Il vero significato dell`attività imprenditoriale

IL VERO SIGNIFICATO DELL’ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE
IL VERO SIGNIFICATO
DELL’ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE
Giorgio Vittadini
Presidente Fondazione per la Sussidiarietà
La crisi che ha recentemente colpito la gran
parte dei mercati - e di conseguenza tanti operatori
economici singoli e associati - offre molti spunti per
riflettere sull’impresa, sul suo ruolo ed anche sulla sua
natura. La crisi è stata determinata a livello dei mercati
finanziari pertanto da qui occorre partire. L’aziendaimpresa nasce perché qualcuno si accolla il rischio
imprenditoriale connesso all’incertezza sul fatto che il
mercato valorizzerà il suo tentativo.
Negli anni più recenti si sono creati mercati,
quelli finanziari, in cui questa dinamica è diventata
secondaria o talvolta del tutto assente e l’unica
incertezza da remunerare è stata quella delle
asimmetrie informative, delle informazioni mancanti,
dei surplus ingiustificati nell’economia reale.
La crisi finanziaria deve essere letta non solo
come esito di tecniche contabili usate in maniera
approssimativa o fraudolenta, ma come esito di una
concezione ridotta di uomo e di impresa.
Infatti, perché un soggetto deve accollarsi
un rischio così oneroso, che richiede tante energie
proprie e altrui? Perché la sua capacità creativa,
di trasformazione della realtà, il suo desiderio di
costruire, di migliorare la propria condizione, quella
della sua famiglia e del suo territorio, sono radicati
nella sua natura umana. Contrariamente a una certa
letteratura sociologico-economica, la disposizione
a “intraprendere” è direttamente proporzionale a
quanto un uomo vive la sua natura profonda, fatta
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Quaderni di ricerca sull’artigianato
di desiderio di giustizia, verità, bellezza e a quanto
questo desiderio è educato nelle realtà sociali,
territoriali, ideali, a cui appartiene.
Ciò non significa negare il ruolo determinante
del profitto, indicatore indispensabile di ogni attività
economica. Significa mettere in rilievo la ragione
che sta alla base della creazione di ricchezza,
senza cui ogni descrizione del sistema economico è
un’interpretazione di come funziona ciò che c’è, ma
non spiega perché si è generato.
Rileggendo la storia di imprese divenute
poi colossi multinazionali, leggendo le vicende di
tantissime piccole e medie imprese di successo,
si vede come l’imprenditore è la prima risorsa
dell’impresa. Per parlare di casa nostra, se un
profitto svicolato dal desiderio di lavorare e costruire
dominasse l’azione, perché mai nell’attuale crisi i
piccoli e medi imprenditori italiani, che producono
il 70% del fatturato e danno lavoro all’80% degli
occupati italiani, dovrebbero resistere alla tentazione
di vendere l’impresa, tenere i soldi in famiglia senza
reinvestirli e vivere di rendita? Come insegnano
i grandi autori dell’economia aziendale italiana,
un’impresa, soprattutto piccola e media, che voglia
reggere nel lungo periodo deve essere mossa da un
insieme di valori e ideali legati alla valorizzazione dei
suoi lavoratori considerati come persone. Per questo,
dalla recente indagine Sussidiarietà e… piccole e
medie imprese (Mondadori Università, Milano, 2009)
è emerso come i piccoli e medi imprenditori siano
nella loro maggioranza spinti, oltre che dalla ricerca
del profitto, anche dal desiderio di creare posti di
lavoro e di rendere l’impresa, anche a proprie spese,
un luogo dove i lavoratori stiano bene. D’altra parte,
come ha affermato Giulio Sapelli, la piccola e media
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impresa è una “comunità organica dove si pensa e si
fatica e si soffre e si gioisce e si vive nel lavoro gomito
a gomito, faccia a faccia, famiglia a famiglia, strada
per strada del paesino e della cittadina. Non ci sono
formule matematiche per definire e per capire queste
imprese: ci sono le regole della vita in comunità nella
cultura del lavoro e nella fedeltà al patto che s’instaura
con coloro che con l’imprenditore lavorano. E che
sono pronti a seguire non tanto lui, ma soprattutto
l’impresa con lui, l’impresa che dopo anni e anni di
lavoro diventa una proprietà condivisa moralmente
prima che giuridicamente”.
Occorre quindi riflettere su che cosa
significhi partire da una concezione dell’uomo non
ridotta in partenza e, sulla base di essa, porsi degli
interrogativi riguardanti i salari, la crescita aziendale,
le responsabilità, la governance dell’impresa, il tipo di
forma societaria.
Infatti la centralità della persona non è
strumentale a qualcos’altro, è un valore di per
sé. Altrimenti, dopo aver capito che motivazione
personale e passione al proprio lavoro sono risorse
importanti, per esprimerle al meglio si adotta una certa
strategia, senza domandarsi da dove nascano queste
risorse umane. E’ un problema di rapporto umano
con la persona nella sua integralità. Un uomo libero è
ciò che di meglio si possa sperare, anche dal punto
di vista aziendale. Avere una famiglia, dei legami, dei
rapporti, dei valori, è un bene per l’azienda, anche se
appartengono a qualcosa di diverso dall’azienda.
Se impostare il lavoro sulle risorse umane per
le aziende è stato un bene, cosa vuol dire allearsi con
il valore ultimo, il destino, la felicità della persona? Si
tratta di un valore metodologico nuovo.
Da questa rilettura della dinamica originaria del
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Quaderni di ricerca sull’artigianato
fare impresa emerge una seconda considerazione.
L’impresa non è un tentativo solitario, che ha come
destinatario ultimo solo l’imprenditore; dice Benedetto
XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate: “Accanto al bene
individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle
persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”,
formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che
si uniscono in comunità sociale. Non è un bene
ricercato per se stesso, ma per le persone che
fanno parte della comunità sociale e che solo in essa
possono realmente e più efficacemente conseguire il
loro bene”.
Secondo l’indagine sopra citata, per ciò
che concerne la concorrenza, nei piccoli e medi
imprenditori italiani, prevale sulla “competizione
darwiniana” di tipo neoclassico una tendenza alla
condivisione con i concorrenti dell’attività di ricerca
e sviluppo, di internazionalizzazione, di strategia per
migliorare la competitività. Chi pensa che queste
siano divagazioni poetiche rifletta su come la fortuna
inaspettata dei nostri distretti nasca da questa strana
concezione di concorrenza creativa e collaborativa fra
imprese.
Nonostante questo, difficilmente il singolo
imprenditore, anche per chi lo rappresenta, è
importante: ci si fregia di difenderlo, ma non lo si
accompagna nel suo processo di sviluppo. Invece,
lo sviluppo della piccola e media impresa e la sua
trasformazione è la vera e grande emergenza
dell’Italia e la battaglia degli anni futuri: da essa
dipende lo sviluppo economico e sociale del nostro
Paese contro ogni tipo di rendita, quella politica e
quella economica.
NUOVI SCENARI
NUOVI SCENARI
Il primo articolo della sezione si fonda su
di una imprescindibile constatazione: negli ultimi
decenni l’economia ha conosciuto un mutamento
radicale che ha portato al centro della scena la
conoscenza quale fonte primaria dei processi
lavorativi, nonché settore trainante della produzione
e della ricchezza. Ma se è vero che finora le varie
teorie della formazione si sono declinate a partire
dalle grandi organizzazioni, pochissimo è stato scritto
sulle specificità della formazione imprenditoriale
rivolta alle piccole imprese. Si tenta nello specifico di
sottolineare, invece, l’importanza di questo aspetto
per le imprese artigiane: la formazione fruita dal titolare
o dai soci ha un effetto determinante ed immediato
sull’azienda, sulla sua organizzazione, sui contenuti
tecnici e sull’organizzazione del lavoro. Vengono
quindi presentati i risultati di una ricerca empirica sulle
imprese artigiane del Piemonte.
Il secondo saggio esplora la situazione del
mercato del lavoro italiano, in un contesto europeo
e comparato, dal punto di vista delle recenti
trasformazioni contrattuali e sociali intervenute. Si
sostiene la necessità di trovare un raccordo, in Italia,
tra la dimensione di flessibilità, ormai largamente
introdotta, e la dimensione di sicurezza sociale,
attraverso la riforma dell’attuale sistema complesso
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Quaderni di ricerca sull’artigianato
e disorganizzato di ammortizzatori sociali dove si
percepisce un certo vacuum. Senza voler riconoscere
alla flessibilità meriti che non ha né in termini di aumenti
di occupazione né di incrementi di produttività,
questo lavoro suggerisce che in Italia, il recepimento
del modello flexicurity debba significare da un lato
l’incremento di protezione, tutele e diritti sociali per
occupati e disoccupati, dall’altro l’eliminazione di
certe rigidità nel mercato dei beni. Questa esigenza
è stata messa maggiormente in evidenza dall’attuale
crisi finanziaria che ha portato nei mercati reali una
crescita considerevole dei tassi di disoccupazione
e quindi una maggiore domanda di protezione del
reddito, soprattutto per una fascia notevole di ex
occupati con contratti atipici i quali si trovano senza
i requisiti necessari per poter accedere alle forme di
protezione sociali vigenti.
Il terzo intervento parla di artigianato
descrivendone le dinamiche in una zona specifica
come la città di Napoli. Le ambiguità e le contraddizioni
sedimentate nella sua storia millenaria fanno del
Centro Storico di Napoli un terreno di osservazione
privilegiato per approfondire il complesso rapporto
che lega le politiche urbane a quelle dello sviluppo
economico nelle grandi metropoli che faticosamente
vanno alla ricerca di una loro riconfigurazione
funzionale di tipo post-industriale.
L’ultimo articolo si concentra sulle reazioni
avutesi in Veneto nel settore dell’edilizia e più in
generale in quello dell’artigianato di fronte all’evento
recessivo di cui si è già detto. Tramite la presentazione
di dati riferiti al 2008 e al 2009, viene dimostrato
che la crisi del mercato ha colpito soprattutto la
microimpresa e la piccola impresa, mentre le imprese
più strutturate hanno dimostrato che la loro maggiore
NUOVI SCENARI
organizzazione e capitalizzazione ha consentito di
posticipare, e in alcuni casi annullare, gli effetti negativi
del mercato.
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