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Associazione per lo Sviluppo degli Studi
di Banca e Borsa
“ALLA RICERCA DELLE RADICI
DELLA NOSTRA CULTURA”
MAURIZIO MIGLIORI
ALESSANDRO GHISALBERTI
MARIO SARCINELLI
EUGENIO CORTI
ATTILIO NICORA
n. 2
GAZZADA, VILLA CAGNOLA 8-9 MAGGIO 2008
Associazione per lo Sviluppo degli Studi
di Banca e Borsa
“ALLA RICERCA DELLE RADICI
DELLA NOSTRA CULTURA”
MAURIZIO MIGLIORI
ALESSANDRO GHISALBERTI
MARIO SARCINELLI
EUGENIO CORTI
ATTILIO NICORA
n. 2
Sede:
Presso Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano, Largo A. Gemelli, n. 1
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Cassiere:
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dell’Associazione - tel. 02/62.755.252 - E-mail: [email protected]
sito web: assbb.it
“È un grandissimo bene per l’uomo
ogni giorno ragionare intorno alla virtù:
una vita senza ricerca di tal fatta
è indegna dell’uomo”
Platone
“La speranza ha due figli bellissimi,
lo sdegno per le cose come sono
e il coraggio per cambiarle”
S. Agostino
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Abbiamo ripreso il cammino iniziato lo scorso
anno scavando nelle radici antiche in cui affonda la
nostra cultura occidentale ritrovando i primi elementi in cui possiamo riconoscere la nostra identità.
Socrate attraverso Platone ci svela i principi che
stanno all’origine dello sviluppo della nostra civiltà.
Dall’ellenismo antico al pensiero di Agostino
abbiamo riconosciuto l’innesto del Cristianesimo
ponte dal Medioevo verso l’Era moderna.
Nelle prossime edizioni insisteremo in questo
suggestivo percorso fidando nella riscoperta di valori perduti da ritrasmettere con più forza in un contesto che soffre ancora delle conseguenze di ideologie
fallimentari.
Ora, dopo le grandi illusioni del passato: dall’illuminismo al comunismo allo scientismo, sembrerebbe che la società moderna scivoli inconsapevolmente, forse, in quello che pare riconoscersi in un relativismo strisciante e generalizzato in cui si appannano
o addirittura scompaiono le secolari certezze e i
punti di riferimento in cui agganciare l’attuale convivenza umana.
È di fronte a questo preoccupante scenario che
stentiamo individuare il segno dei tempi e quindi il
percorso della Storia nella sua dinamica prospettiva.
Il senso di questi incontri invita a rimeditare la
comune esperienza di vita al fine di riorientare le
nostre scelte confortate da una nuova felice e luminosa speranza.
giuseppe vigorelli
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Prof. Maurizio MIGLIORI,
Professore Ordinario di Storia e Filosofia Antica nell’Università di
Macerata
“Platone, una razionalità consapevole non rinunciataria:
metafisica e limite umano”
Parlo con piacere di un tema che mi è molto caro e sono
onorato di inserirmi in una serie di incontri che ha visto la presenza di tanti illustri colleghi.
Non farò un discorso “sofisticato” o tecnico. A riprova mi
permetto di cominciare con un’osservazione che forse risulterà di
una banalità sconcertante. Lo faccio perché resto convinto che “i
fondamentali” è bene ricordarli sempre, sia pure in modo breve.
Se dunque qui parliamo delle “radici” può essere utile
sottolineare che, mentre se analizziamo enti biologici c’è
un’assoluta corrispondenza tra la radice, il tronco, le foglie e i
frutti (per cui, se stiamo parlando della radice di un melo, possiamo essere tranquilli che sopra, alla fine, troviamo delle
mele e non altro) nelle analisi sociali questo non è altrettanto
vero. Per dirla in breve, come tutti sappiamo l’autonomia dei
sottosistemi sociali è estremamente superiore all’autonomia
dei sottosistemi biologici.
Ho voluto dire questo perché ciò che diremo in certi
momenti sembrerà molto vicino al nostro mondo, cosa ovvia
visto che parliamo di un suo legittimo “padre”, ma in altri
momenti sembrerà di parlare di un “altro mondo”. Ciò non
deve stupirci perché, appunto, è tipico della (relativa) autonomia delle realtà umane e sociali.
Per prima cosa, devo sottolineare quanto sia giusto
cominciare questa indagine sulle radici del nostro mondo da
Platone. Questo filosofo ha infatti una caratteristica che lo
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rende unico. Io dico sempre: se una divinità malvagia dovesse, con un colpo di bacchetta magica, far scomparire dalla
nostra storia la filosofia, otterrebbe la scomparsa di Kant, di
Hegel, di Aristotele, ma non di Platone, perché egli non è semplicemente un grande filosofo, ma è anche uno dei più grandi
scrittori dell’Occidente, alla pari con Shakespeare o Dante.
Siamo a livelli altissimi di letteratura. La parte finale del
Fedone, la morte di Socrate, è una pagina memorabile che
tiene il confronto con qualsiasi altro testo.
Con i suoi dialoghi questo filosofo ha segnato in modo
ineliminabile l’immaginario dell’Occidente, cioè l’immaginario di tutte le persone qui presenti, qualunque sia il loro livello di conoscenze e di studi. Pensate solo alle stanze di
Raffaello al Vaticano, a quella bellissima immagine con La
scuola di Atene che ormai troviamo rappresentata dappertutto.
Al centro di quel dipinto, in una bellissima fuga di archi, ci
sono Platone e Aristotele, Platone è quel bellissimo vecchio,
con una magnifica barba bianca, un po’ leonardesco.
Un esempio ancora più evidente: Socrate, una figura centrale che l’Occidente ha sempre amato e in qualche caso anche
odiato, a conferma della sua rilevanza paradigmatica. Ma
Socrate non ha scritto nulla! In compenso tutti i suoi allievi
hanno pubblicato moltissimi testi mettendo in scena Socrate.
Nel IV secolo a.C. ad Atene circolavano dozzine di dialoghi
filosofici di autori diversi, ognuno dei quali presentava un suo
Socrate. Ma per noi che veniamo 2500 anni dopo, l’unico che
ci è rimasto è il Socrate di Platone, l’unico che noi conosciamo perché ci è stato miracolosamente conservato. Dei 28 dialoghi che, grosso modo, possiamo attribuire certamente a
Platone, 22 vedono in scena Socrate con la funzione di maestro. Questo è il Socrate che l’Occidente si è trovato di fronte
e che è entrato dentro di noi.
Un ultimo dato per sottolineare che stiamo proprio parlando di radici, di qualcosa che anche chi non lo sa ha dentro.
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Io sto cercando di dire “perché” stiamo davvero parlando di
radici e il porsi questa domanda è proprio una delle cose che
noi occidentali abbiamo appreso dalla filosofia greca. La persona che si pone tale domanda può non sapere di essere figlia
della filosofia greca, ma lo è lo stesso. Ciò vale anche per l’altra domanda fondamentale: “che cos’è?”. Se fossimo figli di
una cultura orientale queste domande non ci verrebbero altrettanto automaticamente. In sintesi, la filosofia greca, e quindi
Platone, hanno determinato profondamente il nostro modo di
pensare.
Allora partiamo proprio dal Socrate che Platone ci presenta, con una osservazione. Un numero molto elevato di quei
ventidue dialoghi in cui Socrate è presente come maestro, è
ambientato nei giorni immediatamente prima e dopo il processo del 399 a.C., in cui Socrate fu accusato di corrompere i giovani e poi condannato a morte. Perché Platone pone molti di
questi dialoghi proprio nei giorni immediatamente precedenti
o seguenti a questa disgraziata vicenda? Se dovessimo prendere queste fiction come reali, dovremmo dire che in quel periodo Socrate ha avuto giornate di 48 ore, tante sono le cose che
fa e di cui discute. Perché - ecco la domanda - Platone ha voluto così tanto insistere su questa tragedia?
L’Autore non ce lo dice, quindi vi propongo una mia
interpretazione: è di fronte alla morte, è di fronte a una decisione drammatica come quella di accettare una condanna
ingiusta che un individuo si pone le domande di fondo, che
ogni riflessione diventa necessariamente seria. Nella nostra
vita noi siamo continuamente attanagliati da questioni che
sappiamo secondarie, ma che tuttavia fanno parte della nostra
esperienza, per cui non possiamo e non vogliamo farne a
meno. Noi siamo anche questo insieme di sciocchezze ed è
giusto che ce le teniamo. Ognuno di noi ha degli hobby, degli
affetti, dei ricordi: perché dovremmo disprezzarli? Ma nel
momento in cui si è di fronte alla morte tutte queste cose tornano necessariamente nella loro dimensione reale, si rivelano
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per quello che sono, piccolezze; in quel momento ogni fatto
comincia a rivelare il suo vero peso e si deve iniziare a fare dei
bilanci: le storie si giudicano alla fine, non a metà o all’inizio.
Quasi tutte le storie cominciano bene, il problema è farle
finire bene. Ogni volta che noi imbocchiamo una strada sappiamo benissimo che questa può essere foriera di grandi gioie,
ma tanto più questa scelta è importante, tanto più grandi sono
i rischi che corriamo.
È alla fine che si può dire: la mia vita è stata felice.
Complessa, complicata, piena di cose, ma felice, è andata
bene. È valsa la pena trascorrere questo tempo.
Credo che in questa chiave si può capire perché Platone
ha tanto insistito sugli ultimi giorni di Socrate. Infatti è in carcere che incontriamo uno degli insegnamenti fondamentali del
Socrate platonico. È un dialogo famoso, breve e bellissimo, un
dialogo da consigliare, anche perché si può leggerlo persino a
letto: il Critone.
Socrate è stato condannato, è in prigione e il suo più caro
amico, Critone, va da lui per cercare di convincerlo a salvare
la sua vita scappando. Fuggire dalle carceri ad Atene era una
cosa relativamente semplice. Per quello che riusciamo a capire in quel momento gli ateniesi si aspettavano questa fuga, che
avrebbe peraltro risolto il problema. Nulla di strano, quindi,
che Critone arrivi dicendo che ha già corrotto chi di dovere e
che domani il filosofo può fuggire. E porta una serie di argomenti per dimostrare che la fuga è giusta. Ma Socrate glieli
smonta tutti.
La cosa più importante è che Platone in questo episodio
drammatico (Socrate accetta la morte sulla base di una condanna che è ingiusta) mette due “picchetti” decisivi nel pensiero dell’Occidente. Il primo è «che non il vivere è da tenere
nel più alto conto, ma il vivere bene … E che vivere bene è la
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stessa cosa che vivere secondo onestà e secondo giustizia».
Socrate afferma che la proposta di Critone è basata solo sul
principio che occorre salvare la propria vita, mentre egli chiede di essere convinto che facendo così vivrà “virtuosamente”.
Il problema non è quello di vivere, ma di vivere “bene”. Il
Bene diventa un criterio “decisivo”.
Il secondo picchetto riguarda il metodo con cui individuare questo bene: «Perché io, non ora per la prima volta, ma
sempre, sono stato uno che non dà ascolto a nessun’altra cosa
se non alla ragione: a quella, dico, che, ragionando, mi sembri la migliore. E i ragionamenti che facevo nel passato, non
posso ora buttarli via perché m’è capitata questa disgrazia, ma
su per giù mi sembrano gli stessi, e quindi ne ho venerazione
e rispetto non meno di prima; e se non sappiamo in questo
momento trovare altro di meglio, tu devi essere persuaso che
io non consentirò mai a quello che mi proponi».
Siamo di fronte a una decisiva scelta etica, che riguarda
vita o morte, fatta sulla base della pura ragione. Non da oggi,
ma ancora oggi, anche in questa disgraziatissima situazione,
Socrate è disposto a seguire solo un ragionamento che sia convincente. Ma nello stesso tempo si segnano subito i limiti di
questa razionalità. Non è una ragione superba, ma una che
dice che bisogna seguire ciò che sembra meglio. Il testo dice
infatti “Se non troviamo niente di meglio”. Non si parla di
assoluti, pur facendo affermazioni tanto forti da giocarci la
vita.
In realtà, questo primato della ragione Socrate l’aveva
affermato fin dal processo, in un’altra opera platonica, la
Apologia di Socrate. Il processo si svolgeva davanti a un’assemblea di 500 persone che poi votavano, quindi di fronte a un
consesso che ben rappresentava la città di Atene. Socrate dunque si lamenta perché non gli credono adesso nel processo,
come non gli credevano prima, quando era uomo libero, e
giunge a dire: «Se io vi dicessi che il bene più grande per l’uo11
mo è fare ogni giorno ragionamenti sulla virtù e sugli altri
argomenti intorno ai quali mi avete ascoltato discutere e sottoporre ad esame me stesso e gli altri, e che una vita senza
ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta; ebbene, se
vi dicessi questo, mi credereste ancora di meno» (Apologia, 38
A).
Una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere
vissuta. Questo è un altro pilastro dell’Occidente, che ha cercato sempre e ha trovato anche molto, di buono e di cattivo.
L’indagine è dentro di noi ed è figlia della filosofia, delle
domande già ricordate: che cosa è? Perché è così? Con tutto
quello che ne consegue. Noi abbiamo accumulato in 2500 anni
il gusto della ricerca, non riusciamo a vivere senza. Anche se
non siamo radicali come Platone, resta tuttavia in qualche
modo vero che una vita senza ricerca non è degna di essere
vissuta.
Alla luce di questa affermazione si comprende anche
meglio il modo peculiare con cui Platone scrive. Per dirla in
poche parole, egli non propone tanto le soluzioni, che pure
aveva, ma i problemi, perché chi scrive le soluzioni impedisce
al lettore di fare la propria personale ricerca. Colui che dice la
soluzione è, in sintesi, un cattivo maestro perché costringe il
lettore a impararla, è un maestro che preferisce cervelli di
carta, magari carta raffinata, a cervelli che invece s’interrogano e che quindi trovano, anche con l’aiuto della carta, la risposta alle loro domande. Ma per il soggetto è più importante la
domanda che non la risposta. La domanda è quella che mi fa
indagare e vivere una vita di ricerca.
Platone non ha dubbi che la soluzione ci sia e ci debba
essere e poiché scrive tanto, ogni volta dice qualcosa di più,
ma lo fa in funzione di problemi ancora più complicati. Potete
pensare ai dialoghi di Platone come ad una gigantesca serie di
esercizi, per cui, più gli esercizi diventano difficili, più bisogna presupporre che il lettore sia in grado di affrontarli e quin12
di bisogna dargli di più in modo che sia in grado di trovare
soluzioni via via più complicate. Ecco perché Platone è stato
uno dei “grandi” nella storia dell’Occidente: non tanto per la
sua filosofia, che è stata rapidamente fraintesa, per non dire
persa, ma perché ha continuato a porre per 2500 anni una serie
di problemi di cui il pensiero occidentale si è nutrito. Per questo hanno potuto imparare da Platone i mondi più diversi, i
dogmatici e gli scettici, i musulmani e i cristiani. È il legittimo effetto di una impostazione di scrittura filosofica che ritiene fondamentale condurre una vita di ricerca e che quindi questo propone al suo lettore.
Platone giustifica questa scelta in modo molto provocatorio: questa è la cosa giusta che un essere umano deve fare perché non bisogna pensare mai di essere sapienti. Dio solo è
sapiente, solo lui sa. Gli uomini non sanno, al massimo possono amare la sapienza, cercare di essere amici della sapienza.
La radice greca con cui si indica l’amicizia (la filìa) è fil-, per
cui l’uomo che ama la sapienza, la sofìa, è filo-sofo. Il massimo a cui può aspirare l’essere umano è di essere amante della
sapienza, desiderarla, cercarla, coltivarla, ma senza mai illudersi di diventare come Dio, sapiente. Sapiente mai, filosofo,
se riesce, sempre.
Questo Platone lo dice in modo quasi brutale. Torniamo
all’Apologia, che probabilmente è la prima opera che egli ha
scritto. Socrate nella sua difesa ricorda la sentenza della profetessa di Apollo Pitico, che a Delfi dava vaticini a tutti i
Greci. Interrogata, la sacerdotessa aveva detto che Socrate era
il più sapiente di tutti i Greci, cosa che lo stesso interessato
non riesce a giustificare. Al contrario sa di non sapere nulla,
per cui non è possibile che egli sia il più sapiente. Eppure,
visto che l’ha detto Apollo Pitico per bocca della sua profetessa deve essere vero perché non è possibile che il Dio abbia
mentito. Dopo lunga ricerca, Socrate capisce l’affermazione
del Dio: egli è sapiente proprio perché sa che la sapienza
umana vale poco o nulla. Questa non è un’affermazione del
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giovane Platone, o un dato del Socrate storico che Platone
ricorda. Se infatti passiamo alle Leggi, la sua ultima opera, in
cui per di più Socrate non è presente, troviamo l’affermazione
che l’essere umano è un burattino fatto da Dio forse per gioco
o forse per qualche altra ragione che ignoriamo. Poi si ribadisce che dobbiamo «condurre la vita secondo quella natura per
cui siamo quasi totalmente burattini, che partecipano di piccole parti della verità» (Leggi, VII, 804 B 2-4). In sostanza, la
stessa cosa che aveva detto nell’Apologia. Ma non poteva dire
diversamente: solo Dio è sofòs, mentre noi partecipiamo molto
parzialmente della verità.
Potrebbe sembrare un’affermazione che porta quasi allo
scetticismo. Ma non è così, come Platone stesso chiarisce.
Infatti subito dopo il maestro di questo dialogo, l’ospite ateniese, dice: «Non stupirti, Megillo, ma comprendimi: infatti
ho detto quello che ora ho detto guardando la divinità e subendone l’influenza. Ma, se questo ti è caro, sia pure il nostro
genere umano non privo di valore e degno di una certa attenzione» (Leggi, VII, 804 B 7 - C 1).
In sostanza, Platone prima ha detto quello che ha detto
perché pensava in chiave divina e quindi ha dovuto dire che il
nostro sapere è ridicolo di fronte a quello di Dio. Se invece
prendiamo come punto di vista quello dell’essere umano e
riconosciamo che anche l’uomo ha una sua dignità, dobbiamo
fare un discorso del tutto diverso. Basta cambiare ottica e il
discorso cambia in modo anche radicale.
Su questa distinzione dei punti di vista in Platone, potrei
parlare a lungo, perché è un tema cardine del suo pensiero, purtroppo molto sottovalutato dalla critica. Platone è il primo che
ci dice con chiarezza che i ragionamenti dipendono, diremmo
noi, dai postulati fondamentali, dalle premesse che abbiamo
posto. Questa distinzione in Platone si trova dappertutto e spiega perché sembra che Platone si contraddica di continuo.
Faccio solo un esempio, a partire dal Fedone, il dialogo
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del giorno della morte di Socrate. Si discute se l’anima è
immortale o no, perché Socrate vuol capire se deve sperare e
credere che andrà verso il meglio o se non c’è alcuna certezza
razionale. La conclusione è che l’anima è immortale e si può
affrontare con questa convinzione la fine. Anzi si dice che la
scelta del filosofo è di prepararsi alla morte, quasi di desiderarla, perché così l’anima si libera e va in una realtà diversa e
superiore. Siamo quindi in un dialogo “mortuario”: è la situazione stessa che lo impone. Non si può parlare di vita con uno
che non vedrà il giorno dopo.
In altri dialoghi si dice una cosa del tutto diversa. Faccio
solo due citazioni, ma potrei farne molte di più: «questo diciamo essere degno della massima attenzione: bisogna che ciascuno viva la sua vita in pace il più a lungo e nel miglior modo
possibile. Quale sarà dunque il modo corretto? Bisogna condurre la propria vita dilettandosi con qualche gioco, facendo
sacrifici, cantando e danzando in modo da riuscire a renderci
favorevoli gli dèi, a tenere lontani i nemici e a vincerli in combattimento» (Leggi, VII, 803 D 6 - E 4); «infatti, come io direi
parlando seriamente, l’unione di anima e corpo non è affatto
meglio della separazione» (Leggi, VIII, 828 D 4-5).
Dunque, nel Fedone Platone dice che dobbiamo quasi
desiderare la morte, qui che dobbiamo cercare di vivere più a
lungo possibile; nel Fedone afferma che l’anima deve liberarsi dal corpo per vivere meglio, qui che l’unione di anima e
corpo non è affatto meglio della separazione. L’apparente
contraddizione si risolve se ci chiediamo chi è l’essere
umano, chi sono io. Questo tema è affrontato in uno dei primi
dialoghi, l’Alcibiade I. La risposta è che io sono anche quello che si vede, ma il vero io è l’anima. Quando uno parla ad
un altro, certo il corpo è implicato, ma la vera comunicazione è quella tra le due anime. Lo psichismo intero, diremmo
noi nel nostro linguaggio, è coinvolto, non la struttura corporea esteriore.
Ma poi, sulla base dei nostri normali conflitti interiori,
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Platone giunge a pensare ad un’anima tripartita: c’è un’anima
dei desideri, la parte concupiscibile, c’è un’anima della
volontà, la parte irascibile, c’è l’anima del pensiero. La
domanda a questo punto si ripresenta: qual è la vera anima?
Platone non ha dubbi: è quella razionale. Infatti quando deve
raffigurarla, la immagina come una biga alata, con due cavalli, uno buono e uno cattivo, e l’auriga: due bestie e un uomo,
che rappresenta la ragione. Questo modello Platone lo ripropone sempre. Ad esempio nella Repubblica descrive l’anima
come un composto di tre elementi: un mostro stranissimo,
pieno di membra diverse, (l’anima concupiscibile, che infatti
desidera tante cose diverse), poi un leone (anima irascibile),
infine un uomo. Come si vede, sempre due bestie e un uomo.
Non c’è dubbio quindi su qual è la vera anima: quella rappresentata come una figura umana, quella razionale.
Ma così abbiamo tre modi di vedere l’io: come insieme di
anima e corpo, come anima tripartita, come anima razionale.
Se quindi parliamo di un soggetto dal primo punto di vista,
possiamo augurargli lunga vita, piena di gioie e di soddisfazioni, mentre se ci poniamo dal punto di vista di un’anima
immortale la questione cambia, l’augurio è di una vita virtuosa, fino alla morte e oltre, nell’Aldilà.
Spero che l’esempio sia chiaro: il punto di vista che assumiamo è, per Platone, fondamentale. Posso dire “lunga vita”
da un certo punto di vista, ma dall’altro devo dire - per usare
il linguaggio cristiano - che, dal punto di vista dell’anima,
l’importante non è quanto è lunga la vita, ma andare in
Paradiso.
La cosa da sottolineare è che questo non è relativismo,
ma il suo contrario. Infatti questo modo di procedere richiede tutta una serie di distinzioni, poi delle scelte, e sia le une
sia le altre devono essere razionalmente giustificate. Il relativismo è all’opposto la posizione di chi dice che qualunque
affermazione va bene e che quindi non si può giudicare, e
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ancor meno condannare, una posizione diversa dalla propria,
perché tutti i punti di vista sono legittimi. Ciò porta ad avere
come unico giudice il soggetto che sceglie A o B a seconda
dei suoi interessi, o sentimenti, o umori, senza doversi in
nessun modo giustificare neanche di fronte a se stesso. Ma
questo dimostra che non ha posto dei principî, dei postulati,
alla luce dei quali poi esprime una decisione (si spera) razionale.
Qui invece è proprio questo il tema su cui si insiste: si
assume un punto di vista, cosa che deve essere giustificata, e
si svolge un ragionamento che porta a conseguenze razionali,
cioè giustificate.
Questa è l’impostazione di Platone, che gli ha consentito
di cercare la verità, affrontando anche discorsi sull’assoluto, di
cui poi l’Occidente si è nutrito. Ma nello stesso tempo lo ha
obbligato a ricordare ogni volta che il risultato di questa ricerca sull’assoluto è un risultato umano, non assoluto. Per questo
ho scritto “non rinunciataria” nel titolo. Uno può dire: l’uomo
è un essere limitato, quindi deve rinunciare all’assoluto.
Platone invece pensa che, nella misura in cui anche l’assoluto
è un oggetto razionalmente affrontabile, bisogna imporsi questo sforzo, a condizione di ricordarsi sempre che il risultato
che si ottiene non sarà mai assoluto, perché la conoscenza
umana è sempre limitata e relativa.
Spero di aver spiegato la ragione per cui, a mio avviso,
Platone - convinto che la vita umana è costante ricerca - ha
potuto impostare quella che è la movenza fondamentale del
pensiero metafisico occidentale: noi siamo di fronte a un
mondo che è finito, contingente, che cambia sempre, che non
è conoscibile davvero appunto perché si modifica di continuo
e non è stabile, oggi diremmo perché ha un margine di imprevedibilità enorme. Non posso avere una conoscenza stabile di
ciò che stabile non è.
Inoltre, questa realtà, che non è conoscibile perfettamente, non
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ha in sé le proprie ragioni d’essere, non ha in se stessa la spiegazione del proprio esistere. Tutto ciò porta a pensare, per
spiegare l’esistenza del mondo e per avere una conoscenza
scientifica, che ci sia un’altra realtà, che mi permette di capire e giustificare un mondo che da sé non si spiega, una realtà
più stabile, in grado di giustificare l’esistenza di questa realtà,
che non ha in sé la propria giustificazione.
Ecco perché possiamo - e per Platone dobbiamo - pensare
anche in termini metafisici: per spiegare la nostra vita e tutte le
realtà che ci circondano, da quelle inferiori a quelle somme.
Nella Lettera Settima, che è una delle più belle lettere di
Platone, molto lunga, con una parte filosofica densissima, il
filosofo scrive che ci sono quattro passaggi che ci portano alla
conoscenza dell’oggetto, a partire dalla parola per arrivare al
quarto livello in cui si raggiunge la scienza. Ma il quinto è dato
dall’oggetto stesso, qualunque esso sia. Certo, Platone pensa al
mondo ideale, alle Idee somme, ma il discorso vale per qualsiasi conoscenza: l’oggetto è sempre oltre la nostra scienza.
Nessun sapere esaurisce perfettamente l’oggetto e quindi è
aperto ad ulteriori approfondimenti, scoperte, esplorazioni,
anche quando si è raggiunto il livello della “scienza” somma.
L’oggetto resta sempre oltre, fuori, al quinto posto: io mi avvicino all’oggetto, lo colgo, e tuttavia qualcosa mi sfugge sempre; ho scienza, ma mai perfetta, perché il quinto livello è oltre
la mia conoscenza. Che però ha raggiunto il suo culmine!
Ecco perché all’inizio ho voluto retoricamente sottolineare che Socrate dice che se non trova niente di meglio segue
il ragionamento che gli sembra migliore. Il massimo livello a
cui noi arriviamo non è adeguato all’oggetto, e tuttavia è valido e, come tale, condanna tutte le prospettive inferiori e, a
maggior ragione, quelle errate.
Questo ci permette di scoprire la ricchezza del pensiero
platonico e, nello stesso tempo, di cogliere anche la sua concretezza. Questo gioco di distinzioni e questo continuo affer18
mare che dobbiamo salire, ma ricordandoci che i piedi sono
per terra, permette a Platone di fare discorsi elevatissimi, ma
di non perdere mai il senso del reale.
Questo ci porta anche a prendere atto che difficilmente
egli afferma qualcosa in modo unilaterale. Faccio un esempio.
Troverete in tanta manualistica che Platone condanna il piacere, ma non è vero. Al contrario egli distingue piaceri misti a
dolori, come tale anche pericolosi, e piaceri puri, come quelli
che accompagnano il sapere, degni della stessa divinità. Una
condanna unilaterale, peraltro, non avrebbe senso: nelle Leggi,
egli dice che non è possibile convincere un essere umano a
fare una buona scelta di vita se poi non gli mostriamo che da
questa gli verranno maggiori piaceri, gioie, soddisfazioni
rispetto ad altre possibili scelte. Anche il martire cristiano
affronta la morte solo perché è convinto di andare verso la
totale soddisfazione, quella che avrà per mano di Dio, altrimenti non lo farebbe mai. Platone non condanna il piacere, ma
solo quello che ci sconvolge o che ci domina, mentre dobbiamo essere noi a sceglierlo e dominarlo.
Concludo con due esempi che, a mio avviso, confermano
quanto sto cercando di sostenere.
Sappiamo che la Repubblica è spesso considerata la
prima opera utopica dell’Occidente, il che è anche vero ma è
soprattutto falso. Già nella Repubblica si capisce che Platone
sta presentando un modello, per il quale non si deve chiedere
se è realizzabile così come è stato costruito. Ciò, ovviamente,
vale per ogni “modello”. Ma ancora più esplicitamente nel
Politico Platone ci dice che questo modello utopico va tenuto
separato dalle costituzioni possibili come Dio dagli uomini. Si
tratta di un modello superiore, non di questo nostro mondo,
tuttavia utile, per non dire necessario, visto che le costituzioni
possibili sono imitazioni dei modelli ideali. Senza utopia
siamo sprovvisti di una bussola, non abbiamo un criterio per
giudicare i sistemi in cui viviamo e siamo condannati ad un
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mero pragmatismo, che può ammantarsi di affermazioni ideali solo per ragioni di opportunità.
Per sapere cos’è meglio dobbiamo sempre sapere che
cos’è il bene, senza per questo pensare che dobbiamo realizzarlo perfettamente. Platone dice esplicitamente che chi cerca
di attuare questo modello perfetto apre la strada alla tirannide
perché abitua a non rispettare le leggi, segno della nostra limitatezza. È la storia del XIX e del XX secolo: alla luce dello
sforzo di realizzare una società perfetta si può giustificare qualunque delitto.
Quindi Platone non condanna l’utopia, che anzi resta
necessaria, in quanto devo sapere se le mie scelte mi avvicinano o mi allontanano dal “bene”, ma la pretesa di realizzarla.
Infine, vorrei tornare al Fedone. L’immaginario
dell’Occidente è segnato dal “ricordo” di Socrate che affronta
il suo ultimo giorno discutendo con gli amici sull’Aldilà e sull’immortalità dell’anima. Ma non è questo che ci dice Platone.
Questo è solo l’effetto di un grandissimo scrittore che vuole
fare una operazione teorica e consacrare Socrate per l’eternità,
cosa che gli è perfettamente riuscita. Ma per rispetto della
verità e del limite umano egli racconta come le cose sono davvero andate. Ma la magia dell’artista ci fa velo. Rompiamolo
dunque e vediamo come il testo racconta questa giornata.
Gli amici entrano nella prigione appena possono, prima del
solito, e trovano Socrate con sua moglie Santippe che comincia a
disperarsi; per questo il filosofo chiede a Critone - l’amico - di
farla portare a casa. Segue la lunga discussione, che sembra riempire la giornata, ma certamente non è così, se calcoliamo le ore
che può aver impegnato. Di sicuro resta molto tempo ancora.
Infatti, finita la discussione, il filosofo parla con Critone
e gli altri del suo funerale, prendendo in giro il suo amico che
non riesce a convincersi che tra poco non avrà più davanti
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Socrate, ma solo il suo corpo. “Tra poco” perché ora c’è ancora Socrate, anima e corpo, e di questo bisogna evidentemente
occuparsi. Infatti egli, lasciando gli altri “filosofi” a discutere,
dedica il tempo necessario ai lavaggi con il solo Critone.
Potremmo dire che Socrate e il suo più caro amico preparano
quello che sarà il cadavere di Socrate, evitando alle donne la
fatica di lavarlo.
Fatto questo, gli vengono condotti i tre figli e la moglie,
con cui si trattiene in un’altra stanza, e solo alla fine li manda
via e torna nel luogo in cui lo attendevano gli amici. Il testo è
netto: «Il sole era ormai vicino al tramonto perché egli era
rimasto molto tempo nell’altra stanza» (116 B).
Platone ci ha onestamente raccontato che Socrate ha
dedicato tempo alla filosofia, tempo alla cura del corpo in
compagnia di Critone, debole filosofo ma caro amico, e molto
tempo alla famiglia. Come è giusto e ovvio, per qualsiasi essere umano. Aristotele ci ricorda (Politica, I, 2, 1253 a 29) che
l’uomo è un animale sociale e che chi vive senza gli altri è o
una bestia o un dio. Questo è un dato della vita concreta e vale
anche per il miglior uomo. Socrate è sempre e solo un essere
umano, coerente e limitato fino alla fine: appunto filo-sofo, ma
insieme anche padre e marito.
21
Biografia
Nato il 5-10-1943, laureato in filosofia con lode nel 1967 presso l’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano, specializzazione presso la stessa università nel 1969.
Docente di scuola media inferiore nell’anno scolastico 1967/68, vincitore di
concorso nell’anno scolastico 1973/74, ha insegnato in istituti medi superiori
dall’anno scolastico 1968/69 al 1990/1991.
Vincitore di concorso a professore associato di storia della filosofia antica bandito con decreto ministeriale 28 luglio 1990, in servizio presso l’Università
Statale di Macerata, Facoltà di lettere e filosofia, Dipartimento di filosofia e
scienze umane dal 1/11/1991.
Vincitore di concorso a professore ordinario di storia della filosofia antica bandito con DR 326 del 25/3/2000, approvato il 30/11/2000, nominato con DR del
1/2/2001 presso l’Università Statale di Macerata, Facoltà di lettere e filosofia,
Dipartimento di filosofia e scienze umane.
Ha avuto più volte l’incarico per un modulo di Filosofia Politica Presidente del
consiglio di corso di laurea dall’AA. 2001/2002 al 2003/2004 Direttore del
Dipartimento di Filosofia e Scienze Umane dall’AA 2005/2006 Responsabile
della collana di Lecturae Platonis, pubblicata presso l’Academia Verlag di
Sankt Augustin (D).
Responsabile del settore di Filosofia antica nella Collana Filosofia, Nuova
Serie, edita dalla Morcelliana.
Membro eletto per l’Europa nell’ Executive Committee della International
Plato Society dal 2001 al 2007.
Membro del Comitato Scientifico della Rivista “Ordia Prima - Revista de
Estudios Clásicos”, Córdoba (Arg).
ALCUNE PUBBLICAZIONI
Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento di M. Migliori, Loffredo, Napoli 1976.
Dialettica e verità. Commentario filosofico al “Parmenide” di Platone, Vita
e Pensiero, Milano 1990, 2000 2.
L’uomo fra piacere, intelligenza e Bene. Commentario storico-filosofico al
“Filebo” di Platone, Vita e Pensiero, Milano, 1993, 1998 2
22
Arte politica e metretica assiologica. Commentario storico-filosofico al
“Politico” di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1996.
De la critique de Schleiermacher aux commentaires recents. Evolution et
articulation du nouveau paradigme de Tübingen-Milano, Les Études
philosophiques, 1998, pp. 91-114.
La prassi in Platone: realismo e utopismo, in Il dibattito etico e politico in
Grecia tra il V e il IV secolo, a cura di Maurizio Migliori, La Città del Sole,
Napoli 2000, pp. 239-282.
L’anima in Platone e Aristotele, «Studium», 96 (2000), pp. 365-427.
Dialektik und Prinzipientheorie in Platons Parmenides und Philebos, in
Platonisches Philosophieren, Zehn Vorträge zu Ehren von Hans Joachim
Krämer, von K. Albert, M. Erler, G. Figal, J. Halfwassen, V. Hösle, M.
Migliori, K. Oehler, G. Reale und W. Schwabe, herausgegeben von Thomas
Alexander Szlezák unter Mitwirkung von Karl-Heinz Stanzel, Georg Olms
Verlag, Hildesheim-Zürich-New York 2001, pp. 109-154.
Ontologia e materia. Un confronto tra il Timeo di Platone e il De generatione
et corruptione di Aristotele, in Gigantomachia, Convergenze e divergenze tra
Platone e Aristotele, Ed. M. Migliori, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 35-104.
Sul Bene. Materiali per una lettura unitaria dei dialoghi e delle testimonianze
indirette, in New Images of Plato, Dialogues on the Idea of the Good, Edited by
G. Reale and S. Scolnicov, Accademia Verlag. Sankt Augustin 2002, pp. 115-149.
Cura dell’anima. L’intreccio tra etica e politica in Platone, Ordia prima
(Cordoba, Arg.), I (2002), pp. 25-65
La filosofia politica di Platone nelle Leggi, The Trevor J.Saunders Memorial
Lecture, in Plato’s Laws: From Theory into Practic, Proceedings of the VI
Symposium Platonicum, Selected Papers, Edited by S. Scolnicov and L.
Brisson, Accademia Verlag, Sankt Augustin 2003, pp. 30-41
Il problema della generazione nel Timeo, in Plato Physicus, Cosmologia e
antropologia nel Timeo, a cura di C. Natali e S. Maso, Adolf M. Hakkert
Editore, Amsterdam 2003, pp. 97-120; ora anche in versione portoghese. O
problema da geraçao no Timeu , in Cosmologias, Cinco ensaios sobre filosofia
da natureza , org. R. Gazolla, Paulus, Sao Paulo 2008.
La domanda sull’immortalità e la resurrezione. Paradigma greco e paradigma
biblico, in L’anima, Seconda navigazione, Annuario di filosofia 2004,
Mondadori, Milano 2004, pp. 183-206; pubblicato anche su Hypnos, D Alma
- Soul’s, 10 (2005), pp. 1-23.
23
What is Fair and Good about Virtue, in Plato Ethicus. Philosophy is Life,
Proceedings of the International Colloquium, Piacenza 2003, M. Migliori, L.
M. Napolitano Valditara Editors, Davide Del Forno Co-editor, Academia
Verlag, Sankt Augustin 2004, pp. 177-226.
Comment Platon écrit-il? Exemple d’une écriture à caractère “protreptique”,
in La philosophie de Platon, sous la direction de M. Fattal, II, L’Harmattan,
Paris 2005, pp. 83-118, ed. italiana Come scrive Platone. Esempi di una scrittura a carattere “protrettico”, Annali della Facoltà di Lettere e filosofia
dell’Università di Macerata, 37 (2004), pp. 249-277, pubblicato poi anche in
Educaçao e Filosofia, 20 (2006), pp. 41-80.
Il Sofista di Platone. Valore e limiti dell’ontologia . Cinque lezioni e una successiva discussione con Bruno Centrone, Arianna Fermani, Lucia Palpacelli,
Diana Quarantotto, Morcelliana, Brescia 2006; versione inglese Plato’s
Sophist. Value and Limitation of Ontology, Academia Verlag, Sankt Augustin
2007
24
Prof. Alessandro GHISALBERTI,
Ordinario di Storia della Filosofia Medievale nell’Università
Cattolica del S. Cuore di Milano
“Agostino Padre dell’Occidente”
1. Dall’impero romano all’Europa cristiana: Agostino
forma l’Occidente.
Nella sua forma più ampia di realizzazione, l’impero
romano venne identificato con l’ecuméne, esprimente l’unificazione sotto il governo di Roma della quasi totalità delle aree
allora conosciute e identificabili con il bacino del
Mediterraneo.
Sotto Cesare Ottaviano Augusto, nel tempo ancora inaugurale della costituzione dell’impero romano, nasce ed inizia
la sua diffusione il Cristianesimo, e gli scrittori cristiani dei
primi secoli dell’era cristiana scrivono in greco ed in latino,
nel contesto dell’ecuméne che abbraccia l’Oriente e
l’Occidente dell’impero unitario, termini della topologia storiografica assunti per sottolineare quelle che si vanno configurando come due sensibilità differenziate nell’interpretare il
kérygma o annunzio cristiano. La diversità linguistica di greco
e latino dice della situazione storica dell’impero, che ha accolto il bilinguismo, ma non dice differenze circa il come il cristiano intende abitare la storia e circa il modo di esplicitare la
sua certezza dell’appartenenza alla patria metastorica, al regno
che si costruisce a partire dall’esistenza terrena ed è proiettato
verso il suo compimento definitivo fuori dalla storia, al termine della storia stessa.
All’interno di questo processo, nel secolo IV dopo Cristo,
irrompe la scrittura e l’opera evangelizzatrice di un retore africano, con grande sensibilità filoromana, Agostino d’Ippona
(Tagaste, 354 - Ippona 430), al quale con sempre maggiore
25
insistenza la storiografia degli ultimi decenni attribuisce il titolo di “Padre dell’Occidente”, dove per Occidente ci si intende
riferire alla storia successiva ad Agostino, quella che si distribuisce nel Medioevo e nella Modernità, in cui la nozione di
Occidente si è andata sovrapponendo a quella di Europa.
Agostino sta ancora nella stagione dell’ecuméne romana,
seppure nei tempi della sua grande fragilità e della progressiva
restrizione; nel contempo, il cristianesimo ha avuto modi e
tempi per essere riconosciuto come elemento costitutivo della
romanità, al punto che Costantino ha fondato nel 330
Costantinopoli, una nuova Roma sul Bosforo, la “seconda
Roma”, ossia carica dei segni di novità che dovrebbero fermentare vitalmente nella sua storia futura, assolvendo al compito
epocale del tutto nuovo, quello di fare fruttificare al massimo
l’incontro dell’ecuméne politica con l’ecuméne cattolica, dell’universalismo romano con l’universalismo della fede cristiana.
Ai tempi di Agostino propriamente non c’era ancora
l’Europa cristiana nel significato che oggi si dà a queste
espressione, e che rinvia piuttosto all’Europa costituitasi geograficamente e politicamente nel Medioevo, in particolare a
partire dal sec. IX, con la nascita in Occidente del sacro romano impero, dove l’aggiunta di “sacro” è fatta perché in esso il
cristianesimo divenne religione maggioritaria; contemporaneamente la lingua latina è assunta come lingua ufficiale delle
istituzioni, sia imperiali, sia ecclesiastiche. Al forgiarsi delle
linee culturali ed istituzionali, religiose e politiche,
dell’Occidente latino altomedievale ha contribuito in modo
decisivo proprio la figura e l’opera di Agostino, con il quale
hanno dialogato ininterrottamente gli intellettuali di ogni area,
come pure tutti i responsabili dei progetti di vita comunitaria
in ambito civile come in ambito ecclesiastico.
Tento di enucleare alcuni riferimenti che possano aiutarci a comprendere l’influenza del magistero agostiniano, e sottolineo anzitutto la sua complessità, la sua scelta di tentare un
26
accordo tra il sapere mondano, includente la filosofia greca ed
ellenistico-romana, e la sapienza del Vangelo di Gesù Cristo,
in cui l’amore dei valori metastorici deve prevalere sull’amore di sé e delle istituzioni umane, per far crescere quella che
Agostino ha chiamato la “città di Dio”.
Agostino è tra gli inauguratori dello spazio che sarà identificato con la categoria di “Occidente”, perché si posiziona in
modo diversificato rispetto ai Padri della chiesa che avevano
scritto in greco e che chiamiamo orientali. Pensiamo a
Clemente Alessandrino e ad Origene: due grandi intellettuali
cristiani, che vedevano la necessità di una scelta radicale, tra
l’essere cittadini di questo mondo e l’aspirare ad essere cittadini del regno dei cieli, i quali si devono impegnare nella
rinunzia ai valori terreni, estraniandosi dalle pulsioni e dai
desideri della sensibilità dell’uomo.
Non così Agostino, per il quale il corpo e l’anima sono
indisgiungibili nell’esistenza attuale: le inclinazioni e le
necessità del corpo vanno controllate e vanno fatte coesistere
con le esigenze dello spirito, certamente primarie, ma non
esclusive. Si produce in questo modo una grande drammaticità
dell’esistenza umana, che implica la paradossalità del vivere
in perenne conflitto, sempre nella tensione per il carico di difficoltà e di sofferenza, che accompagna la scelta della sequela
evangelica esemplare e rigorosa.
Agostino ha trovato nell’incarnazione del Verbo la luce
che gli consentì di farsi una ragione di questa permanente conflittualità: tramite la carne assunta realmente dal Figlio di Dio,
l’intero cosmo è segnato da un immancabile destino di luce e
di gloria definitiva. Tutto ciò che di male, di tenebra, di angustia, di sofferenza avvolge l’esistenza terrena dell’uomo nella
sua unione di anima e corpo, è da contrastare e da sopportare,
nella convinzione che è dentro questa storia che si costruisce
la vera storia, quella della città di Dio. Purificata dalle scorie
della negatività e del dolore, anche la materia e il corpo saran27
no accolti nel definitivo; solamente nel definitivo metastorico
il male, la tenebra e il dolore saranno sconfitti per sempre.
Per lo strutturarsi dell’Occidente medievale, dell’Europa
dalla cattolicità romana e dall’universalità della lingua latina,
Agostino ha in tal modo offerto un percorso capace di fare spazio alla fede nel Dio di Gesù Cristo ed insieme alla scansione
temporale della storia; una storia che ha conosciuto l’irruzione
della “luce immutabile” della rivelazione cristiana, ma che vive
nella contraddizione della mutabilità del nascere e del morire,
nell’impegno a costruire forme di convivenza civile che mirano alla pace, ma che non si possono liberare dalla guerra, nella
ricerca della giustizia, ma che non ha possibilità di essere piena
e totale, perché circondata da ingiustizie e malfattori.
Sopra tutto ciò spicca la grande cifra dell’agostinismo,
ossia la convinzione dell’accordabilità intrinseca di fede e
ragione, dove l’ossequio della ragione alle verità rivelate che
superano le sue scoperte non è una rinunzia alla razionalità,
non umilia l’intelligenza dell’uomo, ma la riposiziona nello
spazio del mistero: l’obsequium è rationabile! Il mistero, e, al
limite, lo stesso esito ineffabile dell’unione mistica, non sopprimono la ragione, ma le assegnano il compito di comprendere (intelligere, avere l’intelligenza) le altitudini della rivelazione. L’esito del credere è l’incremento di intelligenza (credo ut
intelligam!), che consente all’intelletto di pervenire alla visione perfetta, alla sorgente luminosa della verità e del bene, che
sazia ogni desiderio di conoscenza.
La grande Scolastica del medioevo centrale sarà concorde nel riconoscere l’imprescindibilità della ragione nel cammino del credente; anche quando alla ragione sarà richiesto di
sottomettersi al mistero, sarà evidenziato che il risultato finale non è la sua dissoluzione, ma l’apertura al riconoscimento
di una dimensione più grande, che, ancorché inafferrabile, non
la annulla né la rende inutile. Così l’uomo è consapevole di
stare nella situazione propria del finito: la luce dell’intelligen28
za lo rende consapevole di quello che è, gli offre spunti per
capire quello che vorrebbe essere ed insieme quello che può
realmente conseguire del grande desiderio di felicità che gli
sta dentro.
2. L’abisso della creatura e l’abisso divino
È noto che il contributo più originale di Agostino alla filosofia è consistito nello sviluppo del tema dell’interiorità, della
dimensione interiore, emozionale, passionale e più propriamente spirituale del soggetto, e che egli ha esplorato più volte
nelle sue opere maggiori.
Uno dei percorsi più originali in questo scavo è costituito
dal tema dell’abisso, come chiave di lettura dell’interiorità
dell’uomo; l’abisso è preso anzitutto nel senso primo e più
comune, di luogo dove si è continuamente esposti al rischio
dell’instabilità, alle insidie di un luogo melmoso o vorticoso,
senza un fondo che possa dare ancoraggio, o senza un fondamento che consenta di stare fermi. Questo è stato il tema idoneo a descrivere le turbolenze dell’adolescenza di Agostino,
nella sua autobiografia intitolata Confessioni, ma anche atto in
generale a configurare lo stato in cui si trova a condurre la propria vita quotidiana l’uomo. Agostino si domanda perché l’uomo, nonostante che conosca le legge morale e sia pieno del
desiderio di essere felice, di godere nella ricerca della verità,
scelga di perdersi nell’abisso, perché scelga lo sterminio.
A questa domanda: “perché l’uomo sceglie l’abisso”,
Agostino dà una doppia risposta, assai importante. In primo
luogo, l’abisso ha il suo fascino, il fascino riposto nelle bellezze che costellano l’universo: queste molteplici bellezze si
offrono all’uomo perché ne goda secondo una giusta forma,
secondo una linea di fruizione e di godimento temperata dalla
ragione, rispettando la misura e la proporzione tra l’uomo, le
cose belle, il loro uso, e la loro bontà.
29
Per rispettare il punto di equilibrio, c’è una linea forte di
appoggio, la ragione, mediante la quale l’uomo dovrebbe vigilare e fare sì che la fruizione del creato resti nel parametro del
giusto e del buono:
“Le belle forme nei corpi e l’oro e l’argento e ogni cosa
simile attraggono gli occhi col loro aspetto; nel senso del tatto
importa moltissimo la consonanza della carne e del suo
oggetto, come gli altri sensi ricevono dagli oggetti una loro
specifica e conveniente modificazione. Anche l’onore mondano, il potere, il dominio posseggono una loro dignità, origine
fra l’altro nell’uomo del desiderio di vendetta. Tuttavia per
ottenere tutti questi beni non occorre allontanarsi da te,
Signore, né deviare dalla tua legge. La vita stessa che viviamo qui sulla terra possiede un suo fascino, che le deriva da
una certa misura di grazia sua propria e dall’armonia con tutte
le altre minime bellezze dell’universo. E l’amicizia fra gli
uomini non è forse deliziosa per l’amabile nodo con cui unifica molte anime? Tutte queste cose e le altre ad esse simili
sono fonte di peccato soltanto nel caso che ad esse tendiamo
smoderatamente e per esse, che sono beni infimi, trascuriamo
gli altri migliori e sommi: te, Signore, Dio nostro, e la tua
verità e la tua legge. Perché, sì, anche questi infimi beni dilettano, ma non quanto il mio Dio, autore di ogni cosa, in cui
appunto gode l’uomo giusto e appunto è delizia dei cuori
retti”1.
L’abisso ha la sua bellezza, è la bellezza dei beni infimi,
che non vanno perseguiti a svantaggio dei beni più grandi. C’è
il fascino dell’abisso!
Scegliamo qualche altra riflessione su come l’abisso
AGOSTINO, Confessioni, II, 5.10; ed. a cura di M. Bettetini, Einaudi, Torino
2002, p.51.
1
30
attrae, sviluppa un cammino che coinvolge l’intenzione dell’uomo. Ecco, ad esempio, come l’abisso muove la psiche:
“Perciò nella ricerca del movente di un delitto non si è paghi
di solito, se non quando si scopre la brama di ottenere l’uno o
l’altro dei beni che abbiamo definito minimi, oppure il timore di
perderlo, perché essi, sebbene abietti e vili a paragone dei beni
superiori e beatificanti, posseggono una loro bellezza e grazia.
Qualcuno ha ucciso: perché l’ha fatto? Vagheggiava la moglie o
il podere del morto, oppure cercò di predare per vivere, oppure
temeva di perdere uno di questi beni per mano del morto, oppure era arso dal desiderio di vendicare un affronto subito. Avrebbe
mai perpetrato un omicidio senza ragione, per il solo piacere di
uccidere un uomo? Chi lo crederebbe? Persino alle follie e alle
crudeltà estreme di un uomo, del quale fu detto che sfogava abitualmente per nulla la propria malvagità e crudeltà, fu premessa una ragione: “perché nell’inattività - dice il suo storico - non
s’intorpidisse la mano e lo spirito”. Domandati anche questo: a
che scopo? Perché questo? Evidentemente per ottenere mediante la pratica dei delitti e una volta padrone della città, onori, potere, ricchezze; per liberarsi dal timore delle leggi e dalle angustie
che gli derivavano dalle esiguità del patrimonio e dal rimorso dei
delitti. Dunque neppure Catilina amò i propri delitti, ma altro: lo
scopo, cioè, per cui li commetteva”2.
È chiaro: l’abisso esiste con tutte le caratteristiche descrivibili; è una categoria retorica, è un appannaggio possibile
all’uomo, all’uomo Agostino, all’uomo di ogni tempo, a noi
uomini d’oggi! Ci riguarda!
Seconda risposta alla domanda “perché la scelta dell’abisso”: oltre al fascino della seduzione, e del male, nell’abisso
2
Ibi, II, 5.11; pp. 51-53.
31
è inclusa una sfida prometeica. L’uomo vuole costruirsi un territorio proprio senza delimitazioni, un luogo non finito, non
segnato da argini e confini, ma infinito, abissale; è l’uomo che
si fa “simia Dei ”, che tenta la via di Dio, pensa di poter essere infinito e senza limiti, di essere come Dio, il quale Dio sì,
che è l’abisso: nulla può contenerlo, nulla può limitarlo, nulla
può impedirgli di essere ogni bene e ogni bellezza.
In una immagine simbolica di rara efficacia, Agostino
dice: “Perverse te imitantur omnes, qui longe se a te faciunt et
extollunt se adversum te”3. “Tutti ti imitano perverse = alla
rovescia, quindi si allontanano da te (= si inabissano) quanti
vogliono stabilire un abisso al rovescio, rovesciato rispetto
all’abisso ontologico costituito da Dio, erigendosi contro
Dio”. È chiaro il senso: la creatura che si allontana da Dio, lo
fa per imitare Dio (ecco la “simia Dei”, la scimmia di Dio):
contrappone il proprio abisso all’abisso di Dio, in un’ottica di
delirio prometeico, tentando di costituire un vero abisso rovesciato.
Agostino non può non rilevare come la creatura, anche
quando va alla deriva della deriva, ossia si muove nello sforzo
di rovesciare l’abisso di Dio per appropriarsene in autonomia,
non fa altro che mostrare la propria cifra creaturale, per la
quale è inevitabilmente portato ad imitare la propria causa fattrice; il suo essere non può non esprimere il legame con la
causa che l’ha messo nella condizione di essere e di agire:
“Ma anche imitandoti, a loro modo, provano che tu sei il creatore dell’universo, e quindi che non è possibile allontanarsi da
te in alcun modo”4.
E prosegue, applicando a se stesso, alla propria volontà di
onnipotenza esibita nella circostanza del furto delle pere, l’a-
3
4
Ibi, II, 6.14; p. 55.
Ibidem.
32
berrazione di questa operazione prometeica, e la stigmatizza
con parole di fuoco. L’esito dell’abisso umano è chiamato:
putredo, marciume; monstrum vitae, mostruosità vivente;
mortis profunditas, abisso di morte, tenebrosa omnipotentiae
similitudo, buia caricatura di onnipotenza.
Stupefacente e molto lucida lettura dell’abisso cui si
volge la creatura, dove c’è il marciume della putredine melmosa dei fondali privi di fondo stabile, dove vivono i mostri,
dove di abissale vero c’è solo la morte che inghiotte. E ciò è il
risultato di chi (mortis profunditas) imita Dio “vitiose atque
perverse”, in modo malvagio e rovesciato.
Di fronte alla presa di coscienza dell’abisso della creatura, che nelle sue contorsioni dimostra di testimoniare che il
vero abisso, quello di grandezza e felicità, è solo l’abisso ontologico, che costituisce la forma piena dell’essere perfetto, del
sommo bene, cioè di Dio, e dimostra altresì che la creatura
non potrà mai avere felicità e stabilità cercando dimora nell’abisso degli esseri finiti, l’unico atteggiamento che ad Agostino
pare consentito al fine di non cadere nella disperazione o nella
rinunzia totale alle proprie aspirazioni, diventa quello di
discernere l’abisso, di abitare l’abisso delle creature con la
massima attenzione, nella vigile ricerca dell’orientamento, per
captare i segnali di richiamo, i passaggi che aiutano a varcare
l’abisso, gli ancoraggi numerosi che Dio manda all’uomo (i
suoi “giudizi”):
“Tutti i tuoi cavalloni e i tuoi flutti passano sopra di me.
I flutti in ciò che subisco, i cavalloni in ciò che tu minacci.
Ogni colpa che sento è una tua ondata; ogni tua minaccia, è
un tuo rinvio. Nelle ondate questo abisso invoca, nei rinvii
invoca l’altro abisso. In ciò che soffro, tutte le tue ondate, in
ciò che tu minacci di più grave, tutti i tuoi rinvii si sono rovesciati su di me. Colui che minaccia non opprime, ma rinvia.
Ma poiché tu liberi, questo ho detto all’anima mia: spera in
Dio perché lui loderò; è la salvezza del mio volto, Dio mio.
33
Quanto più frequenti sono le sciagure, più dolce sarà la tua
misericordia”5.
La grandezza di questa lettura agostiniana dell’uomoabisso sta nel fatto di aver scavato nell’intimità del vissuto, nel
mondo della vita o Lebenswelt dell’uomo, quello di Agostino,
ma altresì quello dell’uomo di ogni tempo, e di avere scoperto le strutture contrastanti, il laceramento permanente cui è
sottoposta l’esistenza umana, nel suo desiderio congenito di
felicità , nella sua aspirazione a conoscere se stesso e le cose
così come sono, e cioè nella loro verità, nella difficoltà di
restare fedele a ciò che si riconosce prioritario e di maggiore
valore in ordine alla ricerca della felicità e della verità.
Nessuno è felice se viene ingannato, dice con finezza
Agostino; e ciò equivale a dire: nessuno desidera stare fuori
dalla verità, solo la verità (il sapere come stanno le cose nella
realtà) rende felici.
Questo scavo nella profondità delle contraddizioni, delle
lacerazioni, delle aspirazioni a tentare nuove vie di accesso
alla felicità, è riassumibile nel triplice ordine delle tentazioni
cui è quotidianamente sottoposta l’esistenza di Agostino, così
come egli ne parla nel libro X delle Confessioni.
I capitoli dal trentesimo al trentanovesimo del libro X
delle Confessioni sono dedicati alle tre forme della tentatio,
come modalità del defluxus, del vacillare nel decadimento, nel
tentativo di poter dominare la connessione tra felicità e piacere, e trattano il nesso tra verità e apparenza di verità. Bisogna
evitare di prendere le riflessioni di Agostino sulle tentazioni
come cavilli da moralista, o come narcisismi di un retore che
si sbizzarrisce nell’indagine psicologica; è il cercare l’ancoraggio che nella vita attuale è pieno di difficoltà, dato che la
AGOSTINO, Esposizione sul Salmo 41, n. 15. In: http://www.santagostino.it/italiano/esposizioni_salmi
5
34
vita umana appare tutta una tentatio. La prima forma di tentazione è denominata concupiscentia carnis, dove concupiscenza, dal latino con-cupiscere vale come “desiderare insieme”,
“desiderare con”, con la carne, con gli occhi (seconda forma:
concupiscentia oculorum), con l’io interiore proteso nel desiderio di gloria, nell’affermazione di sé (terza forma: ambitio
saeculi). Il desiderio con la carne appare nella memoria ad
esempio con il permanere in essa delle immagini degli antichi
amplessi: si riaccendono nel sonno, mentre sono deboli quando Agostino è desto, per cui egli si domanda: forse che non
sono io nel sonno? Nella veglia resisto, ma nel sonno dove va
la ragione? Le esperienze oniriche appartengono comunque al
mio mondo, al mondo della mia vita.
Ancora, la fame e la sete del corpo vengono soddisfatte,
ma quella che è una necessità, un bisogno fisico della carne, si
trasforma in diletto; l’aver bisogno di cibo è soave, il dolore
viene estinto con piacere, ossia la cura dei nostri bisogni
diventa piacevole, per cui sorge la domanda: si soddisfano la
fame e la sete per il bisogno della cura del corpo, oppure perché dalla soddisfazione se ne trae piacere? Accade che quanto
basta alla salute, è poco per il piacere. Da questo si coglie la
conflittualità della vita, perché il desiderio della vita felice
passa attraverso tutte le forme di desiderio che sollecitano la
sensibilità, la capacità estetica, anche attraverso il mio desiderio quotidiano di cibo, da cui misuro la mia vigilanza nel protendermi verso il genuino esse beatus.
Dopo la pulsione sessuale e la brama del cibo, ecco le
sinuose attrazioni degli odori, apparentemente innocui, ma in
realtà sempre pronti all’invasività, e poi quelle dei suoni vocali e dei suoni musicali, ossia dei piaceri degli orecchi, capaci
di portare al bene o di convergere sul male: la voce (parole,
modulazioni della voce, sospiri, gemiti, ecc.), e i suoni ritmati (melodie, sacre e profane, ecc.) possono attivare gli affetti
dello spirito, ma sono capaci anche di deviare lo spirito dalla
giusta concentrazione.
35
È poi la volta della tentazione della vista, che ogni giorno ci mette alla presenza di forme e colori veicolati dalla luce,
e che evidenziano la nostra dipendenza da essi e la nostra fragilità, al punto che non reggiamo il buio. Le cose e le loro
immagini create dagli uomini aggravano questa situazione di
vulnerabilità, perché insistono nell’accrescimento dei prodotti
da guardare, e, nell’intento di ampliare le percezioni estetiche,
incrementano il campo delle sconcezze, del materiale pornografico per gli occhi. Agostino stigmatizza tutto il campo degli
oggetti esteriori che attirano la vista, in cui riconosciamo il
mondo mediatico e mediatizzato dei nostri giorni, che provoca la dispersione della visione, allontanandola dal piacere
della vita beata, che sta ferma nella verità, che è il mondo
vero; la bellezza autentica non è il mondo mediatico o il
mondo virtuale. Grande tentazione, dice Agostino, quella di
incamminarsi nelle bellezze esteriori e perdere la bellezza
interiore della luce della verità.
Con la seconda forma della tentazione: concupiscentia
oculorum, siamo sempre sul fronte degli occhi e della vista,
ma mentre nel precedente livello la vista era nella carne (in
carne), ora siamo al vedere attraverso la carne (per carnem),
all’esperire mediante la carne, sviluppando una smodata
curiosità, un forte appetito di conoscere. Questa bramosia si
traveste con il nome di scientia, si riveste di ornamenti e paludamenti che la fanno apparire conoscenza, scienza, sapere, e
che attiva gli occhi della mente. Questa bramosia di cose
nuove da vedere, per il gusto solo del conoscere, del mero
vedere, compromette la passione per la verità, porta al cuore
della memoria una catena di curiosità senza Dio.
Il terzo genere della tentazione è costituito dall’amore
della lode e della stima degli altri per sé. È l’autocompiacimento, l’egocentrismo che esprimono l’attenzione e il desiderio a che ricadano su di sé la fama, la gloria, la stima degli
altri. La lingua ne è il principale veicolo, perché il sermo, il
discorso costruito dalla lingua degli uomini, espone il mondo
36
del sé al mettersi in opera in vista degli altri. Parla il retore
Agostino, facitore di sermoni persuasivi, esperto nell’uso della
lingua, che è definita come una “fornace”, un crogiuolo in cui
sono sottoposti quotidianamente a verifica l’io individuale e
gli altri in riferimento a sé. La lingua è veicolo delle parole che
noi pronunciamo, come delle parole che gli altri pronunciano
su di noi, lasciando ampio spazio all’inautenticità, alla dissimulazione, all’atteggiarsi, all’esibizione.
Il vero piacere, quello che dà la felicità compiuta, deve
vertere sul dono ricevuto dall’uomo, e perciò sul riconoscere
che la lode è prerogativa del creatore delle cose, più che di
colui che ne viene in possesso. La verità è solida, certissima in
sé e non fondata nella bocca degli altri; la verità non dipende
dagli altri, non teme il biasimo; la verità è raccolta in sé stessa, è nella continentia, sta nella giustizia della realtà e non
nella cura dell’apparenza.
Al termine di questa analisi dei rischi cui è esposto quotidianamente, Agostino dichiara tutta l’angoscia che prova nell’avere sé stesso tra tanti pericoli e travagli:
“Ma fra tutte le cose che passo in rassegna consultando te,
non trovo un luogo sicuro per la mia anima, se non in te.
Soltanto lì si raccolgono tutte le mie dissipazioni, e nulla di
mio si stacca da te. Talvolta mi introduci in un sentimento interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che, qualora raggiunga dentro di me la sua pienezza, sarà non so cosa,
che non sarà questa vita. Invece ricado sotto i pesi tormentosi
della terra. Le solite occupazioni mi riassorbono, mi trattengono, e molto piango, ma molto mi trattengono, tanto è considerevole il fardello dell’abitudine. Ove valgo, non voglio stare;
ove voglio, non valgo, e qui e là sto infelice”6.
6
AGOSTINO, Confessioni, X, 40.65; pp. 405-407.
37
3. Conclusioni
Abbiamo in precedenza dato ampio rilievo al fatto che la
proposta antropologica di Agostino tratta il corpo e l’anima
come modalità proprie dell’esistenza umana, senza pensare
che si possano disgiungere; abbiamo visto come le inclinazioni e le necessità della carne vanno contemperate e fatte coesistere con le istanze dello spirito. Ciò produce una grande
drammaticità e la loro convivenza richiede l’accettazione della
paradossalità del vivere in perenne conflitto, sempre nella tensione, nell’insopprimibile confronto con le difficoltà e con la
sofferenza.
Dalle Confessioni sappiamo anche che Agostino, dopo i
trent’anni, ha trovato, attraverso il percorso della conversione,
nell’incarnazione del Verbo la luce che gli consente di farsi
una ragione di questa permanente conflittualità: l’intero
cosmo, attraverso la carne assunta realmente dal Verbo di Dio,
è segnato da un immancabile destino di luce, che lo proietta
verso la salvezza definitiva. Agostino tuttavia non scappa, non
si rifugia nel platonico mondo ideale e disincarnato; il male, le
angustie, le tenebre sono reali e vanno trattate come tali, sopportando, contrastando, lottando, nella convinzione che è dentro questa storia che si costruisce la vera storia, quella che
libera dalla contraddizione. Agostino insegna che al suo definitivo instaurarsi, la città di Dio, purificata dalle scorie della
negatività e del dolore, sarà il territorio ospitale che accoglierà
anche la materia e il corpo e le loro dinamicità.
È una voce nuova questa: nessuna filosofia dello spirito
anteriore ad Agostino aveva proposto questo percorso!
Nessuna lettura dell’esistenza umana, includendo anche quelle fatte alla luce della rivelazione del Vangelo, aveva proposto
un percorso come quello di Agostino; a ragione, perciò, viene
perciò indicato come il padre dell’Occidente medioevale.
L’agostinismo medioevale ha accolto questa via alla pacificazione dei conflitti interiori dell’uomo, senza rinunziare alla
38
propria identità, all’essere uomini così come l’uomo è. Nei
territori dell’abisso, nella vicenda interiore di ciascun io, si è
manifestato un firmamento solido, un punto di luce riconoscibile perché fatto di carne, un uomo che offre un appoggio
fermo e sicuro per attraversare l’abisso, perché è l’Abisso
ontologico; con tutta la mia riflessione razionale tengo insieme la mia vita tra i flutti che ancora su di lei si frangono, nella
ferma adesione al “firmamento” cui mi aggancio come àncora
di salvezza.
Nella prima modernità, un agostinismo diverso da quello
medioevale, ossia l’agostinismo luterano e dei teologi della
Riforma protestante proporrà all’uomo l’opzione della sola
fides, proporrà cioè di affidarsi alla sola fede e di abbandonare la ragione. Ma, senza la ragione, che fa da ponte tra la fede
che salva e l’abisso che minaccia di inghiottire, tutta l’antropologia si troverà in difficoltà nei confronti del vivere quotidiano e della storia. E l’Europa conoscerà una stagione diversa, una diversa concezione della storia, quella assai controversa dell’illuminismo, in cui fede e ragione camminano separatamente e porterà alla lacerazione del razionalismo e del fideismo.
39
Biografia
Professore ordinario per il settore scientifico-disciplinare M-Fil 08, è docente
di Filosofia teoretica e di Storia della filosofia medievale presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ricopre la carica
di Direttore del Dipartimento di Filosofia della stessa Università ed è direttore della “Rivista di Filosofia neo-Scolastica”.
Già docente di Storia della filosofia medievale all’Università della Calabria, è
stato Visiting Professor nelle Università di Lisbona, San Paolo, Campinas,
Porto Alegre, Sorbonne di Parigi. Socio della Società filosofica italiana, membro della Siepm (Société internationale pour l’étude de la philosophie médiévale), membro della SISPM (Società italiana per lo studio del pensiero medievale), membro del Consiglio direttivo dell’Istituto internazionale di Studi
Piceni, dell’Istituto di Studi umanistici F. Petrarca, del Comitato direttivo del
Centro per le ricerche di Ontologia, Metafisica ed Ermeneutica (CROME)
dell’Università Cattolica di Milano, del Centro Internazionale di Studi
Gioachimiti, dell’Istituto “Veritatis Splendor” di Bologna, della Rivista
“Medioevo”, dell’Anuario de Historia de la Iglesia (Pamplona).
40
Prof. Mario SARCINELLI*
Presidente Dexia - Crediop
Il futuro dell’impresa bancaria, tra malia della finanza e
richiamo del territorio
Col vostro permesso, comincerò con una citazione da
Aurelii Augustini Confessionum Liber Secundus:
Cui narro haec? Neque enim tibi, Deus meus, sed
apud te narro haec generi meo, generi humano,
quantulacumque ex particula incidere potest in
istas meas litteras. Et ut quid hoc? Ut videlicet ego
et quisquis haec legit cogitemus... (III, 5)
(Ma a chi racconto queste cose? Non certo a te,
Dio mio, ma rivolgendomi a te le rivolgo al genere cui appartengo, al genere umano, per minuscola che sia la parte di esso che potrà imbattersi in
questo scritto. E questo, perché? Evidentemente
perché io e chiunque altro legga tali cose su di esse
rifletta....)
Con questo riferimento voglio solo stabilire un legame
formale con la conferenza precedente e sottolineare che l’ansia della conoscenza, della riflessione e soprattutto dell’insegnamento è comune al discorso teologico-morale come a quello economico.
Devo anche avvertire che non cercherò di scavare intorno
alle origini della banca, non solo perché non sono uno storico
dell’economia, ma soprattutto perché mi sembra più interessante e produttivo andare alle radici della crisi finanziaria che
oggi ci investe e ai modi per curarla.
Ringrazio il prof. Alessandro Roncaglia per avere letto una precedente versione
di questo scritto; di errori, opinioni e omissioni resto unico responsabile.
*
41
1. Introduzione - Credo di avere affrontato, per la prima
volta in un convegno, il tema delle prospettive della banca in
Italia una quindicina di anni or sono (Sarcinelli 1993). A quell’epoca avevo responsabilità esecutive nell’ambito della
BERS, la banca per la ricostruzione e lo sviluppo dei paesi
dell’ex impero sovietico, esterno (i c.d. paesi satelliti) ed interno (le repubbliche federate dell’URSS). In ragione del mio
incarico venivo a conoscenza del travaglio dei nuovi governanti per la trasformazione dei loro sistemi economici e politici verso il mercato e verso la democrazia e ad essi mi sforzavo di contribuire con l’aiuto delle giovani strutture della neonata banca (Sarcinelli 1992a). In qualche misura, anche il
sistema finanziario italiano, che aveva attraversato senza sconvolgimenti istituzionali e con alcuni dissesti aziendali la
seconda guerra mondiale, la ricostruzione, lo sviluppo, la
caduta di Bretton Woods, le crisi petrolifere, la stagninflazione e la grande accumulazione di debito pubblico, si presentava come una creatura degli anni ’30, caratterizzata dal ruolo
preponderante del regolatore pubblico, da quello scarso del
mercato, dall’assoluta prevalenza della componente bancaria.
Quest’ultima era costituita da aziende di credito, operanti
quasi esclusivamente sul breve termine con provvista sul mercato dei depositi, e da istituti speciali di credito, dediti a finanziare investimenti nei settori di loro elezione con raccolta sul
mercato obbligazionario.
La deregolamentazione, la liberalizzazione, l’incipiente
globalizzazione per la raggiunta libertà nel movimento dei
capitali, i propositi di privatizzazione e, soprattutto, l’emergere di una volontà di far fare un formidabile passo in avanti
all’Europa con il passaggio alla moneta unica resero evidente
la vetustà del nostro ordinamento finanziario e necessario il
suo adeguamento alle nuove sfide che l’Europa preparava.
Frutto di questa volontà di riforma delle strutture fu la
Commissione nominata dal Ministro Carli per la bisogna
(Ministero del Tesoro 1991). L’attuazione della seconda
Direttiva bancaria con il testo unico (TUB) nel 1993 costituì
42
l’occasione per una profonda revisione del nostro ordinamento, completato cinque anni dopo da un altro testo unico, quello finanziario (TUF).
A chi scrive e presumibilmente a tutti coloro che si occuparono della banca, della sua collocazione nel sistema e del
suo ruolo nell’economia agli inizi degli anni ’90 non fu difficile trovare punti di riferimento nella legislazione europea che
si andava infittendo e, soprattutto, nell’esperienza dei sistemi
orientati al mercato, come quelli anglosassoni, che venivano
affermandosi quali ordinamenti vincenti rispetto a quelli basati sulla banca, tipici della tradizione renana (Sarcinelli 1997).
L’arretramento dello stato nella proprietà delle imprese produttive e delle banche, la sostituzione della vigilanza strutturale con quella prudenziale, l’eliminazione dei vincoli diretti
quasi sempre usati per finalità di controllo macroeconomico,
la libertà di scelta del modello d’impresa e di quello organizzativo da parte dei singoli intermediari trovava giustificazione,
tra accademici e politici, nella fiducia accordata al mercato,
nella sua capacità di autodisciplina1 e nei meccanismi che assicurano l’allineamento degli interessi tra l’azionista mandante
e l’amministratore mandatario attraverso la “voce” negli organi sociali, l’”uscita” dalla compagine azionaria, la “scalata”
mediante l’offerta pubblica d’acquisto.
Nel momento in cui si scrive - primavera del 2008 - il
quadro che si offre alla nostra attenzione è profondamente
diverso. Il mercato finanziario ha assunto un ruolo decisamente più importante a livello mondiale attraendo nella sua orbita
ancor più che in passato le banche, ma ha dimostrato anche
un’insufficiente capacità di autoregolazione. Nei primi anni di
Secondo la BCE, l’attuale crisi è sopravvenuta quando la volatilità di mercato si
è innalzata e la qualità dei crediti sottostanti ai titoli si è deteriorata, ponendo fine
alla spirale tra crescente liquidità di mercato, aumento della leva finanziaria e
riduzione degli spreads che aveva caratterizzato la fase di boom (ECB, December
2007, p. 12).
1
43
questo nuovo secolo si è dovuto registrare negli Stati Uniti, il
paese leader in campo finanziario, lo scoppio di due grandi
crisi dovute alla bolla di Internet prima (1995-2001) e a quella dei mutui ipotecari subprime dopo2. Quest’ultima si sta
allargando ad altri segmenti finanziari e ha coinvolto pesantemente le banche americane e in minor misura anche quelle
europee; ha portato al fallimento, come in Germania, anche
qualche piccola istituzione che si era imbarcata in affari dalla
dimensione spropositata. L’innovazione finanziaria ritenuta
sempre socialmente benefica si è rivelata “matrigna” non solo
con i prenditori subprime di prestiti ipotecari, ma anche con
gli intermediari che hanno proceduto alla cartolarizzazione di
mutui e di altre attività di non primaria qualità nel tentativo di
alienare con essi i relativi rischi. Questi ultimi, però, sono ricaduti sugli intermediari cedenti, necessitati a difendere la propria reputazione o ad onorare un obbligo esplicito, allorché il
mercato si è inceppato per una crisi di liquidità che perdura.
L’impegno delle maggiori banche centrali per alleviarla è stato
senza precedenti e, nel caso della Fed, con modalità al limite
dell’ortodossia.
Il mercato e lo stato sono le due grandi istituzioni che,
con ruoli diversi, rendono la vita economica passabilmente
ordinata: al primo spetta un compito di coordinamento nell’allocazione corretta delle risorse che può avvenire solo se
esprime prezzi concorrenziali, al secondo incombe di predisporre regole, sorvegliarne l’applicazione e garantire che
non si formino posizioni dominanti, distorsive della concorrenza. Il quantum di intervento pubblico, la combinazione tra regolazione, supervisione e tutela della concorrenza,
le procedure di consultazione, applicazione ed eventuale
2
Su bolle finanziarie, crisi economiche e un nuovo ordine finanziario per
combattere l’instabilità si veda Sarcinelli (2003b). Nel momento in cui si scrive,
secondo alcuni osservatori, una terza bolla si sta formando sulle materie prime e
su quelle energetiche.
44
impugnazione da parte degli interessati variano di tempo in
tempo e da un ordinamento all’altro. Un “fallimento del
mercato”, vero o presunto, sollecita la politica e la pubblica opinione a favorire un’estensione dell’intervento dello
stato, cui gli intermediari reagiscono con la promessa di
un’autoregolamentazione altrettanto efficace e meno invasiva.
Infatti, un’intelaiatura di vincoli e di controlli nel campo
gestionale, informativo e comportamentale troppo pesante
aumenta i costi, svantaggia gli operatori interni rispetto a quelli esterni e non necessariamente evita gli eccessi del mercato;
prima o poi, le pressioni degli operatori e la concorrenza estera segnalano il “fallimento dello stato” e il pendolo si rimette
in moto a favore della deregolamentazione. Sono corsi e ricorsi vichiani... Ovviamente, questi movimenti sono permessi o
aiutati dalla prevalente “filosofia” politica che se liberale o
liberista spinge per aumentare il ruolo del mercato, se garantista o protettiva di particolari interessi promuove quello dello
stato. D’altro canto, l’autoregolamentazione spesso non ha
adeguati meccanismi di controllo o di enforcement e comunque è scarsamente credibile all’indomani di una crisi che il
comportamento degli intermediari ha creato o aggravato.
Infatti, essa è stata innescata sì dalla speculazione immobiliare alla quale hanno partecipato, in modo consapevole o no,
molte famiglie americane non in grado di onorare i mutui
quando sono divenuti più cari a causa del tasso contrattuale
variabile, ma è stata amplificata dall’azione senza scrupoli di
broker allettati dalle laute commissioni, nonché dalla tecnica
di cartolarizzazione e dal supposto isolamento dai rischi trasferiti.
Dinanzi alla dimensione della crisi finanziaria che ha
colpito Wall Street, il segretario al Tesoro americano,
Paulson, ha prospettato in un lungo rapporto (Department of
the Treasury 2008) una revisione del complesso e frammentato sistema di supervisione del sistema finanziario negli Stati
45
Uniti, suddividendola in misure per il breve, per il medio e
per il lungo termine. D’altro canto, da studiosi (ad es.,
Spaventa 2008b) e da istituzioni internazionali (IMF April
2008a) viene raccomandato di non reagire all’attuale crisi con
una corsa alla regolamentazione. Ogni eccesso, soprattutto se
dettato dall’emotività o dal mero desiderio di far vedere alla
pubblica opinione che si reagisce agli avvenimenti, è da evitare, ma dopo un’analisi dei meccanismi di mercato che non
hanno frenato innovazioni rivelatesi socialmente dannose è
necessaria una nuova regolazione di alcuni segmenti dell’industria finanziaria. Dopo questi sconvolgimenti e le attese
reazioni delle autorità, quali ulteriori vincoli l’azienda bancaria si vedrà addossare? Quale configurazione assumerà il
sistema bancario?
Poiché è impossibile fare previsioni attendibili sui tempi
e sui modi in cui questa ridefinizione della cornice regolatoria
avverrà negli Stati Uniti, si farà riferimento alle traiettorie che
erano state delineate poco prima dell’ultima crisi, nel 2004 (§§
2, 2.1-3). Seguirà un’analisi delle condizioni che hanno permesso alla crisi da subprime di svilupparsi (§ 3). Anche
l’Europa sarà necessariamente influenzata da ciò che accadrà
negli Stati Uniti non solo perché la crisi americana l’ha già
toccata in buona misura, ma perché molte delle regole prudenziali vengono sviluppate da (o con la collaborazione di) istituzioni e consessi internazionali (FMI, OCSE, FSF, JF, BCBS,
IIF). Comunque, il futuro della banca nel nostro Continente
continua ad essere una preoccupazione della Commissione,
delle altre istanze europee e di centri di ricerca; alle loro proposte e a quelle di alcuni ministri dell’Eurozona si farà riferimento per delineare lo scenario (§§ 4, 4.1-3). La riforma della
struttura di supervisione finanziaria in America è un compito
soprattutto per il lungo periodo (§ 5). I crucci e le iniziative
non solo ministeriali per rendere più integrata in Europa la
supervisione sulle banche transnazionali sono argomenti
all’ordine del giorno (§§ 6, 6.1). Un esame di coscienza ha
preso il posto delle conclusioni (§ 7).
46
2. Tendenze probabili nell’industria bancaria americana: prima della crisi da subprime - Nel 2004, dopo 17
anni da una precedente ricerca (FDIC 1987), la Federal
Deposit Insurance Corporation promosse un altro studio
(FDIC 2004; Hanc 2004) volto a delineare l’evoluzione della
struttura e della performance dell’industria bancaria americana nel successivo quinquennio-decennio e a individuare i conseguenti problemi di politica settoriale. Si parte dalla constatazione che nell’intervallo tra i due studi la crescita quasi continua dell’economia e la deregolamentazione hanno indotto un
netto miglioramento della redditività e della capitalizzazione
delle banche. A sua volta, la caduta o la riduzione dei vincoli
a prodotti e mercati hanno favorito la concorrenza tra banche
e tra queste ultime e gli altri intermediari; inoltre, la tecnologia dell’informazione ha accresciuto le possibilità di consolidamento del sistema bancario attraverso fusioni e acquisizioni. Ne sono emerse alcune organizzazioni gigantesche di grande complessità sia per la loro presenza sul territorio di più continenti sia per la creazione e diffusione di prodotti ad alta sofisticazione, in ciò aiutate dall’innovazione finanziaria.
L’indagine del 2004, definita come esercizio del pensiero
strategico, affronta le seguenti questioni: a) quali mutamenti
sono da attendersi nell’ambiente in cui opera la banca; b) quali
prospettive si aprono per i differenti segmenti dell’industria
bancaria; c) quali problematiche di policy le banche e i regolatori si troveranno ad affrontare.
2.1. Mutamenti ambientali - La dimensione economica
è la prima ad essere esaminata sub a); si ipotizza sia la prosecuzione di una crescita moderata dell’economia con effetti
benefici sulla solidità e sulla redditività bancaria, sia la formazione di bolle speculative come quelle degli anni ’80 nei settori dell’energia, degli immobili commerciali e dell’agricoltura, che portarono alla caduta di banche, o negli anni ’90 nel
comparto della tecnologia delle comunicazioni. Tra le altre
dimensioni sono menzionate quella demografica caratterizza47
ta da invecchiamento della popolazione e forte immigrazione,
quella della deregolamentazione che è prevista continuare per
effetto di sviluppi nel mercato o di azioni dei singoli stati piuttosto che di interventi federali, quella tecnologica con sviluppi nei campi dell’imaging, della banda larga, delle reti senza
fili e dei servizi sul web, quella relativa ai sistemi di pagamento con l’”elettronizzazione” degli assegni, quella infine della
concorrenza. Alla complessità operativa e a quella tecnologica
si assoceranno necessariamente maggiori rischi operativi.
A quest’ultimo riguardo, si rileva che le quote di debito
possedute dalle banche commerciali e dalle istituzioni che raccolgono risparmi sono cadute rispetto ai decenni precedenti;
sebbene alcuni abbiano interpretato questa flessione come un
segno di debolezza su di un mercato competitivo o addirittura
di obsolescenza di questo tipo di intermediari, il declino è in
parte dovuto alla proliferazione dei canali di intermediazione
finanziaria, che spesso comporta l’emissione di strumenti per
finanziare altri strumenti. Infatti, la riduzione della quota delle
banche nel mercato del credito è il riflesso del mutamento nel
modo in cui i prestiti sono alla fine finanziati. La cartolarizzazione di attività, quali i mutui ipotecari e i crediti al consumo,
in precedenza tenute sui libri sino a scadenza ha permesso il
loro finanziamento attraverso il mercato dei titoli. Questo spostamento dal canale indiretto, o bancario, verso quello diretto,
cioè attraverso il mercato, sta interessando anche altri paesi,
tra cui quelli europei, che così si avvicinano al modello americano, come risultato di forze (Rajan and Zingales 2003) che
hanno aumentato l’efficienza dei mercati; tra queste vi sono i
miglioramenti nel trattamento dell’informazione, lo sviluppo
del commercio internazionale e dei flussi di capitale, l’integrazione politica.
2.2. Prospettive per le diverse categorie di banche – Il
punto b) concerne l’evoluzione dei diversi segmenti dell’industria, cioè: i) le grandi organizzazioni bancarie definite come
le 25 più grandi in termini di attività; ii) le medie e regionali
48
che si collocano al di sotto delle 25 grandi e al di sopra delle
banche locali; iii) le locali definite come quelle che hanno un
totale dell’attivo inferiore a un miliardo di dollari; iv) infine,
le banche speciali, vale a dire quelle per le carte di credito,
quelle che si dedicano al segmento di clientela subprime e
quelle che operano soltanto attraverso Internet.
Alla fine del 2003, le 25 più grandi banche e istituzioni di
risparmio con depositi assicurati, escluse perciò le banche
d’affari che non ne raccolgono, rappresentavano il 56 per
cento del totale delle attività del settore. Tra il 1984 e il 2003,
le prime 10 sono passate dal 19 al 44 per cento, le successive
15 soltanto dal 10 al 12 per cento. A questo notevole aumento
della concentrazione al vertice della classifica ha contribuito
in modo determinante il Riegle-Neal Act del 1994 e il GrammLeach-Bliley Act del 1999 che ha abolito la legislazione roosveltiana del Glass-Steagall Act. Sui guadagni di efficienza di
organizzazioni così ampie, le conclusioni degli economisti
sono tutt’altro che univoche; le economie di scala e di scopo
facilmente individuabili in segmenti specializzati, ad esempio
la gestione del risparmio o le carte di credito, sono spesso più
che compensate dalle diseconomie dovute alla dimensione e
alla complessità (G10 2001; Prefazione Sarcinelli a Comana
2003). Sebbene i modelli di business siano diversi, alcune tendenze sono comuni a tutte o alle maggiori tra le grandi banche.
Queste ultime hanno fortemente aumentato la quota di reddito
rappresentata da commissioni per ridurre la sensibilità del
conto economico al ciclico andamento del tasso d’interesse,
per trarre vantaggio dalla legislazione che ha ampliato le capacità operative della banca e soprattutto per ridurre il “consumo” di capitale, a parità di reddito; hanno fatto assegnamento
più sull’indebitamento garantito (collateralized) che sui depositi per la provvista e si sono distinte anche nelle tecniche di
gestione del rischio per ridurre la propria vulnerabilità.
Secondo la FDIC, nell’immediato futuro le grandi banche
continueranno a crescere sia per via interna sia attraverso
acquisizioni, anche se nel tempo non potranno evitare i proble49
mi derivanti da diseconomie gestionali, difficoltà nel governamento societario, criticità nei sistemi per il controllo dei rischi
finanziari e operativi.
Per le banche medie e regionali il ROA (return on
assets) dopo il 1996 è stato spesso superiore a quello delle
grandi, ma la loro quota sul totale dell’attivo bancario si è
ridotta per la grande crescita di queste ultime; il loro numero nello stesso periodo si è accresciuto del 13 per cento.
Nonostante i buoni risultati, v’è chi ritiene che questa categoria sarà assorbita in buona parte dalle grandi o sospinta
verso le banche locali, previsione non condivisa dalla FDIC,
anche se non sono affatto da escludere fenomeni di aggregazione.
Le banche locali continuano a rappresentare per numero
il 94 per cento del sistema bancario americano (95% nel
1985). Il quadro, tuttavia, è molto cambiato dopo la crisi degli
anni ’80 e i provvedimenti di liberalizzazione geografica. Il
numero delle banche locali si è ridotto del 47% dal 1985 a
causa sia dei fallimenti in una prima fase sia delle fusioni
volontarie nella seconda; comunque, la loro quota in termini
di attività depositi e sportelli è diminuta. La FDIC ritiene che
esse rappresentino ancora un modello di business vincente,
poiché sono in grado di usare soft information in modo efficace nella valutazione del rischio di piccoli operatori piuttosto
opachi.
Delle banche a operatività specializzata oggi interessano soprattutto quelle attive nel segmento di clientela subprime, cioè con una storia creditizia travagliata o debole. La
loro individuazione da parte della FDIC è avvenuta prendendo in esame tutte le banche con prestiti subprime superiori al 25 per cento del capitale regolamentare di primo
livello (tier one). Una più penetrante azione di sorveglianza
su adeguatezza del capitale e pratiche predatorie da parte dei
supervisori hanno ridotto, se non eliminato i vantaggi che le
50
banche con depositi assicurati avevano rispetto ad altri
intermediari. La diffusione, tuttavia, di questo tipo di attività nei segmenti non regolamentati del mercato ha innescato la più grande crisi finanziaria dai tempi della Grande
Depressione...
2.3. Problematiche di policy - A questo proposito la
FDIC formula proprie raccomandazioni ancorandole ai
seguenti principi: il sistema bancario dovrebbe evolversi in
funzione delle forze di mercato e delle esigenze di protezione
del consumatore piuttosto che in risposta a quelle della regolamentazione; i rischi posti da grandi e complesse organizzazioni bancarie dovrebbero essere affrontati attraverso la regolamentazione prudenziale e la supervisione; per assicurarne
l’efficacia, la struttura istituzionale di queste ultime andrebbe
riformata.
L’ente assicuratore dei depositi si attende nuove ondate
di fusioni e acquisizioni, sia pure di minore forza rispetto al
passato. Il fallimento di una grande banca, evento molto
improbabile ma altamente disastroso, non può essere escluso,
sicché si raccomanda di rafforzarne il capitale sommando al
coefficiente derivato dalla valutazione interna dei rischi un
altro deciso dalle autorità di supervisione. Ciò in effetti contrasta con le aspettative delle megabanche che hanno intravisto in Basilea II l’opportunità per ridurre il fabbisogno di
capitale...
Quanto all’aumento della concentrazione e alla riduzione
della concorrenza, la capacità di ingresso di nuove banche che
possono contare sull’assicurazione dei depositi sin dall’inizio
testimonia che non vi sono barriere, anche se queste possono
materializzarsi nell’esercizio ove il carico di segnalazioni
imposto dai diversi regolatori e supervisori si riveli eccessivo.
La concorrenza, quindi, continuerà a dominare i mercati bancari e presumibilmente assicurerà la disponibilità di credito
per la piccola impresa, argomento di grande rilievo ed ogget51
to di numerose ricerche empiriche non solo in America ma
anche in Italia3.
Poiché la crescita dei depositi di base (totale meno quelli
a tempo superiori a 100.000 dollari) non ha tenuto il passo con
quella dell’attivo, vi è stata una spinta a far ricorso a enti di
rifinanziamento e soprattutto a raccogliere fondi sul mercato
finanziario. Sino a quando le condizioni prevalenti su quest’ultimo sono favorevoli, non vi sono difficoltà, ma quando
un qualsiasi shock intacca la fiducia dei partecipanti rapidamente le fonti di finanziamento all’ingrosso si inaridiscono,
nonostante l’alta sensibilità al tasso, e il rischio di liquidità si
manifesta anche nella forma di minore capacità o addirittura
impossibilità di realizzare attività sul mercato senza perdite.
E’ questo rischio di collasso del sistema che le principali banche centrali con azioni coordinate stanno cercando di alleviare sui mercati... Fino a quando la liquidità non sarà tornata a
livelli di normalità, una ripresa del processo di consolidamento appare del tutto improbabile.
Sulla struttura istituzionale delle funzioni di regolamentazione e supervisione finanziaria la FDIC fa notare come questa continui ad essere altamente frammentata, mentre nel resto
del mondo v’è stata e continua una tendenza all’accorpamento; su questo tema si tornerà allorquando si menzioneranno le
proposte del rapporto Paulson.
È forse ingeneroso da parte mia, ma inevitabile chiudere
questa carrellata sullo studio strategico della FDIC con la
seguente affermazione: “Per tutte le banche, le possibilità di
bolle economiche in mercati ai quali esse partecipano ... non
Per il nostro Paese si vedano i lavori di Beretta e Del Prete 2007; Gobbi e Lotti
2004; Bonaccorsi di Patti e Gobbi 2003a, 2003b e 2001; Sapienza 2002; Focarelli
et al. 2002. Un sintetico riferimento a queste problematiche è in Sarcinelli
(2003a).
3
52
possono essere del tutto scontate. [/] Noi consideriamo queste
e similari possibilità come eventi con bassa probabilità e alto
impatto entro l’orizzonte dei cinque-dieci anni di questo studio” (FDIC 2004, p. 25). Non solo gli economisti ma anche gli
assicuratori-regolatori sembrano non avere il dono della predizione temporale...
3. La crisi da subprime - Poiché sono indubbie, non mi
dilungherò sulle responsabilità della Fed per avere condotto
una politica monetaria permissiva troppo a lungo, soprattutto
per non avere ampliato in tempo gli strumenti a difesa del consumatore-acquirente di casa che il Congresso le aveva attribuito sin dal 1994 e per non avere dato ascolto a un suo governatore, Edward M. Gramlich, sui pericoli della bolla immobiliare (Sarcinelli 2008).4
Vi sono, però, anche altri attori in questo dramma. In
primo luogo, sono da citare i mercati che, grazie alla globalizzazione, si sono estesi in ogni parte del mondo e che a causa
di innovazioni fondamentali come la strutturazione dei crediti, la loro cartolarizzazione e la segregazione dei medesimi in
veicoli speciali; hanno aumentato enormemente la trasferibilità del rischio e la sua dispersione tra una vastissima platea di
investitori.5 Al tempo stesso, ciò ha reso difficile conoscere
con sufficiente accuratezza dove esso si localizzi, poiché un
crescente numero di intermediari, ad esempio hedge funds,
non hanno obblighi informativi nei confronti delle autorità di
supervisione. Se per avventura o per disegno, il rischio si concentra in determinate aree, come è accaduto con i prestiti ipotecari subprime, sono da attendersi effetti sociali e soprattutto
sistemici.
Il § 5 di Sarcinelli (2008) è stato trasfuso nel § 3 del presente lavoro.
Su vantaggi e rischi dei derivati sul credito, quelli che hanno avuto il maggior
sviluppo negli ultimi tempi, si veda Portnoy and Skeel (2006); sul trasferimento di
rischio con CDO e sul rischio sistemico nell’industria bancaria si veda Krahnen
and Wilde (2006).
4
5
53
A questa difficoltà se ne aggiunge un’altra, quella di valutare nuovi strumenti per difetto di informazioni, incertezza su
quelle disponibili, inadeguatezza dei modelli matematici o
almeno insufficiente affidabilità dei medesimi al mutare delle
condizioni al contorno. Quando ciò accade, diventa difficile
“scoprire il prezzo” e la liquidità del prodotto scompare,
ponendo in crisi gli intermediari che detengono gli strumenti
innovativi. Si è avuta così una trasformazione nella finanza:
dal mark-to-market che si ha sul mercato regolamentato al
mark-to-model tipico delle transazioni OTC, cioè dalla realtà
osservabile, anche se mutevole, a quella forse più stabile della
costruzione matematica, ma dipendente, oltre che dalle ipotesi sottostanti, da input che un mercato in difficoltà non è più in
grado di dare (ECB December 2007, p. 14).
Nella crisi in corso il dito è spesso puntato, e con ragione, verso le agenzie di rating.6 Queste non soltanto sono portatrici del conflitto di interesse originale, quello dovuto al
pagamento dei loro servigi da parte di chi emette gli strumenti finanziari sul mercato, ma vi hanno aggiunto anche quello
dovuto alla manifattura di strumenti strutturati di credito. In
questo caso, vi è stato ricorso a modelli statistici per calcolare
le probabilità di insolvenza, ma i risultati si sono rivelati deboli poiché il periodo di osservazione era troppo breve e troppo
favorevole per permetterne un’estrapolazione, la correlazione
supposta bassa tra eventi di inadempienza aumenta fortemente quando la situazione finanziaria e quella economica peggiorano, l’assenza nella valutazione del rischio di liquidità non
permette di valutare se e in che misura vi sarà la possibilità sul
mercato di alienare lo strumento senza forti perdite e di poter
ricorrere al finanziamento. (Spaventa 2008a, pp. 8-9 datt.).
Una responsabilità particolare l’hanno i banchieri, poiché
costoro hanno sostituito il modello operativo originate-to-hold
6
Su questa tematica si veda Mason and Rosner (2007).
54
con quello originate-to-distribute; è questa un’innovazione
fondamentale che ha creato un ponte ulteriore, forse il più
pericoloso, tra la finanza e la banca, rendendo ancor meno
significativa l’antica divisione dei sistemi finanziari tra bankbased e market-based. Nel primo dei due modelli, la capacità
della banca di accumulare rischi nel proprio bilancio incontra
un limite nell’avversione al rischio del suo management o, più
realisticamente ai nostri giorni, nel capitale minimo che i
regolatori l’obbligano ad avere. Nel secondo, il limite è dato
dalla capacità del mercato globale di assorbire attività confezionate, valutate e commerciate over the counter, il che espone a rischi di volatilità e di liquidità al mutare delle condizioni.
A differenza del primo, il secondo modello genera un
feedback positivo che spinge a intensificare l’attività per guadagnare maggiori commissioni e soprattutto a costruire nuovi
prodotti sempre più strutturati, in grado quindi di produrre più
alti compensi. Tanto il rischio - si pensa con cinismo e si ripete con leggerezza - è trasferito altrove... In verità, anche se le
attività scompaiono dal bilancio bancario sopra la linea, spesso sono presenti sotto quest’ultima attraverso facilitazioni di
credito ai veicoli strutturati che hanno comprato le attività cartolarizzate. Anche quando non vi sono impegni espliciti, il
rischio reputazionale induce a sovvenire il veicolo che ha difficoltà a finanziarsi. Inoltre, restano e si cumulano nel conto
patrimoniale le equity tranches, quelle più rischiose perché
esposte per prime alle alee di insolvenza, e per necessità di
negoziazione altri titoli a minor rischio emessi dai suddetti
veicoli. Infine, sono rimasti sui libri contabili delle banche i
prestiti ponte destinati a operazioni di cartolarizzazione, non
realizzate per le mutate condizioni di mercato (ivi, pp. 9-10).
Anche nel settore bancario soggetto a vigilanza prudenziale,
l’informazione sulla distribuzione del rischio è stata carente;
dallo stillicidio di svalutazioni annunciate anche da colossi
come City Group o UBS sta emergendo la dimensione della
crisi. Secondo Standard and Poor’s si dovrebbe essere vicini
55
alla fine del processo, ma le istituzioni internazionali si mostrano prudenti e sembrano ritenere che la crisi costerà molto7 e
non sarà breve. Dal canto loro, le autorità monetarie stanno
moltiplicando gli sforzi e gli sportelli per rifornire il mercato di
liquidità; in aggiunta alle banche che raccolgono depositi, la
Fed ha ammesso al risconto i primary dealers, esteso la durata
delle operazioni di rifinanziamento, ampliato enormemente le
attività da vincolare a garanzia e creato la TAF (term auction
facility), il prestito in titoli per 200 miliardi di dollari (TSLF),
gli swap in dollari per permettere alle altre banche centrali di
intervenire in questa moneta.8 La crisi si è comunicata abbastanza presto al paese, la Gran Bretagna, che condivide maggiormente il modus operandi della finanza americana, ed ha
generato addirittura una corsa ai depositi come nei tempi andati...9 Pure la BCE ha fornito liquidità a piene mani e anche con
operazioni a tre mesi (nell’aprile 2008 a sei mesi), inizialmente criticate dal governatore della Bank of England come distorsive della struttura dei tassi di mercato.10
Come ha affermato Spaventa (2008b, p. 1), rispetto alle
precedenti «questa crisi ... ha natura più strutturale nelle cause
Il Fondo monetario internazionale ha stimato per il sistema economico in 565
miliardi di dollari le perdite potenziali dovute ai prestiti subprime; il totale sale a
945 miliardi di dollari se si aggiungono quelle di altri segmenti di mercato, come i
mutui con ipoteche su proprietà commerciali, i crediti derivanti da carte di credito,
ecc. (IMF April 2008a).
8
Per un sintetico richiamo alle facilitazioni di credito concesse dalla Fed si veda
Bernanke (2008). La TAF, gli swap con le banche centrali e i titoli stanziabili alle
aste TSLF sono stati ulteriormente ampliati con decisione del 2 maggio 2008.
9
Il Governo è dovuto intervenire con la promessa che garantiva tutti i depositi.
Nel Regno Unito si è avuto non solo il salvataggio e la successiva
nazionalizzazione della Northern Rock, ma anche lo swap, per un anno,
rinnovabile sino a tre, tra titoli forniti dal Tesoro contro obbligazioni derivanti da
cartolarizzazioni di mutui britannici, purché forniti del rating AAA (Bank of
England 2008).
10
Sul fronte del tasso di policy, la Banca centrale europea ha resistito a causa dei
prezzi in aumento, mentre dal picco precedente l’ha abbassato di 75 punti base la
Bank of England e di 325 la Fed, nonostante i segnali inflazionistici.
7
56
e nelle conseguenze». Tuttavia, non sembra che le determinanti fondamentali della crisi siano mutate: la febbre da speculazione e l’inosservanza di principi fondamentali nella condotta
finanziaria. La speculazione che attira masse crescenti di neofiti desiderosi di arricchirsi è quella al rialzo; più i prezzi delle
attività crescono, più famiglie si precipitano sul mercato per
approfittare della bonanza; fino a quando ciò accade, i prezzi
continueranno a salire e le aspettative si auto-realizzeranno.
Ad un certo punto, il meccanismo si inceppa, la realtà si impone sul sogno e il ciclo dei prezzi si inverte. Nel 2007 hanno
rappresentato un quarto del mercato ipotecario americano i
prestiti subprime contratti da famiglie meno abbienti, spinte
dall’aumento dei valori, dal teaser rate iniziale, dalla prospettiva allo spirare di quest’ultimo di rinegoziare il mutuo a condizioni favorevoli o, in mancanza, di realizzare il guadagno di
capitale vendendo la casa.
4. Un mercato unico per la finanza in Europa - È
tempo di guardare all’Europa e di richiamarne le grandi
tappe. Una singola area finanziaria è da tempo in corso di
costruzione nel nostro Continente. All’inizio negli anni ’60
i tentativi furono timidi, ma portarono comunque ad abolire
le restrizioni alla libertà di stabilimento e a quella di offerta
di servizi. Negli anni ’80 e ’90 vi furono l’Atto Unico e la
creazione dell’Unione Economica e Monetaria, di cui l’euro è il frutto più prestigioso. Nel 1999 la Commissione
Europea lanciò il Financial Services Action Plan e nel 2005
il White Paper on Financial Services Policy (2005-10), tra i
cui obiettivi al primo posto figura il consolidamento dinamico verso un “integrato, aperto, inclusivo, competitivo ed
economicamente efficiente mercato finanziario europeo”
(ivi, p. 4).
Com’era da attendersi, un mercato unico per i servizi
finanziari all’ingrosso è quasi completato; esso ha lo scopo
di permettere agli imprenditori di raccogliere fondi sull’intera area dell’UE e di permettere a investitori e intermedia57
ri di accedere a tutti i mercati da un unico punto di ingresso. Per converso, l’integrazione in altri segmenti, come
quello dei servizi finanziari al dettaglio, non è così avanzata; essa comporta non solo la rimozione delle barriere ai servizi finanziari transfrontalieri, ma la fornitura ai clienti al
dettaglio di informazioni e garanzie che permettano loro un
potenziale accesso ai servizi offerti nell’intera UE. Anche
questo risultato non sorprende, poiché minore è l’azione
della concorrenza estera su prassi, modelli e comportamenti che si sono stabiliti da tempo in un’area tra la banca e la
sua clientela. Tuttavia, un mercato non può dirsi veramente
unico se non riguarda, almeno potenzialmente, anche il consumatore, a prescindere dalla zona dell’Unione in cui egli
vive o lavora.
In linea di principio v’è oggi libertà di offerta di servizi
bancari e di apertura di filiali, grazie al mutuo riconoscimento
e al passaporto unico che sono a base della Seconda Direttiva.
Il principio che l’autorizzazione spetta all’home country ha
avuto un ruolo fondamentale nell’eliminare le restrizioni della
regolamentazione ai flussi transfrontalieri. L’intervento della
host country, che spesso si sovrappone al primo, dà a quest’ultima la possibilità di agire in un’ottica nazionale, soprattutto
nella difesa del consumatore e nelle regole di condotta per
emittenti e intermediari. Solo se l’una e le altre fossero altamente armonizzate a livello europeo sarebbe possibile eliminare ogni interferenza da parte del paese ospitante. Tuttavia,
spesso si sente ripetere da chi all’integrazione è piuttosto
“allergico” per una qualsiasi ragione che la banca e il servizio
bancario non sono assimilabili, ad esempio, all’industria automobilistica e ai suoi prodotti; la banca finanzia l’attività economica di una comunità, locale o nazionale, sicché se ci si
deve aprire all’ingresso di banche non regionali o straniere vi
deve essere reciprocità. Hanno fatto perno su questi concetti
gran parte delle polemiche che si sono avute in Italia dopo la
sparizione di un sistema bancario autoctono nel Mezzogiorno
e durante il periodo in cui si è tentato di sbarrare la strada alle
58
banche comunitarie desiderose di acquisire il controllo di consorelle italiane.
In verità, bisogna distinguere tra due diversi tipi di servizi bancari: transattivi e di relazione (Fundaciòn BBVA-CEPR
2005). I primi sono tipici dell’investment banking e si sono
sviluppati soprattutto negli Stati Uniti, i secondi afferiscono
alle relazioni tra prestatori e prenditori e fanno sorgere il quesito se la proprietà della banca non sia rilevante per l’insorgere e per il perpetuarsi di quelle relazioni. Il relationship
banking è ritenuto fondamentale non solo nell’opinione dei
banchieri ma anche in quella di molti accademici per il finanziamento di piccole e anche medie imprese. Empiricamente,
ne è stata provata l’esistenza in Germania, in Giappone, negli
stessi Stati Uniti; la sua caratteristica è che la banca tende a
realizzare il massimo profitto nel breve periodo dalla relazione e l’impresa è disposta a pagare un premio di assicurazione
implicito nelle condizioni dei periodi buoni per poter essere
sovvenuta in quelli difficili. Queste compensazioni richiedono
necessariamente impegni non scritti di fedeltà tra le due parti
e soprattutto una vicinanza fisica. Ecco perché l’acquisizione
di una banca locale da parte di un’altra ben più grande e con
direzione localizzata fuori della regione o addirittura del paese
solleva apprensioni e pulsioni protezionistiche: più una banca
è geograficamente articolata, più è strutturata nell’organizzazione, più è diversificata nella scheda dei prodotti offerti, maggiore è il suo orientamento a favore del transaction banking.
Un altro fattore che spinge a preferire la relazione con
una banca vicina rispetto ad una lontana è l’incompletezza dei
contratti e la necessità di rinegoziarli in tempi di crisi; una
banca lontana può non essere sensibile ai bisogni della zona e
una straniera potrebbe anteporre l’interesse dei propri azionisti a quelli di un lontano e piccolo cliente. Infine, il regolatore
nazionale può essere sensibile alle richieste delle political
constituencies, ovviamente locali. Le problematiche connesse
alla banca di relazione e alla sua proprietà finiscono, quindi,
59
col rendere più difficile l’azione della concorrenza in alcuni
segmenti dell’attività bancaria.
In un contesto di trasformazione del modello per l’attività
bancaria, diventa rilevante il concetto di banque universelle de
proximité che si trova nella letteratura francese (Pujals 2006),
con la quale una banca de detail arricchisce l’offerta alla propria clientela con servizi finanziari specializzati (ad esempio,
credito al consumo, gestione di portafoglio, assicurazioni). In
tal modo una grande banca cerca di conservare la caratteristica relazionale della tradizione, pur cercando di orientarsi alle
transazioni per ragioni organizzative o strutturali, per conseguire economie di scala, di scopo, di costo, ecc.
4.1. La definizione di integrazione e le ragioni che la
giustificano - L’integrazione è termine che va definito in
modo preciso per evitare che la molteplicità dei significati la
renda una parola “vuota”, buona per ogni discorso e priva di
contenuto operativo. Secondo la BCE, “un mercato per un
dato insieme di strumenti finanziari e/o di servizi può dirsi
integrato se tutti i suoi potenziali partecipanti devono affrontare un singolo insieme di norme, hanno ad esso uguale
accesso, sono trattati allo stesso modo quando sullo stesso
operano” (ECB, March 2007, p. 5). Come si vede, essa individua subito il limite più stringente che oggi incontriamo nell’integrazione europea: la pluralità degli ordinamenti e delle
regolamentazioni. Perciò, l’Europa che non è uno stato, né
una federazione, ma soltanto una costruzione per un federalismo progressivo può tendere al limite di un’integrazione perfetta, senza mai raggiungerla. Del resto, questa è ancora la
situazione degli Stati Uniti dove concorrono con quelle federali la legislazione e la regolamentazione dei singoli stati…
L’uguaglianza di accesso e di trattamento sono invece più
facili da assicurare e probabilmente oggi sono garantiti ad un
livello elevatissimo, anche per l’esistenza di un potere giudiziario cui si può ricorrere in caso di violazione di un proprio
diritto.
60
Tuttavia, val la pena di chiedersi: Abbiamo bisogno di
una maggiore integrazione? Ebbene sì, non solo per tener fede
a trattati liberamente sottoscritti, ma per cinque buone ragioni
(EBF 2007):
a) Perché la crescita economica dipende in modo cruciale da un sistema bancario e finanziario sano, efficiente, competitivo. L’obiettivo di lungo termine a questo riguardo, grazie
anche a Internet, dovrebbe essere un mercato competitivo e
flessibile in grado di offrire a ciascun cliente, risieda egli in
una città o in un villaggio, sia un imprenditore o un agricoltore, di beneficiare di una vasta offerta di servizi attraenti e
rispondenti alle proprie esigenze. Un sistema del genere è
anche sano se riesce ad evitare che i risparmiatori-investitori si
comportino come un gregge, se gli intermediari riducono al
minimo i conflitti di interesse, se l’asimmetria delle informazioni tende a scomparire.
b) Perché una maggiore efficienza in senso aziendale si
ottiene attraverso la riduzione unitaria dei costi di back office
e conseguendo economie di scala e di scopo nelle fasi di distribuzione e di “fabbricazione” dei prodotti. Ciò, ovviamente,
dipende in modo cruciale dalle dimensioni, ma la crescita di
queste ultime per linee esterne comporta anche costi organizzativi maggiori, perdita di specificità o addirittura di identità,
diseconomie spesso sottovalutate e in alcune aree anche riduzione della concorrenza.
c) Perché la concorrenza è spinta dal confronto sul mercato unico di diversi modelli operativi e gestionali, di differenti strutture societarie, di varie forme legali. Solo così possono
emergere accanto ai colossi con prodotti ampiamente collaudati le boutique di nicchia, con le loro specifiche forme organizzative e legali, con le best practice informative, operative e
gestionali. Alla condizione, tuttavia, che lo stesso tipo di attività vada incontro agli stessi rischi e sia governato dallo stesso tipo di regole.
61
d) Perché la concorrenza sul mercato globale che si sta
ampliando alle aree emergenti, come la Cina o l’India,
Singapore o Dubai, e ai loro aggressivi operatori richiede che
l’Europa e le sue componenti finanziarie facciano di tutto per
mantenere il proprio ruolo nel mondo. Questa dimensione
esterna della concorrenza richiede, anche se ciò può apparire
paradossale, che la regolamentazione varata dall’Unione
Europea venga applicata e resa cogente in tutto il suo territorio e in tutti i segmenti.
e) Perché all’efficienza aziendale e allocativa che sono
spinte dalla concorrenza devono accompagnarsi la regolamentazione e la supervisione, di cui nessun mercato finanziario
può fare a meno. Oggi meno che mai, poiché la globalizzazione dei mercati è in grado di diffondere l’instabilità dovuta a
cattive pratiche di un solo centro finanziario a molti o a tutti
gli altri ben più velocemente e più profondamente che in passato.11 La liberalizzazione e la globalizzazione hanno fatto
molto per favorire il benessere e per allargare la crescita a
paesi afflitti dal sottosviluppo, ma hanno anche ampliato a
dismisura le possibilità di contagio. Ne discende che vi è un
obbligo per ciascun paese di avere una regolamentazione e una
supervisione finanziaria in grado di evitare e di non diffondere i semi dell’instabilità. Non va mai dimenticato che liberalizzazione e globalizzazione sono fenomeni reversibili, come la
storia del ‘900 insegna, e che il free riding non paga nel lungo
termine…
4.2. Come misurare l’integrazione in Europa - Prima
di tutto va chiarito che il processo non è promosso soltanto
dalle politiche dell’UE e dall’introduzione dell’euro, ma
anche dalla globalizzazione che ha investito tutte le attività
11
Dubbi sui benefici della globalizzazione finanziaria sono stati espressi di recente
da Rodrick and Subramanian (2008) e in precedenza da Rajan (2005).
62
economiche e in particolare la finanza, dagli sviluppi tecnologici nel campo della TIC e dell’elaborazione dei dati, dall’innovazione finanziaria.12 Inoltre, la diversa velocità con cui gli
stati membri si adeguano alle direttive comunitarie, la progressiva estensione dell’euro e quella dei confini dell’Unione rendono il panorama differenziato geograficamente ogni qual
volta lo si osserva.
Nel valutare il grado di integrazione, si può fare ricorso a
tecniche qualitative come l’esame degli ostacoli istituzionali o
legali alle attività finanziarie transfrontaliere; questo approccio è stato seguito dalla Commissione Europea proprio per
individuare i paesi ritardatari e stimolarli ad adeguarsi alla
legislazione comunitaria, la quale è stata a sua volta promossa
proprio dalla diversità degli ordinamenti negli stati membri.
Se si opta per una metodologia quantitativa, si aprono due
strade: la prima è quella di accertare se i prezzi di servizi
finanziari comparabili hanno avuto tendenza a convergere per
effetto dell’arbitraggio e della competizione; se il prezzo è
identico l’obiettivo dell’integrazione è stato raggiunto (one
price law). Un altro metodo è quello di osservare se e in quale
misura si sviluppano transazioni transfrontaliere nei segmenti
che interessano.
La BCE li ha adottati entrambi (ECB March 2007).
Guardando ai singoli mercati, essa ha affermato che il mercato monetario non garantito raggiunse uno stato di integrazione quasi perfetta subito dopo l’introduzione dell’euro;
infatti, la deviazione standard dei tassi EONIA nei paesi
membri per i prestatori cadde sostanzialmente a zero e tale
è rimasta stabilmente. Usando la stessa metodologia, anche
i pronti contro termine, sempre in termini di prezzo, si rive-
12
Sul ruolo dei mercati finanziari e su quello dell’innovazione in Europa si veda
Hartmann et al. (2007).
63
larono altamente integrati grazie alla connessione dei mercati con i LVPS (Large-Volume Payments Systems), in particolare TARGET. I mercati per i debiti pubblici divennero
fortemente integrati nella fase di preparazione per l’adozione dell’euro. Fece seguito il mercato delle obbligazioni
societarie, soprattutto dopo l’arrivo dell’euro. Progressi si
sono registrati anche nei mercati azionari dell’eurozona,
dove si nota che i rendimenti sono sempre più determinati
da fattori specifici di quest’ultima. Tuttavia, lamenta la
banca centrale, l’infrastruttura necessaria al funzionamento
dei mercati obbligazionari e azionari è ancora frammentata
ed offre nuove opportunità di integrazione. Ciò spiega la
decisione della BCE e dell’Unione di lanciare il progetto
TARGET2-Securities.
Con riferimento al mercato bancario, la BCE riconosce
che le operazioni di fusione o acquisizione transfrontaliera
sono il principale strumento per entrare sul mercato e acquisire rapidamente importanza e visibilità; esse sono sì rimesse
alla piena autonomia di azionisti e manager, ma il processo
può essere fortemente favorito dalla mano pubblica attraverso
un adeguato, non discriminatorio quadro giuridico relativamente alla regolazione, alla supervisione e alla fiscalità. In
Europa non si è avuta la corsa a fusioni e acquisizioni determinatasi negli Stati Uniti con l’abolizione delle restrizioni nel
1994 e nel 1999. Infatti, nel periodo 2000-04, le operazioni di
M&A transfrontaliere nell’eurozona hanno rappresentato solo
il 14% di quelle totali, poiché il consolidamento ebbe come
determinante principale il rafforzamento sul mercato interno.
Nel 2005-06, il valore delle operazioni transfrontaliere è balzato sul totale al 38% grazie ad operazioni, come quella di
Unicredit-HVB (13,3 miliardi di dollari) di grande peso, ma il
loro numero è caduto. L’acquisizione di Abn-Amro Bank,
invece, da parte di RBS, Santander e Fortis, rivelatasi per l’aspra contesa particolarmente costosa, ha portato allo smembramento della preda e al passaggio di Banca Antonveneta, già
oggetto di battaglie “cruente” tra banche italiane, al Santander
64
e da questi venduta in brevissimo tempo al Monte dei Paschi.13
Volendo scattare una fotografia, al 2005 vi erano 33 gruppi
nell’eurozona con attivi consolidati pari al 53% del totale delle
attività bancarie. Di questi gruppi 16 erano attivi in almeno la
metà dei paesi della stessa area e ne rappresentavano il 38,7%
in termini di totale dell’attivo. Secondo la rilevazione informale delle 100 maggiori banche europee condotto nel 2005 dal
Comitato per la supervisione bancaria dell’ESCB vi era ancora un forte interesse per l’espansione transfrontaliera, ma l’eccesso di capitale esistente in quell’anno potrebbe essersi ridotto di molto e la carenza di liquidità che ancora persiste relegano in un incerto futuro simili propositi.
4.3. L’attività bancaria al dettaglio e il basso grado di
integrazione nell’eurozona - La BCE sembra rammaricarsi
che l’integrazione al livello retail sia ancora insufficiente e
augurarsi che l’avvento della SEPA (Single Euro Payments
Area),14 promossa dalla Federazione bancaria europea possa
spingerlo a innalzarlo. L’integrazione di mercato, tuttavia, non
deve essere riguardata come un fine in sé, poiché l’obiettivo
finale di un mercato unico è quello di migliorare l’accesso ai
servizi finanziari e può non richiedere o non condurre necessariamente a un alto grado di integrazione (Fundaciòn BBVACEPR 2005). Ciò che va eliminato sono le barriere artificiali
all’ingresso o al commercio, soprattutto la regolamentazione
differenziale. Infatti, in alcune aree, tra cui il retail banking, il
livello “naturale” di integrazione può essere piuttosto basso,
come dimostra la sopravvivenza negli Stati Uniti del 95% di
banche piccole sul numero totale. Infatti, banche piccole e
locali hanno o possono avere vantaggi informativi nei confronti di consorelle maggiori; sull’argomento esiste una vasta
La corsa allo spin off si è avuta non solo a Wall Stret nei primi mesi di
quest’anno, ma anche in Europa, spesso per la pressione dei fondi “attivisti” (Il
Sole-24 Ore, 3 aprile 2008, p. 37 e p. 41).
14
Sui vantaggi che la SEPA apporterà all’economia italiana e a quella europea si
veda Saccomanni (2007).
13
65
letteratura soprattutto per gli Stati Uniti (ad es., DeYoung,
Hunter and Udell 2003) e per l’Italia (ad es., Bonaccorsi di
Patti, Eramo and Gobbi 2005).
A questo riguardo, vale la pena di riportare con qualche
dettaglio un paio di recenti studi empirici, uno relativo al
Belgio (Degryse, Laeven and Ongena 2007) e l’altro all’Italia
(Bongini, Di Battista and Zavarrone 2006). I ricercatori belgi
partono dalla considerazione che la struttura organizzativa di
una banca è il riflesso della sua tecnologia nell’attività di prestito. Ne segue che una banca con una struttura gerarchica ben
sviluppata nel concedere credito si baserà su hard information
(dati di bilancio, ecc.), mentre una banca decentralizzata farà
uso di soft information (rapporti di sostanziale correttezza,
ecc.). Il modello teorico dei nostri autori illustra come l’organizzazione della banca che dà credito e quelle dei suoi concorrenti determinino sia la copertura geografica sia la strategia di
prezzo di chi concede il prestito. Per la stima del modello si
avvalgono di informazioni dettagliate contenute nei contratti
di oltre 15.000 prestiti bancari erogati da una banca a piccole
imprese, costituenti l’intero portafoglio prestiti della concedente, e di quelle relative alla struttura organizzativa di tutte le
banche concorrenti presenti nelle vicinanze del prenditore. E
trovano conferma dell’ipotesi che le strutture organizzative
delle banche concorrenti come di quella che ha concesso il
prestito sono rilevanti per il raggio di copertura della filiale e
per il prezzo applicato al credito.
L’ambito geografico della banca che fa il prestito risulta
più piccolo quando le banche concorrenti sono grandi e gerarchicamente organizzate, ma tende ad aumentare quando queste ultime usano una tecnologia di comunicazioni inferiore,
hanno una più ampia “maglia” organizzativa, sono più lontane
da un’unità con capacità decisionali in tema di credito.
Tendono a ridurre il prezzo la dimensione delle banche rivali
e il numero di stadi che una proposta deve superare per diventare decisione. Ciò che interessa rilevare in questo studio
66
molto articolato è il diverso tipo di informazioni che una grande banca gerarchizzata e una piccola decentralizzata richiedono per la concessione del credito e il grado di concorrenza spaziale che tra esse si instaura.
In Italia l’evidenza empirica è che le piccole banche non
solo sopravvivono (Banca d’Italia 2005 e 2004), ma crescono
anche ad un tasso maggiore delle concorrenti più grandi,
ampliando la propria quota di mercato a danno di queste ultime e mantenendo un’alta redditività.15 Il citato studio della
Bonaccorsi et al. (2005) ipotizza che la crescita dei prestiti
delle piccole banche potrebbe essere dovuta a diseconomie
organizzative presso le grandi banche a causa delle ristrutturazioni conseguenti a operazioni di M&A e all’introduzione di
più avanzate tecniche di gestione del rischio, stimolata dalle
previste riduzioni di capitale derivanti da Basilea II. Se questa
soltanto fosse la spiegazione, i vantaggi per le piccole banche
scomparirebbero non appena le grandi avessero superato questa fase transitoria di assestamento.
Secondo Bongini, Di Battista and Zavarrone (2006), è
possibile per “i Davide avere successo in un mondo di Golia”.
Il primo stadio della loro ricerca è quello di distinguere le
minori banche in tre gruppi (piccole cooperative, piccole banche controllate da gruppi, piccole banche indipendenti) e di
stabilire per ciascuno di essi l’importanza di elaborare e utilizzare soft information. Nel secondo stadio, la relazione tra crescita dei prestiti, redditività e rischio di credito è investigata;
la conclusione raggiunta sulla base di metodologie non parametriche è che il gruppo delle piccole banche non è omogeneo: la crescita per le migliori è dovuta a fattori strutturali
La Banca d’Italia (2006 p. 191) rileva che la crescita dei prestiti delle banche di
maggiori dimensioni si è allineata a quella delle banche piccole e minori, avendo
le prime superato gran parte delle difficoltà create dai processi di riorganizzazione
aziendale.
15
67
(capacità di sfruttare il proprio localismo, operatività di tipo
relazionale, ecc.). Con l’uso di una matrice strategica lo studio
individua quali piccole banche hanno un valido modello di
business e determina nel 44% quelle in grado di prosperare
anche quando le difficoltà per le grandi dovessero scomparire.
Purché il desiderio delle piccole banche di ottenere gli stessi
vantaggi delle grandi in termini di capitale non le spinga a
ricorrere ai criteri hard di queste ultime per valutare il merito
di credito e non crei, perciò, seri problemi al finanziamento
delle piccole imprese, almeno nella fase iniziale...(Sarcinelli
2003a, pp. 41-42).16
5. La riforma della regolamentazione finanziaria negli
Stati Uniti – Il Department of Treasury (2008) ha pubblicato
un corposo rapporto, o blueprint, in cui sono state esposte le
linee per la riforma della regolamentazione finanziaria e ne
viene suddivisa la realizzazione nel breve, nel medio e nel
lungo termine. Nell’illustrare il documento, il Segretario al
Tesoro Paulson riconosce che l’attuale sistema è il risultato di
decisioni del passato che non tengono affatto conto dell’enorme evoluzione cui il sistema finanziario è andato incontro;
manca perciò un chiaro disegno nell’allocazione di compiti e
responsabilità e viene di fatto favorito l’arbitraggio regolamentare. Il futuro, invece, dovrebbe vedere assegnato il perseguimento di una finalità a una singola agenzia con chiara individuazione delle responsabilità. È stato questo il criterio organizzativo prevalente nel mondo occidentale sino a quando non
si è venuto affermando il principio del regolatore unico.17
Negli Stati Uniti il modello resta aspirational, da raggiungere
Comunque, per la sopravvivenza delle piccole banche può sempre risultare utile
l’esalogo di Pastré (2001): a) evitare i rami di attività dove predominano le
economie di scala; b) specializzarsi; c) restare flessibili; d) evitare di prendere
troppi rischi; e) sviluppare reti bancarie; f) prezzare correttamente il rischio.
17
Per uno sguardo panoramico alle problematiche della vigilanza sul sistema
finanziario si veda Sarcinelli (2004a).
16
68
quindi dopo molti anni e da usare come faro nella lunga opera
di ammodernamento.
Il blueprint prevede un regolatore per la stabilità del mercato; ne sarebbe affidata la responsabilità alla Fed, in aggiunta a
quelle di gestire la politica monetaria e di provvedere liquidità al
sistema. La competenza della Fed si estenderebbe all’intero
sistema finanziario e dovrebbe avere come obiettivo non la condizione di salute della singola istituzione, ma le prassi operative
di un intermediario o di un’industria in grado di mettere in pericolo la stabilità del sistema. Per la regolamentazione prudenziale è prevista la fusione di tutte le esistenti agenzie federali in una
sola, che dovrebbe avere competenza anche sulle assicurazioni,
sino ad oggi ignorate dalla legislazione federale. Potrebbe ereditare questo compito l’Office of the Comptroller of the Currency.
Il regolatore per la condotta degli affari deve preoccuparsi della
protezione del consumatore-risparmiatore e riunirebbe le competenze della Commodity Futures Trading Commission (CFTC),
della Security and Exchange Commission (SEC) e le funzioni di
protezione della parte debole e di enforcement oggi disperse tra
i vari regolatori bancari e assicurativi.
A questa visione per il lungo termine si aggiungono delle
misure nel breve che, a dire il vero, aumentano il numero degli
enti con qualche ruolo nella regolamentazione finanziaria.
Infatti, viene menzionato il Working Group on Financial
Markets del Presidente Bush per coordinare l’azione dei
disparati enti che oggi hanno una qualche responsabilità nel
campo; nell’immediato dovrà accertare se il governo ha tutti
gli strumenti e i poteri per gestire una crisi finanziaria... Per
evitare che possa ripresentarsi una crisi del mercato ipotecario
come quella che si sta vivendo, ai regolatori statali responsabili per le prassi di originazione dei mutui si sovrapporrà un’agenzia federale, la Mortgage Origination Commission col
compito di stabilire standard minimi per l’operatività e per la
revoca della licenza, nonché di esercitare una supervisione sui
regolatori statali.
69
Per il medio termine sono in agenda: a) la creazione di
uno statuto (charter) federale per tutti i sistemi di pagamento e regolamento di importanza sistemica la cui supervisione è da attribuire alla Fed, nonché uno, opzionale, per
le assicurazioni; b) la revoca della Federal Thrift Charter
con soppressione dell’Office of Thrift Supervision; c) la
fusione tra la SEC, responsabile per i titoli, e la CFTC, con
competenza sui derivati, da realizzare attraverso un certo
numero di stadi e un approccio evolutivo in grado di preservare le migliori prassi di entrambe le agenzie. La cautela
con la quale ne viene prospettata la fusione è indice delle
difficoltà che l’intero processo incontrerà nel Congresso,
dove ogni ente federale ha i propri difensori, e nella pubblica opinione, che annovera economisti come Krugman
(2008) critici del mero rimescolamento dell’organigramma
regolatorio.
6. I crucci dell’Europa nella supervisione finanziaria A differenza della regolamentazione che si origina unitariamente a Bruxelles e ancor prima a Basilea, la supervisione è
ancora dispersa a livello nazionale. Al di là delle possibili,
diverse interpretazioni che a singole disposizioni un’autorità
nazionale può dare, talvolta con intendimenti protezionistici,
v’è il problema crescente degli intermediari transfrontalieri
costretti a dare informazioni ad una o più autorità in ciascuno
dei paesi in cui operano. D’altro canto, le stesse autorità sono
costrette a un coordinamento e a uno scambio di informazioni, spesso defatigante. Su questa tematica abbondano proposte
e suggerimenti.
La Banca centrale europea (ECB March 2007, p. 41) raccomanda la costituzione di meccanismi per la cooperazione tra
paesi home e host aventi come oggetto uno specifico gruppo,
una semplificazione degli obblighi di segnalazione periodica,
lo sviluppo di una comune cultura della supervisione, il ricorso a nuovi strumenti, come la delega e la mediazione, per facilitare la convergenza e la cooperazione nella supervisione.
70
La stessa Federazione bancaria europea (EBF December
2007, pp. 39-43) ha posto tra le otto sfide18 fondamentali quella di rendere veramente operante la supervisione prudenziale
consolidata. Essa trae origine dalla constatazione che le strutture di supervisione e la regolamentazione restano in gran
parte segmentate e orientate su base nazionale, mentre le banche operano in concorrenza su più vaste aree ed hanno basi
operative che spesso coprono più di un paese. Tra le evoluzioni positive al riguardo sono da segnalare l’estensione del processo Lamfalussy al settore bancario che ha indotto a cooperare le autorità di vigilanza e regolamentazione finanziaria dei
singoli stati e l’art. 129 della Direttiva sul capitale minimo che
ha riconosciuto la necessità di dare rilievo alla crescente attività bancaria transfrontaliera, attribuendo al supervisore principale, quello del paese dove la capogruppo ha la sede legale,
la responsabilità di valutare i sistemi di misurazione interna
del rischio anche per le filiazioni estere.
A quest’ultimo riguardo, non sono pochi i problemi riguardanti le modalità e i poteri con i quali può agire il supervisore
responsabile del consolidamento. L’attenzione delle autorità è
attirata dalla FBE sulla necessità, da un lato, di una valutazione di come funziona di fatto la vigilanza consolidata, dall’altro, di una riflessione sull’ulteriore evoluzione dell’architettura di supervisione nello spazio europeo e delle modalità in cui
potrà o dovrà realizzarsi. Su questo secondo tema, particolar-
Le sfide fondamentali per la FBE sono le seguenti: a) rimuovere le barriere al
consolidamento bancario attraverso le frontiere; b) avanzare verso un mercato al
dettaglio integrato a livello europeo; c) conseguire un campo da gioco livellato tra
differenti partecipanti al mercato; d) rendere veramente operante la supervisione
prudenziale consolidata; e) attuare felicemente la SEPA; f) riformare il trattamento
VAT dei servizi finanziari; g) gestire adeguatamente l’IFRS; h) intensificare la
cooperazione internazionale, ad esempio con gli USA. Si tratta di obiettivi, con
l’eccezione di quest’ultimo, che si inseriscono perfettamente nel quadro di una
crescente integrazione europea attraverso la parità di accesso, quella di trattamento
e l’unificazione di alcuni segmenti dell’assetto normativo primario e secondario.
18
71
mente sensibile per il settore, la FBE ha promesso un’approfondita riflessione per la primavera del 2008.19
Il più recente e il più autorevole contributo alle problematiche della supervisione, nel quadro ben più ampio della sua
responsabilità istituzionale, l’ha fornito il Financial Stability
Forum, in occasione della riunione primaverile dei ministri
finanziari del G7, a Washington. Fondato nel 1999 lo FSF è
oggi presieduto dal governatore della Banca d’Italia, Draghi,
che avvalendosi anche del lavoro svolto in altre sedi ha pubblicato un sostanzioso rapporto (Financial Stability Forum,
April 2008). La sua attenzione si è rivolta innanzitutto al
rafforzamento: a) della supervisione prudenziale su capitale,
liquidità e gestione del rischio da parte delle banche; b) della
trasparenza e della valutazione di attività quali i prodotti strutturati e di entità fuori bilancio; c) della capacità delle autorità
di tradurre l’analisi del rischio in azione. Altre raccomandazioni hanno riguardato: d) i mutamenti necessari nella formulazione e nell’utilizzazione dei credit rating; e) le intese,
necessariamente robuste, tra le autorità per gestire il sistema
finanziario in condizioni di stress. Si tratta di suggerimenti
molto validi che richiedono la convinta collaborazione di
molti attori e un tempo non breve per riorientare prassi e comportamenti; alle autorità ovviamente spetta il compito di promuoverne l’attuazione e la responsabilità di vigilare che alle
parole e alle promesse seguano fatti.
6.1. Gli interventi dei ministri - Sulle problematiche
europee della supervisione, il Ministro dell’economia e delle
finanze, Padoa-Schioppa, ha inviato una lettera il 26 novembre
È probabile che la FBE insista sull’eliminazione di ogni opzione e
discrezionalità nazionale nella direttiva sugli obblighi di capitale,
sull’elaborazione di una comune struttura per le segnalazioni di vigilanza e sulla
previsione nell’ambito della stessa direttiva dei collegi di supervisione per gli
intermediari con operatività transfrontaliera.
19
72
2007 al Presidente del Consiglio Ecofin, Teixera dos Santos,
in cui prendendo spunto dall’esame che quel Consiglio è tenuto a fare a sette anni dal Rapporto Lamfalussy sull’adeguatezza del sistema di regolamentazione e vigilanza europeo, così
esordisce: “La mia valutazione, fondata sull’esperienza di
molti anni e sull’osservazione dei fatti, è che nuovi passi sono
ormai necessari e urgenti e che essi possono essere compiuti
sulla base del trattato vigente”.
Se principi comuni sono stati sviluppati - egli osserva -,
la convergenza nelle prassi rimane limitata, sicché una banca
operante in una molteplicità di paesi è soggetta ad altrettanti
obblighi di segnalazione alle autorità competenti e a una pluralità di obblighi per il capitale minimo. La comunicazione e
la collaborazione tra autorità nazionali è affidata a una ragnatela di accordi bilaterali complessa, onerosa e lenta in caso di
crisi. In più, la concorrenza tra ordinamenti spinge le lobbies
a premere perché, anche nel quadro della regolamentazione
europea, si creino preferenze e vantaggi per questa o quella
piazza, per questo o quel tipo di intermediario.
Secondo il Ministro, si dovrebbe puntare a due obiettivi:
“un single European rule book, con regole e standard di vigilanza che assicurino piena uguaglianza di trattamento su tutto
il mercato unico e risparmi di costi per le istituzioni finanziarie; una vigilanza integrata dei gruppi transnazionali attraverso la piena condivisione delle informazioni e il rafforzamento
delle funzioni del collegio dei supervisori nonché, al suo interno, del ruolo del coordinatore (lead supervisor)”.
Dopo avere indicato i passi da fare per rendere operative
le sue proposte, Padoa Schioppa sottolinea che per conseguirli sono sufficienti un forte impulso politico e modeste variazioni alla legislazione comunitaria, poiché i poteri delle autorità nazionali non verrebbero in fondo compromessi, ma si
aumenterebbero lo scambio di informazioni e il grado di consultazione.
73
Qualche dubbio è lecito a un non esperto di legislazione
comunitaria circa la possibilità di conferire ai comitati di terzo
livello uno status di agenzie o quasi-agenzie con possibilità di
prendere decisioni vincolanti a maggioranza, ma l’interpretazione è la madre di ogni compromesso politico al quale il diritto finisce spesso con l’acconciarsi…
Nella riunione del 4 dicembre vi furono obiezioni, soprattutto da parte dei britannici, ma l’iniziativa italiana ha fatto da
battistrada ad altre. Il primo ministro ungherese, Gyurcsany, si
è spinto molto più in là di Padoa Schioppa. Ha proposto che
siano adottate “misure preparatorie per la creazione di una
nuova struttura … in Europa, …. l’Istituto europeo di supervisione finanziaria. … strumentale per la creazione di
un’Autorità in Europa per l’uniforme supervisione finanziaria
… alla data più vicina possibile.” Va tenuto presente che il
sistema bancario ungherese è per l’82% in mano a banche che
hanno la sede centrale fuori del paese...
Le turbolenze finanziarie che, come si è già detto, non
hanno risparmiato il Regno Unito hanno spinto il Cancelliere
dello Scacchiere, Darling, a scrivere al presidente sloveno
dell’Ecofin proponendo la costituzione di collegi di supervisione20 per le imprese finanziarie transnazionali, indipendentemente dal settore in cui operano (bancario, assicurativo, ecc.),
la creazione di gruppi per la stabilità transnazionale e la necessità di rivedere le esistenti disposizioni sulla garanzia dei
depositi. A quest’ultimo riguardo, dopo la poco brillante figura delle autorità britanniche nella gestione della crisi della
Northern Rock era il meno che ci si potesse attendere…
Su questa misura è pienamente d’accordo la FBE, che propone anche il
rafforzamento del ruolo del CEBS (Committee of European Banking Supervisors)
e l’impegno dei supervisori a dare attuazione alle raccomandazioni di
quest’ultimo (lettera indirizzata al ministro sloveno per l’Ecofin informale del 4-5
aprile 2008).
20
74
Personalmente sono stato convinto sin dalla ratifica del
Trattato di Maastricht (Sarcinelli 1992b) che la vigilanza non
poteva rimanere prerogativa assoluta degli stati membri dopo
che la moneta fosse diventata unica per l’Europa comunitaria.
Sull’argomento sono ritornato più volte sia con articoli di
giornale sui limiti del processo Lamfalussy, sia con saggi sull’organizzazione di una regolamentazione e di una supervisione finanziaria nell’Unione Europea (Sarcinelli Prefazione a
Carozzi 2007, 2004b, 2002a e 2002b). Confesso di avere un
interesse… personale, sia pure di tipo scientifico, professionale nel vedere accolte le tesi di Gyurcsany, ma mi contenterei
nell’immediato che fosse dato seguito alle proposte di PadoaSchioppa e di Darling.
7. Conclusioni - Più che conclusioni vorrei offrire un
esame di coscienza, una agostiniana confessionem. Ho risposto al tema che mi sono proposto di illustrare? Non nascondo
di avere difficoltà, nonostante la vastità del quadro che ho tracciato di qua e di là dell’Atlantico, a dire sì e altrettanta resistenza a dire no. La ragione di fondo è che siamo nel bel
mezzo di una crisi che ha inequivocabili origini finanziarie e
che sta facendo sentire i suoi effetti sul settore reale. Le autorità monetarie sia americane sia europee e giapponesi sono
corse al soccorso dei mercati attraverso iniezioni di liquidità
inusitate; al di là dell’Oceano e della Manica si sono ridotti
anche i tassi guida, ma la struttura dei saggi a breve continua
ad essere perturbata. Le autorità di supervisione stanno concentrando l’attenzione sui piani di liquidità degli intermediari,
mentre si cerca di individuare i “colpevoli” di questa crisi, dal
modello originate-to-distribute alle cartolarizzazioni gratificate, limitatamente ad una tranche, con la tripla A, alla finanza
strutturata posta fuori del perimetro di consolidamento e affidata più ai modelli che ai mercati.
È innegabile che tra i principi fondamentali la cui violazione è concausa della crisi, a mio avviso, vi sono il disallineamento delle scadenze nei SIV tra attivi cartolarizzati e quindi a
75
lungo termine e passivi costituiti da commercial paper di vario
tipo ma a breve scadenza; quando questo mercato si è inaridito
per mancanza di liquidità e di fiducia nelle controparti, le perdite dei conduit e il loro finanziamento sono ricaduti sulle banche che li avevano promossi. Un’altra violazione molto seria
concerne il consolidamento dei bilanci: i SIV erano fuori dal
perimetro, ma non della responsabilità, sia pure per motivi
reputazionali, delle banche. Le garanzie esplicite o implicite da
esse date sono state invocate al manifestarsi della crisi di liquidità, con conseguenze sulla dimensione dei loro bilanci, sui
fabbisogni di tesoreria, sui requisiti di capitale e, come insegnano il caso Bear Stearns in America e quelli IKB e Sachsen
Landesbank in Germania, anche sulla loro solvibilità. Le perdite continuano a colpire i bilanci di istituzioni di grande tradizione sulle due sponde dell’Atlantico, rovinando la fama dei
loro manager, ma non necessariamente le loro liquidazioni...21
Il FMI (April 2008a) ha stimato nel Global Financial
Stability Report le perdite potenziali a molte centinaia di
miliardi di dollari. Inevitabili sono le sue ripercussioni sul
fronte reale. La stessa istituzione (April 2008b) avverte nel
World Economic Outlook che l’espansione economica sta perdendo velocità in presenza di una grossa crisi finanziaria,
soprattutto negli Stati Uniti e in Europa.22 Allo stesso tempo,
La previsione di alcuni analisti di J.P. Morgan (2008) è che l’attuale crisi
finanziaria, dovuta all’eccesso di rischio incorso nel credito per le abitazioni,
nell’uso della leva finanziaria e nella trasformazione delle scadenze, influirà sulla
struttura del mercato e sui prezzi almeno per i prossimi dieci anni, la zona di crisi
sarà caratterizzata da minor ricorso alla cartolarizzazione e i CDO saranno limitati
ai crediti alle imprese.
22
Secondo il Regional Economic Outlook (IMF April 2008c), i paesi sviluppati del
nostro continente hanno dimostrato sinora una buona resilienza, attestata ad
esempio dalla forte crescita del credito, ma sono aumentate, sia pure meno che
negli Stati Uniti, le stime basate su dati di mercato delle attese di default per le
banche; infine, aggravandosi la crisi al di là dell’Atlantico, questa non potrà in
Europa non riverberarsi su altre forme di debito e sulle assicurazioni contro il
rischio di insolvenza, allargarsi ai sistemi bancari dell’Est europeo, peggiorare
ulteriormente le prospettive di crescita dell’economia.
21
76
l’inflazione ha rialzato la testa in tutto il mondo, soprattutto
nei paesi emergenti dove la congiuntura produttiva si mantiene ancora buona, e l’aumento dei prezzi alimentari ha portato
a disordini in molti paesi. Nonostante il rallentamento della
crescita, le materie prime e soprattutto quelle energetiche
hanno continuato a salire, anche per ragioni finanziarie; le
commodities sono diventate una nuova classe di attività su cui
si è riversata la speculazione. La riduzione della leva finanziaria sta interessando sia il canale bancario del credito sia quello non bancario; in America come in Europa si sta avendo un
credit squeeze attraverso un innalzamento degli standard,
anche se non un credit crunch, almeno per il momento...
Guardiamo ai problemi senza farci troppo condizionare
dalla situazione odierna. Da una parte, le famiglie sono diventate con la privatizzazione di buona parte del risparmio pensionistico sia in America sia in Europa arbitri nella scelta degli
investimenti o almeno dei gestori delle risorse che serviranno
a finanziare i consumi quando non si sarà più in grado di lavorare. Dall’altra, nonostante la globalizzazione, i mercati finanziari continuano a essere soggetti a crisi, dovute qualche anno
fa alle dot.com e oggi ai prestiti subprime, in grado di compromettere il benessere attuale e futuro delle famiglie risparmiatrici. Anzi, queste crisi sembrano essere diventate più frequenti, anche se le loro conseguenze sono state piuttosto moderate,
almeno sino all’episodio che stiamo vivendo.
Il mercato, sulle cui spontanee forze si fa talvolta troppo
affidamento per la sua autoregolamentazione, continua a
dimostrare di essere una costruzione umana, quindi fallibile;
la sua capacità nel permettere agli agenti economici coordinamento e previsione è talvolta oscurata da comportamenti degli
operatori simili a quelli di un gregge, finendo col dare segnali
errati. Nel campo finanziario, oggi caratterizzato da crescente
innovazione, l’informazione asimmetrica tra chi vende un
nuovo strumento, sia esso un titolo strutturato o un derivato, e
chi lo compra può raggiungere livelli elevati; né si può esclu77
dere che in qualche raro caso l’informazione sia assente su
ambo i lati della transazione… Sempre più si fa assegnamento sull’educazione al rischio dei risparmiatori-investitori, ma
in attesa che questa sia in grado di riequilibrare i rapporti tra
coloro che offrono al dettaglio mutui, titoli o prodotti più sofisticati e le famiglie che li domandano v’è spazio per misure di
protezione del consumatore. Così ai fallimenti del mercato e
alla protezione del contraente debole o non in grado di comprendere gli arcani della finanza moderna deve cercare di
porre riparo lo stato, attraverso la regolamentazione e la supervisione. L’integrità dell’infrastruttura finanziaria, in particolare dei sistemi di pagamento, e la protezione dei consumatoririsparmiatori divengono obiettivi di public policy.
Accanto ad una politica congiunturale volta da un lato a
evitare che la mancanza di liquidità provochi fallimenti a catena e inneschi una spirale deflativa e dall’altra, almeno in
America, a cercare di rivitalizzare i consumi con rimborsi
fiscali alle famiglie e agevolazioni alle imprese, si impongono
misure strutturali nel campo della regolazione e della supervisione bancaria. D’accordo che non bisogna buttare il bambino
con l’acqua sporca, ma non si può nemmeno abbandonare le
vedove e gli orfani di un tempo e i pensionati di oggi e di
domani alle ricorrenti procelle dei mercati. Il pendolo si
moverà necessariamente nel senso della regolamentazione e
della supervisione. Dove si fermerà in America? Basterà il
riordino della vigilanza sulla base dell’obiettivo da perseguire
o si tornerà come nell’epoca roosveltiana a qualche linea di
demarcazione tra banca e finanza? Molto dipenderà dalla gravità della recessione che si sta materializzando e dagli equilibri politici che emergeranno dalle elezioni del prossimo
novembre.
La crisi che stiamo attraversando sarà di lezione ai
banchieri desiderosi di apparire al vertice delle classifiche e di
aumentare ogni anno utili per l’impresa e bonus per sé? Nel
breve periodo certamente sì. In quello più lungo la finanza
78
sarà per essi sempre un’attrazione fatale, dalla quale la cura
del territorio potrà in qualche misura immunizzarli.
Comunque, è doveroso ricordare con Seneca: Quantum possumus nos a lubrico recedamus; in sicco quoque parum fortiter stamus. (Per quanto è possibile, ritiriamoci dai luoghi
sdrucciolevoli; anche sull’asciutto a mala pena stiamo dritti).
79
Biografia
Banchiere ed economista, si è laureato in giurisprudenza presso l’Università di
Pavia. Vincitore della Borsa Stringher, ha perfezionato i propri studi di economia all’Università di Cambridge. È entrato nel 1957 in Banca d’Italia. Ha ricoperto diversi incarichi presso i servizi centrali dell’Istituto di emissione. Nel
1976 è stato nominato direttore centrale della vigilanza bancaria. Tra il 1976 e
il 1981 è stato vicedirettore generale. Dal 1982 al 1991 è stato direttore generale del Tesoro. Nel 1986 è stato nominato “Officier de la Légion d’Honneur”
dal Presidente della Repubblica Francese Mitterand. Da aprile a luglio 1987 ha
fatto parte del Governo Fanfani come Ministro del Commercio Estero. Dal
1991 al 1994 è stato vicepresidente operativo della Banca Europea per la
Ricostruzione e lo Sviluppo di Londra. Dal 1994 al 1998 è stato presidente
della Banca Nazionale del Lavoro SpA. Nel 1996 è stato nominato Cavaliere
del Lavoro dal Presidente Scalfaro. Dal 1999 al 2001 è stato presidente della
Diners Club Sim del Gruppo Perna. Laureato h.c. in economia e commercio
dall’Università di Bari, attualmente è docente presso la Facoltà di Scienze
Statistiche dell’Università La Sapienza di Roma. È presidente di Dexia
Crediop SpA e consigliere di amministrazione indipendente di alcune società
bancarie, finanziare e assicurative.
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AOAF, ASSIOM, ATIC, FOREX, Bari, 18 gennaio.
84
Dott. Eugenio CORTI,
Scrittore
Storia di uno scrittore
Ringrazio il dottor Vigorelli per la sua simpatica e così
amichevole presentazione.
Dalle mie “memore di ottuagenario”, anzi di ottantasettenne, cercherò d’estrarre alcuni punti che possano servire in
questo dibattito. Cominciamo con una domanda che mi fanno
spesso i giovani - in genere delle università milanesi - che mi
vengono a trovare: quando e perché ho deciso di fare lo scrittore? Rispondo: molto presto, verso gli 11 o 12 anni, quando
ho iniziato il primo anno di scuola media. Ci avevano messo
in mano un testo di Omero, l’Iliade di Omero: io ignoravo
addirittura l’esistenza di questo autore; ho cominciato a scorrerlo per mio conto, prima ancora che ce ne parlasse il professore in classe, e ne sono rimasto colpito come più non si
potrebbe. Ecco uno che trasformava in bellezza tutto ciò che
diceva… Decisi che avrei fatto anch’io la stessa cosa, senza
pormi il problema se avrei scritto in versi o in prosa, e senza
avere la più lontana idea della complessità del lavoro letterario. Il bello è che da quella decisione infantile successivamente non mi sono più staccato, essa seguita per me a essere valida ancora oggi, mentre continuo a sentire come mio compito
quello di trascinare nel mondo e di mettere a disposizione del
mio prossimo quanta più bellezza possibile. Prima di cominciare a scrivere, una decina di anni dopo, ventunenne, ho perfezionata e completata in modo definitivo quella scelta iniziale. Fu nella notte di Natale del 1942, mentre ero sottotenente
d’artiglieria in un corpo d’armata accerchiato nella tragica
“valle della morte” di Arbusov: di questa ulteriore scelta il dottor Vigorelli ha già fatto cenno. Poche erano le nostre speranze di sopravvivere, atroci le esperienze fatte, più atroce di tutte
era per me la scoperta del punto raccapricciante cui può giungere l’odio tra gli uomini. In quei giorni di ecatombe io senti85
vo tangibilmente la presenza protettiva della preghiera di mia
madre lontana: per parte mia promisi alla Madonna che, se
fossi sopravissuto, avrei dedicata la mia vita futura all’affermazione del secondo versetto del Pater noster “venga il Tuo
regno”: il regno di Dio, cioè dell’Amore e della Verità. Per
questo poi nel mio lavoro la bellezza e la verità (in spirito d’amore per il prossimo) hanno costituito l’ossatura di ogni mia
opera, anzi di ogni pagina.
Veniamo a un secondo ambito della mia esperienza.
Cos’è per me la letteratura, e cos’è il romanzo? La concezione della letteratura come coscienza critica del nostro tempo,
che oggi prevale in Occidente, Italia compresa (dovuta in non
poca parte a Jean Paul Sartre), e che si concreta sopratutto in
denunce, a me sembra riduttiva e in conclusione non accettabile. Certo vanno bene, e occorrono anche le denunce, ma la
letteratura non può limitarsi ad esse, riducendosi pressoché a
sociologia. Campo dello scrittore è l’intera realtà, sono tutte le
cose. Egli deve rendere sia quelle positive che quelle negative
presenti nel suo tempo, e soprattutto deve affrontare tutto ciò
che in profondità riguarda l’uomo. Deve dunque cercare di
rispondere alle sue grandi domande: Donde vengo? Dove
vado? Che senso ha la mia vita? Dato poi che l’essere umano
si trova - come io sono convinto - in una realtà partecipe della
sopranatura, compito dello scrittore ritengo sia anche di indagare i rapporti che ci sono nel tempo con l’eterno.
Quanto ai modi di scrittura egli può liberamente utilizzare tutti quelli che gli servono, senza lasciarsi invischiare da
mode e imposizioni del momento. Può essere dunque narrativo e descrittivo, ed epico, tragico, drammatico, elegiaco,
comico, ironico e autoironico, e oggi - nel gusto del nostro
tempo - può fare anche abbondante spazio all’umorismo, se
gli torna utile.
Io vedo la nostra letteratura come un grande albero radicato in Omero, che ha la parte più alta malata a causa delle
86
deviazioni (introdotte non solo da Sartre) per le quali oggi produce opere non vitali, e in genere - a causa del sopravenuto
nichilismo - sempre più morenti, o addirittura nate morte.
Sono perciò sceso lungo il tronco dell’albero finché ho trovato il tessuto sano nella prima metà del Novecento, e da lì sono
ripartito seguendo con le mie opere il precedente indirizzo
millenario. Sviluppandolo per quanto ho potuto in maniera
originale, ma non arbitraria.
Premesso questo, veniamo al romanzo. Come dev’essere
oggi? A mio modo di vedere il romanzo deve semplicemente
essere l’antico poema trasferito nella modernità. Deve dunque
anzitutto essere in prosa, ciò che lo priva dell’armonia del
verso, talmente determinante nell’antico poema, che esso si
definiva canto. Ricordate? “Cantami o diva del pelide Achille
l’ira funesta…”, in Virgilio: “Arma virumque cano (canto l’armi e l’uomo)…”, in Dante i capitoli si chiamano addirittura
cantiche, e nel Tasso: “Canto l’armi pietose e il capitano che il
gran sepolcro liberò di Cristo”, ma anche l’Ariosto: “Le
donne, i cavalier, l’armi e gli amori… le audaci imprese io
canto…”. Una volta perduta l’armonia del verso, occorre al
romanzo un’altra armonia che incanti, che cioè affascini il lettore, e questa esiste, è contenuta dentro la prosa come nel
marmo grezzo è contenuta l’opera d’arte, la statua, di cui parla
Michelangelo: compito dello scrittore è appunto di estrarla.
Non entro nei particolari, ma in pratica se voi in una riga di un
mio romanzo (un’opera di narrativa, il saggio è un’altra cosa)
levate una parola e la sostituite con un’altra di uguale significato ma con diverso accento (per esempio sostituite la parola
“stesso” con “medesimo”) vi accorgete che la frase zoppica. È
tale zoppicamento che va evitato: se il testo insieme alla verità
di tutto ciò che espone (cioè insieme all’ “universale nel particolare”) possiede tale armonia, allora il lettore non se ne stacca più. Personalmente ne ho avuto conferma da centinaia di
lettori che me lo hanno detto o scritto. Alcuni lamentandosi
perché il mio Cavallo rosso finisce dopo 1.280 pagine: ne
avrebbero volute ancora altre...
87
Due parole in merito a Il cavallo rosso, che è la mia opera
maggiore. È un romanzo storico col quale cerco di rendere
tutta l’esperienza della mia generazione. Prima di scriverlo ho
affrontato la nota condanna del romanzo storico pronunciata
dal Manzoni, il quale dopo avere scritto il maggiore romanzo
storico della nostra letteratura, ha finito - in disamine con altri
letterati - col condannare il genere “romanzo storico”. Perchè?
Perché coi suoi completamenti di fantasia, inquinerebbe la
storia nuda e pura. Fortunatamente Manzoni ha voluto anche
esemplificare, scrivendo la Storia della colonna infame: opera
nella quale la vicenda della peste in Milano descritta in modo
così splendido nei Promessi sposi, è resa con rigore nel suo
aspetto storico, senza completamento alcuno. Ho letto la
Colonna infame con disponibilità e attenzione, ma alla fine
come quasi tutti i suoi lettori ho constatato che la peste di
Milano, e l’idea della peste in sé, nella mia mente è rimasta
quella del romanzo, e non quella dell’opera storica. Ai miei
occhi dunque è stato lo stesso Manzoni a smentire la propria
condanna del romanzo storico.
Veniamo ora alla lettura di due brani estratti dalle mie
opere, per esemplificare in modo pratico ciò che ho asserito.
Il primo brano viene da Gli ultimi soldati del re: lo presento
non solo come esempio dell’armonia nella scrittura, ma anche
perché ricorda un’inattesa scoperta dell’esistenza di Dio, che
ho effettivamente fatto durante la guerra in Italia osservando
alcune farfalle:
“Osservatorio di Barbara: le farfalle.
Ne venivano spesso, aleggiando, a posarsi sui bordi di terra
smossa della nostra trincea, forse per suggerne l’umidità. Un
pomeriggio ne arrivò una particolarmente bella: era nero-velluto, striata di fuoco, con macchie bianche. La mia attenzione
fu attirata dalla leggiadria di quei colori, i quali - mi resi conto
- non erano disposti a caso: anzi anche un grande pittore soltanto in un momento di particolare grazia avrebbe saputo comporli con tanta arte.
88
La considerai attento: quanto a lei, certo, non era così per propria scelta, non sapeva neppure di essere una farfalla, non se
ne accorgeva. Nemmeno di esistere si accorgeva: esisteva e
basta, e ferma sul bordo di terra della trincea muoveva ritmica
le ali, come uno che respiri nel sonno, inconsciamente lieta del
miracolo grande dell’estate di cui faceva parte. Quando però
di lì a poco ne comparve un’altra della stessa specie, la farfalla si alzò in volo e prese a volteggiarle intorno, mostrando si
sarebbe detto con intenzione all’altra i propri colori, ostentandoli, nascondendoli, ostentandoli di nuovo con somma grazia,
come una provetta attrice.
Insetto, concretamento di qualcosa che la trascendeva infinitamente, anche lei come noi. Specchio - minimo come il luccichio di un granello di sabbia al sole - della gioia e del colore
che stanno nella mente di Dio. Una farfalla, mi resi improvvisamente conto, basterebbe da sola a dimostrare l’esistenza di
Dio.
Godevo di quell’inattesa festa di colori. La gioia incomparabile che dev’esserci in Dio!… Ecco, afferrai, ecco perché siamo
stati creati noi uomini e gli angeli, chissà quanti miliardi d’esseri intelligenti e dotati di sensibilità: perché tutti si possa partecipare a una così incommensurabile gioia!
Prima però, riflettei, c’è la prova (che ci dà merito: per il quale
non siamo solo passivi) e per noi terrestri c’è anche la morte.
Già… Presto le due farfalle sarebbero morte. Con un’ombra di
turbamento immaginai le spoglie di tutte le farfalle morte,
povere cose gualcite e rotte che le formiche, moriture anch’esse, sul finir dell’estate frettolosamente trascinano via. Che
bene per noi che le farfalle esistano. E com’è giusto che loro
non si accorgano d’esistere (non si accorgano dunque neanche
di morire…)”
Questo secondo brano viene da Il cavallo rosso: mi sembra esemplifichi l’epicità che è la connotazione di fondo dell’intero romanzo. L’episodio è storico, e io lo espongo come
l’ho raccolto da alpini che l’hanno vissuto; ha avuto luogo nel
gennaio 1943, durante la marcia della grande colonna della
89
divisione Tridentina da Arnautovo a Nicolaievca. Dopo la battaglia gli alpini hanno raccolto il capitano Grandi mortalmente ferito, e dietro la sua slitta si è messa in marcia l’intera compagnia, entrando nella grande colonna ch’era ripartita.
“Col trascorrere del tempo l’ambiente tornò a farsi a
grandi linee: per quanto si marciasse di buon passo, sembrava
a momenti d’essere fermi nell’immensità.
A un sobbalzo improvviso della slitta il capitano dal ventre squarciato aprì gli occhi. Prese lentamente coscienza della
propria situazione e si guardò intorno: incontrò lo sguardo di
un alpino che gli camminava a lato: “La battaglia è finita?”
chiese.
“Sì, è finita”
“Ce l’abbiamo fatta, eh?”
“Sì, abbiamo aperta la strada.”
Accorse l’unico ufficiale rimasto alla compagnia: “Ce l’abbiamo fatta, signor capitano. Abbiamo riaperta la strada.”
“Mm. Meno male.”
“Come vi sentite signor capitano?”
“Io? Ne ho per poco.”
L’ufficiale non ribatté. “Loro erano tre battaglioni” disse
invece: “Adesso lo sappiamo con certezza. Il Tirano è ridotto
alla metà, però” ripeté “ha aperta la strada alla colonna.”
“Se arrivi fuori, dillo a mia madre.”
“Signorsì. Mi impegno a dirglielo.”
“Dille che ho fatto il mio dovere, e perciò muoio in pace con
gli uomini e con Dio.”
Dall’una e dall’altra parte della slitta i suoi alpini, fattisi
avanti, guardavano con facce angustiate il capitano; anche il
conducente che camminava con le redini dei due muli girate
intorno alle spalle alla brava, si voltava ogni poco a guardarlo,
aveva le lacrime agli occhi.
“Cosa sono quei musi lunghi?” esclamò a un tratto il
90
capitano Grandi: “Sotto piuttosto, cantate con me.” e con la
voce che si ritrovava, che sarebbe stata ridicola in un momento meno tragico, attaccò la tremenda canzone alpina del capitano che sta per morire e fa testamento.
“Il capitano l’è ferito
l’è ferito e sta per morir”
Subito i circostanti gli si unirono nel canto, più d’uno
fece segno a quelli che seguivano, tutta la compagnia serrò
sotto e si mise con grandissimo dolore a cantare. Nella canzone il morente prescrive che il suo corpo sia tagliato in cinque
pezzi:
“Il primo pezzo alla montagna
che lo ricopra di rose e fior”
Che struggimento, che pena il ricordo delle native montagne in quell’immensa pianura senza confini…
“secondo pezzo al re d’Italia
che si ricordi del suo soldà”
Il terzo pezzo al reggimento.
Nella sterminata colonna di formiche che procedevano
frenetiche, eppure parevano ferme nella gelida immensità,
c’era quel breve tratto che cantava.
E la madre compariva nel canto, e la donna amata:
“Il quarto pezzo alla mia mamma
che si ricordi del suo figliol,
il quinto pezzo alla mia bella
che si ricordi del suo primo amor.”
Addio dunque anche a te primo amore, addio per sempre, ciò
che abbiamo sognato non sarà mai… Addio montagne, patria,
reggimento, addio mamma e primo amore, cantavano gli alpini. Cantavano e piangevano gli alpini valorosi, e c’era nel loro
canto paziente tutto lo struggimento della nostra umana impo91
tenza; cantarono anche quando ormai il capitano non cantava
più e li accompagnava solo con gli occhi; cessarono di cantare solo quando si resero conto che il capitano Grandi era
morto.”
Visto il tempo che ci rimane, dal mio terzo libro distribuito ai convenuti dal dottor Vigorelli, Catone l’antico, estraggo
un unico filo, che mi pare particolarmente confacente al tema
del presente convegno. Si tratta dell’analisi del matematico ex
sovietico Igor Safarevic nella sua opera Il socialismo come
fenomeno storico mondiale, con presentazione di Alessandro
Solgenitzin, opera che non è molto conosciuta in Italia, ma che
a Parigi, ho visto, fa notevole presa.
Safarevic sulla base non solo delle proprie ricerche, ma
anche di almeno una ventina d’altri autori, fa presente come,
ad eccezione di una, tutte le grandi società umane della storia
hanno avuto uno sviluppo rigorosamente simile. Così il primo
grande impero della storia, quello sumero accade sviluppatosi
a cominciare dal quarto millennio a. C. nel vicino oriente, poi
il secondo grande regno, che fu quello cinese, e in seguito gli
altri in Asia e in Africa, nonché quelli formatisi al di là dell’oceano nella lontana America: l’Azteco, il Maia e l’Inca. Tutti
si presentano strutturati nel medesimo modo su tre strati. Il
primo strato è costituito da un uomo solo: un capo assoluto e
divinizzato, detentore di ogni potere (in grado per esempio di
far lavorare per venti anni alla propria tomba centomila uomini, come il faraone egiziano Cheope, oppure come l’antico
sovrano cinese che ne ha impiegati settecentomila nella
costruzione di una propria residenza). Il secondo strato della
società è costituito da un insieme di funzionari o di nobili che
governano per mandato del sovrano assoluto, e sono da lui
investiti del potere religioso, militare e civile. Il terzo strato
infine comprende la totalità dei sudditi, i quali sono rigorosamente organizzati in modo da produrre il più possibile nell’ordine economico. Poiché però l’uomo è nato libero, inevitabilmente costoro tendono a ribellarsi alla coercizione, e perciò
92
vengono sempre più coatti dall’autorità. Così da essere in conclusione non solo privati della libertà, ma anche addirittura,
nei limiti del possibile, della loro individualità. Le descrizioni,
minute e documentate, che Safarevic presenta delle diverse
società, sono straordinariamente interessanti e insieme angoscianti. Egli, che ha fatto sulla propria pelle l’esperienza tragica e illuminante della società sovietica (simile in tutto, nonostante i suoi orpelli teorici ultramoderni, alle società della
costrizione) applica a tutte queste società la qualifica di socialiste.
Veniamo all’unica eccezione riscontrata da Safarevic,
sulla scorta anche di altri autori. L’eccezione è costituita dalla
società che noi potremmo per comodità chiamare occidentale,
nata in Atene, sviluppatasi in Roma, quindi nell’Europa cristiana medievale, infine negli stati dell’Occidente moderno. Si
tratta di una società di uomini tutto considerato liberi, non
soggetti alla schiavitù generalizzata, salvo due brevi interruzioni che hanno avuto luogo in epoca moderna nell’ambito
della Russia comunista e della Germania nazista.
Safarevic registra tale realtà storica senza spiegarne la
genesi, che facendomi coraggio io cerco di spiegare nel mio
libro su Catone. Respingendo anzitutto la facile tentazione di
addebitare all’egoismo dei due strati dominanti l’asservimento delle masse umane costituenti il terzo strato. Io credo che si
sia invece dovunque tentato, certo molto in confuso, di andare
incontro alla più universale aspirazione degli uomini: quella
alla felicità. Avendo come scopo la felicità di tutti, si è dovunque finito con l’impegnare tutti nella produzione materiale,
organizzandola il più possibile razionalmente, e non lasciandola all’arbitrio dei singoli. Ma si è dovunque incappati in due
impervi ostacoli: anzitutto le fortissime disparità esistenti fra i
singoli individui; in secondo luogo quell’ostacolo ancora più
importante, di ordine non naturale, che solo il cristiano è in
grado di spiegarsi: una realtà constatata come tale anche dal
poeta pagano: “Video meliora, proboque, at deteriora sequor:
93
vedo il meglio, e lo approvo, ma seguo il peggio”, che è molto
in sintesi la conseguenza del peccato originale. In breve ne
deriva che l’uomo, essendo per sua natura libero, deve liberamente decidere di vincere sé stesso: se l’autorità lo costringe,
egli reagisce, e all’autorità per aumentare la produzione materiale non resta altra strada che costringerlo sempre di più.
Anche in età contemporanea noi abbiamo visto come non
sia possibile cambiare la coscienza e la natura dell’uomo
mediante gli strumenti forniti dall’economia. Due grandi
nazioni: la Russia sovietica e a sua imitazione la Cina, programmaticamente contro gli indirizzi della rivelazione cristiana hanno impegnate tutte le loro forze per costruire, in base a
criteri materialisti, “il paradiso in terra”. Nel loro tentativo di
rendere gli uomini più felici, non sono arrivate a costruire altro
che cataste di milioni e milioni di cadaveri.
Come è stato invece possibile in Occidente costruire il
progresso nella libertà? A noi sembra che ad avviarlo siano
stati gli antichi greci grazie al loro straordinario senso della
bellezza, per il quale hanno sempre anteposto ciò che è bello,
intendo vitalmente bello, a tutto il resto; anche a ciò che è utile
e molto utile. (In questo senso, aggiungo, a me sembra oggi
perfettamente fondata la profezia di Dostoevskij: “il mondo
sarà salvato dalla bellezza.”) Dopo i greci anche i romani, grazie al loro determinante senso del dovere, non si sono lasciati
condizionare dall’economia, e dopo avere recepite le conquiste greche in arte e in filosofia le hanno inserite in tutto l’ecumene da loro conquistato, cioè nell’intera Europa. È visione
di Dante che con ciò Roma e il suo impero sono stati preparatori dell’avvento del cristianesimo, per cui egli scrive: “la
quale e il quale (Roma e il suo impero) a voler dir lo vero, fu
stabilita per lo loco santo u siede il successor del maggior
Piero (cioè il papa).” Secondo tale visione nel Medioevo la
civiltà avviata da Atene e portata avanti da Roma si è rivelata
dunque una preparazione alla grande del mondo cristiano; grazie al cristianesimo la schiavitù venne poi tolta di mezzo, e la
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donna elevata all’altezza che sappiamo. Il progresso è proseguito nell’ambito degli stati occidentali fino ad oggi, con affioramento però di un imprevisto processo contrario nei due casi
della Russia comunista e della Germania nazista. Che vennero con grande sforzo superati. Ma a mio parere c’è un terzo
grande fenomeno negativo che si sta sviluppando nella nostra
società, e questa volta dentro il campo dell’arte. Dalla quale
viene sempre più scacciata la bellezza, e sostituita col deforme e col mostruoso (Picasso docet). Se tale sistematico disfacimento della bellezza dovesse continuare (anche dentro la letteratura, in cui tante opere nascono morte) non potrebbe che
portare all’estinzione dell’arte occidentale. E di conseguenza
della stessa civiltà occidentale.
Lettura da il “CATONE L’ANTICO”: I cartaginesi
Un popolo, il cartaginese, diversissimo da quello romano:
un insieme di mercanti, affermatisi come tali in tutto il
Mediterraneo e fuori, gente non solo straordinariamente capace nei commerci, ma anche di forma mentis interamente strutturata sull’economia.
(Vogliamo azzardare un riferimento moderno? Auguriamoci
che non sembri troppo bizzarro, proponiamo la forma mentis di
Carlo Marx, il quale partiva dal presupposto che è l’economia a
determinare tutta la realtà umana: incluse la coscienza e la natura
stessa dell’uomo.)
Per le necessità della loro enorme espansione commerciale (nel Mediterraneo e al di là delle Colonne d’Ercole, dove
erano arrivati in una sola volta a trapiantare sulla costa africana dell’Atlantico fino a trentamila coloni - Mommsen, Libro
III, cap.1) ai Cartaginesi occorreva un esercito, e si era perciò
sviluppata tra loro una casta militare. Che era molto intelligente e capace, come l’appartenenza alla stirpe semitica comportava, ma non era molto amata dal popolo. Tanto che se un loro
95
generale perdeva una importante battaglia, la sconfitta veniva
dalla città considerata soprattutto un cattivo affare, e il generale veniva crocefisso, come si faceva coi ladroni.
Circa la feroce inconciliabilità tra il vecchio Catone
(diciamo pure tra il mondo romano) e il mondo cartaginese,
abbiamo già proposta la nostra opinione: che se nello scontro
la vittoria fosse toccata a Cartagine, la successiva storia
dell’Occidente sarebbe stata del tutto diversa.
Cerchiamo di spiegare perché. L’analisi potrebbe partire
da due passi di Tito Livio, dai quali emerge che a quel tempo
doveva in qualche modo essere nell’aria una sorta di attesa
dell’unificazione del mondo conosciuto. Leggiamo nel libro
XXIX 16 l’affermazione dei messaggeri greci di Locri in
Senato a Roma (anno 205 a.C.): “Il genere umano è ora in
attesa di vedere se voi o i cartaginesi sarete i dirigenti del
mondo”. Poi nel libro XXX 32 lo stato d’animo dei soldati
romani e di quelli cartaginesi alla vigilia di Zama: “Sarebbero
stati vincitori non per quel solo giorno, ma per sempre; all’indomani, prima di notte, avrebbero saputo se toccasse a Roma
o a Cartagine dettare leggi ai popoli. Ne’ l’Africa ne’ l’Italia
sarebbero state premio alla vittoria, ma tutto il mondo.”
Certo l’uomo cartaginese non era inferiore per doti personali all’uomo romano (ricordiamo tra l’altro che la massima a nostro parere - fra tutte le scoperte umane: la scrittura alfabetica, fu opera dei Fenici). I Cartaginesi avevano però una
visione della realtà dominata dall’economia, anzi in ultima
analisi riducibile ad economia.
Se dunque fosse toccato a Cartagine d’indirizzare la successiva storia dell’Occidente, noi riteniamo che si sarebbe
venuto a formare un impero in qualche modo analogo a quello romano, forse anche per certi aspetti più progredito, ma a
causa appunto di quella diversa impostazione mentale, alla
fine privo di libertà per tutti, Cartaginesi inclusi.
96
Biografia
Eugenio Corti (Besana Brianza, 21 gennaio 1921) è uno scrittore e
saggista italiano.
Primo dei dieci figli di un industriale, frequenta al paese le scuole
elementari, ma, a causa di una malattia del padre, nel 1931 viene
iscritto al collegio San Carlo di Milano, dove studia per dieci anni.
Sempre al San Carlo, frequenta il ginnasio e il liceo classico.
Nel 1940 gli studi si interrompono, poiché il 10 giugno l’Italia entra
in guerra e viene chiamato alla leva e agli inizi di febbraio 1941, si
reca alla caserma del Ventunesimo Reggimento Artiglieria
Divisionale a Piacenza per un primo addestramento di sei mesi.
Seguiranno altri sei mesi alla Scuola allievi ufficiali di Moncalieri,
dove diventa sottotenente.
La campagna di Russia
Nel frattempo inoltra la richiesta di essere destinato al fronte russo,
così motivata:
«Avevo chiesto di essere destinato a quel fronte per farmi un’idea di
prima mano dei risultati del gigantesco tentativo di costruire un
mondo nuovo, completamente svincolato da Dio, anzi, contro Dio,
operato dai comunisti».
Raggiunge il fronte agli inizi del giugno 1942 e a luglio partecipa
all’avanzata dal Donez al Don. Dopo mesi di stasi, il 16 dicembre
inizia la controffensiva russa sul Don e il 19 la ritirata degli italiani.
Questi 28 giorni sono i più drammatici della vita di Corti, narrati ne
I più non ritornano: solo la sera del 16 gennaio riesce ad uscire dall’accerchiamento russo con pochi altri superstiti. Trascorre una settimana nell’ospedale di transito nella polacca Leopoli (oggi in
Ucraina); poi, tornato in Italia, tre settimane all’ospedale “Emma”
di Merano.
Il 26 luglio 1943 rifiuta la licenza che i medici dell’ospedale di
Baggio volevano accordargli per le condizioni di salute e afferma:
«Sono sottotenente e devo fare la mia parte: se c’è da sostenere un’ultima difesa, non è decente che io la lasci sostenere solo ad altri».
Rientrato in caserma a Bolzano, viene poi trasferito in Lazio, a
Nettunia (oggi Nettuno), da cui, dopo l’armistizio dell’8 settembre,
si dirige verso sud a piedi, in compagnia dell’amico Antonio
97
Moroni, per riunirsi all’esercito regolare. Queste vicende, e tutte
quelle riguardanti la guerra di liberazione, sono narrate ne Gli ultimi soldati del Re. Dopo un periodo nei campi di riordinamento,
Corti entra volontario nei reparti nati per affiancare gli Alleati nella
liberazione dell’Italia.
L’attività letteraria
Finita la guerra e ritornato alla vita borghese, riprende gli studi e
ottiene la laurea in giurisprudenza nel 1947. Nel giugno dello stesso anno pubblica presso Garzanti I più non ritornano, il suo primo
libro, sulla ritirata di Russia. Dopo la laurea, inizia la stesura del suo
secondo libro, I Poveri Cristi: l’argomento è la guerra di liberazione
dell’Italia. Il lavoro verrà ripreso e darà alla luce, a decenni di distanza (nel 1994) Gli ultimi soldati del re.
Nel 1951 comincia a lavorare nell’azienda del padre: pur non amando quel lavoro, continuerà a esercitarlo per una decina di anni. In
questo periodo si dedica ad uno studio teorico e storico sul comunismo, forte anche della sua esperienza in URSS. Frutto di questi
studi sarà una tragedia teatrale, Processo e morte di Stalin, scritta tra
il 1960 e il 1961 e rappresentata la prima volta nel 1962. «Da questo
momento Eugenio Corti, a causa del proprio ragionato anticomunismo, è ostacolato, in modo sistematico e mal dissimulato, dalla
grande stampa e dal mondo della cultura, a quel tempo ormai fortemente orientati a sinistra»1.
Agli inizi degli anni settanta, Corti matura la decisione di dedicarsi
completamente alla scrittura. Inizia a scrivere un ritratto dell’Italia
e dell’Europa dal 1940 al 1974, che intitola Il cavallo rosso, e che
lo impegna per ben undici anni. Partecipa ai comitati antidivorzisti
per il referendum del 1974 (esperienza che lo convincerà dello sbandamento presente nell’Azione Cattolica in quel periodo) e nella
redazione di una serie di articoli per il quotidiano “L’Ordine” di
Como. Nel 1983 il testo de Il Cavallo Rosso raggiunge la forma
definitiva. Sorgono tuttavia problemi di pubblicazione (il manoscritto supera le 1500 pagine), ma anche ostacoli di natura politica. Corti
si rivolge a Cesare Cavalleri, direttore delle Edizioni Ares, che pubblica il romanzo nel maggio 1983 con traduzioni in spagnolo,
francese, inglese, lituano, rumeno e giapponese.
Paola Scaglione nella sua biografia dello scrittore: Parole scolpite. I giorni e
l’opera di E. Corti
1
98
Tra le opere successive, Il fumo nel Tempio, sulla crisi del mondo
cattolico.
Dopo Il Cavallo Rosso Corti si è dedicato alla creazione di nuovi
romanzi, definiti racconti per immagini: La Terra dell’Indio (1998),
L’Isola del Paradiso (2000), Catone l’Antico (2005). Collabora alla
rivista Il Timone.
Corti è stato insignito del Premio Internazionale Medaglia d’Oro al
merito della Cultura Cattolica nel 2000.
Il 7 dicembre 2007 è stato insignito dell’Ambrogino d’oro dal
Comune di Milano.
Opere
Narrativa
• I più non ritornano (1947)
• Il cavallo rosso (1983)
• Gli ultimi soldati del Re (1994)
Saggistica
• Il fumo nel tempio (1995)
• Breve storia della Democrazia Cristiana, con particolare riguardo ai suoi errori, Mimep-Docete, Pessano (MI), (1995)
• Le responsabilità della cultura occidentale nelle grandi stragi del
nostro secolo, Mimep-Docete, Pessano (MI), (1998)
• Processo e morte di Stalin (con altri testi sul comunismo) (1999)
Racconti per immagini
• La terra dell’Indio (1998)
• L’isola del Paradiso (2000)
• Catone l’antico (2005)
99
Card. Attilio NICORA,
Presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede
Apostolica Città del Vaticano
“I fondamenti della libertà coniugata alla responsabilità”
Servite Domino in iucunditate.
Omnis servitus amaritudine plena est:
omnes conditione servili obligati et serviunt, et murmurant.
Nolite timere illius Domini servitutem:
non erit ibi gemitus, non murmur, non indignatio;
nemo se petit inde venalem, quia dulce est quod redenti
omnes sumus.
Magna felicitas, fratres, esse in ista domo magna servum. (…)
Libera servitus est apud Dominum; libera servitus, ubi non
necessitas sed caritas servit. (…)
Servum te caritas faciat quia liberum te veritas fecit.
Si manseritis, inquit, in verbo meo, vere discipuli mei estis;
et cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos.
Simul es et servus et liber: servus, quia factus es; liber,
quia amaris a Deo a quo factus es;
immo etiam inde liber, quia amas eum a quo factus es.
Noli servire cum murmure;
non enim id agunt murmura tua, ut non servias, sed ut
malus servus servias.
Servus es Domini, libertus es Domini;
non te sic quaeras manumitti, ut recedas
de domo manumissoris tui.
(S. Agostino, Enarratio in psalmum 99, n. 7)
101
Considerando le altre tematiche del Convegno, ho pensato che avrei potuto anch’io trarre spunto da S. Agostino, come
già è stato fatto ieri. Questo autore è una miniera inesauribile
e sta veramente alle radici della nostra cultura.
1. Per sviluppare il tema affidatomi del rapporto tra
libertà e responsabilità ho scelto un commento a un salmo che
Agostino ha esposto nell’anno 412 a Cartagine. Si tratta del
salmo 100 (99), una breve composizione innica di cinque versetti che invita il popolo di Dio a raccogliersi per la lode del
Signore; al v. 2 dice così: “acclamate al Signore, voi tutti della
terra, servite il Signore nella gioia”. In latino: servite Domino
in iucunditate.
Agostino che, come sapete, era un abilissimo retore,
gioca un poco su questa espressione e dialoga con gli ascoltatori cercando di raccogliere e far proprie le loro reazioni
immediate per rilanciarle poi in chiave catechetica; inizia perciò a farsi alcune domande.
Si chiede: come il salmo può invitare a servire il Signore nella
gioia? Si può servire con gioia?
E risponde: no, almeno nella comune esperienza. Omnis servitus amaritudine plena est. Omnes conditione servili obligati
et serviunt et murmurant.
Normalmente chi è obbligato a servire serve perché non può
farne a meno, ma si rivolta interiormente e se ne lamenta.
Notate che qui lo scenario di fondo è quello della grande
casa padronale romana. Oltre ai famigliari del dominus vi
sono gli schiavi, e il termine ‘servire’ allude allo schiavo in
senso proprio; noi abbiamo un po’ addolcita la parola “servo”,
ma in questo contesto ha un senso molto più concreto.
Allora Agostino, facendosi carico di questa obiezione che
nasce istintiva nell’animo dei suoi ascoltatori, invita a operare
un mutamento di scena: non collochiamoci nel quadro di una
102
grande casa padronale secondo l’esperienza ordinaria della
vita quotidiana dell’Africa del Nord di allora, ma trasferiamoci in quell’altra grande casa, che è la “casa del Signore”, la
Chiesa, la comunità cristiana.
E raccomanda: nolite timere illius Domini servitutem. Non
abbiate paura di essere schiavi nella casa di quel Signore, che
è il Dio cristiano: non erit ibi gemitus, non murmur, non indignatio. Là non v’è né gemito, né lamento, né rivolta; piuttosto
magna felicitas, fratres, esse in ista domo magna servum. È
piuttosto un grande motivo di gioia, fratelli, essere servi in
questa casa. Ma perché? Ecco qui il punto. Appaiono alcune
espressioni icastiche di Agostino che sono davvero profonde e
suggestive.
Libera servitus ubi non necessitas, sed caritas servit. È l’affermazione centrale della riflessione agostiniana. Libera servitus
è un ossimoro impressionante: si tratta infatti di due termini
assolutamente, radicalmente contrastanti nella mentalità comune. Libertà dice pretesa e autonomia nel disporre di sé medesimo
e delle scelte che si ritiene meglio fare, mentre servitus sembra
alludere a una condizione totalmente predeterminata dall’altro,
che non lascia spazio all’espressione di una propria autonomia.
Ma Agostino non teme di proporre tale convinzione, perché – sottolinea – libera servitus est apud Dominum. Nella
casa del Signore, questa grande casa che è la Chiesa, si può
davvero fare questa paradossale esperienza: l’esperienza di
una libera servitus, giacché libera servitus ubi non necessitas
sed caritas servit. C’è schiavitù, con il corredo di desolazione,
di protesta e di rivolta che essa porta con sé, quando il servizio è obligatus, è costretto; c’è invece un servizio che può
essere libero e quindi generatore di gioia quando ciò che lo
determina non è la necessitas ma la caritas. Quando cioè è
l’amore che motiva e sollecita la scelta del servizio.
Attraverso queste espressioni sintetiche e incisive, capaci
di entrare nella sensibilità dei suoi ascoltatori in maniera
103
molto efficace, Agostino non fa che riesprimere quella che è
un’esperienza umana abbastanza comune. Se due genitori
rinunciano al week-end per stare accanto al loro bambino che
ha la febbre, non ritengono di subire una schiavitù; essi vivono questa rinuncia non solo come un gesto dovuto dalla loro
responsabilità genitoriale, che neppure per un momento si
mette in questione, ma come un atteggiamento doppiamente
ricco d’intensità e di affetto perché ciò che lo determina non è
un obbligo esteriore. Si deve rimanere accanto al bimbo malato, ma ciò che induce a rimanere è l’amore. L’amore rende
libero ciò che apparentemente sembrerebbe obligatus. Sì, libera servitus ubi non necessitas, sed caritas servit.
Ma Agostino scava ulteriormente e prospetta una consegna conseguente: servum te caritas faciat, quia liberum te
veritas fecit. È un’altra espressione d’una densità impressionante. L’amore ti renda servo, ti metta in atteggiamento di servizio, dal momento che la verità ti ha reso libero. E qui riprende dal Vangelo secondo Giovanni (8,31-32) una parola di
Gesù: “se rimarrete nella mia parola, sarete veramente miei
discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.
2. Appaiono così i quattro elementi fondanti quella che
potremmo chiamare l’antropologia cristiana, che hanno generato nel tempo un’autentica rivoluzione e stanno alla radice
della nostra cultura: essi sono verità, libertà, amore, servizio.
Questi quattro elementi sono le quattro componenti decisive della concezione cristiana dell’uomo, e perciò sono oggi
i quattro valori più sottilmente messi in difficoltà o addirittura
sospettati e relativizzati, fin quasi ad essere rinnegati, da correnti culturali dominanti che hanno smarrito le radici. E dunque siamo a un punto davvero assai cruciale.
Servum te caritas faciat, quia liberum te veritas fecit.
104
L’ordine in cui va letta la frase di Agostino è peraltro l’inverso di quello letterale. Si parte dalla verità: la fede in Gesù
Cristo ti dà l’idea autentica di uomo. L’uomo è l’essere che
non vive da se stesso e per se stesso, ma è l’essere che, ricevendo la vita da un altro a lui superiore e insieme ad altri a lui
eguali, è nativamente fatto per essere aperto e impegnato in un
rapporto di dedizione a colui da cui viene, Dio, e agli uomini
che si ritrova come fratelli.
Questa è la verità dell’uomo mostrata esemplarmente
dalla parola e dalla vita di Gesù, il Dio fatto uomo.
L’uomo non è l’unico, l’assoluto, una monade solitaria che ha
il potere di decidere ma lo usa in un’ottica esclusivamente
individualistica, tendendo a mettersi al centro e a ridurre tutto
ciò che esiste fuori di lui a qualcosa che gli può servire.
L’uomo è nativamente un ‘essere per’. Un essere per Dio che
l’ha chiamato alla vita; un essere per gli altri, con i quali gode
il dono della vita e ne condivide la responsabilità.
Gesù Cristo è la realizzazione umanamente e storicamente concreta, definita, originalissima e unica di questa verità
dell’uomo.
L’uomo autenticamente realizzato è Gesù Cristo. Egli è l’uomo che è venuto - lo ha detto nel Vangelo - non per essere servito, ma per servire (Mt 20,28).
L’uomo che ha messo la sua grandezza non nel farsi diverso e
superiore rispetto agli altri rivendicando l’esser figlio di Dio,
ma piuttosto nel farsi come noi, anzi, mettendosi all’ultimo
posto in mezzo a noi e per noi, più ancora, andando a morire
per noi sullo strumento infamante di morte che era la croce,
quello riservato agli schiavi.
Se la verità di Cristo diventa la verità dell’uomo nella
fede, allora scopriamo l’autentica libertà, che consiste non
nella pretesa di affermare se stesso usando degli altri come
strumenti, ma nella possibilità di realizzare ciò che è giusto
secondo la mia identità di uomo non per necessitas, cioè non
105
per obbligo esteriore, ma per la caritas che mi muove dal di
dentro. Appunto un ‘essere per’.
Questa libertà è alimentata e sostenuta dall’amore. Se
l’amore mi inclina a servire, io posso realizzare il servizio non
vivendolo come una necessitas che mi schiaccia e che rinnega
la mia dignità umana, ma quale espressione di una dedizione
che si celebra come vera libertà perché si modella sulla verità
di Gesù Cristo, l’Uomo pienamente realizzato.
Ne viene allora il servizio nella gioia. Servite Domino in
iucunditate. Servite Dio accogliendo questo suo disegno, questo compito cui ci chiama e ci abilita: Egli ci ha creati e ci ha
donato all’esistenza perché in qualche modo continuassimo
liberamente e responsabilmente la sua opera creativa e provvida e amassimo gli altri nella gioia, riconoscendo che il senso
ultimo della nostra libertà sta nel diventare autentici promotori della dignità e della verità umana di tutti, nessuno escluso.
Questo è profondo motivo di gioia.
3. Dunque verità, libertà, amore, servizio sono i quattro
valori fondamentali, i quattro profili strettamente incrociati tra
loro di quella che possiamo chiamare l’antropologia cristiana.
Agostino poi aggiunge: simul es et servus et liber, sei nello
stesso tempo schiavo e libero. Servus quia factus es, schiavo
perché sei povera creatura che si è fatta schiava concedendosi
alla signoria del male e del peccato. Liber quia amaris a Deo
a quo factus es, immo etiam inde liber quia amas eum a quo
factus es. Libero perché Dio tuo creatore ti ama con un amore
redentore, ma addirittura ancor più libero perché ti è stata data
la dignità di poter riamare quel Dio che ti ha amato e per questo ti ha riscattato alla vita.
Allora, conclude il santo, noli servire cum murmure. Non
vivere il tuo servizio maledicendo la sorte: non enim id agunt
106
murmura tua ut non servias, sed ut malus servus servias. Il tuo
continuare a lamentarti non ti sottrae alla condizione dell’esigente servizio, ma piuttosto fa sì che tu serva come un servo
cattivo. Servus es Domini libertus es Domini. Sei schiavo di
Dio e perciò stesso sei liberto di Dio, perché da Lui sei stato
riscattato dalla schiavitù e reso libero. Vivi perciò questa tensione profonda, accoglila come la verità di te stesso. Non te sic
quaeras manumitti ut recedas de domo manumissoris tui: non
cercare altre liberazioni, altri riscattatori, perché rischieresti
così di abbandonare la casa del tuo autentico liberatore, che è
Dio.
È l’eterna tentazione dell’uomo: pensare che fuori dal
riferimento alla volontà di Dio, che diventa richiesta di filiale
obbedienza nel libero servizio dell’amore, si possa trovare una
felicità più grande; così si cercano altre liberazioni che rischiano di diventare nuove schiavitù.
Mi pare che a questo punto siamo giunti al tema che mi era
stato affidato nel quadro della tematica generale sulle radici
della nostra cultura: “libertà e responsabilità”.
4. Sulla scorta di Agostino ho tradotto la “responsabilità”
nella dimensione del “servizio”.
La scelta radicale che la visione cristiana propone all’uomo è
proprio questa: se celebrare la libertà come servizio mosso
dall’amore, unendosi a Gesù Cristo che è la verità dell’uomo,
o se invece concepire la libertà come ricerca della propria
assoluta primazìa, rifiutando di collegare il proprio destino a
quello degli altri e di piegare la propria autonomia al bene dei
fratelli finendo nell’autocelebrazione di una libertà ultimamente sterile e solitaria. La proclamazione cristiana ha fatto
entrare questa sfida nella storia e nella cultura dei popoli che
ha raggiunto ed essa ha generato realtà ricchissime di valore
liberante e solidale.
L’annuncio cristiano ha immesso nella storia questa energia
della verità e dell’amore, che ha continuamente provocato le
107
varie culture a mantenersi aperte alla prospettiva della libertà
responsabile.
Non si può dire che l’annuncio evangelico abbia vinto.
Si può dire però che ha sempre provocato specialmente la cultura europea e che ha prodotto effetti, ha lasciato segni, e
ancora oggi continua a realizzare possibilità che costituiscono
un’enorme ricchezza.
Si potrebbero fare tanti esempi, ma accenno solo a due profili
originali dell’annuncio cristiano: l’evento della natività e quello della crocifissione che, non a caso, sono due dei grandissimi temi dell’arte della nostra storia occidentale (la parola
‘occidentale’ è peraltro una parola un po’ ambigua).
La scena della Natività, la Madonna e il Bambino. Nella
cultura antica, le donne e i bambini erano soggetti di serie B,
erano personaggi fuori dalla possibilità di contare giuridicamente e socialmente.
La scena della Natività, il Figlio di Dio che nasce come uomo,
ha riportato la donna e il bambino al centro di una coscienza
popolare diffusa. Ci sono voluti secoli perché questo desse
frutti, però un’energia lievitante si è immessa e ha irrimediabilmente segnato la nostra tradizione.
Oppure pensate a ciò che la scena della crocifissione di
Gesù ha significato nella nostra cultura. Il Dio crocifisso, cioè
il Dio che mette la sua grandezza non nel farsi invisibile,
diverso, lontano, inaccessibile, al massimo grande signore che
lascia piovere qualche briciola di bontà provvida verso chi gli
è devoto, ma il Dio che decide di scomodarsi, di venire, di
prendere carne, di mettersi dalla parte degli ultimi, dei sofferenti, degli schiavi, morendo anche Lui sullo strumento infamante che è la croce insieme ad altri due condannati. Questo
è il Dio che da duemila anni viene proposto dall’annuncio cristiano.
Ciò ha favorito il riscatto di ogni forma di emarginazione,
108
di povertà, di sconfitta. La pietas cristiana ha generato innumerevoli opere di accoglienza, di cura, di soccorso. È noto che
ancora fino al 1900 la sanità e l’assistenza sociale erano realizzate principalmente dalle Opere Pie, come venivano chiamate,
cioè da strutture che erano nate originariamente dalla pietas
cristiana, la quale era nutrita dalla contemplazione del
Crocefisso, di un Dio incarnato che ha vissuto nell’amore, un
amore che si mette al servizio, un amore che condivide, cercando di curare, di riscattare, di promuovere, fino a dare la vita.
È stata così immessa nella nostra cultura una tensione
verso la solidarietà che non è presente in altre tradizioni religiose e in altre prassi sociali, quanto meno non ha la stessa
intensità di fondamento valoriale, addirittura teologico.
Altrove ci si appella piuttosto a un generico rispetto e sostegno
verso la creatura, che non attinge però a una simile radice teologica: ci dobbiamo reciprocamente servire perché Dio, per
primo, facendosi uomo e morendo per noi, ci ha servito dando
la vita per noi.
Tali valori hanno segnato la nostra storia anche in termini di cultura elaborata e di produzione di bellezza, per tornare
ai temi cari a Eugenio Corti. Ma hanno anche generato il
riscatto e la riscoperta del valore del lavoro umano. La grande
tradizione benedettina è ampiamente riconosciuta come assolutamente meritevole dal punto di vista dello sviluppo
dell’Europa, soprattutto medioevale, attraverso il rilancio della
dignità del lavoro. Non più considerato come cosa riservata
agli schiavi, il lavoro manuale viene esercitato dai monaci,
dagli uomini di Dio per eccellenza, e fatto diventare scuola di
lavoro per le popolazioni che allora si raccoglievano vicino ai
monasteri, come luogo di riparo e di rifugio, con il conseguente riscatto della terra e col grande sviluppo che ha portato alla
civiltà medievale.
Pio XII e poi ancora Paolo VI celebrando S. Benedetto
quale Patrono dell’Europa usano un’espressione molto bella:
109
S. Benedetto e i suoi figli portarono in tutta Europa la croce,
il libro e l’aratro. Credo che poche espressioni come questa
riassumono ed esprimono le nostre radici in chiave cristiana.
La croce, il libro, l’aratro: i benedettini hanno portato la
croce, hanno annunciato il Vangelo, hanno salvato la cultura
antica e hanno prodotto a loro volta cultura nuova, il libro e
l’aratro, cioè hanno dissodato l’Europa dal punto di vista del
lavoro umano e hanno messo le radici dello sviluppo dell’economia che dal Medio Evo in avanti si evolverà con grande
dinamismo.
5. Sono ben consapevole che di fronte a queste prospettive, che sento come molto suggestive e sempre molto provocanti, bisogna mantenere anche il giusto senso della misura e
mai eccedere. Ho detto che questa ispirazione cristiana che
appartiene alle nostre radici non fu mai vincente in assoluto,
né potrà probabilmente mai esserlo; la perfezione non è di
questo mondo. La lotta, la scelta drammatica tra due modi
diversi di concepire la libertà e quindi due modi diversi di
intendere la responsabilità è perenne; perché attraversa il
cuore dell’uomo. Però è certo che oggi siamo in un punto dello
sviluppo della nostra civiltà in cui stanno avvenendo fenomeni che potrebbero diventare assai pericolosi; il rischio è che
non soltanto, contrariamente a quanto vorremmo, questa visione non sia vincente, ma che si cerchi addirittura di impedirle
di rimanere viva, presente, provocante. Questa è la tendenza
secondo me oggi più insidiosa.
Quando, purtroppo a cominciare anche da istituzioni che
peraltro avevamo guardato con tanta speranza quali il
Parlamento europeo, si tenta di togliere al valore religioso e
specificamente cristiano ogni rilievo pubblico ed ogni possibilità d’interlocuzione istituzionale, e di confinarlo esclusivamente nel privato, come se fosse soltanto una mera questione
di coscienza; quando si riduce a poco a poco la libertà religiosa alla libertà di convinzione personale, dimenticando che essa
110
è anche libertà istituzionale, che è anche libertà delle confessioni religiose, che è anche possibilità delle confessioni religiose di giocare - in un quadro ovviamente democratico - il
loro ruolo provocante e stimolante in termini sociali, ecco,
quando avvengono fenomeni di questo genere, e chi osa dire
qualcosa che non è secondo il ‘politichese’ di moda viene
messo a tacere perché dà fastidio, perché non è ‘corretto’, allora c’è un rischio, c’è un grave pericolo.
La Chiesa cattolica non esige di vincere; certamente ha la
tentazione di voler sempre vincere, bisogna riconoscerlo, ma
quando riesce ad essere veramente se stessa, fedele al suo
Maestro, non cede a questa tentazione, perché adora un Dio
che ha perso sulla Croce. Ciò che la Chiesa domanda e non
potrà non continuare a domandare è la libertà di poter provocare, nel senso alto, nel senso di S. Agostino, nel senso delle
radici, cioè nel senso di tener desta una tensione che richiama
a una consapevolezza dei valori profondi e a reagire al rischio
di appiattimento o di pura formalizzazione tecnico-procedurale dei valori, ridotti a mero schema funzionale in vista di
un’efficiente regolazione di una vita sociale complessa e pluralistica.
Questo la Chiesa non lo potrà mai accettare; essa dovrà
sempre umilmente e coraggiosamente, rischiando anche di
perdere, riproporre i valori fondanti che abbiamo ricordato.
Perché essa è convinta che, oltretutto, qui c’è la radice della
gioia vera: è il tema che continua a sottolineare Benedetto
XVI nei suoi discorsi, e questo è molto bello perché è il tema
di Agostino del quale egli, tra l’altro, è un grande e affezionato cultore.
Servite Domino in iucunditate. Servite il Signore nella
gioia. Da che quel Signore si è fatto uomo in Gesù Cristo,
ormai servire Lui vuol dire servire anche gli altri e servire
gli altri perché si serve Lui. Questo binomio inscindibile ha
concorso in modo decisivo a generare una civiltà. Occorre
111
difendere e promuovere come valore necessario e decisivo
la libertà di continuare questo annuncio, invitando i cristiani a non attendersi di vincere in ogni caso ma a continuare gioiosamente a provocare.
Grazie per la vostra attenzione.
112
Biografia
Il Cardinale Attilio Nicora, Presidente dell’Amministrazione del Patrimonio
della Sede Apostolica (APSA), Legato Pontificio per le Basiliche di San
Francesco e di Santa Maria degli Angeli in Assisi, è nato a Varese, Arcidiocesi
di Milano (Italia), il 16 marzo 1937. Dopo gli studi liceali, ha conseguito la laurea
di Giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore (1959).
Entrato nel Seminario Maggiore della diocesi ambrosiana, è stato ordinato
presbitero il 27 giugno 1964, e ha conseguito la licenza in Teologia nell’autunno del medesimo anno presso la Facoltà Teologica di Milano.
Inviato a Roma dall’Arcivescovo Giovanni Colombo per gli studi canonistici,
è stato alunno del Pontificio Seminario Lombardo e dell’Università
Gregoriana, presso la quale ha conseguito il dottorato in Diritto Canonico. Al
rientro a Milano ha insegnato Diritto Canonico e Diritto Pubblico
Ecclesiastico nel Seminario Maggiore, del quale è divenuto Rettore nel 1970.
Eletto Vescovo titolare di Fornos minore da Papa Paolo VI il 16 aprile 1977 con
l’incarico di Ausiliare dell’Arcidiocesi di Milano, è stato ordinato il 28 maggio
dello stesso anno dal Cardinale Colombo. Questi gli affidò la pastorale sociale
e l’apostolato dei laici. Divenuto Arcivescovo il Cardinale Carlo Maria Martini,
Mons. Nicora è stato nominato Pro-Vicario Generale, continuando a seguire i
due settori richiamati e i rapporti con le istituzioni locali e regionali.
Nel febbraio del 1984 è stato nominato Co-presidente per parte ecclesiastica
della Commissione Paritetica italo-vaticana incaricata di predisporre, nel
quadro della revisione del Concordato Lateranense, la riforma della disciplina
concernente i beni e gli enti ecclesiastici. Le conclusioni raggiunte furono
adottate a livello pattizio con il Protocollo tra Repubblica Italiana e Santa Sede,
firmato a Roma il 15 novembre 1984 ed entrato in vigore il 3 giugno 1985.
Per seguire da vicino la fase attuativa del nuovo disegno pattizio, l’11 febbraio
del 1987 Mons. Nicora è stato posto a disposizione della Presidenza della
Conferenza Episcopale Italiana (CEI) a Roma con la qualifica di Incaricato per i
problemi relativi all’attuazione degli Accordi del 1984.
Nominato Presidente del Comitato CEI per i problemi degli enti e dei beni
ecclesiastici, è stato fino al 1995 Co-presidente della Commissione Paritetica
Italia-Santa Sede per l’attuazione del «nuovo» Concordato.
Dal 1990 al 1992 ha ricoperto anche l’incarico di Presidente della
Commissione Episcopale per il servizio della carità e di Presidente della
Caritas Italiana.
113
Il 30 giugno 1992 Giovanni Paolo II lo ha trasferito alla sede episcopale di
Verona, dove ha svolto il suo ministero, continuando nel contempo a collaborare con la CEI e con la Santa Sede nella trattazione delle questioni giuridiche
di natura pattizia. Il 18 settembre 1997, rinunciando al governo pastorale di
Verona, è rientrato a Roma, riprendendo a tempo pieno la cura delle questioni
giuridiche canoniche e concordatarie presso la CEI come Delegato della
Presidenza e assumendo la rappresentanza dei Vescovi italiani presso la
Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (Bruxelles), della
quale nel 2000 è stato nominato Vice-Presidente.
Il 1° ottobre 2002 il Santo Padre Giovanni Paolo II lo ha chiamato nella Curia
Romana in qualità di Presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della
Sede Apostolica (APSA).
Da Giovanni Paolo II pubblicato Cardinale nel Concistoro del 21 ottobre 2003,
Diacono di S. Filippo Neri in Eurosia.
Il 21 febbraio 2006 Papa Benedetto XVI lo ha nominato Legato Pontificio per
le Basiliche di San Francesco e di Santa Maria degli Angeli in Assisi.
È Membro:
• del Consiglio della II Sezione della Segreteria di Stato;
• delle Congregazioni: per i Vescovi, per l’Evangelizzazione dei Popoli;
• del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica;
• del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi;
• della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano;
• della Commissione Cardinalizia di Vigilanza dell’Istituto per le Opere di
Religione (I.O.R.).
ADERENTI ALLA ASSOCIAZIONE
PER LO SVILUPPO DEGLI STUDI DI BANCA E DI BORSA
Aletti Montano & Co.
Allfunds Bank, S.A.
Allianz Bank Financial Advisors, S.p.A.
Anima SGR S.p.A.
Asset Banca S.p.A.
Assiom
Associazione Nazionale per le Banche Popolari
Banca Agricola Popolare di Ragusa
Banca Aletti & C. S.p.A.
Banca Antoniana - Popolare Veneta
Banca di Bologna
Banca della Campania S.p.A.
Banca Carige S.p.A.
Banca Carime S.p.A.
Banca Cassa di Risparmio di Asti S.p.A.
Banca C. Ponti S.p.A.
Banca CRV - Cassa di Risparmio di Vignola S.p.A.
Banca della Ciociaria S.p.A.
Banca Commerciale Sammarinese
Banca Esperia S.p.A.
Banca Fideuram S.p.A.
Banca del Fucino
Banca Imi S.p.A.
Banca di Imola S.p.A.
Banca per il Leasing - Italease S.p.A.
Banca di Legnano S.p.A.
Banca delle Marche S.p.A.
Banca Mediolanum S.p.A.
Banca del Monte di Parma S.p.A.
Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A.
Banca Nazionale del Lavoro S.p.A.
Banca Network Investimenti S.p.A.
Banca della Nuova Terra S.p.A.
Banca di Piacenza
Banca del Piemonte S.p.A.
Banca Popolare dell’Alto Adige
Banca Popolare di Ancona S.p.A.
Banca Popolare di Bari
Banca Popolare di Bergamo S.p.A.
Banca Popolare di Cividale
Banca Popolare Commercio e Industria S.p.A.
Banca Popolare dell’Emilia Romagna
Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio
Banca Popolare di Garanzia
Banca Popolare di Intra S.p.A.
Banca Popolare Lodi S.p.A.
Banca Popolare di Marostica
Banca Popolare del Materano S.p.A.
Banca Popolare di Milano
Banca Popolare di Novara S.p.A.
Banca Popolare di Puglia e Basilicata
Banca Popolare Pugliese
Banca Popolare di Ravenna S.p.A.
Banca Popolare di Sondrio
Banca Popolare di Spoleto S.p.A.
Banca Popolare Valconca
115
Banca Popolare di Verona - S. Geminiano e S. Prospero S.p.A.
Banca Popolare di Vicenza
Banca Regionale Europea S.p.A.
Banca di Roma S.p.A.
Banca di San Marino
Banca di Sassari S.p.A.
Banca Sella S.p.A.
Banco di Brescia S.p.A.
Banco di Desio e della Brianza
Banco di Napoli S.p.A.
Banco Popolare Scpa
Banco di San Giorgio S.p.A.
Banco di Sardegna S.p.A.
Barclays Bank Plc
Carichieti S.p.A.
Carifano S.p.A.
Carifermo S.p.A.
Cassa Lombarda S.p.A.
Cassa di Risparmio di Alessandria S.p.A.
Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno S.p.A.
Cassa di Risparmio in Bologna S.p.A.
Cassa di Risparmio di Cento S.p.A.
Cassa di Risparmio Città di Castello S.p.A.
Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana S.p.A.
Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A.
Cassa di Risparmio di Firenze S.p.A.
Cassa di Risparmio di Foligno S.p.A.
Cassa di Risparmio di Forlì S.p.A.
Cassa di Risparmio Friuli Venezia Giulia S.p.A.
Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo S.p.A.
Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza S.p.A.
Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia S.p.A.
Cassa di Risparmio di Prato S.p.A.
Cassa di Risparmio di Ravenna S.p.A.
Cassa di Risparmio della Repubblica di S. Marino
Cassa di Risparmio di Rimini S.p.A.
Cassa di Risparmio di San Miniato S.p.A.
Cassa di Risparmio di Savona S.p.A.
Cassa di Risparmio della Spezia S.p.A.
Cassa di Risparmio di Venezia S.p.A.
Cassa di Risparmio di Volterra S.p.A.
Cedacri S.p.A.
Centrale dei Bilanci
Centrobanca S.p.A.
Credito Artigiano S.p.A.
Credito Bergamasco S.p.A.
Credito Emiliano S.p.A.
Credito di Romagna S.p.A.
Credito Siciliano S.p.A.
Credito Valtellinese
CSE - Consorzio Servizi Bancari
Deutsche Bank S.p.A.
Eticredito Banca Etica Adriatica
Euro Commercial Bank S.p.A.
Farbanca S.p.A.
Federazione Lombarda Banche di Credito Cooperativo
Federcasse
Findomestic Banca S.p.A.
Interbanca S.p.A.
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Intesa SanPaolo S.p.A.
Istituto Centrale Banche Popolari Italiane
MCC S.p.A.
Mediocredito Trentino Alto Adige S.p.A.
Meliorbanca S.p.A.
Sedicibanca S.p.A.
SIA-SSB S.p.A.
UBI Banca
UBI Banca Private Investment S.p.A.
UBI Pramerica SGR S.p.A.
Unibanca S.p.A.
Unicredit Banca S.p.A.
Unicredit Management Bank
Unicredito Italiano S.p.A.
Unipol Banca S.p.A.
Veneto Banca
Amici dell’Associazione
Arca SGR S.p.A.
Associazione Studi e Ricerche per il Mezzogiorno
Banca Intesa a.d. Beograd
Centro Factoring S.p.A.
Finsibi S.p.A.
Fondazione Cassa di Risparmio di Biella S.p.A.
Kpmg S.p.A.
Casse del Centro S.p.A.
Sofid S.p.A.
Per ogni informazione circa le pubblicazioni ci si può rivolgere alla Segreteria
dell’Associazione - tel. 02/62.755.252 - E-mail: [email protected]
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Finito di stampare Settembre 2008
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