La croce, il libro, l’aratro: i benedettini hanno portato la croce, hanno annunciato il Vangelo, hanno salvato la cultura antica e hanno prodotto a loro volta cultura nuova, il libro e l’aratro, cioè hanno dissodato l’Europa dal punto di vista del lavoro umano e hanno messo le radici dello sviluppo dell’economia che dal Medio Evo in avanti si evolverà con grande dinamismo. 5. Sono ben consapevole che di fronte a queste prospettive, che sento come molto suggestive e sempre molto provocanti, bisogna mantenere anche il giusto senso della misura e mai eccedere. Ho detto che questa ispirazione cristiana che appartiene alle nostre radici non fu mai vincente in assoluto, né potrà probabilmente mai esserlo; la perfezione non è di questo mondo. La lotta, la scelta drammatica tra due modi diversi di concepire la libertà e quindi due modi diversi di intendere la responsabilità è perenne; perché attraversa il cuore dell’uomo. Però è certo che oggi siamo in un punto dello sviluppo della nostra civiltà in cui stanno avvenendo fenomeni che potrebbero diventare assai pericolosi; il rischio è che non soltanto, contrariamente a quanto vorremmo, questa visione non sia vincente, ma che si cerchi addirittura di impedirle di rimanere viva, presente, provocante. Questa è la tendenza secondo me oggi più insidiosa. Quando, purtroppo a cominciare anche da istituzioni che peraltro avevamo guardato con tanta speranza quali il Parlamento europeo, si tenta di togliere al valore religioso e specificamente cristiano ogni rilievo pubblico ed ogni possibilità d’interlocuzione istituzionale, e di confinarlo esclusivamente nel privato, come se fosse soltanto una mera questione di coscienza; quando si riduce a poco a poco la libertà religiosa alla libertà di convinzione personale, dimenticando che essa 110 è anche libertà istituzionale, che è anche libertà delle confessioni religiose, che è anche possibilità delle confessioni religiose di giocare - in un quadro ovviamente democratico - il loro ruolo provocante e stimolante in termini sociali, ecco, quando avvengono fenomeni di questo genere, e chi osa dire qualcosa che non è secondo il ‘politichese’ di moda viene messo a tacere perché dà fastidio, perché non è ‘corretto’, allora c’è un rischio, c’è un grave pericolo. La Chiesa cattolica non esige di vincere; certamente ha la tentazione di voler sempre vincere, bisogna riconoscerlo, ma quando riesce ad essere veramente se stessa, fedele al suo Maestro, non cede a questa tentazione, perché adora un Dio che ha perso sulla Croce. Ciò che la Chiesa domanda e non potrà non continuare a domandare è la libertà di poter provocare, nel senso alto, nel senso di S. Agostino, nel senso delle radici, cioè nel senso di tener desta una tensione che richiama a una consapevolezza dei valori profondi e a reagire al rischio di appiattimento o di pura formalizzazione tecnico-procedurale dei valori, ridotti a mero schema funzionale in vista di un’efficiente regolazione di una vita sociale complessa e pluralistica. Questo la Chiesa non lo potrà mai accettare; essa dovrà sempre umilmente e coraggiosamente, rischiando anche di perdere, riproporre i valori fondanti che abbiamo ricordato. Perché essa è convinta che, oltretutto, qui c’è la radice della gioia vera: è il tema che continua a sottolineare Benedetto XVI nei suoi discorsi, e questo è molto bello perché è il tema di Agostino del quale egli, tra l’altro, è un grande e affezionato cultore. Servite Domino in iucunditate. Servite il Signore nella gioia. Da che quel Signore si è fatto uomo in Gesù Cristo, ormai servire Lui vuol dire servire anche gli altri e servire gli altri perché si serve Lui. Questo binomio inscindibile ha concorso in modo decisivo a generare una civiltà. Occorre 111 difendere e promuovere come valore necessario e decisivo la libertà di continuare questo annuncio, invitando i cristiani a non attendersi di vincere in ogni caso ma a continuare gioiosamente a provocare. Grazie per la vostra attenzione. 112 Biografia Il Cardinale Attilio Nicora, Presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA), Legato Pontificio per le Basiliche di San Francesco e di Santa Maria degli Angeli in Assisi, è nato a Varese, Arcidiocesi di Milano (Italia), il 16 marzo 1937. Dopo gli studi liceali, ha conseguito la laurea di Giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore (1959). Entrato nel Seminario Maggiore della diocesi ambrosiana, è stato ordinato presbitero il 27 giugno 1964, e ha conseguito la licenza in Teologia nell’autunno del medesimo anno presso la Facoltà Teologica di Milano. Inviato a Roma dall’Arcivescovo Giovanni Colombo per gli studi canonistici, è stato alunno del Pontificio Seminario Lombardo e dell’Università Gregoriana, presso la quale ha conseguito il dottorato in Diritto Canonico. Al rientro a Milano ha insegnato Diritto Canonico e Diritto Pubblico Ecclesiastico nel Seminario Maggiore, del quale è divenuto Rettore nel 1970. Eletto Vescovo titolare di Fornos minore da Papa Paolo VI il 16 aprile 1977 con l’incarico di Ausiliare dell’Arcidiocesi di Milano, è stato ordinato il 28 maggio dello stesso anno dal Cardinale Colombo. Questi gli affidò la pastorale sociale e l’apostolato dei laici. Divenuto Arcivescovo il Cardinale Carlo Maria Martini, Mons. Nicora è stato nominato Pro-Vicario Generale, continuando a seguire i due settori richiamati e i rapporti con le istituzioni locali e regionali. Nel febbraio del 1984 è stato nominato Co-presidente per parte ecclesiastica della Commissione Paritetica italo-vaticana incaricata di predisporre, nel quadro della revisione del Concordato Lateranense, la riforma della disciplina concernente i beni e gli enti ecclesiastici. Le conclusioni raggiunte furono adottate a livello pattizio con il Protocollo tra Repubblica Italiana e Santa Sede, firmato a Roma il 15 novembre 1984 ed entrato in vigore il 3 giugno 1985. Per seguire da vicino la fase attuativa del nuovo disegno pattizio, l’11 febbraio del 1987 Mons. Nicora è stato posto a disposizione della Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) a Roma con la qualifica di Incaricato per i problemi relativi all’attuazione degli Accordi del 1984. Nominato Presidente del Comitato CEI per i problemi degli enti e dei beni ecclesiastici, è stato fino al 1995 Co-presidente della Commissione Paritetica Italia-Santa Sede per l’attuazione del «nuovo» Concordato. Dal 1990 al 1992 ha ricoperto anche l’incarico di Presidente della Commissione Episcopale per il servizio della carità e di Presidente della Caritas Italiana. 113 Il 30 giugno 1992 Giovanni Paolo II lo ha trasferito alla sede episcopale di Verona, dove ha svolto il suo ministero, continuando nel contempo a collaborare con la CEI e con la Santa Sede nella trattazione delle questioni giuridiche di natura pattizia. Il 18 settembre 1997, rinunciando al governo pastorale di Verona, è rientrato a Roma, riprendendo a tempo pieno la cura delle questioni giuridiche canoniche e concordatarie presso la CEI come Delegato della Presidenza e assumendo la rappresentanza dei Vescovi italiani presso la Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (Bruxelles), della quale nel 2000 è stato nominato Vice-Presidente. Il 1° ottobre 2002 il Santo Padre Giovanni Paolo II lo ha chiamato nella Curia Romana in qualità di Presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA). Da Giovanni Paolo II pubblicato Cardinale nel Concistoro del 21 ottobre 2003, Diacono di S. Filippo Neri in Eurosia. Il 21 febbraio 2006 Papa Benedetto XVI lo ha nominato Legato Pontificio per le Basiliche di San Francesco e di Santa Maria degli Angeli in Assisi. È Membro: • del Consiglio della II Sezione della Segreteria di Stato; • delle Congregazioni: per i Vescovi, per l’Evangelizzazione dei Popoli; • del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica; • del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi; • della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano; • della Commissione Cardinalizia di Vigilanza dell’Istituto per le Opere di Religione (I.O.R.). ADERENTI ALLA ASSOCIAZIONE PER LO SVILUPPO DEGLI STUDI DI BANCA E DI BORSA Aletti Montano & Co. Allfunds Bank, S.A. Allianz Bank Financial Advisors, S.p.A. Anima SGR S.p.A. Asset Banca S.p.A. Assiom Associazione Nazionale per le Banche Popolari Banca Agricola Popolare di Ragusa Banca Aletti & C. S.p.A. Banca Antoniana - Popolare Veneta Banca di Bologna Banca della Campania S.p.A. Banca Carige S.p.A. Banca Carime S.p.A. Banca Cassa di Risparmio di Asti S.p.A. Banca C. Ponti S.p.A. Banca CRV - Cassa di Risparmio di Vignola S.p.A. Banca della Ciociaria S.p.A. Banca Commerciale Sammarinese Banca Esperia S.p.A. Banca Fideuram S.p.A. Banca del Fucino Banca Imi S.p.A. Banca di Imola S.p.A. Banca per il Leasing - Italease S.p.A. Banca di Legnano S.p.A. Banca delle Marche S.p.A. Banca Mediolanum S.p.A. Banca del Monte di Parma S.p.A. Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. Banca Nazionale del Lavoro S.p.A. Banca Network Investimenti S.p.A. Banca della Nuova Terra S.p.A. Banca di Piacenza Banca del Piemonte S.p.A. Banca Popolare dell’Alto Adige Banca Popolare di Ancona S.p.A. Banca Popolare di Bari Banca Popolare di Bergamo S.p.A. Banca Popolare di Cividale Banca Popolare Commercio e Industria S.p.A. Banca Popolare dell’Emilia Romagna Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio Banca Popolare di Garanzia Banca Popolare di Intra S.p.A. Banca Popolare Lodi S.p.A. Banca Popolare di Marostica Banca Popolare del Materano S.p.A. Banca Popolare di Milano Banca Popolare di Novara S.p.A. Banca Popolare di Puglia e Basilicata Banca Popolare Pugliese Banca Popolare di Ravenna S.p.A. Banca Popolare di Sondrio Banca Popolare di Spoleto S.p.A. Banca Popolare Valconca 115 Banca Popolare di Verona - S. Geminiano e S. Prospero S.p.A. Banca Popolare di Vicenza Banca Regionale Europea S.p.A. Banca di Roma S.p.A. Banca di San Marino Banca di Sassari S.p.A. Banca Sella S.p.A. Banco di Brescia S.p.A. Banco di Desio e della Brianza Banco di Napoli S.p.A. Banco Popolare Scpa Banco di San Giorgio S.p.A. Banco di Sardegna S.p.A. Barclays Bank Plc Carichieti S.p.A. Carifano S.p.A. Carifermo S.p.A. Cassa Lombarda S.p.A. Cassa di Risparmio di Alessandria S.p.A. Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno S.p.A. Cassa di Risparmio in Bologna S.p.A. Cassa di Risparmio di Cento S.p.A. Cassa di Risparmio Città di Castello S.p.A. Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana S.p.A. Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A. Cassa di Risparmio di Firenze S.p.A. Cassa di Risparmio di Foligno S.p.A. Cassa di Risparmio di Forlì S.p.A. Cassa di Risparmio Friuli Venezia Giulia S.p.A. Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo S.p.A. Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza S.p.A. Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia S.p.A. Cassa di Risparmio di Prato S.p.A. Cassa di Risparmio di Ravenna S.p.A. Cassa di Risparmio della Repubblica di S. Marino Cassa di Risparmio di Rimini S.p.A. Cassa di Risparmio di San Miniato S.p.A. Cassa di Risparmio di Savona S.p.A. Cassa di Risparmio della Spezia S.p.A. Cassa di Risparmio di Venezia S.p.A. Cassa di Risparmio di Volterra S.p.A. Cedacri S.p.A. Centrale dei Bilanci Centrobanca S.p.A. Credito Artigiano S.p.A. Credito Bergamasco S.p.A. Credito Emiliano S.p.A. 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Per ogni informazione circa le pubblicazioni ci si può rivolgere alla Segreteria dell’Associazione - tel. 02/62.755.252 - E-mail: [email protected] 117 Finito di stampare Settembre 2008