Luglio 2014 ospedaleniguarda.it Poste Italiane Spa Sped. abb.post. Dl n. 353/2003 art 1 (comma1) D&B Milano DISTRIBUZIONE GRATUITA Trapianti iale r Edito Donare moltiplica la vita La cultura della donazione è la mossa vincente Tradizione e il nuovo che avanza S ono tante le mail che arrivano ogni settimana in redazione per richiedere l’abbonamento (gratuito) al nostro periodico. Ci fa piacere l’interesse con cui ci seguite. Allo stesso modo vorremmo “vedere schizzare all’insù” il “contatore delle donazioni” (e quindi dei trapianti) che nel nostro Ospedale hanno da sempre avuto la “loro grande casa”. Ed è proprio a questo tema che abbiamo dedicato l’apertura del giornale. Perché i trapianti e le donazioni sono scolpite a chiare lettere nella storia di Niguarda. Così come nella nostra tradizione c’è l’attenzione per il tema della tubercolosi, una malattia che non è ancora sconfitta e per cui sono necessari nuovi farmaci. Le ultime dalla ricerca e i focus dell’area oncologica sono gli argomenti caldi di questa edizione, così come uno “sportello tecnologico” aperto nella diabetologia per le mamme in gravidanza e la corsa contro il tempo, che ogni giorno si realizza nella stroke unit per salvare i pazienti colpiti da ictus. Non manca la nostra panoramica sull’arte e sul terzo settore, ovvero quella magnifica realtà che è il volontariato. Infine a settembre ci attende un’importante novità: il Blocco Nord aprirà e inizierà ad ospitare i primi reparti. E’ il nuovo che avanza. Intanto buone vacanze. La Redazione Attualità a pag. 2 Questa mano non è mia: le lesioni cerebrali fanno svanire la coscienza di sè S embra non esserci alternativa: avere più sì alla donazione è l’unica strada percorribile per incrementare il numero dei trapianti. Ne abbiamo parlato con il coordinatore regionale con cui abbiamo fatto il punto sui numeri della rete in Lombardia e con chi ogni giorno a Niguarda lavora in prima linea. Sono tutti d’accordo: serve più informazione e formazione. CONTINUA A PAGINA tre Tubercolosi Stroke Unit Nuovi farmaci contro le forme multi-resistenti “Time is brain”, l’ictus si batte sul tempo 4.000 casi totali in Italia, la maggior parte nelle grandi città. Il 3-5% i casi di resistenza Riconoscere i sintomi e massima rapidità d’intervento Sommario Sanità a pag. 3 I numeri della rete-trapianti. Come diventare donatore Centri Specialistici a pag. 5 Diabete e gravidanza: “lo sportello tecnologico” Malattie dalla A alla Z a pag. 6 Gli ultrasuoni per i fibromi uterini. L’artrite reumatoide Gli Specialisti Rispondono da pag. 8 a 12 Il dermatologo, l’ortopedico, l’oncologo… Volontariato a pag. 13 Al-Anon e l’Unione Samaritana News dall’Ospedale a pag. 15 Tutti gli appuntamenti da non perdere B asta il suo nome per evocare scenari passati: la tubercolosi sembra una malattia d’altri tempi, una “patologia in bianco e nero” contro cui hanno dovuto lottare i nostri nonni o le generazioni precedenti e che ormai è sconfitta, messa all’angolo definitivamente. CONTINUA A PAGINA due Niguarda Cancer Center “Time is brain”, è questo il grido di battaglia lanciato all’unisono da chi combatte contro l’ictus. Contro questa patologia, infatti, la tempestività dei trattamenti può fare la differenza tra la vita e la morte, tra un pieno recupero o una disabilità. A PAGINA cinque Città dell’Arte Nuovo studio leucemia Bernd Zimmer, l’opera linfatica e le ultime dalla ricerca restaurata al MAPP A PAGINA due A PAGINA quattordici Periodico di informazione dell’Azienda Ospedaliera Ospedale Niguarda Ca’ Granda Il giornale di Niguarda Anno 9 - Numero 3 due Centro Antiveleni Morso di vipera cosa fare e cosa no U na bella passeggiata in montagna: una buona idea con l’arrivo della stagione calda. Ma se a spaventarvi sono gli incontri ravvicinati con le vipere niente paura. In un opuscolo dedicato ai ragazzi delle scuole gli esperti del centro antiveleni di Niguarda hanno raccolto tutti i consigli utili. Innanzitutto ricordarsi che le vipere sono animali timorosi, temono l’uomo e tendono ad aggredire solo per difesa. Inoltre quando la vipera morde, non sempre inietta il veleno e non sempre il veleno viene iniettato in dose tossica. Infine se pensate che il metodo John Wayne (fu proprio lui il primo a proporlo in uno dei suoi celebri film) “incidi, succhia e sputa” sia una buona soluzione, ricredetevi. Niente di più sbagliato. Cosa fare Tranquillizzare l’infortunato Immobilizzare l’arto colpito, come se fosse fratturato Ridurre, per quanto possibile, l’attività muscolare per non favorire la diffusione del veleno Raggiungere un ospedale Centro Antiveleni Niguarda 02 66101029 - H24 Attualità Nuovi farmaci contro le forme multi-resistenti La verità è che la problematica è tutt’altro che superata: la tubercolosi è ancora viva e i numeri ce lo ricordano. Nel mondo si contano ancora quasi 9 milioni di casi, un terzo dei quali, nell’aree più povere del pianeta, non riesce a ricevere né diagnosi né trattamento. In un caso su 4 la tubercolosi è associata all’infezione da HIV e le vittime nell’ultimo anno sono state 1.300.000. Pensiamoci: è come se una città grande come Milano, fosse stata cancellata dalla cartina geografica con tutti i suoi abitanti. In Italia i casi notificati sono circa 4.000, ma se ne stimano circa un migliaio in più non segnalati o non diagnosticati. La maggior concentrazione si ha nelle città del nord e nelle grandi metropoli: solo a Milano e Roma si contano il 25% dei casi. “Questa distribuzione è legata in parte al fenomeno dei flussi migratori che si concentrano maggiormente nelle grandi città - ci spiega Luigi Codecasa, Responsabile del Centro Regionale di Riferimento di Villa Marelli per la tubercolosi-. Ma è anche correlata ad altre caratteristiche della popolazione dei grandi centri urbani, in cui categorie a rischio come le persone senza fissa dimora oppure gli anziani- con più patologie o in corso di trattamenti che indeboliscono il loro sistema immunitario- possono essere un bersaglio privilegiato d’infezione”. Anche la maggior diffusione dei casi di HIV nelle grandi città è un grimaldello che può spalancare più facilmente le porte alla tubercolosi. Apreoccupare gli esperti ci sono le forme che più difficilmente si piegano alle cure. Sono i casi di multi-resistenza, che cosa significa? “Si parla di multi-resistenza per quei ceppi che non rispondono al trattamento con i due principali farmaci antitubercolari, la rifampicina e l’isoniazide- risponde Codecasa-. A questi si può aggiungere anche una mancata suscettibilità ai farmaci di seconda linea”. Nel nostro Paese si stima che queste forme refrattarie ai trattamenti siano circa il 3-5%. In alcune aree dell’Europa dell’est, in particolare nelle repubbliche ex-sovietiche, questo tasso può arrivare a sfiorare il 25%. “Per questo la provenienza dell’ammalato è un’indicazione epidemiologica da tenere in considerazione che ci guida nei controlli diagnostici per isolare tempestivamente questi casi più difficili da trattarecommenta il tisiologo-”. Multi-resistenza, infatti, vuol dire prognosi peggiore e cure più lunghe. Se un caso di tubercolosi si tratta in 6 mesi con pochi farmaci e costi contenuti, viceversa per i casi di multiresistenza si ha un’amplificazione di tutti questi aspetti. “La percentuale di guarigione scende dal 97% al 60% nel caso dei ceppi resistenti. Per le forme estremamente resistenti il dato si abbassa al 40%- specifica Codecasa-”. Per fortuna un assist arriva dalla ricerca, che ha messo a punto due nuovi farmaci che fanno ben sperare gli addetti ai lavori. “Sono la bedaquilina e il delamanid- indica lo specialista- e sono ancora in fase di utilizzo sperimentale. I risultati sono incoraggianti, ma rimangono alcuni aspetti da valutare sotto il profilo della scurezza e della tollerabilità soprattutto in caso di utilizzo in pazienti pediatrici. Ma il loro arrivo è da accogliere positivamente, visto che sono passati oltre 50 anni dall’introduzione dell’ultimo farmaco anti-tubercolare, la rifampicina”. Anche sotto il profilo della prevenzione i passi in avanti non mancano: è la rifapentina, un nuovo farmaco, che associato con l’isoniazide, è in grado di accorciare (e di molto) il Neuropsicologia Cognitiva Questa mano non è mia Come le lesioni cerebrali fanno svanire la coscienza di sé U na lesione cerebrale, per esempio un ictus - più frequentemente all’emisfero destropuò compromettere la rappresentazione corporea, la “mappa” cognitiva del nostro corpo che il cervello utilizza per farci interagire con lo spazio che ci circonda. Si SEGUE DALLA PRIMA può arrivare, così, a non riconoscere più un arto come proprio. Questo sentimento di esclusione (un disturbo neurologico detto somatoparafrenia) è talmente radicato che l’arto misconosciuto arriva a non rispondere più nemmeno alle minacce di stimoli dolorosi: è quanto emerge da una ricerca periodo di cura per quelle forme in cui la malattia è ancora in uno stato latente e non manifesta i sintomi caratteristici. La finestra terapeutica si accorcia a 8 settimane contro i 6-9 mesi del trattamento solo con isoniazide. Le armi non mancano, sta a noi non sottovalutare il nemico. La ceppoteca regionale Niguarda è da sempre in prima linea nella lotta alla tubercolosi: l’Istituto Villa Marelli è, infatti, il Centro di Riferimento Regionale (circa 400 casi di malattia attiva all’anno e 1.000-1.200 casi di infezione latente), ed offre un percorso assistenziale completo di prevenzione per le persone a rischio e di diagnosi e cura per i pazienti colpiti dalla malattia. Nel laboratorio di microbiologia dell’Ospedale, inoltre, ha sede un database regionale che ospita i diversi ceppi isolati nei singoli casi d’infezione: una sorta di “ceppoteca”, utile per potenziare la lotta contro la tubercolosi in Lombardia. “I ceppi dei nuovi casi di infezione isolati dai vari laboratori in Lombardia sono circa 700 ogni anno-ci spiega la microbiologa Ester Mazzola-. Per ogni variante viene eseguita una tipizzazione molecolare che permette un’ analisi epidemiologica, utile per individuare il prima possibile eventuali focolai d’infezione”. italiana di recente pubblicata su “Brain”. Lo studio, condotto dal Dipartimento di Psicologia dell’Università MilanoBicocca e dall’équipe del centro di Neuropsicologia Cognitiva di Niguarda insieme all’Università di Pavia, ha coinvolto tre gruppi di pazienti con somatoparafrenia (non riconoscimento del proprio arto emiplegico), emiplegia (ovvero paralisi dell’arto) e anosognosia (cioè l’inconsapevolezza della paralisi dell’arto). Lo scopo della ricerca era quello di studiare se la perdita del senso di appartenenza di una parte del corpo fosse accompagnata dall’incapacità di anticipare l’arrivo di uno stimolo doloroso. “A differenza degli altri pazienti, i somatoparafrenici hanno mostrato un’assenza di risposta cutanea sull’arto “dimenticato” – chiarisce Gabriella Bottini, Direttore del Centro di Neuropsicologia Cognitiva -. Il processo di perdita di coscienza del sé è talmente profondo che non si riescono neppure a percepire le minacce e non si attiva nessuna reazione di difesa, nemmeno riflessa”. Niguarda Cancer Center Nuova sperimentazione per la leucemia linfatica cronica Nello studio pubblicato sul New England Journal of Medicine c’è anche Niguarda U no studio durato due anni per mettere a confronto due farmaci di ultima generazione contro la forma di leucemia più diffusa in occidente: la leucemia linfatica cronica. E’ con questo obiettivo che è stato pensato e realizzato il trial internazionale “PCYC1112”, i cui risultati sono stati da poco pubblicati sul prestigioso New England Journal of Medicine, e che ha visto anche il contributo dell’Ematologia del nostro Ospedale. Sono stati 391 i pazienti arruolati in tutto il mondo. Tra i 6 centri italiani coinvolti nello studio Niguarda è quello che ha partecipato con il numero più alto di casi. I due farmaci messi a confronto sono l’ibrutinib, un principio attivo appartenente alle cosiddette “small molecules”, e l’anticorpo monoclonale ofatumumab. Si tratta di “targeted therapies”, terapie mirate, alternative alla chemioterapia che ad oggi rimane il gold standard di riferimento per la leucemia linfatica cronica e che però non sempre può essere utilizzata sui pazienti, soprattutto in quelli più anziani per via degli effetti collaterali; inoltre in alcune forme di malattia, il trattamento chemioterapico può non dare risposta. Insomma i due farmaci sono stati messi a confronto proprio per cercare un responso alla domanda: “Quale tra i due scegliere quando la chemioterapia non è un’opzione valida o praticabile?”. I risultati, ottenuti su pazienti sottoposti già a numerose linee di terapia, hanno dato un verdetto univoco, stabilendo la miglior efficacia di ibrutinib sia in termini numerici- il 62,6% dei pazienti ha risposto al trattamento contro il 4,1% per ofatumumab- sia in termini qualitativi. “La sopravvivenza totale è risultata superiore mostrando anche un allungamento del periodo di remissione dalla malattia- spiega l’ematologo Marco Montillo, referente per lo studio a Niguarda e autore della pubblicazione-. In particolare, del trattamento con ibrutinib hanno potuto beneficiare anche quei casi a prognosi sfavorevole, caratterizzati dalla mutazione “del 17p”, per cui le cure tradizionali generalmente non danno alcun miglioramento”. Ricerca oncologica All’ASCO 2014 presentati nuovi farmaci sperimentati a Milano S i chiama RXDX101 ed è un nuovo farmaco che è stato presentato al congresso annuale 2014 dell’ASCO, American Society of Clinical Oncology, il più importante evento mondiale sull’oncologia. Il farmaco è modernissimo ed è un inibitore selettivo di oncogèni (i suoi bersagli molecolari) che provocano i tumori del polmone, del colon-retto e della tiroide. La fase 1 della sperimentazione clinica è stata condotta dall’Oncologia Falck di Niguarda insieme all’Istituto dei Tumori di Milano: “Ha coinvolto 19 pazienti- ci spiega l’oncologo Salvatore Siena- per la cura di tumori del polmone, del colon-retto, e anche del neuroblastoma dell’adulto in fase avanzata, che non rispondevano più alle terapie convenzionali e che si distinguevano per la presenza del bersaglio specifico denominato ROS1 o TRKA o ALK. Abbiamo ottenuto un beneficio clinico netto ed è straordinario considerando la resistenza ai trattamenti precedenti e l’estensione della malattia”. Buoni i risultati anche per il nab-paclitaxel, un nuovo farmaco che utilizza le nanotecnologie per contrastare il tumore al pancreas metastatico. La sperimentazione clinica MPACT, che ne ha testato l’efficacia, ha coinvolto ricercatori australiani, statunitensi, canadesi ed europei. Per l’Italia hanno partecipato diversi gruppi coordinati dall’Oncologia di Niguarda. Sanità I numeri della rete trapianti: si può fare di più tre Sergio Vesconi Coordinatore dei Trapianti Regione Lombardia P er una volta lasciamo parlare i numeri: il “contatore” dei trapianti in Italia per il 2013 ha smesso di girare una volta toccata quota 2.841 (nel 2012 si è arrivati a 2900). Sempre per il 2013, i donatori segnalati in Lombardia sono stati 374, di questi quelli che effettivamente hanno portato ad un trapianto sono 202. Nel 2012 erano rispettivamente 380 e 233. Di contro crescono, anche se in minima parte, le opposizioni al trapianto: in Italia siamo passati dal 29,6% del 2013 al 31,7% dei primi mesi del 2014. Anche in Lombardia si conferma il trend: chi ha detto di no al trapianto è il 28,2% contro il 26,2% del 2013. Abbiamo chiesto un parere a Sergio Vesconi, Coordinatore dei Trapianti di Regione Lombardia. Qual è il suo giudizio su questi numeri? Il dato non migliora ma non c’è un grosso scarto tra il 2013 e il 2014. I numeri di quest’anno, è giusto ricordarlo, sono delle proiezioni che si basano sull’attività di questi primi mesi. I dati definitivi si avranno con la chiusura del 2014 e saranno quelli i punti fermi su cui ragionare. Un’altra osservazione che vale la pena evidenziare è che nel confronto 2012-2013 sono diminuiti i donatori poi effettivamente utilizzati per un trapianto. In pratica i casi segnalati sono pressappoco gli stessi, ma nell’anno precedente si sono per così dire “scartati” meno donatori. Ad incidere su questo dato sicuramente c’è l’età dei donatori che si sta innalzando sempre più. Questo a cosa porta? Sono presenti sempre più patologie e questo porta ad avere degli organi che più facilmente non soddisfano i requisiti per la donazione. C’è un lato positivo nella questione: i donatori giovani, infatti, sono sempre meno e questo è sintomo di un intervento efficace sia per la prevenzione sia per la gestione di quelle emergenze, come possono essere gli incidenti stradali, che portano allo stato di morte cerebrale. Per il 2013 in Lombardia il numero di donatori per milioni di abitanti è 20,8, un buon dato se confrontato con la media italiana, 18,5, e con quella europea che è di 16,9… Sì, comunque ci sono dei margini di miglioramento, si potrebbe fare di più. Per esempio nel 2012 lo score era oltre il 23, scontiamo i molti casi persi per non idoneità. Anche se il tutto rientra in normali oscillazioni statistiche. Per un rene in Italia si aspetta mediamente 3 anni, quasi 2 per un fegato… 2,8 anni si sta in coda per un cuore: cosa si può fare accorciare questi tempi? L’unica arma che abbiamo è aumentare la nostra capacità di donazione. Riducendo al contempo per quanto possibile l’opposizione. Molto passa da come i medici gestiscono i casi. Abbiamo notato che quando i familiari sono rimasti soddisfatti del trattamento riservato al malato e hanno vissuto una relazione soddisfacente con i sanitari, sono quasi sempre propensi alla donazione. Quando c’è stata frustrazione, le probabilità di opposizione crescono. Inoltre è importante potenziare l’identificazione dei possibili donatori che per una serie di negligenze possono essere esclusi dal percorso donazione. Su quali altri fronti intervenire? Sul miglioramento delle tecniche che portano a perdere sempre meno organi nelle varie tappe che anticipano il trapianto. Poi ci sono nuove strade d’intervento che aprono all’utilizzo di organi un tempo invece scartati. Penso alla donazione di doppio rene per esempio, una coppia di organi non di eccellente qualità vengono trapiantati nel donatore e insieme assicurano una buona funzionalità. Ci sono poi le tecniche di divisione del fegato, le split liver, che consentono di aumentare il numero dei trapianti. E’ in aumento la quota degli stranieri interessati da incidenti sulle strade e spesso è difficile avere un sì alla donazione in questi casi? In Lombardia interessa circa il 10% delle donazioni e in questa fetta di popolazione il tasso di opposizione sfiora il 50%. E’ chiaro che spesso si fa fatica a rintracciare i parenti, a questo si aggiunga la difficoltà di spiegare la questione affidandosi ad un traduttore. Ci sono poi diverse impostazioni culturali, tutto questo spesso porta ad un’opposizione. Però a mio giudizio non è un fenomeno così rilevante: ci sono regioni del nostro Paese in cui 1 donatore su 2 dice di no al trapianto e sono tutti italiani. Qual è la ricetta per aumentare la cultura della donazione in Italia? Questione di formazione: bisogna essere presenti nelle scuole ed è quello su cui puntano associazioni come AIDO (Associazione Italiana per la Donazione di Organi, tessuti e cellule). E’ quello il momento giusto in cui dare tutti gli elementi per farsi un’opinione a riguardo e gettare le basi per una scelta consapevole. Ma è anche una questione di informazione: non sempre il tema della donazione viene trattato con la giusta enfasi a livello delle autorità centrali, si dovrebbe puntare di più su campagne di comunicazione e sensibilizzazione. C’è dell’altro? Un’altra iniziativa, che partirà a breve e su cui si ripongono grandi speranze, è la possibilità di esprimere la propria volontà in merito alla donazione quando si va a rinnovare la carta d’identità. Una proposta che negli anni scorsi è stata attivata sperimentalmente solo in alcuni comuni d’Italia e che ha dato dei buoni risultati. Lei ha lavorato per 11 anni a Niguarda, non possiamo non farle una domanda a riguardo: qual è il peso di questo ospedale sullo scacchiere dei trapianti a livello regionale? Il peso è considerevole. E’ uno dei centri trainanti per l’attività di trapianto e donazione. Volendo guardare in prospettiva e sapendo che tutto è perfettibile, si può dire che Niguarda avvalorerebbe ancora di più la sua attività se riuscisse ad inserire nelle sue proposte il trapianto a cuore fermo, che si realizza non da un donatore in stato di morte celebrale, ma da un donatore deceduto in seguito ad arresto circolatorio. Grazie a delle tecniche particolari si riescono a recuperare gli organi per il trapianto. E’ una sfida complessa ma credo che a Niguarda ci siano tutte le componenti a livello di esperienza, know-how e tecnologia per andare a segno. Niguarda Transplant Center La grande casa dei trapianti D ecidere di donare i propri organi e tessuti dopo la morte è un gesto di grande generosità. Così facendo si dona ad un paziente, in molti casi in fin di vita, la possibilità di guarire e riprendere una vita normale. La normalità che si riacquista da gesti straordinari a Niguarda è di casa. Il nostro Ospedale è uno dei pochi centri in Lombardia ad effettuare trapianti per quasi tutti gli organi (cuore, polmone, pancreas, rene, fegato; gli unici interventi a non essere effettuati sono i trapianti d’intestino), senza dimenticare i trapianti di tessuti e cellule (come ad esempio le cornee). “Sono quasi 7.000 i trapianti, tra organi e tessuti, realizzati a Niguarda dal 1972 a oggi- ci spiega Luciano De Carlis, Direttore della Chirurgia Generale e dei Trapianti-. Il nostro centro ha puntato fin da subito su quelle tecniche che consentono di ottimizzare i risultati, come ad esempio l’intervento “split liver” che grazie ad una suddivisione in due parti del fegato permette di raddoppiare gli interventi. In questo senso va anche il trapianto di doppio rene e il trapianto di rene da vivente che utilizza il robot per la fase del prelievo ”. Non solo organi: in Ospedale hanno sede un Centro Trapianti Midollo, in possesso dei più alti accreditamenti del settore, e una Banca della Pelle, laboratorio specializzato nell’ingegnerizzazione di cute e cartilagine per interventi ricostruttivi. Una vera e propria “banca” dei tessuti in grado di sostenere il fabbisogno interno e rifornire altre strutture nazionali ed internazionali. Tecnologie di ultima generazione e i laboratori accreditati secondo standard internazionali, ma anche il lavoro quotidiano di équipe mediche e chirurgiche specialistiche muovono una cultura di vita, che cresce e si espande. Donazioni 2014: Niguarda in rialzo. Scegli di donare S entendo le parole degli addetti ai lavori di Niguarda ci si accorge di quanto la sensibilizzazione al tema della donazione sia cruciale per far girare questo meccanismo moltiplicatore di vita. Abbiamo raccolto il parere del Coordinatore locale del prelievo, Andrea De Gasperi e del Responsabile locale del prelievo, Elisabetta Masturzo. Le loro parole suonano come un appello. Per quanto riguarda l’andamento delle donazioni di organi e tessuti del Niguarda nei primi cinque mesi dell’anno si sta registrando un trend in leggera crescita. Il che è confortante dopo un 2013 non molto positivo. Aiutare e incoraggiare chi potrebbe scegliere di donare è un dovere morale da sempre condiviso da chi lavora a Niguarda, ma si può fare ancora di più come promotori della cultura della donazione. I trapianti di tessuti e di organi costituiscono uno dei progressi più straordinari della terapia e della solidarietà umana, e anche per questo richiedono attenzione, coerenza, equilibrio e un costante impegno. In effetti, il trapianto d’organi non interessa solo la scienza medica, ma implica anche un nuovo modo di concepire i rapporti fra le persone, in quanto ciascuno diventa responsabile della salvezza di altre vite con l’adesione a un semplicissimo, ma non banale ‘sì’, che è un ‘sì’ alla vita. La medicina dei trapianti ha, dunque, allargato il campo delle proprie competenze tecniche alla sfera dell’etica della donazione che chiama in causa la responsabilità individuale rinsaldandola all’interno di quella invisibile catena di solidarietà naturale che ci lega gli uni agli altri. SONO UN DONATORE Niguarda sostiene la Campagna promossa dal Ministero della Salute “Sono un donatore”. ASL, Comuni, Aido (Associazione Italiana per la Donazione di Organi), Donocard e Atto Olografo, sono questi i 5 modi che hai a disposizione per diventare un donatore. Vuoi saperne di più? Clicca su www.sonoundonatore.it Sanità Formazione e informazione per far crescere la cultura della donazione Stroke Unit “Time is brain”, l’ictus si batte sul tempo cinque Riconoscere i sintomi e massima rapidità d’intervento 4 ore e mezzo per intervenire Numeri e cifre, ritornano con la loro precisione anche nella cura, che ha una finestra d’intervento improrogabile. “Il trattamento più efficace che abbiamo a disposizione permette di intervenire sulle forme ischemiche (l’80% dei casi) e di sciogliere il trombo grazie a specifici farmaci tromboliticispiega Elio Agostoni, Direttore della Neurologia e Stroke Unit-. L’infusione, però, deve iniziare il prima possibile, entro le 4 ore e mezzo dalla comparsa dei primi sintomi. Già dopo un’ora si può vedere se la somministrazione è andata a buon fine o se è necessaria una seconda linea d’intervento, come una rimozione meccanica del trombo attraverso l’inserimento di cateteri che risalgono da un’arteria periferica fino all’area interessata”. Vietato ritardare: codice ictus e i primi sintomi La lotta contro le lancette inizia fin da subito, fin dalle fasi di trasporto all’ospedale. “E’ importante riconoscere i segni che possono far sospettare l’ictus: difficoltà nel parlare, emiparesi facciale, impossibilità di sollevare un braccio o una gambasottolinea il neurologo-”. E’ fondamentale allertare il 118 segnalando queste evidenze. La catena del primo soccorso attiverà uno specifico codice ictus, un percorso dedicato che provvederà a trasportare il paziente nel più breve tempo possibile in un ospedale in cui è attiva una stroke unit. “E’ un errore ad esempio, in caso di attacchi di lieve entità, recarsi al pronto soccorso con i mezzi propri, si perde più tempo e le fasi di intervento rischiano di non essere abbastanza celeri- puntualizza Agostoni-; si rischia inoltre di raggiungere strutture sprovviste di centri dedicati”. Stroke unit Si tratta di reparti strutturati appositamente per fornire nel più breve tempo possibile le migliori cure al paziente colpito da ictus. All’interno lavorano neurologi, infermieri e tecnici della riabilitazione, tutti specializzati nella gestione di questo tipo di pazienti. Secondo il Ministero della Salute in Italia operano circa 150 centri, concentrati soprattutto al Nord. Niguarda è uno di questi. Sono 7 i posti letto di questa unità che ogni anno si prende cura di circa 450-500 persone. “Dopo l’arrivo in ospedale il paziente viene sottoposto ad una Tac per accertarsi delle sue condizioni- spiega lo specialista-. Se la diagnosi di ictus ischemico viene confermata, l’infusione con i farmaci inizia già in pronto soccorso per poi proseguire nel letto della stroke unit, dove i parametri del paziente sono monitorati in continuo per valutare l’efficacia della terapia e per pianificare, eventualmente, interventi alternativi”. Fattori di rischio e un esame per prevenire Ci sono diversi fattori di rischio, tra questi: una storia familiare o personale di ictus, infarto o AIT (Attacco Ischemico Transitorio). La maggior incidenza si registra dopo i 55 anni e il rischio aumenta nelle persone ipertese; anche il colesterolo alto costituisce un potenziale pericolo, così come il diabete o le patologie cardiache tra cui la fibrillazione atriale. Per quanto riguarda gli stili di vita: assolutamente da evitare il fumo, consumare alcol in modeste quantità, mantenere una dieta povera di grassi e praticare attività fisica. Per i soggetti più a rischio l’eco-color doppler (un’ecografia) della carotide è un valido esame di screening mini-invasivo. Diabetologia Uno “sportello tecnologico” per le future mamme e non solo Microinfusori e sensori per la glicemia: tecnici qualificati a fianco del personale sanitario “Ha le dimensioni di un cellulare che puoi mettere in tasca, un sottile catetere lo collega al piccolo ago che è inserito sotto pelle a livello della pancia: è il mio microinfusore per l’insulina da cui non mi separo mai”. A dircelo è Maria, 30 anni, convive con il diabete da quando ne aveva 5 e tra pochi giorni sarà mamma. Il suo percorso gravidanza è stato interamente seguito a Niguarda. “Circa un anno fa mi sono rivolta a questo centro, nel momento in cui ho deciso di avere un figlio. Qui sono stata seguita dalla programmazione della gravidanza fino alla nascita”. E pensare che nel corso degli ultimi 10 anni alla proposta del microinfusore da parte del suo diabetologo aveva risposto sempre con un sonoro “no”. Si cambia, forse per la motivazione che la prospettiva di Diabete e gravidanza Diagnosticare e intervenire: a Niguarda un centro interdisciplinare, fondato sulla collaborazione di ostetrici, diabetologi e neonatologi, segue annualmente circa 150 mamme, per farle vivere la gravidanza nella maniera più serena possibile. I dati dicono che oggi il 15% delle gestanti può avere a che fare con questa problematica, che necessita di livelli di intervento diversificati, a seconda che la malattia insorga in gravidanza, oppure sia preesistente al concepimento. diventare madre ti dà, forse perché si incontra l’assistenza giusta al momento giusto. “Non mi entusiasmava l’idea di avere questo dispositivo sempre con me- ci dice Maria-. Pensavo: come l’avrei nascosto? Sarei stata in grado di utilizzarlo? Poi i medici mi hanno fatto la proposta, dicendomi che se non mi fossi trovata bene potevo sempre tornare alle quotidiane punture di insulina. Inoltre a mia disposizione c’era l’assistenza clinica continua del personale del centro, alla quale si aggiungeva la disponibilità dell’esperto della ditta produttrice del dispositivo, che ogni settimana era presente a Niguarda per aiutarmi e consigliarmi per gli aspetti più “tecnici” dell’uso del microinfusore. L’ho trovato un aiuto prezioso che mi ha fatto sciogliere gli ultimi dubbi a riguardo”. La terapia contro il diabete incrocia sempre di più la strada con quella della tecnologia: microinfusori di insulina miniaturizzati e sensori ad alta precisione per il rilevamento della glicemia, sono solo alcuni dei dispositivi su cui oggi si può contare. “Imparare ad utilizzarli correttamente, grazie ad una conoscenza approfondita del loro funzionamento, è fondamentale per avere dei buoni risultati- spiega Matteo Bonomo, Direttore della Diabetologia-. Niguarda è sempre stato un centro all’avanguardia sotto questo profilo: per questi dispositivi abbiamo una delle più ampie casistiche a livello nazionale. Perciò l’apertura di uno “sportello tecnologico”, dove tecnici qualificati delle case produttrici affiancano il personale medico ed infermieristico con la loro competenza specifica, ci è sembrata un’occasione importante per tutti i nostri pazienti, non solo per le future mamme del percorso gravidanza”. E’ una possibilità apprezzata non solo perché consente di muovere i primi passi in sicurezza nell’utilizzo di queste tecnologie, ma anche perché permette di usare questi strumenti al meglio, sfruttando appieno le possibilità di una tecnologia in continua evoluzione. “Ad esempio, grazie a software sempre più sofisticati, si possono scaricare i dati del dispositivo sul computer, ottenendo “report” completi di attività. Il paziente si può così presentare alla visita di controllo con in mano grafici ed elaborazioni dei tracciati su cui il medico può seguire e impostare l’andamento della terapia- afferma lo specialista-”. E’ anche grazie a questo che il diabete in gravidanza è un sorvegliato speciale, controllato sempre meglio. Centri Specialistici “Time is brain”, è questo il grido di battaglia lanciato all’unisono da chi combatte contro l’ictus. Contro questa patologia, infatti, la tempestività dei trattamenti può fare la differenza tra la vita e la morte, tra un pieno recupero o una disabilità. Le cifre sono eloquenti: nel mondo ogni 6 secondi una persona viene colpita da un ictus, solo in Italia si registrano circa 200.000 casi all’anno. Si tratta della terza causa di morte, dopo le malattie cardiovascolari e i tumori, anche se il gap con questi ultimi si sta riducendo sempre di più. Non va dimenticato, inoltre, che l’ictus è la prima causa di disabilità permanente. sei Patologie Ginecologiche Gli ultrasuoni focalizzati per trattare i fibromi uterini Dalla tecnica mini-invasiva alla chirurgia: tutti i trattamenti in un unico centro Malattie dalla A alla Z L a paziente è sdraiata a pancia in giù dentro un macchinario per la risonanza magnetica. A pochi centimetri dal suo addome un trasduttore spara ultrasuoni ad alta frequenza. Dall’altra parte del vetro, alla consolle di comando, l’équipe composta dal radiologo, dai tecnici, dall’infermiera e dallo specialista in fisica sanitaria controlla che le apparecchiature funzionino al meglio monitorando le condizioni della paziente. Niguarda è uno dei pochi centri in grado di offrire un pacchetto completo per intervenire contro i fibromi uterini (o miomi). Tra questi c’è anche l’ablazione con ultrasuoni, una metodica innovativa che consente di ridurre le dimensioni di queste formazioni uterine senza ricorrere alla chirurgia: niente bisturi, cicatrici, anestesia e giorni di degenza. La durata del trattamento è di circa 4-5 ore e comprende la preparazione della paziente che viene semplicemente sedata e che il giorno dopo può già andare a casa senza alcuna limitazione sulle sue attività quotidiane. “E’ da circa due anni che utilizziamo questa tecnica con risultati soddisfacenti- afferma Cristiana Ticca, medico-radiologo-. Sono stati trattati più di 100 pazienti e a 6 mesi dal trattamento si è assistito ad una riduzione del 50% della massa dei fibromi con conseguente attenuazione dei sintomi”. I fibromi uterini sono tumori benigni del tessuto muscolare dell’utero, la cui crescita dipende da diversi fattori tra cui una certa predisposizione genetica e l’influsso di alcuni ormoni, soprattutto gli estrogeni. “La maggior parte dei casi sono asintomatici, per questo si preferisce non trattarli, ma tenerli sotto osservazione per controllarne la crescita- ci spiega il ginecologo Tommaso Bignardi-. Solo il 20% delle pazienti riferisce alcuni disturbi caratteristici come cicli mestruali molto abbondanti e prolungati, disturbi urinari o intestinali (conseguenza della pressione del fibroma sugli organi circostanti), dolore durante i rapporti sessuali e, in alcuni casi, infertilità. È in questa minoranza di casi che occorre un trattamento adeguato”. La procedura mini-invasiva con gli ultrasuoni sfrutta l’energia di queste onde che vengono focalizzate sul bersaglio avvalendosi delle immagini fornite dalla risonanza magnetica. “In pratica gli ultrasuoni vengono indirizzati su una piccola porzione del fibroma, aumentandone la temperatura, fino a 70-80 gradi, in modo da causarne la necrosi-spiega Ticca-”. La tecnica ha delle controindicazioni: non può essere utilizzata nel caso di fibromi di grosse dimensioni, sopra i 10 centimetri, e in quelli peduncolati, ovvero che hanno una morfologia “a fungo” e che sono collegati alla parete esterna dell’utero. Un’altra condizione da valutare è la presenza di eventuali cicatrici, conseguenza per esempio di un precedente taglio cesareo. Infine si preferisce riservare questo tipo di procedura ai casi in cui il numero di miomi è limitato (in genere sotto i 3-4). Tutte queste caratteristiche, che rendono la paziente candidabile o meno al trattamento, sono valutate con una risonanza magnetica e con una visita condotta nell’ambulatorio multidisciplinare dedicato, che a Niguarda vede la compresenza del radiologo e del ginecologo. In assenza del “semaforo verde” per il trattamento con gli ultrasuoni si può propendere per altre opzioni, chirurgiche o di altra natura. “Il trattamento chirurgico può essere demolitivo o conservativo nei confronti dell’uterodistingue Bignardi-. La via demolitiva è rappresentata dall’isterectomia, cioè l’asportazione di tutto l’utero, che rappresenta una valida opzione per le donne senza desiderio di fertilità. Il trattamento conservativo comprende, invece, la miomectomia che può essere effettuata ad addome aperto o per via laparoscopica”. Un’altra alternativa, che passa per la mani del radiologo intervista, è la cosiddetta embolizzazione, tramite la quale sotto controllo radiografico sono iniettate selettivamente nelle arterie uterine delle particelle calibrate per bloccare l’afflusso di sangue al fibroma e causarne la necrosi (morte). Fibromi uterini - i sintomi I fibromi uterini rappresentano la forma di tumore benigno più comune tra le donne. Circa il 2050% della popolazione femminile in età fertile è portatrice di fibromi uterini. Nella maggior parte dei casi sono asintomatici, ma quando non è così i disturbi più caratteristici possono essere: Cicli mestruali molto abbondanti e prolungati con conseguente anemia Lombosciatalgia e/o dolore pelvico Dolore durante i rapporti sessuali Pressione sulla vescica che comporta un costante stimolo a urinare, incontinenza o incapacità a svuotare la vescica Pressione sull’intestino che può comportare costipazione e/o gonfiore Addome ingrossato che può essere erroneamente interpretato come aumento di peso o gravidanza Malattie articolari Medico di famiglia e reumatologo: un patto contro l’artrite reumatoide Regione Lombardia punta su una diagnosi precoce e appropriatezza delle cure S ono state gettate le basi per una rete integrata regionale contro l’artrite reumatoide. Tutto è contenuto nel recente Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale approvato da Regione Lombardia. Un piano che delinea le nuove priorità d’intervento e che ha il suo fulcro in una stretta connessione tra il medico di medicina generale, l’occhio che deve saper intercettare rapidamente i primi sintomi, e il reumatologo, lo specialista che indica il trattamento migliore per il paziente. “Sembra una banalità ma non tutti sanno che di questa malattia se ne occupa il reumatologo- ci spiega Oscar Epis, Direttore della Reumatologia e componente del board di esperti che ha collaborato alla stesura del percorso-. E questo è solo uno dei tanti aspetti che possono portare a ritardi nella diagnosi e nell’inizio del trattamento. Uno degli obiettivi di queste nuove raccomandazioni regionali è proprio quello di facilitare l’ingresso nel percorso di cura fondamentale per una malattia cronica e potenzialmente invalidante come l’artrite reumatoide”. In Lombardia tra i 30.000 e i 70.000 casi Occhi ben aperti sui primi segni che possono far pensare a questa patologia: dolori articolari, localizzati soprattutto a livello delle mani e dei piedi che si associano ad una rigidità mattutina, cioè al risveglio, rendendo molto difficile e talvolta addirittura impedendo le normali attività quotidiane. Il numero dei pazienti è in continuo aumento e sulle cifre grava una consistente quota di casi che si pensa non vengano diagnosticati. Questo fa ampliare la forbice della diffusione: si stima che in Lombardia i malati che convivono con l’artrite reumatoide siano tra i 30.000 e i 70.000. E il rapporto uomini-donne è di 1 a 3 circa. Subito dal reumatologo per risparmiare tempo e non solo Un invio rapido permette di iniziare immediatamente il miglior trattamento e consente anche un risparmio economico, saranno, infatti, sufficienti pochi esami mirati per arrivare alla diagnosi. “A volte i pazienti arrivano tardivamente, anche con anni di ritardo, al nostro centro e ci mostrano una consistente mole di esami spesso inutili con conseguente spesa economica per il paziente stesso e per la comunità- spiega Epis-. In più le persone affette da artrite reumatoide hanno forme di malattia molto diverse tra di loro; oggi siamo in grado di individuare quei casi in cui la malattia ha un’alta probabilità di avere un decorso aggressivo. Questi pazienti necessitano di controlli frequenti e di una terapia specifica per ostacolare fin da subito il sopravanzare della malattia”. Farmaci biologici e aderenza terapeutica I farmaci biologici sono “l’arma in più”, si sono dimostrati efficaci anche nei casi più difficili: migliorano la qualità della vita e in alcuni casi la salvano, infatti le complicanze dell’artrite reumatoide possono potenzialmente essere fatali. La malattia ha un andamento ciclico, alterna fasi acute con periodi di assenza dei sintomi, ma è importante assumere i farmaci anche quando l’artrite non dà problemi: l’aderenza terapeutica è fondamentale. Un’app per curare l’artrite e le altre malattie reumatologiche Percorsi terapeutici personalizzati e disegnati in base all’andamento della malattia: è con questo obiettivo che il centro di Niguarda ha sviluppato un’app che ha migliorato la gestione clinica dei pazienti. Appena arrivano in ambulatorio, viene consegnato loro un tablet per rispondere ad una serie di test di auto-valutazione, utili per inquadrare lo stato dell’artrite. Sono domande molto semplici che permettono di capire se la malattia è attiva e quanto incida sulla qualità della vita. “Ad esempio gli viene domandato quanto dolore sentono (da quantificare su scale analogico visive da 0 a 10), quali sono le articolazioni dolenti, quanto sono rigidi nei movimenti al risveglio- ci dice Epis-. Sono tutti dati fondamentali, da non trascurare, che aiutano ad entrare nel dettaglio del caso e ad impostare o modificare il trattamento”. Nei prossimi mesi l’app sarà utilizzabile anche da casa, sui propri dispositivi, con lo scopo di monitorare il paziente a distanza, siamo nell’era della telemedicina. La patologia e le terapie L’artrite reumatoide è una malattia autoimmune progressiva. In altre parole, è lo stesso sistema immunitario, che normalmente difende l’organismo dalle aggressioni esterne (virus, batteri, ecc.), ad attaccare il tessuto sano, confondendolo per un aggressore esterno e causando il danno articolare e l’infiammazione. Esistono diverse categorie di farmaci per la cura di questa malattia reumatica. Farmaci sintomatici: comprendono i farmaci antidolorifici (paracetamolo), i FANS (Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei) e i cortisonici. I cosiddetti “farmaci di fondo”: hanno portato un notevole progresso nella cura dell’artrite reumatoide. I farmaci biologici: sono disponibili da circa 14 anni, si tratta di molecole ottenute grazie all’ingegneria genetica, in grado di legare e neutralizzare l’azione di alcune proteine che favoriscono l’infiammazione, agendo in modo mirato. Permettono un soddisfacente controllo della malattia e dell’evoluzione del danno erosivo articolare in tempi molto brevi. sette Niguarda Centro di Riferimento per le Malattie Rare Nell’intestino qualcosa non va La linfangectasia intestinale Causa ignota Questo ingrossamento è dovuto alla riduzione della concentrazione nel sangue di albumina. “In questi pazienti infatti il difetto a livello del sistema linfatico intestinale determina la perdita di albumina e di una serie di altre proteine importanti- spiega la specialista Paola Onida della Dietetica e Nutrizione Clinica-. La conseguente carenza di albumina nel sangue porta ad un accumulo di liquidi nei tessuti, che per effetto della gravità si concentra soprattutto nelle gambe”. La causa specifica di questa anomalia non si conosce ma si tratta di una patologia congenita che viene spesso diagnosticata nei bambini e che occasionalmente può essere riscontrata anche negli adulti. Il sistema linfatico intestinale può essere considerato una sorta di autostrada attraverso cui i grassi, che assumiamo con l’alimentazione, passano nel sangue per poi essere “smistati” in tutto il nostro organismo. Nei pazienti colpiti da linfangectasia intestinale questo meccanismo non funziona a dovere e come conseguenza di questo si hanno tutta una serie di sintomi caratteristici. Esami del sangue Sintomi La dispersione intestinale dell’albumina fa sì che il dosaggio di questa proteina abbia dei livelli sotto la norma. E per riscontrare questo bastano dei semplici esami del sangue. Un’altra anomalia che può essere evidenziata dalle analisi è una riduzione dei linfociti circolanti. “Sono tutti indizi che possono far sospettare la linfangectasia intestinale- prosegue Onida-. Nei bambini la patologia, inoltre, può manifestarsi come un ritardo di crescita dovuto al malassorbimento: il bambino, infatti, non ha il giusto apporto di sostanze nutritive per poter raggiungere le normali tappe dello sviluppo fisico; a questo possono talvolta accompagnarsi dolori addominali, diarrea o stitichezza”. Il principale è il gonfiore delle gambe ed è uno dei più evidenti campanelli che può far pensare a questa malattia. Altri squilibri Ci possono essere, inoltre, delle carenze di alcune vitamine le cosiddette liposolubili, tra cui la vitamina D, fondamentale per la salute delle nostre ossa e il cui deficit nel lungo termine può portare a osteoporosi e rachitismo. “In pratica questo tipo di vitamine non riescono ad essere assorbite normalmente dall’intestino a causa dell’anomalia del sistema linfaticosottolinea la specialista-, per cui questi nutrienti, insieme ai grassi, rimangono nell’intestino e vengono evacuati con le feci (steatorrea)”. Diagnosi Per confermare la patologia è necessario sottoporsi ad un’endoscopia, indispensabile per poter procedere con la biopsia dell’intestino. Il tessuto prelevato viene analizzato al microscopio e si guarda se sono presenti le caratteristiche tipiche della linfangectasia. Oggi è possibile fare la diagnosi anche con una tecnica d’indagine mini-invasiva: la video-capsula. “Il paziente inghiotte una capsula dotata di una video-camera miniaturizzata che viaggiando nel tubo digerente acquisisce le immagini che vengono poi analizzate- puntualizza Onida-”. Trattamento Il principale modo per intervenire sono delle nuove regole su cui impostare l’alimentazione, che in pratica cambia per sempre. La dieta per questi pazienti deve essere a bassissimo contenuto di grassi e deve fornire un buon apporto di proteine. In particolare una quota dei grassi alimentari deve essere sostituita dai trigliceridi a media catena (MCT), che offrono il vantaggio di non essere assorbiti tramite i vasi linfatici. Il loro passaggio nel circolo avviene infatti tramite il sistema circolatorio portale per cui non si corre il rischio di sovraccaricare i vasi linfatici intestinali. “I pazienti hanno a disposizione un particolare integratore, un olio a base di trigliceridi MCT, che usano per condire o per cucinare i cibi affiancandolo all’utilizzo dell’olio di oliva- spiega Onida-”. Grazie a questi accorgimenti si riesce anche a limitare la dispersione delle proteine, aumenta, così, il livello dell’albumina e di pari passo anche il gonfiore delle gambe migliora. “Nei casi più gravi può essere necessario un supporto con nutrizione parenterale o una supplementazione endovenosa di aminoacidi, i mattoni che servono al nostro organismo per costruire le proteine; anche la somministrazione di octreotide, un analogo della somatostatina può portare a dei miglioramenti- conclude la specialista”. Intervista a Vito Vito, 75 anni, nato in Puglia ma Niguardese di adozione, visto che abita a due passi dall’Ospedale, che è diventato la sua seconda casa. La linfangectasia intestinale, infatti, è solo una delle tante malattie con cui ha incrociato la spada nel corso della sua vita. Un duello che è iniziato molto presto, già quand’era piccolo, contro la poliomielite. Ma Vito è un combattente nato, non si è mai tirato indietro e la sua forza d’animo è dirompente. Leggere per credere. Quando è iniziata la battaglia contro la linfangectasia intestinale? Praticamente da 25 anni convivo con questa malattia. Il primo avvertimento è arrivato dagli esami del sangue: avevo l’albumina molto bassa. Ripeto le analisi e la carenza si conferma. Intanto i miei problemi alle gambe si aggravano: erano gonfie, anche se io avevo già avuto problemi di flebite e mi era già stata diagnosticata una trombosi venosa profonda, patologia per cui sono in cura presso l’Ematologia di Niguarda. Quando arriva la diagnosi? Nei mesi successivi, in seguito ad una serie di controlli in diversi centri, sparsi un po’ in tutta Italia. Poi visto che abito vicino al Niguarda ho iniziato ad essere seguito qui. Ai tempi la terapia era basata sulle somministrazioni ravvicinate di albumina per via endovenosa: 20 flaconi in due settimane. Facevo il pieno. Una volta fatta la “provvista”, andavo avanti per 4-5 mesi senza bisogno di nuove infusioni. Ha dovuto modificare anche le abitudini alimentari? Certamente, la mia alimentazione è senza grassi e utilizzo un olio speciale per condire o cucinare i cibi, quello a base di trigliceridi MCT che migliora il mio assorbimento. Prendo anche un integratore proteico che completa la mia dieta. Però con il passare dell’età tutto questo non basta più. E cioè? Il mio organismo ormai, nonostante queste accortezze, non riesce ad avere tutto ciò di cui ha bisogno solo con l’alimentazione e neanche il pieno che facevo prima è più sufficiente. Ormai devo fare le flebo un giorno sì e uno no. A casa viene l’infermiera che mi prepara tutto. L’infusione inizia nel tardo pomeriggio e prosegue tutta la notte fino alla mattina del giorno successivo. E’ un trattamento impegnativo, come si sente? Mi sento meglio. Certo non posso programmare più niente nella mia vita visto tutti i trattamenti che devo seguire. Oltre alla linfangecatsia e alla trombosi l’anno scorso si è aggiunta anche un’infezione alle vertebre per cui mi sono dovuto sottoporre ad un intervento chirurgico. Sono stato ricoverato in Neurochirurgia sempre a Niguarda. Il nostro Ospedale è un po’ la sua seconda casa… Sì e nonostante tutti i problemi di salute che ho e contro cui, ho iniziato a lottare fin da piccolo, quando ho avuto la polio, mi ritengo fortunato perché vivo a Milano e ho potuto avere un’assistenza sanitaria di primo livello. E lo dico io, che sono un ammalato vero, non “un ammalato della domenica”. Bisogna vedere il lato positivo delle cose. Bisogna reagire, sempre, perché se ti piangi, addosso sei finito. CALL CENTER E LE ALTRE STORIE Niguarda è uno dei 34 Presidi della Rete regionale dedicata alle malattie rare ed è in grado di garantire la diagnosi, la terapia e l’assistenza per più di 120 differenti patologie. Nell’Ospedale è attiva una linea telefonica aperta ai cittadini, alle associazioni dei malati e ai medici del servizio sanitario nazionale. Call center malattie rare 02.6444.2463-21992678 (martedì e giovedì, 9.30-13.00) Leggi le storie degli altri pazienti nella sezione dedicata sul sito: www.ospedaleniguarda.it ggia feste e a noi ività m insie nni di att ’a trent subema.com ti t rodo tari e zioni ti asp ettan e o imp mo i pro l i b i d r su ture calza o, uom ae donn n o, pla mbin ltri p anti a t ba Sede centrale: Via G. Pergolesi, 8 20124 Milano Tel. 02 667 152 07 www.comunicarte.eu www. Ortopedia Subema - Rho Via Stoppani, 9 20017 Rho (MI) Tel. 02 931 821 80 Ortofarma Subema P.zza dell’Ospedale Maggiore, 3 20162 Milano Tel. 02 661 119 09 Multimedica Sesto S. G Via Milanese, 300 20099 Sesto S. Giovanni (MI) Tel. 02 242 090 84 Malattie Rare M alassorbimento dei grassi e delle proteine, accompagnato da altri quadri di squilibrio nutrizionale, sono queste le principali conseguenze a cui va incontro chi viene colpito da linfangectasia intestinale, una malattia rara che ci ricorda l’importanza del nostro sistema linfatico. Una dieta ad hoc è la più efficace arma su cui impostare il trattamento. otto Dermatologia Cheratosi attinica, se il sole è un nemico per la pelle Una forma precancerosa da tenere d’occhio. I consigli per l’esposizione C Gli Specialisti Rispondono on la bella stagione il richiamo della tintarella è inevitabile. Ci sono però delle semplici precauzioni da adottare per evitare che il sole diventi un nemico per la nostra pelle. Tra i rischi c’è la cheratosi attinica, una condizione, poco conosciuta, ma molto diffusa per cui, a causa di una prolungata esposizione ai raggi solari nel corso degli anni, si può arrivare a sviluppare un tumore che colpisce la pelle. I trattamenti non mancano ma la regola fondamentale rimane la prevenzione. Ne abbiamo parlato con la dermatologa Donata Calò. Perché la cheratosi attinica è pericolosa? La cheratosi attinica può rappresentare la lesione iniziale da cui può svilupparsi un tumore della pelle ed è pertanto definita come una condizione precancerosa. Sebbene la maggior parte delle cheratosi attiniche rimanga benigna, alcuni studi hanno evidenziato che circa il 10% può evolvere in carcinoma spinocellulare. Come si riconosce? Questa condizione si presenta con piccole lesioni eritematose o rosate ricoperte da squamo- croste che si manifestano sulla superficie della pelle come risultato di un’esposizione a lungo termine ai raggi solari. Le squame hanno un colore variabile (chiaro, scuro, marrone o rosa) sono indurite, secche e ruvide e spesso sono rilevabili più al tatto che alla vista. Appaiono, solitamente, sulle aree del corpo più frequentemente esposte al sole come il viso, le orecchie, il cuoio capelluto, le labbra, il dorso delle mani e degli avambracci, le spalle e il collo. A che età può comparire una cheratosi attinica? Considerato che il tempo totale di esposizione al sole aumenta di anno in anno, è più probabile che la cheratosi attinica compaia in persone anziane. Tuttavia, attualmente sono riportati casi di individui di 20 anni che ne sono affetti. Inoltre, questo tipo di patologia è diventata più comune nelle persone intorno ai 50 anni. Chi è più a rischio? Le persone con carnagione chiara, capelli rossi o biondi ed occhi blu o verdi, se si espongono al sole per lunghi periodi, hanno un’alta probabilità di sviluppare, invecchiando, questa forma precancerosa. Quali sono i trattamenti? La scelta del rimedio più adatto nel singolo caso va sempre valutata insieme allo specialista. Se sono presenti una o due cheratosi la forma più comune di trattamento è rappresentata dalla crioterapia: sulla lesione viene applicato dell’azoto liquido con un erogatore spray. La terapia fotodinamica è utile soprattutto per le lesioni del volto e del cuoio capelluto. L’imiquimod, formulato in crema al 5%, invece stimola il sistema immunitario a produrre interferone, un mediatore in grado di distruggere le lesioni precancerose. Un altro trattamento molto diffuso è l’applicazione di un gel antinfiammatorio non steroideo (diclofenac) direttamente sulle Dermatologia lesioni; è utilizzato soprattutto per stabilizzare ed evitare eventuali evoluzioni neoplastiche. Un altro gel che si può prescrivere è l’ingenolo mebutato ed è indicato per la cheratosi attinica superficiale. Questo farmaco agisce stimolando la risposta immunitaria contro le cellule danneggiate, contrastando così l’infiammazione. Più in generale è importante sottolineare che dopo i trattamenti - qualsiasi venga scelto- è indispensabile il controllo periodico, ad intervalli di tempo variabili da alcuni mesi a 1 anno. Altrettanto fondamentale è l’esposizione protetta al sole. Esposizione al sole: segui queste regole L’ambulatorio di dermatologia generale si occupa del trattamento di tutte le patologie cutanee, degli annessi e le infezioni sessualmente trasmesse. E’ attivo anche uno specifico ambulatorio di dermatologia oncologica. Donata Calò Per info e prenotazioni Numero verde di prenotazione regionale 800.638.638 (lun-sab: 8.00-20.00) ospedaleniguarda.it areaprivata.ospedaleniguarda.it Per prevenire l’insorgenza della cheratosi attinica il modo più efficace è quello di proteggersi dal sole. Ecco alcune regole da seguire: Esporsi al sole in modo responsabile mediante l’utilizzo di abiti protettivi, occhiali da sole, cappelli e, per le parti che restano scoperte, applicare una crema fotoprotettiva. Evitare di esporsi ai raggi solari nelle ore più calde dei mesi estivi, ovvero tra le 11 e le 16. Evitare le ustioni e l’abbronzatura artificiale. Esaminare l’intera superficie del corpo regolarmente - senza trascurare il cuoio capelluto - e rivolgersi al medico nel caso in cui una lesione cutanea provochi dolore, prude o brucia, trasuda o sanguina, diventa squamosa presenta cambiamenti in termini di dimensioni, forma, colore o elevazione. Stili di vita Sindrome metabolica: un pericolo per le nostre arterie E’ un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari e l’ictus C on qualche chilo di troppo, la pressione alta e il colesterolo fuori controllo: è un identikit comune a molte persone, in particolare oltre una certa età, ed è considerato un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari come infarto e ictus. In particolare il livello d’allarme sale se si riscontrano le condizioni che caratterizzano la cosiddetta sindrome metabolica, una condizione che richiede la compresenza di almeno due di questi disturbi: un’obesità concentrata specialmente intorno alla vita, pressione del sangue elevata così come la glicemia e i trigliceridi, a fronte di un basso livello di colesterolo “buono” o HDL. Per saperne di più abbiamo fatto qualche domanda a Fabrizio Colombo, Direttore del Dipartimento Medico Polispecialistico. Cos’è la sindrome metabolica? La sindrome metabolica, chiamata in passato anche “sindrome-x” o “sindrome da insulinoresistenza”, è una condizione complessa che colpisce circa il 20-25% della popolazione. Studi recenti dimostrano che pazienti affetti Cos’è la sindrome metabolica Secondo l’International Diabetes Federation per diagnosticare la sindrome basta che siano presenti contemporaneamente, oltre all’obesità viscerale, almeno due dei seguenti disturbi: glicemia a digiuno: oltre 100 mg/dL; ipertensione arteriosa: oltre i 130/85 mmHg o con terapia antipertensiva; trigliceridi elevati oltre i 150 mg/dL; riduzione del colesterolo HDL (il cosiddetto “colesterolo buono”) sotto i 40 mg/dL nei maschi o i 50 mg/dL nelle femmine oppure con terapia farmacologica per il colesterolo elevato. I due elementi di cui sopra devono essere associati a una circonferenza della vita oltre i 94 cm nei maschi e gli 80 cm nelle femmine. Determinante è anche l’età: il rischio aumenta negli uomini a partire dai 45 anni e nelle donne dai 55. da sindrome metabolica presentano un rischio aumentato di 2-3 volte rispetto alla popolazione generale di sviluppare complicanze cardiovascolari e ictus. Quali sono le cause? Allabasediquestasindromevièl’obesitàviscerale(ndr,grasso localizzato prevalentemente sulla pancia) accompagnata da insulino-resistenza. Quest’ultima comporta che alcune cellule del nostro organismo, soprattutto quelle muscolari e adipose, siano meno sensibili all’azione dell’insulina (ndr l’ormone che viene rilasciato dal pancreas per abbassare la glicemia). Questo porta a quello, che in termini tecnici viene definito “ iperinsulinemia”, una condizione che ha effetti negativi sull’apparato cardiovascolare e che in particolare può portare a ipertrofia cardiaca e vascolare. Che consigli pratici seguire? Una dieta adeguata, il giusto movimento fisico ed eventualmente il ricorso ai farmaci. Alcuni studi dimostrano come sia sufficiente un calo ponderale del 10% del peso corporeo iniziale per avere una riduzione dell’insulinoresistenza e di conseguenza anche una riduzione del rischio di sviluppare le complicanze legate. Per raggiungere questi risultati bisogna puntare su una dieta bilanciata con poche calorie e pochi grassi. E’ imprescindibile, quindi, una costante attività fisica. Come contrastare la sindrome metabolica Abolire il fumo Dimagrire portando l’indice di massa corporea (il rapporto tra il peso, espresso in Kg, e il quadrato dell’altezza, espressa in m) sotto 25 Ridurre il consumo di alcolici (sotto i 20-30 g al giorno di etanolo o 2-3 bicchieri di vino nell’uomo; sotto i 10-20 g al giorno o 1-2 bicchieri di vino nella donna) Svolgere un’attività fisica aerobica moderata (camminate, nuoto, jogging, bicicletta) per 30-45 minuti al giorno Ridurre il consumo di sodio con la dieta (non più di 5 g di sale al giorno) Aumentare l’apporto di frutta e verdura (4-5 porzioni al giorno,) Ridurre la quantità di grassi alimentari, soprattutto saturi (quelli contenuti nella carne rossa, nel burro e nei formaggi grassi). Fonte: linee guida ESH (European Society of Hypertension) Dipartimento Medico Polispecialistico Al Dipartimento, oltre alla Medicina Interna, afferiscono numerosi centri di riferimento regionali e nazionali in campo allergologico, diabetologico, nutrizionale e dei disturbi del comportamento alimentare, ma anche in ambito endocrinologico, pneumotisiologico e reumatologico. La mission del Dipartimento è analizzare lo stato di salute nel suo complesso dando una risposta integrata e globale al paziente, con particolare riguardo alle patologie complesse e specialistiche. Per info e prenotazioni Fabrizio Colombo Numero verde di prenotazione regionale 800.638.638 (lun-sab: 8.00-20.00) ospedaleniguarda.it- areaprivata.ospedaleniguarda.it nove Niguarda Trauma Center Quando preoccuparsi se il ginocchio fa crack Come intervenire in caso di distorsione: dalla chirurgia fino al trapianto caldo e dolorante tanto da non riuscire più a piegarlo. Al Pronto Soccorso si procede con una radiografia per capire in quale punto si è verificata la lesione, utile anche per accertarsi di eventuali interessamenti ossei. Dopo di che il ginocchio va immobilizzato per 4 o 5 giorni. Non c’è bisogno di ricorrere al gesso, ma è necessario muoversi con le stampelle per non caricare l’articolazione, prendendo gli anti-infiammatori e raffreddando l’area interessata con il ghiaccio. In caso si sospetti una lesione ai menischi o ai legamenti è bene sottoporre il paziente ad una risonanza magnetica. Se l’esame non conferma queste situazioni saranno sufficienti il riposo e la riabilitazione per il recupero. Se invece si verifica la lesione o di un menisco o dei legamenti si procede con la chirurgia… Sì, viene fatta in artroscopia in regime di day hospital. Per quanto riguarda il menisco si accede da due mini-incisioni vicino alla rotula, si entra con una telecamera a fibre ottiche all’interno del ginocchio e si ridà alla fibrocartilagine meniscale la forma originaria pre- infortunio, andando a togliere se necessario la parte lesionata. In caso di rimozione totale, oggi possiamo sostituire la fibrocartilagine con dei menischi sintetici fatti di bio-materiale, oppure si può procedere con un vero e proprio trapianto da donatore cadavere. Generalmente queste tecniche vengono adottate per pazienti molto giovani. E per i legamenti, cosa si fa? Anche questo tipo di intervento è condotto in artroscopia e la procedura richiede un ricovero di circa 3 giorni. Ci sono diverse tecniche ricostruttive a disposizione. Nella maggior parte dei pazienti si procede ad un prelievo tendineo “autologo”, cioè del paziente stesso. Ma in alcuni casi si può propendere per un innesto con un legamento sintetico o per il trapianto tendineo da cadavere. I tempi di recupero, con le variabili riferite all’età del soggetto ed alla forma fisica, sono di circa 25-30 giorni, per il ritorno all’attività lavorativa, e di 6 mesi per il ritorno all’attività sportiva agonistica. Molto importante per favorire la ripresa è la riabilitazione con il fisioterapista ed il lavoro con un preparatore in palestra. Il ginocchio E’ un’articolazione complessa, che si compone a sua volta di due articolazioni: quella femorotibiale e quella femoro-patellare. Viene stabilizzata al 50% dalla muscolatura, soprattutto dal quadricipite femorale, l’altro 50% è appannaggio dei legamenti: il crociato anteriore, quello posteriore, il legamento collaterale mediale e il legamento collaterale laterale. A completare l’articolazione ci sono due cuscinetti in fibrocartilagine detti menischi, laterale e mediale, che servono sia a stabilizzare il ginocchio sia a ridurre l’usura delle superfici cartilaginee dei condili femorali e del piatto tibiale. Il tutto è circondato da una capsula, rivestita dalla membrana sinoviale che ha la funzione di secernere un liquido che funge da lubrificante. Mirko Poli Ortopedia e Traumatologia Sono circa 100 gli interventi di ricostruzione dei legamenti che si eseguono ogni anno a Niguarda. Sono più di 300 quelli effettuati per il menisco. Da 3 anni, inoltre, è attivo un ambulatorio di Traumatologia dello Sport che segue agonisti e praticanti amatoriali. Più in generale gli specialisti dell’Ortopedia e Traumatologia hanno sviluppato una particolare esperienza nell’intervento precoce del paziente politraumatizzato/polifratturato: dal bambino all’anziano, in cui spesso si rende necessario operare in regime di urgenza ad équipe congiunte. Per info e prenotazioni Numero verde di prenotazione regionale 800.638.638 (lun-sab: 8.00-20.00) ospedaleniguarda.it Gli Specialisti Rispondono Q uante sollecitazioni per il nostro ginocchio, un’articolazione complessa che spesso viene messa a dura prova durante l’attività sportiva. A volte basta uno scontro di gioco, un appoggio sbagliato, un movimento innaturale per causare una distorsione. Ma come si riconosce e cosa si può fare per il recupero? Ne abbiamo parlato con l’Ortopedico Mirko Poli, che si occupa di Traumatologia dello Sport. Distorsione, cosa succede? E’ l’evento traumatico più frequente che si registra in ambito sportivo. Alla base ci può essere uno scontro diretto con un avversario ma anche un appoggio non corretto sul terreno o un movimento anomalo dell’articolazione che causa la lesione. Questo può provocare un danno a uno o a più legamenti. Ci può essere anche un interessamento dei menischi e del piano articolare cartilagineo. Come ci si accorge di essere incorsi in una distorsione e quali sono le misure di primo intervento da seguire? Di solito il ginocchio si gonfia, al di sopra della rotula. Può, poi, diventare dieci Niguarda Cancer Center Per il tumore allo stomaco una nuova sperimentazione Aperto uno studio con un nuovo farmaco a bersaglio molecolare Gli Specialisti Rispondono S pesso i sintomi sono aspecifici e possono facilmente essere confusi con quelli di una gastrite o di un’ulcera gastrica: nausea, difficoltà di digestione, mancanza di appetito o difficoltà a mangiare grandi quantità di cibo. E’ questa una delle difficoltà maggiori che può portare ad una diagnosi tardiva quando si parla di tumore allo stomaco. Il tasso d’incidenza annuale è più elevato nei paesi orientali, Cina Giappone e Korea, sono in cima alle statistiche, mentre per quanto riguarda il nostro Paese, si stima che ogni anno vengano diagnosticati 8.100 tumori allo stomaco nei maschi e 5.500 nelle femmine con un età media d’insorgenza dai 45-50 anni in poi (fonte: AIRC, Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro). Chirurgia, chemioterapia e radioterapia sono le opzioni disponibili per contrastare la malattia. A queste negli ultimi anni si sono affiancate le terapie con i farmaci mirati a bersaglio molecolare. A Niguarda è stato avviato uno studio per testare l’efficacia di una di queste molecole di nuova generazione. Abbiamo incontrato l’oncologa Katia Bencardino. A causa dei sintomi poco specifici, può capitare che la malattia venga scoperta quando è già in uno stadio avanzato? Sì, questo è un rischio concreto. I sintomi principali sono infatti sovrapponibili a quelli di un comune dolore allo stomaco, il che fa pensare allo stress o all’alimentazione come causa scatenante, per cui può capitare che si tardi nell’esecuzione della gastroscopia. Per la diagnosi, cos’è importante? Segnalare i sintomi al proprio medico curante il prima possibile. Spesso si associa a dimagrimento e anemia, per cui anche un semplice esame del sangue come l’emocromo può aiutare ad orientare la diagnosi. L’esame chiave rimane la gastroscopia che è necessaria per procedere con una biopsia. Quindi occorre una Tac per valutare possibili diffusioni del tumore e definirne la stadiazione. Anche l’ecoendoscopia è utile in questo senso. Prevenzione, si può fare qualcosa? Non ci sono programmi di screening a livello occidentale, come invece abbiamo per altri tumori. Tra i fattori di rischio da tenere controllati c’è la dieta che non deve abbondare di cibi affumicati, ricchi di conservanti, contenenti nitrati così come una dieta ricca di carne, povera di vegetali e vitamine. Sicuramente il fumo aumenta il rischio e anche un consumo eccessivo di alcol. Quali sono i trattamenti? Se il tumore è diagnosticato in una fase iniziale, la chirurgia radicale può dare buone probabilità di cura. Quest’opzione è invece scartata quando la malattia è metastatica. Per quanto riguarda i tumori localmente avanzati ma con interessamento linfonodale allora il trattamento combinato chemioterapia- chirurgia può dare dei buoni risultati; più controverso è l’uso della radioterapia. Comunque la scelta del piano terapeutico viene presa da un team di specialisti, costituito da oncologi, chirurghi, radiologi e radioterapisti. Senza dimenticare il prezioso lavoro del laboratorio dell’anatomia patologica. Negli ultimi anni sono entrati a far parte della terapia clinica anche dei farmaci a bersaglio molecolare? Sì, parliamo del Trastuzumab, un anticorpo monoclonale che si è rivelato molto efficace sui pazienti in cui il tumore ha una precisa caratteristica molecolare: ovvero l’amplificazione del gene HER-2. C’è altro da rimarcare in materia di terapie? Direi che dobbiamo considerare che le tecniche di endoscopia interventistica per i tumori dello stomaco sono diventate sempre più raffinate: non solo nella fase diagnostica l’ecoendoscopia digestiva è importantissima ma talora anche nella malattia metastatica. Il posizionamento di protesi per via endoscopica, infatti, è utilissimo all’ammalato sintomatico. E a Niguarda l’Endoscopia Digestiva e Interventistica ha un ruolo chiave nella gestione di questa e tutte le altre neoplasie gastrointestinali. Ritornando alle terapie a bersaglio molecolare, si è appena aperta una sperimentazione anche per un nuovo farmaco che vi coinvolge, di cosa si tratta? E’ il farmaco AMG337. Ed è stato ideato per interferire con i meccanismi proliferativi della cellula in quei pazienti che hanno un tumore gastrico metastatico con una precisa alterazione genetica, ovvero l’amplificazione dell’onco-gene MET. Pazienti con queste caratteristiche possono rivolgersi al nostro centro. Katia Bencardino Il reparto L’Oncologia Falck svolge attività clinica per la cura dei tumori solidi, in particolare dell’apparato digerente ed epatobiliare, del polmone, della mammella, dell’ovaio e dell’utero, della testa e collo, sarcomi e tumori a sede primitiva ignota. Si avvale anche dell’Oncologia Clinica Molecolare che coordina, quando ne sussistono i presupposti, un orientamento terapeutico personalizzato, sia in ambito sperimentale sia di pratica clinica. Per info e prenotazioni N. verde di prenotazione regionale 800.638.638 (lun-sab: 8.00-20.00) ospedaleniguarda.it Tumore del colon-retto, se ne parla il 12 settembre Tutti i passi in avanti in un convegno undici Un decennio di scoperte in materia di tumore al colon-retto. Dall’alta tecnologia in chirurgia alle terapie a bersaglio molecolare, sono solo alcuni degli argomenti al centro del convegno che vedrà protagonisti gli specialisti del Niguarda Cancer Center insieme ai colleghi di Candiolo. A chiusura dell’evento ricercatori e medici saranno intervistati dal giornalista Giovanni Caprara, prima firma della redazione scientifica del Corriere della Sera. 12 settembre - 9.30-16.30 - Aula Magna - Area Ingresso - Padiglione 1 Niguarda Cancer Center Niguarda-Candiolo: quando medici e ricercatori parlano la stessa lingua L’asse Candiolo-Niguarda ha dato vita a una collaborazione importante… Ricordo le prime riunioni con l’équipe del Niguarda, c’era una certa difficoltà reciproca a comprendersi: noi parlavamo il linguaggio della ricerca loro, i medici, quello della clinica. Ma direi che, nel corso degli anni, abbiamo imparato a dialogare trovando un terreno comune di confronto che ci ha portato ad una stretta sinergia. Direi che si deve a questo il successo del nostro lavoro. Insomma, una volta oliati i meccanismi i risultati non Paolo Comoglio sono mancati… Sì, e il risultato più importante, secondo me, è quello di aver capito che il cancro non è una malattia degli organi ma è una malattia dei geni. E’ una rivoluzione copernicana nell’approccio a questa patologia e ha segnato la nascita di quella che viene definita “medicina di precisone”. Questo cambia l’approccio terapeutico? Totalmente, in pratica abbiamo capito che è inutile parlare di tumore al colon retto, al polmone o alla mammella, come patologie omogenee e molto diverse tra loro, bisogna pensare al cancro come a una malattia genetica. Uno stesso oncogene può sostenere la malattia in organi diversi. Le nuove terapie, “mirate”, sono dirette all’inattivazione selettiva di questi geni. Nella sperimentazione clinica che stiamo svolgendo, lo stesso anticorpo usato contro il carcinoma della mammella dimostra di funzionare anche nel carcinoma del colon. Parallelamente, l’approccio genetico, porta ad una medicina sempre più personalizzata… Questo significa che ogni paziente è diverso da un altro, per cui per ogni caso che arriva all’osservazione clinica è indispensabile eseguire l’analisi del genoma del tumore. Questa è la medicina molecolare ed è la cornice entro cui ci muoviamo. E la tecnologia ci aiuta: se qualche decennio fa occorreva un anno per sequenziare un singolo gene, oggi possiamo sequenziarne alcune centinaia in tempi molto brevi, il tutto a fronte di costi che vanno sempre più riducendosi. In pratica la “scansione genetica”, vi aiuta a mettere a fuoco il meccanismo che si è inceppato e che ha portato alla malattia. Solo agendo su questo, si possono avere dei benefici? Ricordo che un idraulico di Saint Louis, città americana dove ho completato i miei studi, mi diceva: “You can’t fix what is not broken”, cioè “non puoi aggiustare quello che non è rotto”. Ed è un po’ l’approccio nuovo che anima la battaglia contro il cancro. Semplificando e traslando la metafora, si può dire che solo dopo aver identificato il “gene rotto” si può tentare di “aggiustarlo”, intervenendo con la terapia mirata. Ed è quello che Candiolo e Niguarda cercano di fare insieme. il tumore del colon retto. Abbiamo intervistato Paolo Comoglio, Direttore Scientifico dell’Istituto di Candiolo e Alberto Bardelli, Direttore del Laboratorio di Genetica Molecolare di Candiolo. Niguarda e Candiolo: 10 anni di lavoro insieme… Devo moltissimo a questa collaborazione. Ricordo che 10 anni fa ricevetti una telefonata da parte di Salvatore Siena (ndr, Direttore Oncologia Falck- Niguarda). Io ero ancora negli Stati Uniti e mi occupavo di genetica dei tumori. Mi veniva proposto uno studio collaborativo con un obiettivo importante: sviluppare delle terapie a bersaglio molecolare in pazienti con tumore al colon retto. Questo nuovo approccio nasceva dall’esigenza di capire perché alcuni malati Alberto Bardelli rispondevano alle terapie e altri no. E’ nato tutto così. Da allora tanti passi in avanti, quali i 3 più importanti a suo parere? La scoperta che i geni KRAS e NRAS sono marcatori di una mancata risposta alle terapie, questo ci ha permesso di sviluppare un test ad hoc che è entrato nella pratica clinica per il tumore al colon retto metastatico. Quindi lo sviluppo di un’altra tecnica, la biopsia liquida, che oggi viene molto sfruttata e su cui abbiamo iniziato a lavorare già dal 2007-2008. Infine penso che più in generale una delle conquiste più importanti sia aver fatto luce sulle resistenze alle terapie: aver spiegato perché certi trattamenti inizialmente funzionano, ma poi sembrano non aver più beneficio per il paziente. Com’è successo per l’ultimo studio pubblicato su “Science Translational Medicine”… Con questo lavoro abbiamo capito perché le cellule tumorali smettono di rispondere al farmaco a bersaglio molecolare cetuximab e ricompaiono le metastasi al fegato. Abbiamo messo a punto una nuova combinazione di farmaci che si è dimostrata in grado di bloccare in vitro la proliferazione del tumore divenuto resistente. Questa evidenza è alla base dello studio clinico ARES, che è pronto a partire e che testerà l’efficacia di questo nuova terapia sui pazienti, è così? Sì e sono sbalordito dalla velocità che ci ha portato dalle fasi di ricerca a quelle di sperimentazione. E’ il primo esempio che io conosca, per cui ancor prima di aver completato il lavoro scientifico si è arrivati a disegnare un trial clinico. Tra le “beautiful mind” italiane ci sono anche loro Ci sono 55 italiani nell’ultima classifica internazionale delle “beautiful mind” stilata dalla società Thomson Reuters. La lista comprende complessivamente 3.200 nomi, selezionati fra le migliori e più brillanti menti scientifiche del nostro tempo. I ricercatori selezionati sono stati i più citati nel periodo compreso fra il 2002 e il 2012, tra loro ci sono anche Salvatore Siena (Direttore Oncologia Falck Niguarda) e Alberto Bardelli (Candiolo Cancer Institute-IRCCS). Niguarda Cancer Center Tumore del colon-retto: le sindromi ereditarie Il test genetico è la chiave per giocare d’anticipo C ontro il tumore del colon retto la ricerca sta facendo il suo corso ma una buona parte degli aspetti su cui intervenire è nelle nostre mani: a partire dagli stili di vita. Quali? I soliti, quelli che ci sentiamo ricordare da più parti e che forse, dati alla mano, non siamo così a bravi mettere in pratica: niente fumo, niente alcol, un’alimentazione più sana, basata su un ridotto consumo di grassi e carne rossa (il cui eccesso è direttamente collegato all’incidenza del tumore del colon retto), più proteine vegetali, più frutta e verdura. Più movimento. Anche la prevenzione, sotto il profilo dei controlli, è una carta importante da giocare, fondamentale quando la causa della malattia è ereditaria, ovvero una mutazione nel DNA che può trasmettersi da una generazione all’altra. Si tratta di casi molto rari (tra il 4-6% di tutti i tumori al colon), in cui la malattia solitamente ha un Genetica Medica Silvana Penco esordio molto precoce (prima dei 50 anni) e per cui lo screening e la consulenza genetica possono essere fondamentali per intervenire ancora prima che la malattia si manifesti. Ne abbiamo parlato con Silvana Penco, Responsabile della Genetica Medica. Quali sono queste forme ereditarie? Ce ne sono svariate, le più importanti sono la sindrome di Lynch e la poliposi adenomatosa familiare. Per questi pazienti il rischio di sviluppare un tumore del colon retto è molto alto. Questo a causa di mutazioni nei loro geni che portano all’insorgenza di lesioni precancerose che devono essere individuate per tempo e trattate. Il pericolo, in questi casi, è però quello che la mutazione si trasmetta dai genitori ai figli. Per cui, se si ritiene opportuno, è possibile offrire uno screening L’équipe esegue circa 300 consulenze genetiche all’anno. Le aree di intervento spaziano dalla genetica cardiovascolare alle malattie rare. Tra queste ultime si distingue un percorso specificamente dedicato all’albinismo, agli angiomi cavernosi familiari e alla SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) in collaborazione con il NEMO, il centro clinico dedicato alle malattie neuromuscolari. Anche per i tumori rari l’approccio genetico è fondamentale; i test per l’alterazione genica dei tumori vengono eseguiti in collaborazione con l’Anatomia Patologica e in particolare con l’équipe della Patologia Molecolare il cui responsabile è Silvio Veronese. www.ospedaleniguarda.it genetico ai familiari di primo grado per capire se anche loro sono a rischio. E’ così? Sì, oggi abbiamo dei test genetici a disposizione per cercare di identificare le diverse mutazioni che causano queste sindromi. La ricerca è in continuo divenire e talvolta per le varianti nuove non è sempre così facile stabilire univocamente il ruolo patologico quale causa di malattia. Inoltre si tratta di analisi molto lunghe ed elaborate, per cui è necessaria anche fornire una corretta informazione al paziente per metterlo a conoscenza delle conseguenze e delle criticità correlate ad un test genetico. Il vostro centro può contare su una buona casistica per la poliposi adenomatosa familiare, quanti casi avete seguito e di cosa si tratta? Si tratta di una malattia rara che colpisce un individuo ogni 8.000-10.000. Nel nostro centro abbiamo seguito una cinquantina di casi provenienti anche da altre strutture della Lombardia e d’Italia. La patologia si caratterizza per la formazione di numerosi polipi nell’intestino, si parla di centinaia o più, che se non asportati chirurgicamente possono andare incontro ad una trasformazione neoplastica, diventando cellule tumorali. La causa scatenante è una mutazione nel gene APC. Se in un paziente si individua l’anomalia lo screening genetico può essere poi proposto ai fratelli e ai figli. Per chi risulta positivo si apre un percorso di sorveglianza fatto di controlli ravvicinati-prevalentemente colonscopie-per giocare d’anticipo contro il tumore. Gli Specialisti Rispondono N iguarda Cancer Center e Candiolo Cancer Institute-IRCCS, la collaborazione tra i due centri dura da dieci anni e ha portato diversi colpi a segno nella dura battaglia contro il cancro, in particolare contro dodici Psichiatria Disturbo bipolare: in bilico tra euforia e depressione Con una cura efficace e tempestiva si può avere una vita normale D Gli Specialisti Rispondono a Beethoven a Van Gogh, passando per Churchill e Hemingway, sono solo alcuni dei più illustri personaggi storici che pare abbiano sofferto di disturbo bipolare. Per loro, come per i tanti i pazienti non V.I.P. (la malattia colpisce 1-2 persone su 100), l’umore è come un pendolo che oscilla tra due estremi. Grandi picchi: autostima a mille, iperattività e una sensazione ai limiti dell’invulnerabilità, è la fase maniacale. Ma Claudio Scazza Psichiatria 3 di comunità Può contare sull’attività di due Centri Psicosociali, un Centro Residenziale ad Alta Assistenza, un Centro Diurno. L’équipe è composta da psichiatri, psicologi, assistenti sociali, infermieri e terapisti della riabilitazione che si prendono cura di circa 1.000 pazienti. www.ospedaleniguarda.it areaprivata.ospedaleniguarda.it poi ci sono anche grandi abissi, momenti di buio assoluto, la disperazione più totale: è la fase depressiva. Ridurre progressivamente queste oscillazioni è l’obiettivo della terapia che se ben condotta riesce a contenere gli episodi, conciliandosi con una vita normale. Ne abbiamo parlato con lo psichiatra Claudio Scazza, Responsabile della Psichiatria 3 di Comunità. La fase depressiva, come si caratterizza? E’ del tutto sovrapponibile alla depressione maggiore, per cui ci sono sentimenti di inadeguatezza, abbassamento dell’umore, idee pessimistiche, perdita di interesse per le attività a cui prima ci si dedicava con piacere. Perdita dell’appetito, mancanza di sonno o viceversa si passa l’intera giornata a letto. Questa fase può, inoltre, complicarsi con sintomi psicotici: ci possono essere dei deliri di rovina, catastrofismo, oppure idee di suicidio. E la fase maniacale, cos’è? E’ esattamente l’opposto: grande energia, estremo ottimismo, sicurezza di sé, che può portare a prendere decisioni avventate o potenzialmente dannose, come spendere molto denaro. Non si sente il bisogno di dormire e c’è una propensione per un’attività sessuale promiscua ed esibita. Talvolta la spiccata tendenza a prendere iniziative può essere proficua sotto il profilo lavorativo. Può capitare, infatti, che chi è affetto da disturbo bipolare sia una persona di successo, proprio perché la fase manicale può essere propulsiva per le proprie aspirazioni. Ma anche la fase maniacale può complicarsi con idee deliranti di grandezza o di onnipotenza, anche con sentimenti paranoidi e di persecuzione. Qual è la durata delle fasi e come si alternano? E’ variabile. Possono andare da qualche giorno a qualche settimana o in alcuni casi estendersi a qualche mese. Di solito tra i due estremi ci può essere una fase di normalità, detta di normotimia. Ma non sempre è così, perché può capitare anche un passaggio molto repentino da una fase all’altra. In altri casi le oscillazioni sono continue e ravvicinate, si parla allora di disturbo bipolare a cicli rapidi. Poi ci sono gli episodi misti e sono forse i più pericolosi. Di cosa si tratta? In questa fase si mischiano i sintomi della fase depressiva con i sintomi della fase maniacale. Ad esempio è caratterizzata da sentimenti di tristezza e di inadeguatezza ma accompagnati da una grande energia. Un mix molto pericoloso perché aumenta il rischio di suicidio. Quando i primi episodi? Tipicamente nella tarda adolescenza o nella fase di ingresso dell’età matura. Negli ultimi decenni si è assistito però ad un esordio sempre più precoce e questo è da mettere in correlazione con la maggiore facilità che si ha nell’utilizzo di sostanze che possono favorire, in chi è predisposto, l’insorgenza del disturbo. Queste sostanze d’abuso possono essere droghe o alcol e possono far emergere più rapidamente il disturbo bipolare. Quindi c’è una predisposizione? Sì ed è ereditaria. E’ bene sottolineare che si eredita la predisposizione e non la malattia. Magari è più facile per chi ha avuto dei casi precedenti in famiglia incorrere nel disturbo. Si devono però concretizzare quei fattori di rischio da cui la malattia può prendere le mosse, come esperienze particolarmente negative nella vita o appunto l’abuso di sostanze. Come si interviene? La strategia è quella di intervenire per contenere e limitare queste oscillazioni. Solitamente è necessaria un’adeguata cura farmacologica con stabilizzatori dell’umore e principi attivi anti-psicotici di ultima generazione che a bassi dosaggi danno dei buoni risultati, il tutto sotto un attento e continuativo controllo di un medico specialista. Oggi c’è più prudenza di un tempo nell’utilizzo degli antidepressivi. Perché questa accortezza? Perché possono portare al superamento della depressione, ma possono essere un innesco per l’episodio maniacale. Per cui in fase di diagnosi lo specialista deve saper distinguere con certezza l’episodio di depressione correlata con il disturbo bipolare da una depressione maggiore. Anche la terapia psico-educazionale può dare dei buoni risultati. Una curiosità: recenti studi sostengono che gli omega -3 combinanti con le altre terapie possano giovare. A quanto pare non fanno bene solo al cuore. tredici Save the Children Fiocchi in Ospedale, una mano per oltre 200 mamme in difficoltà l’associazione di promozione sociale Mitades - e intende accompagnare i neogenitori in difficoltà e i loro bambini nelle prime fasi di vita. Dall’inizio delle attività, nel settembre 2012, il progetto ha raggiunto oltre 2.000 mamme con azioni di sensibilizzazione sia presso l’Ospedale, dove sono aperti due sportelli di ascolto, sia nel territorio di riferimento. C’è stato un colloquio e un contatto diretto con più di 200 donne che hanno preso parte alle attività proposte. Tra i supporti realizzati ci sono le consulenze educative e legali, i “gruppi-mamma” sia nel pre che nel post-partum; nei casi di fragilità economica è stato predisposto anche un sostegno materiale individualizzato, pensato per venire incontro alle necessità delle famiglie. Gli sportelli Fiocchi in Ospedale è aperto tutti i giorni dalle 9 alle 15 orario continuato presso padiglione 16 (al piano terra, vicino all’accettazione). Tutti i martedì dalle ore 10 alle 11 e tutti i mercoledì dalle ore 10.30 presso il padiglione 10 (Ala C, al piano terra). Tel. 02.64447243-392.6914255 [email protected] Associazioni di Volontariato L’auto-aiuto per chi vive con un alcolista Al-Anon e Alateen: nel gruppo la forza di andare avanti L’alcolismo può rovinare la vita anche di chi non beve. Lo sa bene chi entra a far parte di Al-Anon, un’associazione di aiuto reciproco, basata sui Dodici Passi degli Alcolisti Anonimi ma che si rivolge ai familiari o agli amici di persone con questo problema. Alateen, parte integrante di Al-Anon, è un programma di recupero per gli adolescenti. Chiunque si accorga che la propria vita è stata profondamente condizionata dallo stretto contatto con un alcolista può entrare a far parte di Al-Anon. Mogli, mariti, figli, genitori, sorelle, fratelli, amici e anche colleghi di lavoro: le esperienze sono diverse, ma il programma di recupero è lo stesso. In Al-Anon si cerca di superare gli effetti devastanti dell’alcolismo smettendo di concentrarsi sull’alcolista per focalizzarsi su se stessi. “Si tratta di gruppi di auto-aiuto, in cui si condividono esperienze, emozioni e difficoltà, con lo scopo di recuperare noi come familiari e amici di alcolisti- ci spiega Maria referente Al-Anon per Niguarda-. Quello che impariamo è che noi non possiamo guarire l’alcolista, possiamo solo lavorare su noi stessi cercando di migliorare la relazione con lui. La sua è una malattia più grande. Noi possiamo aiutarlo solo se impariamo a considerarlo come una persona nonostante la sua malattia”. Per entrare in contatto con Al-Anon Numero verde 800 087 897 - www.al-anon.it A Niguarda - L’appuntamento è ogni martedì dalle 19.00 alle 20.00, presso l’epatologia al Blocco Sud, primo piano studio medico n°4 A tu per tu La forza del gruppo Giulia è un’Alateen da quasi 10 anni, il padre era un alcolista. La forza del gruppo l’ha fatta andare avanti Quando hai iniziato a frequentare le riunioni Alateen? Avevo 12 anni. Mia mamma era totalmente concentrata su mio papà, per cui non riusciva a darmi le dovute attenzioni. Soffrivo, ero molto chiusa e non avevo amici. Immaginatevi: come potevo invitare a casa una compagna di classe con una situazione del genere? Per questo ho avuto anche problemi a livello alimentare. Ho smesso di mangiare, non perché mi vedessi grassa, ma perché sapevo che in questo modo avrei attirato l’attenzione dei miei genitori. Era una cavolata, la situazione, infatti, era peggiorata. Poi nel gruppo hai trovato il sostegno… Ho iniziato a frequentarlo e ho iniziato a volermi bene. C’è stato un riavvicinamento verso il cibo e i pasti che ho iniziato a non saltare più. Frequentare il gruppo mi ha risollevato, ho recuperato il rapporto con mio papà. Prima lo vedevo come una pessima persona, solo da disprezzare, non riuscivo a vedere la sua malattia. Poco a poco sono riuscita ad accettarlo ed è stato sicuramente un passo molto importante. Intanto anche lui nel corso degli anni è riuscito a smettere di bere. Poi dopo due anni dal suo recupero purtroppo è morto. Ci dispiace per la tua perdita. E il rapporto con tua mamma? Ci sono stati dei momenti difficili. Quasi sempre è così, mentre l’alcolista beve ed è nel suo mondo, chi è a stretto contatto con lui, come la moglie, rischia di scaricare sui figli la sua tensione, il suo carico di preoccupazione e ansia. Ma il gruppo mi ha sostenuto e mi ha fatto superare anche questo. Ci sono stati anche i mei fratelli maggiori che in questa situazione familiare sono stati un aiuto insostituibile. Ti ha dato tanto anche Alateen? Sì, mi ha fatto crescere e oggi mi reputo una persona con la testa sulle spalle: ho completato le scuole superiori e ora sto andando all’università con buoni risultati. Tutto questo, sono sicura che è anche merito del gruppo. Penso che senza non sarei di certo riuscita. Come ti ha aiutato di più, quale molla ha fatto scattare in te? La condivisione di esperienze, il fatto di non essere sola… anche poter sentire con le tue orecchie che nonostante tu ti reputi disperata, in realtà c’è chi ha storie ancora più difficili. C’era nelle riunioni chi riferiva di essere stato picchiato e minacciato. A me per fortuna non è mai successo. Anche questo ti sprona ad andare avanti. Ti fa dire: “Sto male, ma potrei stare peggio”. Adesso continui a frequentare? Sì, ci sono dei periodi in cui non frequento causa impegni oppure durante il periodo delle vacanze estive e sento che in queste interruzioni il gruppo mi manca, non posso più farne a meno, sento il bisogno di tornare. Mi aiuta contro le paure che comunque rimangono e mi dà la forza per andare avanti. Associazioni di Volontariato L’Unione Samaritana ha bisogno di te 67 anni di presenza per donare conforto, affetto e parole di speranza “Aiutaci ad aiutare!”, questo è il messaggio che ti rivolge l’Associazione Unione Samaritana ONLUS, un biglietto da visita dal quale si capisce qual è la posta in gioco: “Aiutare”, ed è una esortazione rivolta a chiunque voglia partecipare a questa missione umanitaria. 67 anni di storia che iniziano a Niguarda L’attività dell’Associazione ha inizio subito dopo la fine del grande conflitto mondiale. Uno sparuto numero di persone del quartiere di Niguarda, animati da una grande sensibilità, chiesero il permesso ai responsabili sanitari dell’Ospedale di poter accedere nelle corsie dei vari reparti per portare aiuto e conforto. Inizia così un impegno subito apprezzato che si consoliderà nel tempo. Nel 1947 l’Associazione formalizza la sua presenza dandosi un’organizzazione nel rispetto delle leggi vigenti. Da allora sono passati ben sessantasette anni, l’Unione Samaritana è cresciuta ed è oggi una realtà conosciuta e stimata che può contare sulla presenza di quasi settecento volontari distribuiti tra i vari ospedali e i centri geriatrici di Milano e provincia. Per informazioni Per restare in contatto con l’Associazione, per supportarla e per conoscere le iniziative visita il sito www.usamaritana.org Sede c/o Niguarda: Area Centro Padiglione 12, 2° piano lun-ven: 9.00-12.00/14.30-17.00 tel. 02 6444.2524/2249 Non è solo un gesto di generosità La presenza del volontario Samaritano non è lasciata al caso, non è solo un gesto di generosità, di buon senso, ma rappresenta quanto di meglio si può e si deve fare per essere d’aiuto. E’ soprattutto condivisione, una scelta basata su principi religiosi per alcuni o su principi sociali per altri. “C’è da aggiungere che la motivazione se non è supportata dal cuore, cioè da un sentimento profondo verso il prossimo, rischia di perdere intensità davanti alle prime difficoltà che inevitabilmente si presentanosottolinea Lanfranco Zanalda, Presidente dell’Associazione-. Il volontario impara che un sorriso, una mano che si posa sulla loro, possono rendere migliore la giornata delle persone alle quali ci rivolgiamo nei reparti ospedalieri o geriatrici. Essere loro vicini con serenità, ascoltare il loro vissuto e le loro emozioni, qualche volta asciugare una lacrima, sono piccoli gesti ricchi d’amore”. Basta così poco. Ascolto attivo e aiuto I volontari Samaritani non sostituiscono chi lavora in Ospedale, ma occupano lo spazio relazionale, partecipando con empatia alla sofferenza dell’assistito. Dedicano il loro impegno concentrandosi sull’ascolto e l’accompagnamento di chi soffre, chi è solo, chi chiede aiuto. Regalare ascolto è un gesto di raffinato amore. “L’ascolto non è un atteggiamento passivo: tutt’altro, è da considerare attivo perché richiede un’attenta presenza di sé, un investimento di tutte le proprie energie in modo da offrire la migliore disponibilità- spiega Zanalda -. La presenza del volontario si traduce nell’accogliere, ascoltare, comprendere e rispettare le persone che incontra facendo ricorso alla semplicità, all’umiltà, alla comprensione e alla preparazione”. Preparazione che viene acquisita con lo studio e l’apprendimento grazie ai corsi DRA (dialogo, relazione, aiuto) tenuti dai formatori Samaritani. “Con questo obiettivo l’Associazione ha istituito al suo interno una sezione apposita denominata Centro di Formazione Permanente (CFP)- continua Zanalda-, al quale oggi anche altri enti di volontariato si rivolgono per la preparazione dei propri iscritti”. Volontariato L o sportello “Fiocchi in Ospedale” è stato aperto da Save the Children Italia Onlus - in collaborazione con quattordici MAPP International La Città dell’Arte N ella nostra rassegna dedicata all’arte, già da qualche numero abbiamo deciso di fare un salto temporale. Esaurite le presentazioni sui grandi maestri che hanno “battezzato” con le loro opere la nascita dell’Ospedale negli anni trenta, il nostro sguardo si è ora soffermato su un altro grande “giacimento artistico” del Niguarda, il MAPP. Il Museo d’Arte Paolo Pini è un museo d’arte contemporanea situato nell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano, ideato da Teresa Melorio ed Enza Baccei. Il progetto è portato avanti con la collaborazione del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ospedale Niguarda, sotto la direzione artistica di Marco Meneguzzo e l’adesione di alcune note gallerie d’arte milanesi. Cambiano le opere, non cambia la nostra guida: il Primario Emerito Enrico Magliano, un medico con la “malattia dell’arte”. Protagonista di questo numero: l’artista Bernd Zimmer. MAPP - Museo d’Arte Paolo Pini E’ in via Ippocrate 45 a Milano. Il Museo è aperto dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 16.00; il parco è aperto tutti i giorni dalle 8.00 alle 19.00. Niguarda in prima fila nella ricerca e anche nel restauro... Bernd Zimmer realizzò nel 1995 un grande affresco di 8x5 metri sulla parete esterna del Padiglione 7, quello che ospita la sede del MAPP: il titolo dell’opera è “Sopra e sotto”. Si tratta di un affresco di grande impatto cromatico che rappresenta un’inquietante forma di albero a croce; un “Fleur du mal” coerente con la sensibilità dell’artista. Zimmer utilizzò colori acrilici ricoperti di uno strato trasparente protettivo che, complice l’umidità della parete, furono le concause del degrado cui è giunta la grande pittura murale. Di recente l’opera, peculiare per la sua appartenenza a un Museo all’aperto, è stata scelta come oggetto di studio per una ricerca internazionale sui sistemi di restauro. Farà piacere ai Niguardesi sapere che i risultati di tale indagine sono stati presentati alla Fiera del restauro di Ferrara e fatti oggetto di una pubblicazione su un’importante rivista internazionale del settore. Elementare Watson! Niguarda non ha confini nella ricerca. Bernd Zimmer – “Sopra e sotto” Arte e Storia Biografia dell’Artista Bernd Zimmer è nato a Planneg vicino a Monaco nel 1948. Dopo aver lavorato come grafico studia filosofia e teologia a Berlino. Durante un soggiorno in Messico rimane affascinato dai grandi affreschi di Diego Rivera e ritornato in Europa si dedica alla pittura, in particolare all’affresco di grande formato senza disegno preparatorio. Zimmer è uno dei fondatori del gruppo dei “Nuovi Selvaggi”. Il Movimento nasce nel 1980 e unisce un gruppo di giovani artisti seguaci di una pittura “urlata e gestuale” con toni accesi e violenti sulla scia dell’impressionismo tedesco con poca attenzione agli aspetti sociali, cari invece ai grandi maestri. Zimmer è attualmente annoverato (anche nei Musei) come un importantissimo artista contemporaneo europeo. Fotonotizia Visite d’arte a Niguarda Di turisti che girano per il centro storico di una città ne vediamo tutti i giorni, un po’ più raro è vederli visitare un ospedale. Questo può succedere solo a Niguarda, luogo tutelato dalle belle arti che di recente ha aperto le proprie porte a tour organizzati, per far conoscere le sue bellezze artistiche. Per appuntamento e informazioni: MAPP lun-ven: 9.00/16.00 tel. 02 6444.5392/5326 [email protected] News Tutta l’arte di Niguarda in un click È on-line la sezione NAG, Niguarda Art Gallery, che permette di scoprire tutte le bellezze artistiche della Ca’ Granda. Dalla architettura ospedaliera all’arte moderna firmata MAPP (Museo d’Arte Paolo Pini), tutto suddiviso in apposite categorie per non perdere nulla di questa grande città della arte. CLICCA www.ospedaleniguarda.it L’opera durante il restauro Storia di Niguarda La nascita delle specialità N egli anni sessanta e settanta, le divisioni chirurgiche e mediche iniziarono a sviluppare aree di interesse in specifici settori, dovute al “rapido progresso delle acquisizioni scientifiche” [...]. Per quanto riguarda la chirurgia, vennero realizzate in contemporanea, nel 1965, due strutture dedicate alla cura delle patologie ortopediche: la divisione OrtopedicoTraumatologica Passera e la divisione d’Ortopedia Andrea Ponti, quest’ultima nata all’interno della divisione di Chirurgia generale diretta da Benedetto Austoni. Inoltre, già nel 1950, era stato costituito, in convenzione con l’INAIL, un Centro Grandi Ustionati e Chirurgia plastica, sotto la guida di Clerici-Bagozzi. La divisione di Ostetricia e Ginecologia, a seguito dell’improvvisa morte del primo direttore Carlo Armanini, venne affidata nel 1960 a Giuseppe Nicora, al quale subentrò nel 1976 Alfonso Zampetti, che la diresse fino al 1997. In quel periodo venne istituito il primo servizio in Italia dedicato alle tematiche della diagnosi e del trattamento della sterilità di coppia, coordinato dapprima da Antonio Chiara e successivamente da Giarola e da Vinci. In seguito all’aumento della natalità, nel 1964 venne istituita una nuova divisione di Ostetricia, diretta prima da Luigi D’IncertiBonini, poi dal 1984 al 1985 da Alfonso Zampetti e infine dal 1985 da Innocenzo Signorelli. Nel campo delle specialità chirurgiche, è da ricordare la figura, attiva in quegli anni, di Alberto Zanollo, urologo di fama internazionale che ha iniziato la propria attività professionale (dal 1958 al 1970) a Niguarda, dove ha maturato il suo interesse per i pazienti con lesione midollare studiandone le disfunzioni a carico dell’apparato urinario, divenendo il pioniere della neurourologia italiana. Successivamente egli ha fondato la sezione Neurolesi a rischio urologico, coordinando, dal 1990, la prima Unità spinale integrata della Regione Lombardia. In ambito medico un breve elenco cronologico sulla nascita delle “strutture specialistiche” è la migliore dimostrazione della precoce vocazione d’apertura all’attività clinicodiagnostico-terapeutica integrata. Nel 1962 presso la divisione Talamona venne aperto un ambulatorio ematologico (divenuto poi Centro ematologico nel 1966), primo nucleo da cui si originò poi, nel 1980, la divisione di Ematologia, mentre all’interno della divisione Brera fu istituito nel 1963 un primo Centro di Reumatologia, costituitosi poi nel 1989 in divisione autonoma sotto la direzione di Bianca Canesi. Nel 1964 prese vita presso la divisione Rizzi il Centro per le Malattie coronariche; nel 1966 presso la divisione Gatti Castoldi nacque l’ambulatorio per le malattie metaboliche. Nel 1967, all’interno della divisione Carati, su iniziativa del suo primario, Gianfranco Silvestrini, già allievo di Luigi Villa al Policlinico, venne istituito un centro per la cura delle affezioni endocrine, dotato di un ambulatorio e di un avanzato laboratorio[…]. Presso il padiglione Falck, nel 1973 fu istituito il Centro per lo Studio delle Dislipidemie, diretto da Cesare Sirtori […]. Nell’ambito della divisione medica Crespi, nel 1974 venne istituito per interessamento di Luigi Cantoni un centro per le malattie epatospleniche (trasformato nel 1981 in Centro di Epatologia), la cui attività venne fortemente potenziata quando la divisione fu affidata nel 1988 a Gaetano Ideo. L’istituzione presso la divisione di Medicina generale Bizzozero del Centro di alta specializzazione in Allergologia e Immunologia clinica risale al 1973, per opera di Enzo Santilli in collaborazione con la Clinica medica universitaria diretta da Carlo Zanussi. La direzione della divisione venne successivamente affidata, nel 1984, a Claudio Ortolani sotto la cui guida il centro ottenne il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Lombardia e la successiva designazione a Centro di riferimento. […] Tra le altre specialità mediche sviluppate in quegli anni, è opportuno inoltre ricordare: il Centro diabetologico, fondato da Alberto Bertolini nel 1975 nella divisione Gatti Castoldi; la struttura di Dietetica e Nutrizione clinica, istituita nel 1970 da Ennio Gatti e attualmente divenuta Centro per il Trattamento dei Disturbi del Comportamento alimentare, struttura di riferimento nazionale in tema di nutrizione; la divisione di Malattie infettive, nata nel 1980, a seguito del trasferimento di una delle divisioni specialistiche, diretta da Fabio Giannelli, dell’Ospedale Malattie infettive Agostino Bassi di Milano, chiuso al principio degli anni ottanta. Infine, nel 1984, apre il Centro di Trapianti di Midollo presso la divisione Talamona. Testo a cura di Vittorio Alessandro Sironi, tratto dal libro “Niguarda un ospedale per l’uomo nel nuovo millennio”(2009) quindici Nuovo Niguarda Apre il Blocco Nord D opo l’estate al rientro dalle ferie troveremo una grande novità: il Blocco Nord sarà aperto! A settembre i primi a trasferirsi nel nuovo blocco ospedaliero saranno gli ambulatori e i day hospital del Padiglione 2: Allergologia Diabetologia Endocrinologia Medicina interna Medicina Riabilitativa Neurologia il Centro trasfusionale -SIMT e Centro donazioni sangue del Padiglione 3. Controlla la mappa dell’Ospedale sul sito ospedaleniguarda.it, manda una mail a [email protected] oppure chiama lo 02 6444.1 progetto nasce proprio con questo obiettivo – spiega Marco Trivelli, Direttore Generale del Niguarda ‐ rendere, in breve tempo, autosufficiente l’ospedale di Niguarda, che per soddisfare le proprie esigenze trasfusionali, anche in funzione dei numerosi trapianti e interventi d’urgenza, necessiterebbe di almeno 5.000 unità di sangue in più all’anno rispetto alle 18.652 unità di sangue ottenute da AVIS Milano nel 2013. Il sangue non può essere prodotto industrialmente e quindi può essere ottenuto solo con un atto di generosità”. Per donare Per diventare donatore è sufficiente presentarsi al Centro Donazioni di Sangue dell’Ospedale senza appuntamento. La donazione di sangue è un atto volontario e altruista, che permette non solo di aiutare altre persone, ma è un’occasione utile per il donatore che può sottoporsi a un piccolo check-up gratuito. Centro Donazioni del Sangue Area Ingresso- Padiglione 3, aperto dal lunedì al venerdì dalle 8.00 alle 12.00 (aperto tutto agosto). Da settembre il centro aprirà nella nuova sede al Blocco Nord. Domande sulle vaccinazioni? S ul sito della Società Italiana di Pediatria (SIP) è online un nuovo spazio web dedicato all’approfondimento scientifico sul delicato tema delle vaccinazioni pediatriche, un argomento costantemente nell’occhio del ciclone e spesso bersaglio di complottismi e disinformazione. Il Portale Vaccini è a cura della Commissione Vaccini SIP. Clicca su vaccini.sip.it News Orari estivi degli sportelli Questi gli orari del mese di agosto (dal 4 al 31 agosto) degli sportelli di accettazione, prenotazione, ritiro referti e area privata: Padiglione 2 ( Poliambulatorio Medico): chiusura e riapertura il 1° Settembre al Blocco Nord. Padiglione 16: lunedì-venerdì 7.00-15.00. Dopo l’orario di chiusura rivolgersi al Blocco Sud. Blocco Sud: lunedì-venerdì 7.00-18.00; sabato 8.30-13.00. Il call center per la prenotazione telefonica delle visite private, che risponde al 02 6444.2409, è operativo dal lunedì al venerdì 8.30-17.00. Paolo Bulgheroni News Nuove nomine News L’Atletico Niguarda è campione regionale L ’Atletico Niguarda continua ad inanellare successi. La squadra, composta da pazienti e operatori del Dipartimento di Salute Mentale, si è aggiudicata il torneo regionale UISP in cui hanno partecipato 13 rappresentative provenienti da tutta la Lombardia. La vittoria consente all’Atletico di andare a Montalto di Castro, nel Lazio, per sfidare gli altri campioni regionali che a settembre si contenderanno il titolo nazionale. Alè! News Un aiuto in più contro l’anoressia e i disturbi alimentari S ono stati inaugurati i nuovi spazi dedicati al progetto “Potenziamento dei percorsi di cura (nutrizionale e psicologico)”, un sostegno pensato per le persone affette da disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia e obesità morbigena), promosso dall’Associazione Erika Onlus e finanziato da Regione Lombardia, in convenzione con l’ASL di Milano e con il contributo del nostro Ospedale. 20862 Arcore (MB) Tel. 039.5968130 Fax 039.5968131 Tiratura: 25.000 copie Reg. Tribunale Milano: n. 326 del 17 maggio 2006 Pubblicità: Eurocompany s.r.l. via Canova 19 - 20145 Milano tel. 02.315532 Fax 02.33609213 www.eurocompany.mi.it [email protected] Pubblicato online sul sito: www.ospedaleniguarda.it Il giornale di Niguarda Periodico d’informazione dell’A.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda Direttore Responsabile: Monica Cremonesi In redazione: Giovanni Mauri, Andrea Vicentini, Maria Grazia Parrillo Direzione e redazione: Piazza Ospedale Maggiore 3 20162 - Milano tel. 02 6444.2562 [email protected] Foto: Archivio Niguarda copyright Stampa: RDS WEB PRINTING S.r.l. Via Belvedere, 42 Salvatore Lo Cicero D opo tanti anni a Niguarda è andato in pensione Paolo Bulgheroni, Direttore della Pneumologia. A lui va un caro saluto e un sentito ringraziamento. Il nuovo Direttore facente funzioni della Pneumologia è Salvatore Lo Cicero. Buon lavoro. Niguarda nel mondo In Uganda per aiutare i bambini cardiopatici E ’ tutto pronto per essere replicato ad agosto: dopo la prima missione dello scorso marzo presso l’Ospedale Mulago, di Kampala, la capitale dell’Uganda, gli specialisti del nostro Ospedale sono pronti a volare in Africa nuovamente per il secondo atto. “Il progetto ha come obiettivo la formazione degli operatori locali in modo da poter eseguire in autonomia interventi cardiochirurgici pediatrici- ci spiega Stefano Marianeschi, Responsabile della Cardiochirurgia Pediatrica (quinto da sinistra nella foto)-. Tre mesi fa sono già stati eseguiti 3 interventi di correzione di difetti cardiaci congeniti che sono andati tutti a buon fine”. Hanno accompagnato il cardiochirurgo anche Enrico Ammirati, cardiologo (settimo da sinistra), e il perfusionista Cosimo Popolizio (quinto da destra). La missione è stata supportata dalla Fondazione Aiutare i Bambini e da Un Piccolo Grande Cuore nel Mondo, progetto della Fondazione A. De Gasperis. Vuoi ricevere il Giornale di Niguarda? B asta mandarci una mail e specificare il tuo nome, cognome e l’indirizzo a cui recapitare il giornale. Sarai inserito nella lista degli abbonati e riceverai gratuitamente a casa il nostro periodico. [email protected] News dall’Ospedale AVIS e Niguarda: servono 150 donatori in più al giorno E Per essere aggiornati sui trasferimenti NEWS DAL WEB Emergenza sangue ’ stato presentato, il progetto “+ 5.000 unità in più per l’Ospedale Niguarda”, nuovo obiettivo di AVIS Milano e di Niguarda. I dati relativi a Milano parlano chiaro: per rendere autosufficienti le trasfusioni di sangue negli ospedali e nelle case di cura della città, occorrono addirittura 150 donatori in più per ogni giorno feriale dell’anno. La riflessione assume ancora più rilevanza se i numeri vengono raffrontati alle necessità di un ospedale come quello di Niguarda. “Il A seguire, verrà trasferita la Riabilitazione cardiologiaca dal Padiglione 2 al Padiglione 3. Al Blocco Nord sono previsti anche 17 sportelli di prenotazione-accettazione (lun-ven: 8.00-18.30).