Milano, 3 maggio 2011 Chiara Simonato Una nuova idea di didattica interculturale Proporrò alla discussione alcune riflessioni, e soprattutto alcune domande, relativamente alla possibilità di nuove forme di didattica interculturale, intese come forme di attuazione di un'idea di cittadinanza internazionale: è infatti giunto il momento non solo di superare ogni cieca ed asfittica idea di cittadinanza nazionale o addirittura localistica, ma anche di pensare più in grande della stessa cittadinanza europea, in direzione di una cittadinanza cosmopolita. Cosa abbiamo realizzato finora Il mio punto di partenza è la positiva considerazione di quanto nelle scuole della Rete SIIO abbiamo fatto nel corso di questi cinque operosi anni di sperimentazione, che sono riusciti a strappare al MIUR un primo parziale riconoscimento normativo dell’importanza dell’introduzione della Lingua e Civiltà Cinesi nelle scuole italiane. Poiché abbiamo puntato fin dall’inizio sulla curricularità di questo insegnamento, abbiamo giocoforza dato la priorità all’inserimento della Lingua rispetto alla Civiltà. Supportati dall’esperienza sul campo e dalla competenza glottodidattica di altri insegnanti di Lingue occidentali delle nostre scuole, gli insegnanti di Cinese della Rete hanno disegnato una programmazione per questa nuova materia: programmare significa scegliere una metodologia e definire degli obiettivi. Quanto agli obiettivi, essi sono stati declinati per competenze e per livelli (livello B1 per tutte le quattro competenze consuete + conoscenza di 1500 caratteri nei licei, 1100 nei tecnici) e concordati con il MIUR fin dal 2009, anno del primo Esame di Stato; il MIUR ha provveduto ad inserire le prove dell’esame di stato tra le altre consuete; il MIUR si è per questo avvalso della collaborazione scientifica del DSAO di Ca’ Foscari, supporto fondamentale in tutto il percorso. Abbiamo agito per così dire in anticipo sugli stessi “Profili” dei sei percorsi liceali previsti dallo schema del Ministro Gelmini usciti nel 2010, che danno indicazioni sui livelli da raggiungere utilizzando finalmente lo schema del Quadro Comune Europeo di riferimento per le Lingue Straniere (B2 per prima e seconda LS e B1 per terza LS) Il nostro modo di procedere si è basato sull’analogia tra quanto definito dal QCER per le lingue straniere: questo schema è utilizzabile nella impostazione didattica della lingua cinese nel momento in cui dobbiamo descrivere la quattro competenze di base (leggere, scrivere, ascoltare, parlare); è però manchevole nel momento in cui dobbiamo descrivere appieno le conoscenze necessarie alle competenze di lettura e scrittura: ecco allora l’inserimento dell’indicazione relativa al numero di caratteri. Quanto alla scelta della metodologia didattica, anche in questo caso abbiamo proceduto in analogia con le LS insegnate nella scuola, dove ormai è ampiamente accreditato il metodo comunicativo e tendenzialmente in disuso il metodo grammaticale. Questi passaggi ed i relativi risultati finora raggiunti non hanno risolto alcuni problemi cruciali, anzi, li hanno portati alla luce. Non è questo il punto su cui intendo soffermarmi, tuttavia tali problemi devono essere nominati e tempestivamente affrontati da chi di competenza. Si tratta innanzitutto del problema del livello di preparazione linguistica dei giovani laureati delle Facoltà di Lingue Orientali, che deve assolutamente essere più alto dell’attuale e deve essere garantito dalle Università alle scuole stesse. Attualmente, infatti, l’ottimo livello degli insegnanti di cinese della Rete è il risultato di loro percorsi biografici particolari, non del semplice percorso universitario: non è pensabile che mentre la scuola si propone di congedare studenti con livello B1, l’università mandi alla scuola insegnanti con un fragile livello B2. Si tratta poi del problema della formazione metodologica degli insegnanti di cinese, di cui finora si sono fatte carico esclusivamente le scuole e la buona volontà degli individui. La formazione professionale degli insegnanti deve essere terreno su cui il MIUR finalmente proponga percorsi all’altezza della complessità e importanza del loro compito. Su cosa puntiamo ora E’ ora necessario interrogarci sull’inserimento della Civiltà cinese, cioè sull’introduzione o sul potenziamento dell’insegnamento delle molte forme della cultura accanto alla lingua cinese, ed è questo un aspetto particolarmente delicato. Innanzitutto, l’apprendimento della cultura sostiene e rafforza l’acquisizione dei contenuti linguistici, che resta altrimenti zoppo: la lingua cinese deve cioè essere spiegata anche come civiltà e attraverso la sua civiltà; ma tale civiltà è talmente particolare rispetto all’occidentale che il suo inserimento didattico impone una considerazione a sé rispetto alle modalità con cui avviene usualmente la mediazione dei contenuti culturali relativi alle lingue occidentali. In questo ambito non possiamo più procedere per analogia rispetto alle modalità che utilizziamo quando insegniamo/apprendiamo la storia, la filosofia, la letteratura, le arti relative alle lingue straniere occidentali; in altri termini, non possiamo limitarci ad affiancare l’insegnamento della lingua a quello della cultura, come facciamo con lo studio di storia, filosofia, letteratura, arte relative alle lingue occidentali. Infatti, queste lingue stanno nello stesso contesto di civiltà in cui noi stessi stiamo, su cui il modello di formazione delle nostre scuole è costruito e che alcune specifiche discipline si occupano di fare acquisire: penso in primis alla filosofia ed alla storia, più in generale alle discipline che appunto siamo soliti definire formative. La lingua cinese invece non ha contesto nelle nostre scuole e nella nostra civiltà: ecco perché qui procedere per analogia non è possibile, possiamo procedere per sola differenza. Ecco perché non possiamo accettare semplificazioni, ma dobbiamo farci carico di molti e direi gravi problemi culturali. Qui è la rosa, qui danza L'inserimento dell'insegnamento/apprendimento della Civiltà cinese accanto alla Lingua cinese si presenta allora necessariamente come didattica interculturale, cosa che a propria volta si propone come forma di attuazione di una nuova finalità pedagogica, un modello di cittadinanza cosmopolita, come dicevo all'inizio. Questo significa allora che, se vogliamo progettare queste nuove forme di didattica, dobbiamo essere estremamente consapevoli, e critici, di quale sia il terreno culturale su cui poggiamo i piedi, di quali siano le condizioni del nostro pensiero. Da un lato, dobbiamo comprendere fino in fondo e, possibilmente, andare oltre un pregiudizio negativo nei confronti della Cina: è l’immagine della Cina come altro da sé dall’Occidente, come altro definito in relazione-a e in dipendenza-da un sé strutturato e potente, definito come un altro da sé minore del sé occidentale. E’ il pregiudizio “occidentalistico”, che ha una potente formulazione nel pensiero di Hegel: e l’hegelismo impregna il nostro pensare e ancora lo conduce, paradossalmente tanto più quanto più proviamo a ragionare in termini critici, cioè, hegelianamente, dialettici… D’altro lato, dobbiamo anche comprendere e auspicabilmente abbandonare il pregiudizio positivo nei confronti della Cina: l’immagine della Cina, sì, ancora come altro da sé, ma ora come qualcosa che rispecchia e solleva uno strato profondo del sé, un livello autentico, per così dire incontaminato quindi incomparabilmente diverso e per questo superiore al sé occidentale. E’ il pregiudizio “orientalistico” o, per dire forse meglio, “filo-orientale”, che tanto corso ha avuto in Occidente, dalle sue prime espressioni nell’età del colonialismo, come descrive E. W. Said, fino agli esoterismi anticapitalistici diffusi dagli anni sessanta ad oggi. Anche negare la potenza di questa fascinazione e di questo approccio, che ha portato tanti studenti e prodotto tanti professori nelle nostre università, sarebbe superficiale e dannoso. Infine, ed è esattamente qui che i due precedenti problemi vanno oggi a confluire, dobbiamo evitare il grave e presente rischio che l’attuale imporsi dell’egemonia economica della Cina sui paesi dell’Occidente si consolidi in egemonia culturale e trovi così la più forte delle legittimazioni. I pregiudizi sopra descritti esistono, ignorarli non significa superarli; al contrario, negarne l’esistenza significa offrirsi sprovveduti all’amnesia e alla superficialità del presente. Dobbiamo avere il coraggio di nominare queste strutture mentali, per fare tesoro dell’esperienza che in loro abbiamo attraversato e consumato, per rispondere ora provveduti di memoria alle sfide del presente: gli schemi culturali tramite cui guardiamo la realtà non sono fantasmi che si lasciano esorcizzare e magicamente volatilizzare, magari dagli abbagli del successo del mercato capitalista globale o dalla presunzione di sapere superare i limiti della propria storia; sono invece strutture che permangono nella loro complessità, condizioni imprescindibili del nostro pensare, strutture da cambiare, certo, ma a partire dalle contraddizioni che esse propongono, non dalla loro ignoranza. Uno dei punti forti che l’occidente ci insegna e deve poter insegnare al mondo è proprio l’intelligenza critica di sé: un intelligente senso di appartenenza ed insieme di distanza dalla storia che ci ha prodotto è quello che possiamo e dobbiamo mettere in campo, sfuggendo così ad una supina acquiescenza alle logiche del potere economico, alle facili suggestioni delle culture diverse dalla nostra o all’allegra ignoranza della pasta di cui siamo in realtà fatti. L’apertura che stiamo praticando verso la civiltà cinese deve partire da noi: qui si colloca la finalità formativa che abbiamo in mente per i nostri figli e per i nostri studenti. Relazioni di civiltà Abbiamo bisogno di una nuova idea di relazioni tra civiltà. Vogliamo realizzare un incontro tra civiltà, un incontro che non sia subordinazione dell’una all’altra, che non sia neppure omologazione reciproca, ma che non sia integrazione, se integrazione significa semplicemente adattamento reciproco in cui le differenze si annullano: vogliamo qualcosa di più, un incontro in cui ciascuna civiltà conosca e riconosca l’altra a partire da sé e nella differenza con l’altra, non un avvicinamento fondato sull’attenuazione dei contrasti oppure sulla cancellazione dei tratti forti di sé; vogliamo un incontro tra insiemi, tra sistemi di pensiero e di definizione della realtà complessi, un incontro in cui ciascun insieme trova punti di tangenza e –perché no?- spazi di interferenza con l’altro. Mi piace pensare che in un incontro non vi sia solo contatto, mi piace pensare che non vi siano presunte semplici aree di intersezione quanto piuttosto spazi di interferenza, appunto. Penso agli interessanti e problematici studi di T. Todorov sulla “conoscenza dell’altro” a proposito della colonizzazione americana e, più recentemente, del rapporto est-ovest, studi in cui Todorov analizza situazioni storicamente drammatiche, ma anche produttive di grandiosi ordini nuovi, e da cui ricava quell’idea di relazioni tra civiltà che ho qui riproposto. Penso alle straordinarie riflessioni di W. Benjamin sulla traduzione tra le lingue del mondo, intesa come linea spezzata in cui ogni lingua accoglie l’altra e fa propria la significazione dell’altra rendendo permeabili i propri confini. Penso alla descrizione che F. Jullien propone della sua esplorazione dello spazio simbolico della Cina come spaesamento dello spirito, spaesamento da assecondare e da costringere a produrre nuovi significati. E’ a scuola che una nuova idea ed una nuova pratica di relazioni di civiltà va realizzata. Molti sono i modi, il primo su cui riflettere e per il quale trovare soluzioni praticabili riguarda le scelte didattiche relative all’insegnamento/apprendimento della cultura cinese, che è appunto, come detto inizialmente, ciò su cui puntiamo ora. L’insegnamento/apprendimento della cultura cinese, coerentemente a questa idea di relazioni tra civiltà, deve tenersi lontana da ogni impostazione che produca conoscenze superficiali delle diverse culture: certamente non può consistere soltanto nel racconto delle caratteristiche sociali ed antropologiche della realtà cinese, secondo un approccio di tipo puramente descrittivo; nè può limitarsi a presentare la serie delle diverse opinioni che dicono qualcosa sulla Cina del passato o del presente, secondo un approccio di tipo dossografico. Facilmente queste modalità producono una conoscenza superficiale, certamente non critica né approfondita, della cultura così studiata. L’insegnamento/apprendimento della cultura cinese, coerentemente all’idea esposta, neppure potrà accontentarsi di una considerazione comparativa tra le due civiltà: certo vi sono categorie di pensiero simili, certo possiamo ragionare in classe sull’idea di humanitas in occidente e scoprire che la nozione di ren tra taoismo e confucianesimo forse va in una direzione di senso analoga, ma altrettanto certamente non possiamo concludere che tutto è trasversale a tutto e il pensiero umano è in fondo più o meno simile ovunque… Facilmente questa modalità produrrà una sorta di sincretismo dove le differenze sono annullate o comunque risolte nell’uniformità di una semplificazione, che poco o nulla potrà nutrire il bisogno di novità del pensiero; o forse produrrà un banale relativismo, anch’esso ben poco utile a rispondere alle difficili domande che il nostro presente ci pone. Se vuole pensare e costruire relazioni tra civiltà, l’insegnamento/apprendimento della cultura cinese dovrà essere impostato invece sull’esposizione delle categorie fondanti del pensiero cinese, della struttura logica che ne consente la cultura e che ne colora la specificità; e queste categorie dovranno essere poste in coraggioso confronto con la struttura concettuale del pensiero occidentale. Nell’attrito e nell’accoglienza reciproca delle categorie cardine della filosofia, della storia, della produzione letteraria ed artistica possiamo produrre una nuova consapevolezza delle relazioni di civiltà. Una strada percorribile Per realizzare questa idea di didattica interculturale, è necessario coinvolgere nel progetto di insegnamento della lingua e civiltà cinesi non solo gli insegnanti di lingue, come è accaduto finora, ma anche gli insegnanti di storia e filosofia nei Licei, di italiano e storia negli Istituti Tecnici, di storia dell’arte nei Licei: questi professionisti della didattica hanno, secondo il nostro sistema formativo complessivamente inteso, competenze critiche rispetto alle materie di loro studio pregresso ed hanno capacità di approccio critico rispetto a territori che non fanno parte del loro bagaglio culturale ma che possono imparare a mediare adeguatamente. Certo, è necessario pensare ad aggiornamenti sulla civiltà cinese rivolti agli insegnanti di storia, filosofia, letteratura, arte. Poi è necessario organizzare momenti interdisciplinari tra questi insegnanti e gli insegnanti di cinese, secondo modalità semplici e fattibili nell’ordinamento e nei quadri orari attuali della scuola italiana: ore di compresenza oppure lezioni concordate nel contesto della didattica curriculare del mattino; svolgimento di uno o due seminari pomeridiani nel contesto della didattica curriculare (come spostamento d’orario) oppure come piccolo monte ore supplementare. In altri termini: con minimo onere aggiunto sul carico di lavoro degli studenti e sulle casse della scuola. Vi è un’altra ragione profonda per cui questo approccio è senz’altro preferibile agli approcci che puntano sulla descrizione e che rischiano il naufragio nel relativismo, di cui sopra dicevo: gli studenti delle nostre scuole, allenati alla filosofia, alla storia ed alle arti secondo un approccio categoriale e problematico, sono studenti competenti. Scegliere un approccio descrittivo proprio nel momento in cui si propone loro lo studio di un oggetto massimamente complesso costituirebbe un’evidente contraddizione: adotteremmo cioè un metodo semplice e semplificatorio per affrontare lo studio di una civiltà-altra e della relazione tra più civiltà, pretendendo invece un metodo critico per affrontare lo studio di vari aspetti omogenei ad uno stesso ambito di civiltà, che è pertanto un oggetto relativamente meno complesso. Sine qua non: le condizioni di possibilità di questo modello Per realizzare questa idea di didattica interculturale, è però necessario che condizioni più profonde siano state poste, condizioni che riguardano appunto la possibilità di una relazione tra le civiltà in questione. La prima condizione riguarda la rappresentazione di sé che ciascuna delle due propone all’altra, per così dire il nome con il quale si presenta e con il quale vuole essere chiamata dall’altra, offrendosi alla relazione. Accanto a questa auto-rappresentazione, è attiva la rappresentazione che ciascuna delle due civiltà porta con sé relativamente all’altra civiltà, l’idea che la prima si è fatta della seconda e che inevitabilmente –consapevolmente o meno, tuttavia inevitabilmente- porta con sé nell’incontro. Mostrare il proprio volto, insomma, e non nascondere lo specchio in cui finora si è visto il volto dell’altro: senza questa prima apertura non c’è relazione possibile. La seconda condizione riguarda il modo dell’apertura stessa: ciascuna delle due civiltà che si incontrano deve avere interesse verso l’altra, deve avere e manifestare qualche buona ragione per incontrare l’altra; in altri termini, deve essere autenticamente e non strumentalmente curiosa dell’altra, deve desiderarla, esattamente come in un rapporto amoroso che muova strati profondi dell’essere e che non sia governato dal solo bisogno di auto-soddisfazione. In assenza di queste due condizioni fondamentali non c’è relazione: c’è falsificazione, strumentalizzazione, nascondimento, magari profitto, egemonia, successo, ma non c’è relazione di civiltà. Pongo allora a questo punto le domande che inevitabilmente si pongono e che, me ne scuso, voglio porre con estrema crudezza, spero a solo beneficio della chiarezza e della comprensione, certo non della provocazione. “Noi” abbiamo detto chi siamo. La nostra intera storia filosofica di occidentali è un’autodichiarazione e questa storia è diventata da più di un secolo a questa parte la dichiarazione dei nostri limiti e mea culpa. E’ infatti da qui che procede anche l’individuazione dei pregiudizi “occidentalistico” ed “orientalistico”, è da qui che procede l’autodenuncia dell’occidente come responsabile di un’apertura agli altri mondi del mondo dove è prevalsa una colonizzazione violenta, che ha subordinato od omologato gli altri a “noi”. “Noi”, ora, abbiamo fatto una nostra proposta di nuova civilizzazione interculturale, chiedendo di conoscere e di essere conosciuti. E “Loro”? La Cina si è dichiarata? Quale rappresentazione dà la Cina ha di sé, con quale si presenta a noi? Quale la rappresentazione che essa ha di “noi”? Quale la curiosità che la porta a noi? Se l’apertura all’altro che la Cina manifesta consiste nell’interesse strumentale verso la scienza e verso la tecnica occidentali, come il volume degli scambi economici e l’importanza degli scambi tra le facoltà universitarie tecnico-scientifiche sembrano indicare, allora è quanto meno dubbio che quel che si sta costruendo sia una relazione di civiltà nel senso sopraddetto. Il ruolo dei Centri Confucio La nuova idea di didattica interculturale qui tratteggiata deve fare i conti, in questo preciso momento politico-culturale, con un altro decisivo fenomeno: la diffusione dei Centri Confucio che si appoggiano alle Università ed alle Scuole del nostro paese e degli altri paesi del mondo con i quali la Repubblica Popolare Cinese punta ad attivare stabili rapporti culturali. Anche quanto a questo aspetto del problema, credo sia necessario formulare domande chiare: di quale politica culturale essi sono portatori? Quale idea di Cina e quale idea di Europa essi intendono fare interagire? Con quale curiosità verso i loro ospiti si dispongono ad intervenire? Se i Centri Confucio si proporranno come una sorta di monadi autoreferenziali, come semplici portatori della cultura cinese in Europa; in altri termini, se si mostreranno interessati più a portare la voce del loro centro lontano che a dialogare con le voci di questo luogo che li ospita, allora non riusciremo a instaurare autentiche relazioni di civiltà. Prevarrà in questo caso la voce imperiosa di Pechino, l’eco potente della sua forza economica che in Occidente cerca in fondo soltanto nuovi mercati. Se invece i Centri Confucio e gli Istituti che li ospitano ed ospiteranno sapranno dialogare, definire insieme le linee di iniziative ben collocate sul territorio e di interventi rispettosi del sistema formativo occidentale, allora potremo dire di avere davvero avviato relazioni di civiltà. Concludo con un esempio possibile di produttiva collaborazione tra i Centri Confucio e le scuole italiane, auspicando che questa si realizzi quanto prima anche nella scuola dove lavoro, il Liceo “Pigafetta” di Vicenza, e dove abbiamo da poco intrapreso l’inserimento di un’Aula Confucio. Attivare scambi tra scuole, mandare nelle scuole cinesi i nostri studenti ed accogliere qui gli studenti cinesi: può essere questo un modo per affidare a menti e corpi più liberi di “noi”, non ancora limitati da sovrastrutture e pregiudizi culturali, il compito di riorientare i nostri percorsi nel mondo, di tessere l’insieme delle relazioni vive e dinamiche di una cittadinanza e di una civiltà davvero cosmopolite.