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Il disastro di Chernobyl, 25 anni dopo
26 aprile 2011
Kiev - «Tutto intorno a noi è foresta. La selva che stiamo
attraversando nelle immediate vicinanze della centrale è
chiamata “Red Forest”: era una pineta grande come una media
città, situata nell’area compresa in un raggio di dieci chilometri
del sito nucleare di Chernobyl. In seguito all’incidente subì un
“fallout radioattivo”, che la fece dapprima virare verso il colore
rosso. Quindi morire. Tuttavia, grazie all’assenza umana l’area
della foresta rossa è oggi diventata una vera e propria oasi
ecologica e un rifugio unico per la fauna selvatica»: così
racconta “Chernobyl - Scatti dall’inferno”, di Massimiliano
Squillace, il volume di foto pubblicato dalla Infinito edizioni, con
la prefazione di Filippo Penati, l’introduzione di Mario Pillon e la
Chernobyl, manifestazione
di Greenpeace per i 25 anni
postfazione di Andrea Satta, in uscita in occasione del 25esimo
anniversario del più grande disastro nucleare della storia.
«Stiamo tagliando per un deserto, un rigoglioso deserto verde. Un’enorme e tranquilla
campagna dove la natura è esplosa negli anni. Ogni tanto incrociamo una strada, un
piccolo paese. Le vie sono vuote, i vetri rotti, le case abbandonate. Tutto intorno a noi è
disseminato di cartelli nell’erba che indicano un’elevata presenza di radiazioni»: il
racconto sembra il diario di viaggio in un “dopoguerra nucleare”. Decine di splendide foto
e un testo scritto con uno stile rapido e asciutto, quasi radiofonico, documentano che
cosa è rimasto di Chernobyl 25 anni dopo quella notte del 26 aprile 1986, quando la
centrale esplose, lanciando nell’atmosfera venti milioni di curie di materiale radioattivo.
La nube tossica raggiunse prima i paesi scandinavi, poi il resto dell’Europa, con il
governo ucraino che comunicò con colpevole ritardo l’immane tragedia verificatasi a
Pripyat, la città più vicina all’impianto, dove vivevano circa 50mila persone.
Squillace è nato a Milano nel 1977, vive tra Londra e Milano ed è considerato tra i
pionieri del Web italiano: le sue immagini sono spettrali, tutte in bianco e nero;
immortalano gli interni delle scuole, delle aziende, ciò che resta di una bambola tra i
detriti, una piscina di epoca sovietica, ambienti devastati. E il “mostro” sembra essere
ancora lì: «È quello che - come racconta Satta nella postfazione - ha portato via Taras,
di sedici anni, con un tumore».
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