SYMBOLON: DISCHIUDERE IL CREDO di Stefano Biavaschi L’Antico Symbolon della Fede Cristiana Simbolo degli Apostoli Io credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra. E in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente: di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen Credo niceno-costantinopolitano Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della sostanza del Padre; per mezzo di Lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti. Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica. Professo un solo Battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen Il Credo Quando nasce il nostro credo? Possiamo dire che nasce con la rivelazione stessa di Gesù. L’incontro col Figlio di Dio faceva cadere l’uomo in ginocchio e gli metteva sulle labbra la prima semplicissima formula di fede: “Io credo”. I peccatori, i discepoli, i miracolati, esprimevano la loro fede con una sola parola, un solo verbo, perché il Verbo era già davanti a loro, e non era necessario pertanto elencare ad essi tutti i contenuti della fede: avevano visto e credevano, si sentivano amati e avevano fiducia, un solo sguardo di Gesù e già lo seguivano. In questi testimoni nacque però immediatamente la necessità di annunciare tale incontro perché anche altri potessero viverlo, come narrano le bellissime parole degli apostoli: “Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi”. Dalla predicazione degli apostoli nasce così l’annuncio del Kerigma, il primo nucleo della formula di fede: Cristo è venuto, ci ha salvato con la sua croce, è morto ed è risorto. Credere era accettare e vivere questa “buona notizia”. Attorno a questo lieto annuncio sorsero fin dall’inizio le professioni di fede; Paolo scriveva a Timoteo: “Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede” (1 Tm 6,12). E’ quindi attestata la presenza di formule attorno alle quali si coagulò quello che oggi chiamiamo il Simbolo apostolico: “Io credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra. E in Gesù Cristo suo unico Figlio e nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente: di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen”. Questo antichissimo simbolo rimane ancora oggi una delle più belle preghiere della Chiesa. Nella lingua greca la parola symbolon indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che serviva come segno di riconoscimento quando le due metà venivano riunite. Era un modo per verificare l’identità di una persona, così come il simbolo della fede identificava il credente. Symbolon passò poi a significare raccolta, sommario. Il Simbolo degli Apostoli raccoglieva le principali verità di fede, ne era il riassunto (cfr CCC 185-197). Accanto a questo Simbolo apostolico nacque nel quarto secolo il Credo di Nicea-Costantinopoli. In un certo senso dobbiamo all’eresia ariana il grande Concilio di Nicea, che riunì ben 318 padri della chiesa nell’anno 325, poiché questi si sentirono interpellati sulla propria fede ed avvertirono la necessità di mettere nero su bianco gli autentici contenuti del credo cristiano. Tale Simbolo fu ancora ripreso e convalidato dai 150 padri durante il primo Concilio di Costantinopoli nel 381. In quegli anni San Cirillo di Gerusalemme scrisse: “Il simbolo della fede non fu composto secondo opinioni umane, ma consiste nella raccolta dei punti salienti, scelti da tutta la Scrittura, così da dare una dottrina completa della fede. E come il seme della senape racchiude in un granellino molto rami, così questo compendio della fede racchiude tutta la conoscenza della vera pietà contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento” (Catecheses Illuminandorum 5,12:PG33,521-524). Ancora oggi questo Simbolo costituisce la formula che recitiamo durante la santa Messa. Ed ha anche carattere universale: non è patrimonio di fede solo per i cattolici, ma anche per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente. Affrontiamo qui di seguito, uno per uno, i diversi articoli del Credo. “Credo in un solo Dio…” L’antico Simbolo della nostra fede inizia con quel verbo che abbraccia tutti i contenuti espressi nei vari punti della formula: io credo. Ma cosa significa realmente credere? Ogni buon credente sa bene che “credo in Dio” non significa semplicemente “ritengo che Dio c’è”. Nel linguaggio quotidiano usiamo con disinvoltura tantissime volte questo verbo, attribuendogli diversi significati: penso, ritengo possibile, immagino… Ma nel linguaggio religioso questo vocabolo s’ingigantisce improvvisamente, diventa improvvisa assunzione di responsabilità, scelta di vita, consapevolezza di una realtà. E’ un verbo che contiene mille verbi, che contiene Dio e l’uomo, che contiene tutta quanta la mia vita, quella degli altri, il senso stesso dell’universo. Proverò qui di seguito a tradurlo con altre espressioni, ben sapendo che esse rappresentano solo una parte di questo tesoro che le mani dell’antica Tradizione ci hanno consegnato. “Io credo in Te, io mi affido a Te, mi fido di Te e a Te mi consegno, a Te dono la mia vita, la mia anima, le mie forze, il mio cuore. Da Te mi sento amato, protetto, custodito. Tu dai senso alla mia vita, Tu mi hai fatto scoprire la direzione da seguire, Tu sei la mia meta. Tu mi hai rivelato le tue verità, ed io in Te le credo. Tu mi hai donato la vita, ed io ora vivo. Io sono rinato, io risorgo, io spero. Ero nelle tenebre ma ora vedo, Tu sei luce per i miei passi, le mie scelte, le mie decisioni. Io ti lascio decidere per me. A Te mi arrendo, a Te mi consegno. Depongo le armi della mia malvagità, accetto di essere istruito nel cuore, ascolto la tua Sapienza, progetto la mia vita secondo il tuo progetto. In Te ripongo ogni fiducia, in Te confido, spero, trovo riparo. Mi metto alla tua sequela, perseguo le tue virtù, indosso la tua armatura. Ti guardo, ti imito, voglio assomigliarti e tornare ad essere tua immagine. Ti riconosco come il Signore, ti adoro, ti contemplo. Allineo i miei pensieri ai tuoi, i miei ideali ai tuoi, i miei sentimenti ai tuoi. Avverto che Tu mi scruti e non mi nascondo, ti accolgo, ti annuncio. Ti assumo come centro attorno a cui gravitare e far gravitare. Ti desidero. Prometto di farti conoscere, di adoperare le mie parole per testimoniarti. Tu sei il mio unico punto di riferimento, su Te fondo ogni certezza. Su Te imposto le mie relazioni. A Te intendo condurre chi incontro. Io osservo la tua bellezza, io ti ammiro, io ti rendo grazie per tutte le cose. Io rinuncio a tutte le mie stampelle, i miei idoli, i miei bisogni. Io m’impegno, assumo la mia responsabilità, acquisto consapevolezza. Sceglierò attentamente le esperienze, ascolterò coloro che mi mandi, leggerò i tuoi segni. Per Te combatto, per Te mi riposo. Io mi prendo cura, io vigilo, io sorveglio. Io conservo, io proteggo, io custodisco. Io so, io capisco, io vedo. Io sento, io avverto, io imparo. Io conosco, io risveglio i miei talenti, accendo il mio intelletto. Io affermo, io agisco, io ricevo da Te il coraggio. Io condivido, io entro in comunione, io mi dono. Io patisco per gli altri. Io porto la croce. Io esulto. Io ti includo nella mia vita, io ti scelgo, ti sposo. Io ti amo. Io sono”. Ecco, quando diciamo Io credo, diciamo tutto questo. “…Padre onnipotente…” Non siamo realmente credenti. Altrimenti la nostra vita graviterebbe attorno a quest’affermazione del Credo: Dio c’è, ci ama come un padre, e può fare tutto. A volte lo speriamo, ma non lo crediamo veramente. In realtà finiamo sempre con l’arrangiarci con le nostre forze. Siamo sempre pervasi dalla sensazione di non meritare una cosa così grande. Riteniamo che Dio può tutto, ma non per noi, perché non ci sentiamo degni, perché abbiamo sempre alle spalle qualche peccato. In realtà il peccato è proprio questo: relegare l’onnipotenza di Dio a mera possibilità. Eppure il Simbolo della nostra Fede ce lo annuncia chiaramente: Amore e Potenza sono in Dio una sola realtà. Se Dio fosse solo Potenza, ci sarebbe da tremare di paura, avremmo a che fare con un Dio Terribile. Se invece fosse solo Amore, ma non potesse nulla, non ne ricaveremmo alcuna speranza. In realtà il Credo ci dice: esultate, Dio è entrambe le cose, Amore e Potenza. Ma noi facciamo fatica ad associarle: oscilliamo tra il concepirne una sola o l’altra. E non ci rendiamo neanche conto di cosa perdiamo. E’ come se nella casa di fianco avessimo un parente straricco e molto potente, che volendoci molto bene farebbe qualsiasi cosa per noi, eppure noi non ci rivolgessimo quasi mai a lui, preferendo gestire tutto da soli, o al massimo facendogli ogni tanto qualche telefonatina ma senza un reale convincimento di poterne ricevere aiuto. Anche nel rapporto con gli altri ci limitiamo a dare solo consigli umani, riducendoci al ruolo dei consiglieri di Giobbe. Non abbiamo mai il coraggio di dire: “Non trovi lavoro, ma l’hai chiesto a tuo Padre? Non trovi la salute, ma l’hai chiesta a tuo Padre? Non trovi una compagna o un compagno per la tua vita, ma l’hai chiesto a tuo Padre?”. Abbiamo paura dei sorrisini altrui, abbiamo paura di essere guardati come a chi crede nelle favole. Ma ciò accade perché non siamo in vera intimità col Padre. Non era questo però l’atteggiamento di Giobbe che, nonostante le dure prove, nella sua preghiera diceva a Dio: “Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te” (Gb 42,2). In realtà chi ha fede sperimenta davvero che Dio esaudisce tutte le preghiere. Anzi, spesso le esaudisce prima ancora che le diciamo. Soprattutto se vede che con le nostre azioni stiamo esaudendo le preghiere degli altri. Gesù dormiva tranquillamente sulla barca durante la tempesta. Sapeva perfettamente che la Potenza era Amore. Dice il nostro Catechismo: “Di tutti gli attributi divini, nel Simbolo si nomina soltanto l’onnipotenza di Dio: confessarla è di grande importanza per la nostra vita. Noi crediamo che tale onnipotenza è universale, perché Dio, che tutto ha creato, tutto governa e tutto può; amante, perché Dio è nostro Padre ” (CCC 268). Il nostro Dio è un Dio che si prende cura di noi. Gesù ne ha fatto il centro del suo insegnamento col discorso della montagna (Mt 6, 25-34): il Padre veste i gigli dei campi, il Padre nutre gli uccelli del cielo, il Padre ci nutre e ci disseta. Potenza e Amore. Ed anche la preghiera da lui insegnata c'invita a rivolgerci a Dio come ad un Padre onnipotente, ad un Padre che è nostro. Il Catechismo Romano aggiunge: “La ferma persuasione dell’onnipotenza divina vale più di ogni altra cosa a corroborare in noi il doveroso sentimento della fede e della speranza. La nostra ragione, conquistata dall’idea della divina onnipotenza, assentirà, senza più dubitare, a qualunque cosa sia necessario credere, per quanto possa essere grande e meravigliosa o superiore alle leggi e all’ordine della natura” (CR 1,2,13). “…Creatore del cielo e della terra…” Il Simbolo del Credo richiama e riassume tutta la Sacra Scrittura. In questo caso il richiamo col primo versetto della Bibbia è evidente: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1). La catechesi sulla creazione è di fondamentale importanza perché, come dice il nostro Catechismo, riguarda i fondamenti stessi della vita umana e cristiana. L’eterna domanda della filosofia “da dove veniamo?” trova qui una risposta, rivelata dalla Scrittura ed accettata col Credo. Professare questo punto della fede comporta il riconoscimento delle nostre origini in Dio: il credente sa di non essere frutto del caso, è consapevole di essere stato voluto e di conseguenza di avere un fine. Ed è questa la cosa che conta di più; la scienza può senz’altro aiutarci a far luce sul quando e sul come della creazione, ma sapere che tutto ha origine da un “Essere trascendente, intelligente e buono” ci fornisce il senso delle cose, dell’universo tutto, e della stessa nostra esistenza (cfr CCC 282ss). La creazione è, infatti, “scaturita dalla bontà divina” e partecipa di questa bontà. “E’ possibile conoscere con certezza l’esistenza di Dio Creatore attraverso le sue opere, grazie alla luce della ragione umana, anche se questa conoscenza spesso è offuscata e sfigurata dall’errore. Per questo la fede viene a confermare e a far luce alla ragione nella retta intelligenza di queste verità” (CCC 286). La creazione non è frutto del caso né panteistica emanazione di Dio, ma un fatto voluto, un dono fatto all’uomo, un’eredità a lui destinata ed affidata. Il Creatore ha fatto tutte le cose dal nulla, conferendo ad esse un ordine e regolandole con sapienza tramite le leggi di natura: “Tu hai disposto tutto con misura, calcolo e peso” (Sap 11,20). E’ errato ritenere che Dio abbia creato anche il male: “E Dio vide che era cosa buona…cosa molto buona” (Gn 1,4ss); “Tu ami tutte le cose esistenti, e nulla disprezzi di quanto hai creato; se tu avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata” (Sap 11,24). E’ anche errato ritenere, come sostengono le correnti gnostiche, che la materia sia qualcosa di negativo, da respingere o superare. La realtà della creazione è strettamente unita alla rivelazione dell’Alleanza con Dio, anzi ne costituisce il primo passo. Essa si rivela con forza crescente lungo tutta la Sacra Scrittura, nei patriarchi, nei profeti, nei salmi, fino a culminare in Gesù Cristo che fa nuove tutte le cose rimediando al male introdotto dal peccato. Non abbiamo dunque a che fare, come vorrebbe il deismo, con un Dio orologiaio, il quale, una volta fatto l’universo, lo avrebbe abbandonato a se stesso. Dio non solo crea, ma conserva e regge tutta quanta la creazione, la sostiene continuamente con la sua sapienza ed il suo amore. Alla domanda “perché Dio ha fatto il mondo?” il Concilio Vaticano I risponde: “Il mondo è stato creato per la gloria di Dio” (Denz-Schönm, 3025). Ma il Signore non operò per accrescere la propria gloria, bensì, come amava dire San Bonaventura, “per manifestarla e per comunicarla”. Dio non aveva bisogno del cosmo. Infatti, non ha altro motivo di creare se non il suo amore e la sua bontà (cfr CCC 293). Ma qual è il fine della creazione? Il fine ultimo della creazione è che Dio “che di tutti è il Creatore, possa anche essere tutto in tutti, procurando ad un tempo la sua gloria e la nostra felicità” (Conc Ecum Vat II, Ad gentes, 2). E il Signore, nel suo disegno, si serve anche della cooperazione delle sue creature, dà agli uomini il potere di partecipare liberamente alla sua Provvidenza, di diventare “cause intelligenti e libere per completare l’opera della creazione, perfezionandone l’armonia, per il loro bene e per il bene del prossimo” (CCC 307). Spesso siamo cooperatori inconsapevoli, ma tutti noi possiamo partecipare deliberatamente al piano divino con le nostre azioni, le nostre preghiere, ed in particolare con la procreazione, che prolunga, attraverso di noi ed il nostro amore, il disegno creativo di Dio. La creazione, infatti, non è finita, perché Dio continuamente “chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono” (Rm 4,17). “…di tutte le cose visibili e invisibili…” Abbiamo osservato che ogni articolo del Credo affonda le radici nella Sacra Scrittura. In questo caso la radice biblica è, molto probabilmente, un passaggio della lettera di Paolo ai Colossesi: “…per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili...” (Col 1,16). Sappiamo bene quali sono le realtà visibili, ma cosa intende la Bibbia per quelle invisibili? Non intende solo tutte le realtà fisiche non percepibili alla vista, ma anche tutte le realtà spirituali. Con questa professione di fede si accetta e si crede l’esistenza dell’anima, sulla quale si fonda tutta la speranza cristiana; ma si accettano e si credono anche tutti gli esseri spirituali ed incorporei, come gli angeli. Il Concilio Lateranense IV afferma che Dio “fin dal principio del tempo, creò dal nulla l’uno e l’altro ordine di creature, quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo terrestre; e poi l’uomo, quasi partecipe dell’uno e dell’altro, composto di anima e di corpo” (Denz.-Schönm, 800). Purtroppo oggi molta teologia modernista, nella foga di razionalizzare tutta la rivelazione, tende a negare o eludere l’esistenza degli angeli. Tuttavia nella Scrittura si legge spesso che gli angeli guidano il popolo di Dio, annunziano nascite e vocazioni, assistono i profeti, e sono presenti in tutti i momenti chiave della storia della salvezza. Anche la vita di Gesù è frequentemente assistita dalla presenza degli angeli, come nell’Annunciazione e nel Natale, nel deserto e nel Getsemani, presso il sepolcro vuoto o sul monte dell’Ascensione. Ecco perché il Catechismo della Chiesa Cattolica stronca decisamente ogni tentativo di esclusione degli angeli dalla nostra fede: “L’esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede. La testimonianza della Scrittura è tanto chiara quanto l’unanimità della Tradizione” (CCC 328). “Angelo” significa “inviato”, “messaggero”; sant’Agostino amava spiegare che “la parola angelo designa l’incarico, non la natura. Se si chiede il nome di questa natura si risponde che è spirito; se si chiede l’ufficio, si risponde che è angelo: è spirito per quello che è, mentre per quello che compie è angelo” (Interpretazione dei Salmi, 103,1,15). Spesso siamo soggetti alla tentazione di considerare astratte tutte le realtà non visibili, mentre queste sono in realtà più concrete di quelle fisiche, soggette a mutazioni e decadimento. Le “cose invisibili” formano anzi la matrice di quelle visibili, prendendo parte sia alla loro creazione sia alla loro sussistenza, tanto che San Paolo ebbe a scrivere: “Per fede sappiamo che i mondi furono formati dalla Parola di Dio, sì che da cose non visibili ha preso origine ciò che si vede” (Eb 11,3). In particolare gli angeli possiedono un grado di perfezione notevole, sono immortali, ed hanno il dono di vedere Dio faccia a faccia per tutta la loro esistenza. Pur agendo sempre in linea con i disegni del Signore, sono muniti di volontà, libertà e personalità (cfr CCC 330). La loro intelligenza è una mirabile sintesi di luce e di amore, di iniziativa ed obbedienza, di conoscenza celeste ed umile servizio. Essi si prendono cura degli uomini, delle comunità cristiane, delle nazioni. “Dall’infanzia fino all’ora della morte la vita umana è circondata dalla loro protezione e dalla loro intercessione” (CCC 336). San Basilio di Cesarea scriveva che “ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita” (Adversus Eunomium 3,1). La Bibbia riconosce inoltre diversi ordini di spiriti celesti, tra cui gli Angeli, gli Arcangeli, i Principati, le Potestà, le Virtù, le Dominazioni, i Troni, i Cherubini, ed i Serafini. Paolo, Dionigi, Ambrogio e perfino Dante, tentarono una catalogazione degli angeli, ma la loro realtà rimane misteriosa alla nostra conoscenza. Sappiamo però che queste presenze invisibili partecipano alla storia della salvezza sia personale sia collettiva, tanto che la Chiesa, nella sua Liturgia, si unisce sempre agli angeli ed alla loro preghiera, invocandone con fiducia l’assistenza. “…Credo Cristo…” in un solo Signore, Gesù Finalmente una buona notizia: Dio, quel Dio che tutte le religioni cercano, che da sempre la filosofia insegue, che il cuore invano rincorre senza afferrare, si è fatto uomo! Dio, quello stesso Dio che ha fatto l’Universo, quello a cui la mente umana anela senza interruzione, colui che solo può porre fine alla nostra ricerca, ci è venuto a trovare! Quel Dio che conosce le nostre aridità e le disseta, conosce le nostre lacrime e le asciuga, conosce il nostro bisogno d’amore e lo colma, è finalmente venuto fra noi! Dio! Non una creatura, non un ideale, non un sogno, ma Dio in persona! Se la nostra mente non dormisse, appiattita dalle categorie del mondo, assonnata dalle consuetudini, balzeremmo di colpo in piedi solo all’udire questa notizia che il Credo ci annuncia. Balzerebbe anzi in piedi tutta quanta la vita, lasceremmo cadere dalle mani tutti i nostri beni, correremmo per le strade sconvolti dalla gioia. Dio è venuto! Dio è qui! Dio è con noi! E’ davvero qua, visibile agli occhi, in carne ed ossa, si è perfino reso comprensibile ai nostri sensi, ha un volto come il nostro, ci parla e riusciamo a comprenderlo. Nell’udirlo avvertiamo immediatamente che è Verità, nell’avvicinarlo scopriamo all’istante che è amore. Ci fa ardere il cuore nel petto (e sappiamo quanto ci sia duro farlo ardere, noi che intimamente abbiamo sempre temuto che si raggelasse). Ci accende di luce la mente (e sappiamo quante tenebre la circondavano, quanta buia solitudine avvinghiava i pensieri). Come potremmo dire stavolta che ci sbagliamo? Abbiamo dubitato delle scritture e dei profeti, abbiamo trovato mille scuse per scansare la coscienza, ma come dubitare di Lui mentre ci trapassa con uno sguardo infilzando l’anima e il cuore? Passato, presente e futuro della mia vita si riducono ad un puntino dinanzi a questi occhi. Casa, lavoro, distrazioni, si riducono ad un nulla dinanzi a questa statura. Diciamo la verità: da sempre abbiamo scrutato nell’altro che ci passava accanto, da sempre abbiamo gettato uno sguardo nel cuore del prossimo per vedere se aveva quelle cose che ci nutrivano. Anche quando non lo davamo a vedere, da sempre abbiamo atteso un incontro che fosse l’Incontro. Qualcosa che desse senso alla nostra vita e la riempisse. Abbiamo sempre avuto bisogno e lo abbiamo nascosto. Ci siamo infinite volte illusi, e poi duramente risvegliati. Quindi non è facile ingannarci, non è facile che un altro uomo si ponga per noi come senso totale della nostra esistenza. Se Costui riesce a porsi in quel modo, qualcosa c’è. Se Costui tocca tutte le corde del nostro cuore, anche quelle più intime del nostro intimo, un mistero c’è. Sappiamo bene che per vizio di natura preferiremmo un oblio senza responsabilità, che desidereremmo una vita quieta piuttosto che essere sentinelle del mondo sotto i dardi di tutti. Se Qualcuno riesce a coinvolgerci così, ad esporci così, è perché qualcosa veramente avvertiamo, qualcosa che percepiamo come tutto, qualcosa che dà significato all’intera esistenza. Del resto c’è una prova indiscutibile: allontanarsene è morire. La più grande prova di Dio è l’esperienza del non-Dio, è l’esperienza del tradimento. Diciamo, ancora, la verità: mille volte ci siamo allontanati, mille volte abbiamo tradito per inezie grandi come lenticchie, preferendo il gelo del cuore e dei pensieri, la tenaglia delle seduzioni che ci disumanizzava fino all’estremo non senso. Vi è una sola alternativa a tutto questo male di vivere, e per tutto il mondo non ve ne sono altre, perché già le abbiamo cercate e lo sappiamo. Vi è una sola scelta possibile: dire “Credo in un solo Signore, Gesù Cristo”. “…Unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli…” Dio è amore. Ma l’amore richiede un “tu” a cui donarsi, perché l’amore è relazione con un “tu”. Allora Dio, Dio Padre, genera un “tu”, e questo “tu” è il Figlio. Ma non lo genera nel tempo, perché Dio è al di fuori del tempo. Non vi è un “periodo” nel quale Dio Padre era senza il Figlio. Il Padre genera il Figlio nell’eternità. Da sempre il Figlio è generato dal Padre. E il Padre lo ama. Padre perché questo “tu” lo ha generato lui. Amandolo gli dona se stesso. In che misura si dona al Figlio? In misura totale, perché Dio è amore perfetto, e dunque si dona totalmente al Figlio. Gli dona tutto il suo essere. Per cui “il Figlio è tutto ciò che è il Padre” (cfr CCC 253). Ma se il Figlio è tutto ciò che è il Padre, anch’egli ama come il Padre, ed ama il Padre, suo “tu”, in modo totale. Quindi anch’egli dona tutto se stesso al Padre. Il Figlio è l’Unigenito del Padre, ha in comune col Padre l’Essere, ma non la Persona, l’io divino. Ha in comune col Padre tutto il contenuto di quest’io, cioè l’essere, perché se lo sono reciprocamente donato, e quindi Lui ed il Padre sono “una cosa sola” (Gv 10,30), ma è persona divina distinta dal Padre, il Figlio non è il Padre, ed il Padre non è il Figlio (cfr CCC 254). Sono distinti tra loro per le loro relazioni d’origine: “E’ il Padre che genera, il Figlio che è generato” (Conc. Lat. IV, Denz 804). Come l’umanità è venuta a conoscere questo mistero? Tramite la Rivelazione. E’ Dio che l’ha rivelato. Il Vangelo è il deposito di questa rivelazione. La prima volta che nel Vangelo Gesù è annunciato come Figlio di Dio è ancor prima del suo concepimento: è durante l’Annunciazione; è l’arcangelo Gabriele che annunzia la lieta notizia che Gesù sarà “chiamato Figlio di Dio” (Lc 1,35). In occasione del battesimo di Gesù, il Padre confermerà pubblicamente a tutti quanto annunciato nel segreto del cuore di Maria: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Lc 3,22). E questa verità, già anticamente ispirata ad Isaia (Is 42,1ss) la rivelerà in modo particolare a Pietro, sospingendolo a dire: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Quello stesso Pietro che sul monte Tabor fu folgorato dalla trasfigurazione del Cristo, ed avvolto dalla nuvola di luce sentì ancora dal Padre quello che aveva professato, e che già al Giordano era stato udito: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo” (Mt 17,5). Gesù nei suoi insegnamenti aveva spesso accennato alla sua particolare filiazione divina (Mt 11,27; 21,37, …), ma è all’inizio della passione che affronta direttamente, una volta per tutte, la questione: “Tu dunque sei il Figlio di Dio? Ed egli rispose loro: lo dite voi stessi, io lo sono” (Lc 22,70). E’ un’affermazione inequivocabile, che chiude definitivamente la bocca a tutti quanti ritengono che Gesù non sia o non possa essere chiamato Figlio di Dio. Se gli anziani d’Israele, ben esperti nella legge, avessero inteso l’espressione “figlio di Dio” con la comune figliolanza di cui tutte le creature godono nei riguardi del loro Creatore, non avrebbero nemmeno posto quella domanda. E’ evidente che in essa s’intende IL Figlio, l’Unigenito che nel rivolgersi al Padre non ha mai usato l’espressione “padre nostro”, pur avendola insegnata; bensì “padre mio”, e questa distinzione l’ha sottolineata anche da risorto: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro” (Gv 20,17). Il Simbolo del Credo non poteva che ereditare queste verità, perché, come dice Giovanni, occorre credere “nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio” per salvarsi (Gv 3,18). Dio ci voleva salvi: “Ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito” (Gv 3,16). E grazie al nostro antico Credo possiamo come gli apostoli proclamare: “Noi vedemmo la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). “…Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero…” Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero: davanti a questo articolo di fede il Simbolo del nostro antico Credo improvvisamente s’impenna come dinanzi ai vertici di un Mistero. Come è possibile che Dio generi Dio? E come è possibile, all’interno di questo, parlare ancora di un solo Dio? Abbiamo qui la conferma di trovarci dinanzi alla pura Rivelazione, perché la nostra mente umana non solo non è in grado d’intendere questa verità, ma nemmeno di formularla in un credo se questa non fosse stata rivelata. Molti teologi hanno provato ad affacciarsi a questo mistero, per provare a renderlo almeno un po’ più comprensibile alle nostre capacità, ma il limitato segmento del nostro pensiero, quando giunge a queste parole del Simbolo, si trova dinanzi a un’iperbole tendente all’infinito che ci chiede di abbandonare tutte le nostre stampelle, tutti i nostri normali parametri conoscitivi, tutte le nostre certezze naturali. E i 318 antichi Padri del Concilio di Nicea sono davvero impietosi davanti alle nostre obiezioni: non smussano, non ridimensionano, non attutiscono. Anzi, lo sottolineano tante volte quante le Persone della Trinità: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero. Eppure parlavano, da un lato, ai discendenti degli ebrei, rigidamente monoteisti, dall’altro ai discendenti dei greci, rigorosamente logici. Nicea, situata in Bitinia (attuale Turchia), era collocata esattamente a metà fra queste due diverse culture, ed il grande Concilio, facendo da ponte fra i due continenti, sfidò la filosofia dei Greci a confrontarsi col monoteismo ebraico attraverso il mistero di Cristo. Il documento che venne stilato nel 325, e che assemblò le precedenti formulazioni in un’unica matrice destinata a divenire il basamento imperituro della fede cattolica, non esitò a propugnare con ben 7 articoli la verità della generazione divina del Cristo; ed il successivo Concilio di Costantinopoli (anno 381) li riprese nelle ben note espressioni che ormai conosciamo: 1) Unigenito Figlio di Dio; 2) Nato dal Padre prima di tutti i secoli; 3) Dio da Dio; 4) Luce da Luce; 5) Dio vero da Dio vero; 6) Generato, non creato; 7) Della stessa sostanza del Padre. Sette proposizioni per dire la stessa cosa, quasi a voler fugare ogni dubbio, ogni timore di aver capito male, quasi a voler imprimere nella ragione il più grande mistero rivelato: Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è anch’Egli Dio, e nonostante ciò vi è un solo Dio. Non importa che non possiamo capirlo: così ci è stato rivelato. Gli ariani provarono in qualche modo a rendere più ragionevole il mistero, a “umanizzare” maggiormente il Cristo, ed è grazie al loro errore che i Padri della Chiesa ci lasciarono delle definizioni così inequivocabili. Anche noi oggi, figli dell’illuminismo e del razionalismo, ci sottraiamo spesso al mistero della divinità di Cristo, preferendo talvolta adorare ancora la dea ragione. E’ però un errore ritenere che la ragione umana possa essere comprensiva di tutta la realtà. Ciò non accade nemmeno per certe verità scientifiche. La fisica quantistica, per esempio, c’insegna che una particella di luce può essere al tempo stesso in due posti diversi, pur restando una sola particella, come dimostrato dal famoso esperimento delle due fenditure attraversate contemporaneamente da un solo fotone. Il mondo della materia, specchio del suo Creatore, sembra racchiudere anch’esso l’assioma “luce da luce”, quasi come un segno di cose più alte, un invito a ricordare che la nostra mente è poco più che una vertigine. Ma chi si sente amato dal Mistero, non lo teme. “…generato, non creato, sostanza del Padre…” della stessa Il primo Concilio di Nicea del 325 conosceva bene quegli errori che gli eretici del tempo avevano messo in circolazione riguardo alla natura di Cristo, e li elencò al termine del Simbolo. Ecco gli errori indicati: - “Vi fu un tempo in cui Egli non esisteva” - “Prima che nascesse non era” - “E’ stato creato dal nulla” - “Il Figlio di Dio è di un’altra sostanza o di un’altra essenza rispetto al Padre” - “Il Figlio di Dio è sottomesso al cambiamento o all’alterazione” Mentre il Credo proclamava in cosa credere, con queste righe finali veniva chiarito in cosa non credere. La necessità di fare chiarezza veniva dal fatto che in quegli anni l’eresia ariana stava mettendo in dubbio la natura divina del Figlio. E’ un’eresia che nei secoli non si è mai spenta. Anzi, ricorre ancora oggi: basta pensare all’interpretazione di Cristo nell’Islam, ai Testimoni di Geova, ed a tante forme di esoterismo più o meno cristiano che negano appunto la natura divina di Gesù. Cristo viene visto come un santo profeta, magari anche come inviato da Dio, ma non Dio egli stesso. Come facciamo, oggi, a sapere che la verità indicata dalla Chiesa (e tra l’altro anche dai protestanti) è quella giusta? Perché è quanto risulta dalla Sacra Scrittura. Gesù ha affermato chiaramente, anche dinanzi la replica scandalizzata dei giudei, “prima che Abramo nascesse Io sono” (Gv 8,58) e che quindi “esisteva prima di nascere”. Ha anche detto senza possibilità di malintesi: “Sono di lassù…non sono di questo mondo” (Gv 8,23). Inoltre non ha nascosto la sua origine divina: “Sono uscito da Dio” (Gv 16,27), e quindi noi diciamo “generato dal Padre”. La preghiera di Gesù prima della sua passione non lascia dubbi: “Ed ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17,5). Davanti a tutte affermazioni, come potevano i padri conciliari accettare la tesi che Gesù fosse solamente uomo? Ed è anche legittimo chiamarlo “Figlio di Dio”, sebbene la nostra mente tenda a sottrarsi ad una definizione così forte; perché tutto quanto il Vangelo ci spinge verso questa verità: durante l’Annunciazione, le parole dell’angelo chiamano Gesù “figlio dell’Altissimo”, “Figlio di Dio” (Lc 1,32.35); anche le parole di Pietro dichiarano questa rivelazione che fa da base al nostro Credo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Perfino durante il processo di Caifa, quando il termine “Figlio di Dio” costituiva il più pesante capo d’accusa e sarebbe bastato disconoscerlo per salvarsi, Gesù non rinnega la sua figliolanza divina (Mt 26, 62-66). E finanche il centurione romano, nella sua scarsa dimestichezza in questioni religiose, davanti alla croce fece scaturire la sua professione di fede nel “Figlio di Dio” (Mc 15,39). Gli evangelisti e gli apostoli non temettero di annunziare Gesù come “Figlio di Dio” (Mc 1,1 – At 9,20), anche se ciò era a quel tempo reato passibile di morte. Ma si trattava di una verità che non poteva essere taciuta, così forte che perfino “i morti udranno la voce del Figlio di Dio” (Gv 5,25); e “quelli che l’hanno ascoltata vivranno”. Quando si cerca la verità, l’ultima parola spetta a Cristo, che è Verità. “Ho detto: sono Figlio di Dio” (Gv 10,36). E il nostro Credo non può che fare da specchio alle verità di Cristo. Egli è il Figlio, generato al di fuori del tempo. Eterno e pienamente Dio; come dice Giovanni “il vero Dio” (1Gv 5,20). Della stessa sostanza del Padre. E la sostanza di Dio è l’Amore. “Chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi invece rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio” (2Giov 9). “…per mezzo di Lui tutte le cose sono state create…” Abbiamo osservato che il nostro antico Credo attinge le sue verità dalla Sacra Scrittura. Ora, proprio all’inizio del Vangelo di Giovanni, è affrontato in modo stupendo il mistero del Verbo, e si legge: “Tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto” (Gv 1,3). Anzi, l’apostolo sente la necessità, in questo stesso prologo, di ripetere tale verità una seconda volta: “…e il mondo fu fatto per mezzo di Lui…” (Gv 1,10). Anche San Paolo, nella sua lettera ai Colossesi, la conclama curiosamente due volte: “Per mezzo di Lui sono state create tutte le cose…Tutte le cose sono state create per mezzo di lui” (Col 1,16). Due volte nello stesso versetto: sembra che emerga in entrambi gli apostoli la necessità di rimarcare vividamente che Cristo non è creatura, che precede tutta quanta la creazione, che possiede natura divina. E’ un punto chiave della professione di Fede, e viene ripetuto due volte come per dire agli ascoltatori: guardate che è così, non mi sono espresso male, è una verità nuova, difficile da comprendere, ma è questo che c’è stato rivelato. Del resto conosciamo bene le resistenze psicologiche dei giudei ad accettare tale dato, che per la loro cultura meritava la lapidazione (Gv 8,57-59). Ma Paolo, che da Fariseo perseguitava i cristiani proprio su questo argomento, da cristiano convertito non nascondeva la verità sull’età spirituale di Gesù: “Egli è prima di tutte le cose, e tutte sussistono in lui” (Col 1,17). In fondo potremmo considerare questo gruppo di versetti della lettera ai Colossesi (da 1,15 a 1,20) come una sorta di Credo paolino che fa da matrice al Simbolo del Credo di Nicea. Qui è racchiuso il testo della primitiva professione di fede. Il Catechismo della Chiesa Cattolica può perciò con serenità affermare: “Il Nuovo Testamento rivela che Dio ha creato tutto per mezzo del Verbo eterno, il Figlio suo diletto” (CCC 291). Notare l’aggettivo eterno. Del resto si tratta di una logica conseguenza: se tutto è stato fatto attraverso il Figlio, anche il tempo è stato fatto attraverso di lui. Quindi il Verbo è nell’eternità. Il tempo non è altro che dimensione appartenente alla materia, come del resto confermato dalla fisica moderna: prima della materia il tempo non è! Pertanto se tutta quanta la creazione, incluso il tempo, è stata fatta attraverso il Verbo, questi è eterno. Ed è eterno in quanto Dio. Per diversi decenni il materialismo ha sostituito Dio con la materia, conferendo ad essa caratteristiche divine quali l’eternità. Esso sosteneva, infatti, che la materia esistesse da sempre, che l’universo ci fosse sempre stato. La menzogna però non durò molto perché la scienza scoprì presto la non-eternità della materia, asserendo già nella prima metà del ventesimo secolo che anche l’universo ha avuto un suo preciso inizio nel tempo, e che perfino lo stesso scorrere del tempo ha avuto un principio. Ma ciò che più c’interessa a livello teologico è la stretta connessione tra l’opera della creazione e quella redenzione, cui quest’articolo del Credo sembra rimandare. Nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica è presentata questa domanda: “Che relazione c’è fra l’opera della creazione e quella della redenzione?”. Ed il Compendio risponde: “L’opera della creazione culmina nell’opera ancora più grande della redenzione. Infatti questa dà inizio alla nuova creazione, nella quale tutto ritroverà il suo pieno senso e il suo compimento” (CCCC 65). I sette giorni della creazione, avvenuta tramite il Figlio, sono da lui completati con l’ottavo giorno della Resurrezione, la domenica del Signore con la quale la Redenzione è pienamente attuata. Gli antichi battisteri ottagonali riprendono proprio questa simbologia: il compimento della creazione avviene col Battesimo. E la veste bianca che il catecumeno indossa prima d’immergersi indica la ricreata vita di grazia, il ritorno allo stato originario, secondo quanto era nel disegno iniziale di Dio, ed ora finalmente realizzato tramite il Figlio. Per mezzo di lui tutto è stato creato, per mezzo di lui tutto è stato salvato. “...Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal Cielo...” Circa 3200 anni fa un ragazzo spaurito lungo i pendii di un monte chiese a suo padre: “Dov’è l’agnello per il sacrificio?” Quel ragazzo, che fu poi legato sopra un altare, su ceppi di legno ormai pronti ad ardere, e che vide con terrore la lama brandita dalla mano paterna alzarsi su di lui, si chiamava Isacco. Milleduecento anni dopo (ma questi sono i tempi di Dio) il Signore risponde alla domanda di Isacco attraverso le labbra di un uomo sulla riva del fiume Giordano: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo”. Questa frase del Battista chiuderà per sempre, ai cercatori di salvezza, la strada del sacrificio pasquale degli agnelli, perchè era venuto un Agnello che era il Figlio di Dio, l’unico in grado di portare su di sé tutti i peccati del mondo. In definitiva aveva avuto ragione Abramo, padre di quel ragazzo, a rispondergli: “Dio provvederà da sé all’agnello per il sacrificio”. Non fu una scusa o una bugia: Dio la trasformò in verità, assumendo su di sé la dolorosissima richiesta fatta ad Abramo. E mandò suo Figlio. Per noi. Per noi uomini. Per la nostra salvezza. Ecco che qui il Simbolo del nostro Credo punta il dito sul cuore della missione di Gesù, sul vero motivo della sua venuta: la nostra salvezza! Ma cosa vuol dire salvezza? Cosa significa che Cristo è il Salvatore? Oggi moltissimi non lo sanno più; l’uomo moderno spesso ragiona così: sto bene in salute, ho una famiglia, un lavoro, un certo benessere, da che cosa debbo essere salvato? La parola “salvezza” si è talmente svuotata di significato che quando chiediamo alla gente comune, ma anche ai cattolici, perchè Gesù è venuto, spesso le risposte che raccogliamo sono: “per insegnarci delle cose”, “per portare pace e amore”, e perfino “per fondare la sua religione”. Si sta sempre più perdendo di vista il centro della missione di Gesù, il fatto che Cristo è venuto in primo luogo a salvarci. La parola stessa “Gesù” vuol dire “il Dio che salva”. Da cosa ci salva? ...sentiamo a volte chiedere. In realtà la domanda giusta è: per cosa ci salva? Ci salva per riportarci da dove siamo venuti: nel cuore stesso di Dio. I filosofi continuano a chiedersi da dove veniamo, mentre Cristo a questa nostra origine ci ha già riportato. E non si tratta solo di scoprire con la mente la nostra provenienza ontologica: si tratta di restituire le nostre esistenze a chi realmente appartengono, si tratta di rimettere i tralci alla vite che li ha generati; si tratta di restituire al proprio mare quei pesci che il peccato ha gettato lontano sulla sabbia o sugli scogli; si tratta di restituire le scintille al fuoco che li ha generati. Prima che si spengano. Ogni mio gesto in direzione contraria mi spegne. Ogni mio passo in altra direzione è la morte. Ecco da cosa sono salvato: da me stesso, dalle mie scelte sbagliate, dal peccato, semplicemente perché peccando muoio, mi spengo, non respiro, secco. Sono salvato dalla dannazione eterna, ma già a partire da quella dannazione terrena a cui il peccato riduce la mia vita. Sono salvato dalle tenebre, morali e spirituali. Ma soprattutto sono salvato per la vera Vita che in cambio mi viene donata, per la grande gioia che ne ricevo, per quel paradiso di Amore che mi attende senza fine dentro la gloria di Dio, e per tutte quelle anticipazioni regalate quaggiù dai doni dello Spirito. Anche tra le afflizioni. Un ladro sta morendo sulla croce. Tutto è atrocità, sangue, disperazione; quando un altro uomo in croce come lui lo guarda e gli dice: “Oggi stesso sarai in Paradiso con me”. Ecco: questa è la salvezza. Anche se io sono ancora sulla croce, anche se sto ancora pagando per il mio peccato, anche se non riesco nemmeno a vedere quell’uomo che mi parla perchè i miei occhi sono coperti di sangue, di sudore, di lacrime, io però sono già salvo. Ho ricevuto uno sguardo buono, sono stato considerato (pesato, scrutato, in ogni granello della mia vita), ed ecco che, poiché quello sguardo è lo sguardo di un Dio, e quella considerazione è sostenuta da un Amore infinito, allora sono fatto salvo. L’abisso non mi ha più, sono di Dio, sono finalmente mio. “...E per opera dello Spirito Santo si è incarnato...” Caro factum est, scrive l’apostolo Giovanni all’inizio del suo vangelo: il Verbo si è fatto carne. Il nostro Credo c’invita qui a ricordare il mistero dell’Incarnazione, un miracolo avvenuto “per opera dello Spirito Santo”. Il fatto che il Figlio di Dio abbia assunto natura umana è il tratto distintivo della fede cristiana. E questo Giovanni lo sottolinea chiaramente: “Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio” (1Gv 4,2). Le affermazioni del Simbolo del Credo sono quindi criterio di discernimento per riconoscere i cristiani. Abbiamo già avuto occasione di ricordare, che nella lingua greca la parola symbolon indicava quella metà di un oggetto spezzato in due che, ricongiunto all’altra metà, serviva come segno di riconoscimento di una persona. Allo stesso modo il Simbolo del Credo verifica l’identità di un credente. Chi crede che Dio si è fatto uomo in Gesù è cristiano; chi non lo crede non è cristiano. L’Incarnazione, infatti, è, assieme alla Morte e Risurrezione, il centro della fede cristiana, il fondamento di tutto quanto il cristianesimo. Si tratta, certamente, di un Mistero che sfugge in gran parte alla nostra ragione, ma questo non c’impedisce di indagare, alla luce della Scrittura, sul perchè dell’Incarnazione. San Paolo, riecheggiando i Salmi, scrive: “Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né olocausti né offerte, un corpo invece mi hai preparato...Allora ho detto: Ecco io vengo... per fare la tua volontà” (Eb 10,5-7); ecco quindi una prima risposta: Cristo s’incarna per fare la volontà del Padre. Luca ci fornisce una seconda risposta: Dio si è incarnato per adempiere le promesse (Lc 1,55), quelle fatte ad Abramo ed alla sua discendenza. Giovanni ci fornisce una terza risposta: il Verbo si è fatto carne per cancellare i nostri peccati (1Gv 3,5); l’apostolo scrive infatti che Dio “ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Cristo dunque viene per riconciliarci con Dio. Al centro della sua missione vi è la Salvezza: l’Incarnazione è avvenuta per salvarci. “Il Padre ha mandato il suo Figlio come Salvatore del mondo” (1Gv 4,14). Ma possiamo rispondere anche in altro modo alla nostra domanda: l’Incarnazione è avvenuta perchè Dio ci ama; “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Ed è avvenuta anche perchè noi conoscessimo l’amore di Dio. L’Incarnazione reca con sé numerosi doni, perchè tramite essa riceviamo la vita. “Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perchè noi avessimo la vita per lui” (1Gv 4,9). Si tratta di una vita nuova quaggiù, ma si tratta anche della vita eterna. Dio ci ha mandato il Figlio “perchè chiunque creda in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Un altro dono (o motivo) racchiuso nell’Incarnazione è l’adozione a figli: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare coloro che erano sotto la Legge, perchè ricevessimo l’adozione a Figli” (Gal 4,4-5): il Figlio di Dio si è fatto uomo affinché l’uomo divenisse figlio. Sant’Ireneo di Lione (II Sec) scrisse: “Questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio figlio dell’uomo: perchè l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio” (Adversus Haereses 3,19,1). Il Catechismo della Chiesa Cattolica, oltre a ricordare tutte le motivazioni sopra esposte, ci indica un’altra ragione dell’Incarnazione: il Verbo si è fatto carne per fornirci un modello di santità (CCC 459). Si tratta però di un modello che ci assorbe in sé, trasformandoci a sua immagine, facendoci partecipe della sua natura, perché Gesù “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio” (Fil 2,6). Se il Verbo s’incarna, dunque, è anche perchè diventassimo partecipi della natura divina (2Pt 1,4). San Gregorio di Nissa (IV secolo) testimonia: “La nostra natura, malata, richiedeva di essere guarita; decaduta, d’essere risollevata; morta, di essere risuscitata. Avevamo perduto il possesso del bene; era necessario che ci fosse restituito” (Oratio Catechetica, 15). “...nel seno della Vergine Maria...” Il Verbo di Dio, per opera dello Spirito Santo, si è incarnato nel seno della Vergine Maria. Il disegno di salvezza attuato dal Padre nella Nuova Alleanza non vede all’opera solo la persona del Figlio, ma anche quella dello Spirito Santo. La nostra redenzione è realizzata dalla mirabile collaborazione delle tre Persone divine. Lo Spirito Santo è presente in tutti i misteri della vita di Cristo, opera in lui e attraverso di lui in ogni momento della sua missione. Dopo averla preparata ispirando tutti i profeti fino al Battista, prepara anche l’incarnazione di Gesù, santificando il nido del suo concepimento. Forgia dunque Maria rendendola “tempio dello Spirito Santo”, in vista del fatto che questa fanciulla di Nazaret, per disegno del Padre, sarebbe divenuta tabernacolo del Dio incarnato. E questa preparazione della culla del Verbo è talmente accurata da vedere lo Spirito Santo all’opera già al momento in cui Maria è concepita nel grembo di sua madre. Viene infatti preservata e custodita dalla Grazia fin dall’inizio del suo primo esistere. “La beatissima Vergine Maria, nel primo istante della sua concezione, per una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è stata preservata intatta da ogni macchia del peccato originale”: è quanto scrive Pio IX nella sua bolla Ineffabilis Deus (DS 2803), con la quale proclama il dogma dell’Immacolata Concezione. E’ per questo dono particolare dello Spirito che l’arcangelo Gabriele, al momento dell’Annunciazione, saluta Maria come “la piena di Grazia” (Lc 1,28). E il “sì” della Vergine è anch’esso posato sulle sue labbra dal divino Paraclito: frutto di una libertà come mai vi era stata perché già pienamente redenta. Il Signore è con Te perchè ora sia anche in Te. Tu sei la benedetta fra tutte le donne. “Eccomi, io sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38). Totale fiducia. Totale abbandono. Totale donazione di sé. Annunciazione, incarnazione. E’ benedetto il frutto del seno tuo Gesù. E’ significativo che il Simbolo del nostro Credo, proprio nell’istante in cui affonda nel centro del Mistero, definendo l’Incarnazione, definisca anche Maria. E questo piccolo credo mariano, scintilla di luce visibile all’interno di un mistero invisibile, è presente sia nel testo antichissimo di Nicea-Costantinopoli (“per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria”), sia in quello ancora più antico degli Apostoli (“il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine”). Il Simbolo, congiungendo Maria alla verità dell’incarnazione, diventa qui fonte della nostra fede mariana. Ci fa capire che l’Eterno Padre, magnifico nella sua Misericordia, donandoci il Figlio ci dona anche la Madre. Maria, la “Tutta Santa” (Panaghia, come dicevano i Padri Orientali). Maria, la Madre di Dio (Theotokos, come dicevano i Padri Greci). Maria, Regina del cielo e della terra (come dice la Chiesa). Maria, mediatrice di tutte le grazie, a tal punto che “qual vuol grazia ed a Te non ricorre, sua disianza vuol volar sanz’ali” (Paradiso di Dante, XXXIII, 14-15). Possiamo dunque anche noi dire: L’anima tua magnifica il Signore, o Maria, e il nostro spirito esulta in Dio perché ci hai donato il Salvatore. Salve Regina, madre di misericordia, vita, dolcezza, speranza nostra. A te ricorriamo noi, figli del peccato originale. A te sospiriamo in questa vita di lacrime. Rivolgi a noi la misericordia di cui sei stata colmata, regina degli angeli e dei santi. Mostraci nel nostro esilio Gesù, il frutto benedetto dell’amore del Padre. Attraverso il tuo grembo ci è giunta la salvezza. Mettici al mondo come figli di Dio. Crescici nella fede e custodiscici col tuo manto. Prega per noi peccatori, o dolce Vergine Maria. “...e si è fatto uomo...” Ecco la novità che il cristianesimo annuncia al mondo: Dio si è fatto uomo. Si è fatto carne, si è fatto storia, si è fatto esperienza visibile per noi, tanto che gli apostoli possono dire: “Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato...”. E’ un avvenimento, un incontro. L’umanità passa dal “Dio su noi” al “Dio con noi” (l’Emmanuele). E’ un evento unico e del tutto singolare. E “non significa che Gesù Cristo sia in parte Dio e in parte uomo”, dice il Catechismo, ma che “Egli si è fatto veramente uomo rimanendo veramente Dio. Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo” (CCC 464). La Chiesa ha sempre difeso strenuamente, nel corso dei secoli, questa verità di fede che emerge dal Vangelo. Il dogma della duplice natura di Cristo è a fondamento della fede cristiana, e non solo cattolica. Cristo possiede sia la natura umana sia la natura divina. E attenzione: non solo le possedeva, ma le possiede tuttora. E’ anche adesso vero Dio e vero uomo. In una sola Persona. Tutto ciò che la natura umana di Cristo compiva, era compiuto anche dalla natura divina. “Tutto, quindi, nell’umanità di Cristo deve essere attribuito alla persona divina come al suo soggetto proprio” (Concilio di Efeso, DS 255). Non vi è stata unione o confusione di nature, ma le nature, umana e divina, sussistono entrambe in una sola persona. Gli antichi concili sono molto chiari su questo: “Si indica la diversità delle nature, nella quale si è realizzata l’ineffabile unità senza confusioni, senza che il Verbo passasse nella natura della carne, e senza che la carne si trasformasse nella natura del verbo” (II°Concilio di Costantinopoli, c.VII). E aggiunge: “Due sono le nascite del Verbo di Dio, una prima dei secoli dal Padre, fuori dal tempo e incorporale, l’altra in questi nostri ultimi tempi, quando egli è disceso dai cieli, s’è incarnato nella santa e gloriosa madre di Dio e sempre vergine Maria, ed è nato da essa” (ibid, c.II). Due nascite e due nature quindi, ma in una sola Persona, quella del Cristo. E la natura divina di Gesù non impediva alla sua natura umana né di soffrire né di morire. Anzi, pur essendo vero che Dio è sempre nella gloria e quindi nella beatitudine, sia la morte in Croce sia le sofferenze appartengono alla seconda Persona della Trinità che ne rimane pienamente il soggetto (ibid, c.III; CCC 468). Il Verbo di Dio che opera miracoli è lo stesso Cristo che ha sofferto. Né la natura divina impediva l’esistenza, in Cristo, di un’anima umana. La caratteristica della natura umana è, infatti, quella di possedere sia il corpo sia l’anima; e dunque Gesù, veramente uomo, possedeva un’anima umana, così come possedeva una volontà ed un’intelligenza umana (CCC 470). Il Concilio di Calcedonia (anno 451) afferma: “Seguendo i santi Padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo con anima razionale e corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l’umanità, ‹‹simile in tutto a noi fuorché nel peccato›› (Eb 4,15)” (Concilio di Calcedonia, DS 301). La differenza delle due nature non è per nulla negata dalla loro unione, né avviene alcun mutamento in ciascuna delle due nature: “Rimase quel che era e quel che non era assunse” canta la Liturgia Romana. Occorre inoltre respingere l’affermazione che Gesù sia “diventato” il Cristo: “Il Figlio Unigenito del Padre, essendo concepito come uomo nel seno della Vergine Maria, è ‹‹Cristo››, cioè unto dallo Spirito Santo, sin dall’inizio della sua esistenza umana” (CCC 486); pertanto tutta la vita di Cristo è Rivelazione del Padre, e la sua umanità “appare come ‹‹il sacramento›, cioè il segno e lo strumento della sua divinità” (CCC 515,516). Né sarebbe corretto dire che il Verbo abbia trascorso “un lunghissimo periodo di tempo senza la natura umana”, perché il Verbo è, appunto come dissero i Padri, fuori dal tempo. Le due nascite sono in qualche modo “contemporanee”, nella stessa misura in cui Dio è “contemporaneo” a tutte le epoche della nostra storia, così come il centro immobile di una ruota è alla stessa distanza da tutti i suoi punti. E’ proprio per questa sua divina partecipazione al mistero del tempo che Cristo è Ricapitolazione di tutte le cose: ha ricapitolato in se stesso tutta la storia umana, ed ha ristabilito l’uomo decaduto; ha vissuto la sua vita non per sé ma per noi. Si è fatto nostro modello, permettendo che tutto ciò che Egli ha vissuto, noi potessimo viverlo in lui. Di più: fa sì che Egli lo viva in noi. In tal modo ci rende compartecipi della sua divina natura: “L’Unigenito Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei” (San Tommaso d’Aquino). “Fu crocifisso per noi” La croce. Centro della nostra fede e fonte della nostra salvezza. La crocifissione di Gesù non è stata la semplice esecuzione di una condanna, conseguenza della volontà di capi giudei o romani. E nemmeno è stata frutto di un destino a cui Gesù non avrebbe potuto sottrarsi con la sua volontà. Gesù sa di andare incontro alla croce, e la sceglie. Non la sceglie per amore del dolore, come possiamo bene capire dal pianto nel Getsemani: la sua supplica chiede al Padre di allontanare da sé quel calice. Non ha progettato la croce per se stesso; ma, posta davanti come unica via di salvezza per gli uomini, egli la fa sua. Il progetto del Padre non è la croce in sé, ma la nostra salvezza. La croce è il volto che la nostra salvezza assume nella storia. Se un mio fratello venisse travolto e schiacciato da un peso che con le sue forze non riesce a sollevare, non mi sottraggo dal ferirmi le mani pur di salvarlo: per amore colgo quella piccola missione pur non avendo avuto, per me, il progetto di ferirmi; non posso affermare che ho scelto quelle ferite in se stesse. Ho scelto invece la salvezza di quel fratello, salvezza che in tale circostanza passava attraverso quelle ferite; mi sono fatto carico della sua situazione e l’ho fatta mia. San Paolo scrive: “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture” (1Cor 15,3). La croce ha dunque in sé questi significati: espiazione, riparazione, redenzione. Espiazione perché Cristo paga sulla croce il prezzo di tutti i peccati passati, presenti e futuri commessi da tutti gli uomini: “Non vi è, non vi è stato, e non vi sarà alcun uomo per il quale Cristo non abbia sofferto” (DS, 624). Tramite la sua natura umana poté soffrire, tramite quella divina poté farlo infinitamente. Non riusciremo mai a comprendere la pienezza della sofferenza di Gesù, soprattutto nel suo risvolto spirituale. Possiamo però entrare in comunione con essa tramite il dono dell’eucaristia, da lui misticamente istituita durante l’ultima cena, e da lui perennemente celebrata sugli altari. La Croce di Gesù è sacrificio, e questo sacrificio è lo stesso di quello della Messa. La Croce è anche, come abbiamo detto, riparazione, perché espiando i nostri peccati, Cristo li cancella. Fin dal battesimo nel Giordano, Giovanni il Battista indica Gesù come l’agnello sacrificale perfetto che paga per i nostri peccati: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo” (Gv 1,29). A volte qualcuno s’interroga: può qualcuno saldare il debito (verso Dio) di qualcun altro? Nell’economia della salvezza voluta dal Padre, sì. Nelle relazioni terrene non è così: se entro in una cristalleria piena d’oggetti preziosi e per sbadataggine ne faccio cadere alcuni, che a loro volta ne fanno cadere altri, combinando un disastro a catena, non posso che aspettarmi di vedermi comparire davanti il padrone che mi dice: “Adesso non te ne vai di qui se non paghi tutto fino all’ultimo centesimo”, e a me, specie se sono povero in canna, non rimane che la prospettiva della galera o di rimanere schiavo di quel padrone per sempre. Solo una cosa potrebbe salvarmi: che il figlio di quel padrone, combinazione, fosse il mio più grande amico, e mi amasse in modo particolare; e allora, ricco di tutta la sostanza del padre, potrà dire: “Non ti preoccupare, padre, pago io per lui”. Chi non sarebbe grato di un gesto così? Eppure questo è il gesto compiuto da Gesù verso di noi, per il quale, spesso, molti non ringraziano nemmeno, escludendosi da quell’eucaristia che, oltre ad essere comunione col suo sacrificio, è anche rendimento di grazie. Abbiamo detto che la Croce è anche redenzione: cancellando i nostri peccati Cristo ci salva. Com’è possibile sostenere che Gesù salva tutti e nello stesso tempo affermare che non tutti si salvano? Mi si permetta un’ultima metafora: un gruppo di minatori rimane imprigionato nelle viscere di una miniera, nel buio più completo non sanno nemmeno da che parte scavare; sono destinati a morire lì. Ma un loro compagno rimasto all’esterno, accortosi della situazione, si precipita con badile e piccone contro la roccia ed i cumuli di terra che occludono la via verso la salvezza. Lavora in modo tremendo per ore, affaticandosi molto e facendosi male, ma alla fine raggiunge il gruppo e dice: “Ecco la luce, venite fuori, siete salvi”. Quella salvezza non è forse per tutti? Eppure parte di loro sceglie di rimanere assurdamente nel buio e nel freddo, rifiutando la vita, rifiutando cioè di salvarsi. Solo il gruppo che segue il coraggioso minatore si avvia verso la luce. Quel minatore, come si è capito, è Gesù. Quel manipolo di persone sporche che lo segue, quella piccola compagnia che da un lato gioisce e dall’altro, con le lacrime agli occhi, continua a gridare verso i fratelli rimasti dentro perché non si rassegna a non vederli salvati, è la chiesa. “...sotto Ponzio Pilato” E’ singolare che l’unico uomo ricordato nel Credo, l’unico contemporaneo di Gesù il cui nome è ricordato nella nostra Professione di Fede, sia una persona che fede non ne ebbe; un uomo che anzi “se ne lavò le mani”. E paradossalmente proprio costui ebbe il suo nome scolpito per sempre nell’eterno Simbolo dei cristiani. Non Pietro, non Giovanni o un altro degli apostoli; ma lui, Ponzio Pilato, lui che non credette, che non seppe riconoscere la Luce, e che anzi ordinò la morte del Figlio di Dio quando questo gli comparì dinanzi. Eppure inchiodando il Cristo, inchiodò per sempre il proprio nome al mistero della salvezza. Ordinò la morte di chi gli offriva in dono la vita, ma uccidendolo, lo vide morire anche per lui. Pilato rappresenta in fondo l’umanità tutta; non è più solo il procuratore romano della Giudea: ciò che egli compie, è in lui compiuto da tutta l’umanità peccatrice. Pilato rappresenta anche la storia, la dimensione del tempo, dentro la quale s’incarna il mistero della Croce. L’orizzontale che viene attraversato dalla verticalità di Dio. Il nome di Pilato inserito nel Credo indica che l’eternità di Dio c’incontra in un “qui” e in un “ora” che è quello della nostra vita terrena, e che ci salva nella concretezza del nostro tempo. La sua redenzione incontra il nostro volto, il nostro nome, in modo del tutto personale ed unico. Ma Pilato, oltre a rappresentare la nostra umanità che crocifigge continuamente il Cristo, rappresenta anche il Male, il male metafisico che agisce nella storia, che s’insinua come un serpente nei poteri del mondo, che spesso appare come un potere assoluto e incontrastato, ma in realtà agisce all’interno di un disegno più alto, di cui non si avvede, scritto da qualcuno che ha vinto il mondo. Un disegno che schiaccia la testa di questo serpente e rende il Cristo vittorioso. Se quello di Pilato è l’unico nome d’uomo che appare nel Credo, poco più sopra vi è quello di una Donna: Maria, la Donna sopra il serpente. Il nome di Pilato è, nel Simbolo, legato al verbo morire; quello di Maria è legato al verbo nascere. Il Credo dipinge davanti ai nostri occhi tutto il quadro della vita e della morte, il mistero del bene e del male. Tra il nome di Maria e quello di Pilato c’è quel “farsi uomo” che racchiude tutto il mistero. C’è quell’Uomo generato da Lei e che in Lei schiaccia il serpente. Ecco, questa è la vera icona del rapporto bene-male. A volte trattiamo bene e male come se fossero due realtà complementari con lo stesso peso. Ci capita perfino di udire: “Senza il bene non ci sarebbe il male, e senza il male non ci sarebbe il bene”. Ma questa è la più grande sciocchezza: come se tra male e bene vi fosse un rapporto di causa. Dire “senza il bene non ci sarebbe il male”, insinua l’idea che il male sia in qualche modo causato dal bene. La fede cristiana invece c’insegna che il Bene, come assoluto morale, coincide con Dio, e Dio (che nella sua perfezione è privo d’ogni contraddizione) non può essere causa di male. Il male non è realtà uguale e contrapposta al bene, ma sua assenza. L’evangelista Giovanni spiega in modo esemplare che il rapporto male-bene è come il rapporto tenebre-luce. Le tenebre non sono altro che assenza di luce, e non esistono a causa della luce, ma semmai è vero il contrario: se la luce non c’è, vi è tenebra. Allo stesso modo è pure falsa l’opposta affermazione: “senza il male non vi sarebbe il bene”. Senza il male staremmo meglio tutti! Non ho bisogno di uno schiaffo per apprezzare una carezza, o di una pugnalata per apprezzare la vita, o di un aborto per apprezzare una nascita. Il male in realtà è solo serpente schiacciato, poltiglia inconsistente. Mentre il bene ha carattere d’infinitudine e d’eternità, il male non può vantarsi nemmeno del verbo essere, in quanto la sua vera natura, ci dice il Vangelo, è assenza; mancanza d’essere. Chi sceglie il male, perde pure quello che ha, perde se stesso, la propria vita; sceglie la dannazione del non-essere. Chi invece cammina sulla via del Bene, cammina nella totalità, gode già di tutto l’esistente, non si perde nulla. Non vi è obbiettivo che non possa essere raggiunto (e meno dolorosamente) tramite la santificazione nel Bene. “Morì e fu sepolto” Qui il Credo sprofonda nell’abisso della morte di Dio, si seppellisce con essa. Non la morte di Dio come la intendeva Nietzsche (Dio che muore nel cuore dell’uomo), ma anzi la sua soluzione, una morte che resuscita il cuore dell’uomo. Non possiamo leggere il mistero della morte di Gesù separato da quello della sua Risurrezione. Cristo, morendo, rinasce in noi. La Croce è l’albero della Vita che reinnesta in sé gli umani tralci strappati dal peccato e dalla morte in esso contenuta, rivitalizzandoli. Con la morte in croce si esprime il culmine della Passione, parola bellissima perché è formata da altre due grandi parole: Amore e Dolore. Patire, nel linguaggio del Vangelo, vuol dire soffrire con amore, soffrire per amore. Quando diciamo “Patì sotto Ponzio Pilato”, diciamo tutto, perché in quel patì è racchiuso l’intero mistero della nostra salvezza. E’ un vocabolo che contiene il colmo del dolore e il colmo dell’amore. In teologia adoperiamo anche qui il termine mistero, ad indicare che la nostra mente non ha la capacità d’immaginare verità così alte: in questo caso non è nemmeno in grado d’intuire la misura di questo amore, così come non è in grado di comprendere l’infinitudine del dolore. Si pensa tutt’al più al dolore materiale dei chiodi, ma quel grido “Dio mio perchè mi hai abbandonato” indica nello spirito, più che nel corpo, la vera agonia di Gesù. Sappiamo quanto soffersero i santi nei deserti spirituali in cui, messi alla prova, Dio si sottraeva ai loro sguardi interiori; essi soffrivano in modo indicibile perché si erano svuotati di tutto per riempirsi di Dio: quando perciò Dio sembrava sottrarsi da loro lasciandoli “vuoti”, essi soffrivano come se la loro stessa anima gli venisse tolta! Se dunque pensiamo al Cristo, che per la sua particolare e consustanziale unione col Padre ne era infinitamente colmo, si capisce che il dolore di spoliazione interiore fu veramente immenso, come se si aprisse nella sua anima squarciata un vuoto infinito! Nonostante quest’abisso di dolore gli venisse già prospettato nel Getsemani, Gesù vinse la paura perché era consumato da un amore altrettanto infinito, dal desiderio intrattenibile di salvarci. Nel nostro linguaggio umano usiamo, infatti, la parola “passione” anche ad indicare un grande desiderio; in questo caso si tratta del desiderio ardente di Gesù di patire per noi: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come desidero che fosse già acceso!”(Lc 12,49). Il fuoco che egli ardentemente desiderava accendere sulla terra, era il fuoco del suo amore per noi. Voleva che ardesse nel nostro petto, come sperimentarono i due discepoli di Emmaus dopo l’incontro col Risorto: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto, mentre conversava con noi lungo il cammino?”(Lc 24,32). Ma affinché questo fosse possibile, era necessario passare attraverso il battesimo di sangue della morte in croce: “C’è un battesimo che devo ricevere, e come sono in ansia finché non sia compiuto!”(Lc 12,50). Gesù era travolto dalla passione per noi, dallo struggente desiderio di patire per averci con sé per sempre, per stringerci nell’amore per l’eternità. Passione per la passione. Che grandezza vi è racchiusa nel cuore di Cristo in croce, grandezza che in parte ci fu rivelata anche attraverso i mistici, tra cui S. Margherita Maria Alacoque (16471690), che ebbe delle rivelazioni speciali riguardo al Sacro Cuore. Anche suor Faustina Kowalska (1905-1938) fu fulminata dall’amore che trapassava il Cuore di Cristo e poi il suo. Se la teologia non dice di questo amore, essa si riduce a scienza fredda del Cristo. Ed anche quando si parla delle stimmate di santi come San Pio da Pietrelcina, o quando s’illustra la Sacra Sindone, non si può ridurre tutto al semplice esame scientifico dei dati, tacendo il mistero di quell’amore senza il quale ogni ferita perde il suo significato di salvezza. Occorre sempre incastonare quei dati, teologici o scientifici che siano, all’interno della teologia della Passione, ed alla luce del divino Amore. Spiegando anche che la passione di Cristo non rimase eroismo solitario, ma si circondò di una compagnia; di un “patire con”: è questo il significato profondo della parola compassione. Perché noi tutti, sani od infermi, siamo chiamati ad essere compartecipi di questa stessa passione (cfr CCC 618). Le nostre ferite possono in Cristo diventare finestre attraverso cui irradia la redenzione della croce. La morte di Gesù c’invita ad offrire il nostro dolore e la nostra vita sull’altare del suo sacrificio. E’ questo il senso dell’offertorio durante la Santa Messa! Non la monetina lasciata cadere nel cestino, ma la nostra intera vita lasciata cadere nella fornace ardente del cuore di Gesù, l’offerta dei nostri dolori per il disegno di salvezza delle anime: se questo non viene detto, la messa si riduce a puro rito. Se nessuno ci spiega più questo vero senso del Corpo Mistico, allora sì, Dio è morto, ed ha ragione Nietzsche. Ma Dio vive perché noi offriamo le nostre membra a questo corpo, ed accettiamo di essere crocefissi con Lui, trapassati dal suo amore ardente, seppelliti con Lui per poi in lui essere risorti. “Il terzo giorno è risuscitato” Vi è un brano del Vangelo di Matteo che riporta un evento sorprendente avvenuto il venerdì santo, immediatamente dopo la morte di Gesù: “Le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono, e molti corpi di santi morti risuscitarono” (Mt 27,51-52). Questi versetti ci rivelano una cosa molto importante: la morte di Gesù è già pregna di risurrezione. Quei risorti sono il segno fisico di un evento grandioso ed invisibile che sta avvenendo nel regno dei morti. Il Simbolo degli Apostoli inserisce, dopo la morte di Cristo, un annuncio: “Discese agli inferi”. Il forte grido che Gesù emette sulla croce si trasforma, al momento della sua morte, in grido di gioia di tutti i credenti che nell’oltretomba attendevano la salvezza: la luce del Risorto divampa nelle tenebre e miliardi di anime possono, dopo secoli, finalmente vedere la redenzione; un evento di portata incalcolabile che traboccò in superficie con quei risorti che, “usciti dalle tombe, dopo la risurrezione di Gesù entrarono a Gerusalemme ed apparvero a molti” (Mt 27,53). Segno fisico di un maestoso avvenimento metafisico. L’apostolo Pietro amò ricordare nelle sue lettere la discesa agli inferi di Gesù: “Messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito, andò, in spirito, ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione” (1Pt 3,19; cfr 1Pt 4,6). Se ne parla anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica: “La discesa agli inferi è il pieno compimento dell’annunzio evangelico della salvezza” (CCC 634). E si legge: “Le frequenti affermazioni del Nuovo Testamento secondo le quali Gesù è risuscitato dai morti (At 3,15; Rm 8,11; 1Cor 11,20) presuppongono che, preliminarmente alla Risurrezione, egli abbia dimorato nel soggiorno dei morti. E’ il senso primo che la predicazione apostolica ha dato alla discesa di Gesù agli inferi: Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Ma egli vi è disceso come Salvatore, proclamando la Buona Novella agli spiriti che vi si trovavano prigionieri” (CCC 632). Cristo ha infatti “potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1,18), e come fase finale della sua missione si riapproprierà egli stesso del suo corpo “al fine di essere lui stesso, nella sua Persona, il punto d’incontro della morte e della vita, arrestando in sé la decomposizione della natura causata dalla morte e divenendo lui stesso principio di riunione per le parti separate” (San Gregorio di Nissa). E’ difficile accostarsi ad un mistero così alto come quello della Risurrezione di Cristo; il tesoro che essa racchiude è inesauribile. Si tratta dell’avvenimento su cui si fonda non solo la fede, ma la nostra stessa vita. E non bisogna mai stancarsi di ricordare che la Risurrezione fu un evento sia fisico sia metafisico. L’errore più comune è ridurla ad uno solo dei due aspetti. E’ sbagliato sia considerarla come un fatto di natura solo spirituale, privo di fisicità e di storicità, e sia limitarsi all’aspetto storico-fisico. Il centro della teologia della Risurrezione non è certo il “sepolcro vuoto”, ma il Cristo Risorto che si lascia incontrare anche ai nostri sensi, come raccontano dettagliatamente i testimoni oculari, che narrano con grande concretezza le loro esperienze, riportate da tutti e quattro gli evangelisti con particolare cura. E pertanto chi vuole occuparsi di teologia non deve cedere alla tentazione di sminuire il fatto per adattarlo meglio alla nostra ragione, come fecero gli apostoli quando, al primo incontro col Risorto, respingono l’evidenza della sua fisicità preferendo pensarlo un fantasma (Lc 24,37). Nel Vangelo il Risorto ci tiene a far riconoscere la sua corporeità, stabilendo con i testimoni rapporti diretti, a volte attraverso un contatto fisico (Lc 24,39; Gv 20,27), altre attraverso la condivisione di un pasto (Lc 24,30.41-43; Gv 21,9.13-15). E’ per questo che il Catechismo della Chiesa Cattolica dice: “Davanti a queste testimonianze è impossibile interpretare la Risurrezione di Cristo al di fuori dell’ordine fisico e non riconoscerla come un avvenimento storico” (CCC 643). E pertanto la Chiesa considera la Risurrezione “un avvenimento reale che ha avuto manifestazioni storicamente constatate” (CCC 639), un “avvenimento storico constatabile” attraverso i segni (CCC 647). Al tempo stesso però non possiamo ridurre la risurrezione di Cristo alla semplice dimensione fisica. Il Catechismo la definisce un avvenimento sia storico sia trascendente (CCC 639), un avvenimento ben diverso dalle altre resurrezioni umane che leggiamo nel testo sacro. E’ una risurrezione che risorge me; che provoca alla mia anima lo stesso effetto che provocò ai credenti degli inferi; che spezza le mie rocce interiori e dischiude il sepolcro in cui m’imprigiona il peccato; che m’irradia di luce redentiva, e nella gioia conduce anche me, verso la Città santa, assieme a tutti i risorti. “...Secondo le Scritture...” Quale significato ha l’espressione “secondo le Scritture” che troviamo all’interno del nostro Simbolo di fede? Cosa significa dire che Gesù è morto e risorto secondo le Scritture? A questa domanda, che introduce una serie d’importantissime riflessioni teologiche sul tempo e sul destino, risponde in modo chiaro il Catechismo della Chiesa Cattolica: “La Risurrezione di Cristo è compimento delle promesse dell’Antico Testamento e di Gesù stesso durante la sua vita terrena. L’espressione «secondo le scritture» indica che la Risurrezione di Cristo realizzò queste predizioni” (CCC 652). Il primo a svelarci che gli avvenimenti della passione non si sono svolti per caso è proprio Gesù, con le sue parole rivolte ai discepoli di Emmaus dopo la risurrezione: “O stolti e tardi di cuore a credere a quello che hanno detto i profeti! Non doveva forse il Cristo patire tutto questo ed entrare nella sua gloria?” (Lc 24,25-26). E quel giorno, “cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro quanto lo riguardava in tutte le Scritture”. E così facendo “aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45), cioè diede la chiave interpretativa della Bibbia affinché questa venisse da quel momento in poi letta alla luce del grande disegno salvifico di Dio. Una prova che tale insegnamento venne subito recepito, e che l’espressione contenuta nel Credo non è un arbitrio dei Padri di Nicea-Costantinopoli che lo forgiarono, è già racchiusa nella prima Lettera di Paolo ai Corinzi: “Vi ho dunque trasmesso, anzitutto, quello che ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e fu risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4). Ecco perché il Catechismo, senza tema di sbagliare, può affermare: “La morte violenta di Gesù non è stata frutto del caso in un concorso sfavorevole di circostanze. Essa appartiene al mistero del disegno di Dio” (CCC 599). Questo mistero ci viene comunicato tramite le Sacre Scritture, che in qualche modo, per volontà di Dio, diventano forgiatrici della storia degli uomini. Le cose scritte dagli autori sacri sono ben più di mero racconto, di semplice memoria di fatti accaduti, o di pure previsioni. Una volta scritte esse diventano matrici della nostra storia. Cristo stesso riconosce autorità alla Scrittura e sembra sottostare a quanto vi è scritto: “Era proprio questo che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si adempia tutto quanto di me sta scritto nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (Lc 24, 44). E aggiunge: “Così sta scritto: il Cristo doveva patire ed il terzo giorno risuscitare dai morti” (Lc 24,46). Attenzione però: Cristo era perfettamente libero di non sottostare alle Scritture, in quanto Dio è superiore alla Parola rivelata; ma poiché nella sua libertà ha scelto di salvarci, egli si è sottomesso al disegno del Padre. Se si svaluta il concetto di libertà dinanzi al concetto di destino, si rischia di scivolare nello stesso errore in cui cadde Giovanni Calvino (1509-1564, riformatore protestante), il quale si spinse fino a voler tentare di fondare teologicamente la teoria della predestinazione: “Definiamo predestinazione l’eterna disposizione di Dio mediante la quale egli ha fissato in sé che cosa deve avvenire di ciascun uomo secondo la sua volontà; poiché gli uomini non sono stati creati tutti allo stesso modo, ma per gli uni è stata predisposta la vita eterna e per gli altri l’eterna dannazione” (Calvino, Istituzione della religione cristiana). E’ evidente la mostruosità teologica cui porta la cieca sopravvalutazione del destino: Dio creerebbe uomini per l’inferno e uomini per il paradiso. Le tesi del calvinismo vennero naturalmente respinte dalla Chiesa, che già dinanzi a Lutero aveva sostenuto il valore del libero arbitrio. E’ vero, insegna il Magistero, che nelle Scritture si parla di “prestabilito disegno” di Dio (cfr At 3,23), ma “questo linguaggio biblico non significa che quelli che hanno consegnato Gesù siano stati solo esecutori passivi di una vicenda scritta in precedenza da Dio” (CCC 599). Il profeta Giona aveva annunciato un destino di distruzione per Ninive, ma a seguito di un grande pentimento collettivo l’intiera città si salvò. Il destino in fondo è come il vento: ha le sue direzioni, ma tutto dipende da come io dispongo le vele. Chi sottovaluta l’ampio margine di movimento che la nostra libertà ci dona, si sottrae alla responsabilità delle proprie scelte per vivere come un automa, come fa chi ricava il destino dalle stelle e dai relativi oroscopi; o come chi attende con ansia rivelazioni private per “sapere che cosa Dio vuole da me”. Disegno di Dio non significa predestinazione, futuro già scritto. Il disegno di Dio è scritto nella storia con le matite delle nostre vite. E di volta in volta è tracciato in base alle nostre risposte. Molte anime rimangono ferme per anni domandandosi quale sia loro strada nella vita, ma la strada è solo una: crescere nella fede. Quando l’acqua del fiume sale, la propria barca si disincaglia e segue da sola il suo destino. E non sono le mie domande sul futuro a schiudermi la rotta, ma l’abbandono fiducioso a Dio. Se continuamente mi sporgo per guardare avanti, significa che non sto vivendo veramente l’abbandono. Ma se lo vivo, allora anch’io seguo quel vento e quel fiume; anch’io finalmente vivo secondo le Scritture. “…E’ salito al Cielo…” L’ascensione è il compimento definitivo della missione divina di Gesù. Nel vangelo di Giovanni leggiamo che essa era già stata annunciata da Gesù alla Maddalena appena dopo la Risurrezione: “Non sono ancora salito al Padre; ma va dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17). Anche in Marco ne troviamo un accenno: “Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo” (Mc 16,19). E’ però l’evangelista Luca ad essere più ricco di particolari nel riportare l’evento: “Poi li condusse fuori, verso Betania e, alzate le mani, li benedì. Mentre li benediceva, si separò da loro e veniva portato nel cielo. Essi, dopo averlo adorato, se ne tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (Lc 24,50-52). E nel libro degli Atti Luca completa il quadro del racconto storico: “Dette queste cose, mentre essi lo stavano guardando, fu levato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. E poiché essi stavano con lo sguardo fisso verso il cielo mentre egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro dicendo: «Uomini di Galilea, perché ve ne state guardando verso il cielo? Questo Gesù che è stato assunto di mezzo a voi fino al cielo, ritornerà nello stesso modo in cui lo avete visto andarsene verso il cielo». Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte chiamato Oliveto, che si trova vicino Gerusalemme quanto il cammino di un sabato” (At 1,9-12). Sono quindi almeno quattro i passaggi evangelici che toccano esplicitamente il tema dell’ascensione. Nonostante ciò, alcuni biblisti negano all’evento una connotazione storica, facendo rientrare anche il preciso racconto lucano all’interno di una narrazione simbolico-leggendaria. A noi sembra che il genere letterario adottato da Luca nel narrare l’Ascensione sia invece quello della narrazione storica. E questo per tre motivi: 1) Luca, da buon medico, ha una mente analitica ed una visione logica delle cose, ed ama narrarle dopo essersi bene informato (“Ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne un resoconto ordinato” – Lc 1,3); in tutti i suoi scritti mostra infatti grande precisione e dovizia di particolari; non si lascia mai sfuggire il controllo della penna, che adopera sempre con grande lucidità, evitando enfasi o scivolate di fantasia. 2) I diversi brani sull’ascensione non sono in contrasto fra loro, ma anzi si completano a vicenda; vengono con cura riportati fatti e luoghi: “verso Betania”, “ritornarono a Gerusalemme dal monte chiamato Oliveto” (il monte Oliveto è appunto sulla strada verso Betania). 3) I protagonisti, che davanti al miracolo se ne restavano ancora col naso all’insù, vengono dal miracolo stesso invitati a tornare con i piedi per terra; quest’invito a non guardare più verso il cielo sembra racchiudere un’implicita raccomandazione a ritornare alla missione faticosa di tutti i giorni; non vi è quindi nella narrazione dei fatti quell’esaltazione tipica dei racconti leggendari. Come la Risurrezione, anche l’Ascensione è evento sia fisico che metafisico. Il Magistero della Chiesa, infatti, definisce l’avvenimento “ad un tempo storico e trascendente” (CCC 660). Storico (e non mitologico) ma anche trascendente, perché il cielo che accoglie il Risorto non è quello fisico, ma quello metafisico, il regno dei cieli da cui il Verbo era venuto ed a cui ritorna nella gloria. Ecco allora che il cielo fisico, o la nuvola, pur appartenendo alla reale esperienza degli apostoli, diventano simbolo di realtà più alte ed a loro ancora invisibili. Il vero carattere dell’ascensione è escatologico, e le Scritture stesse la collegano alla promessa del dono dello Spirito, alla venuta del Regno, ed alla Parusia finale del ritorno di Gesù (cfr At 1,114). Dice il Catechismo: “Il Corpo di Cristo è stato glorificato fin dall’istante della sua Risurrezione, come provano le proprietà nuove e soprannaturali di cui ormai gode in permanenza. Ma durante i quaranta giorni nei quali egli mangia e beve familiarmente con i suoi discepoli e li istruisce sul Regno, la sua gloria resta ancora velata sotto i tratti di un’umanità ordinaria. L’ultima apparizione di Gesù termina con l’entrata irreversibile della sua umanità nella gloria divina simbolizzata dalla nube e dal cielo ove egli siede ormai alla destra di Dio” (CCC 659). Il Figlio, che con l’incarnazione era sceso nella natura umana, ora, con l’ascensione, la riconsegna al Padre redenta. “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo. Ora lascio il mondo e vado al Padre” (Gv 16,28). La sua missione è compiuta, e torna nella gloria vittorioso e carico di doni per noi. “Ora io vi dico la verità: è meglio per voi che io parta, perché se non parto il Paraclito non verrà a voi. Se invece me ne vado lo manderò a voi” (Gv 16,7). “...siede alla destra del Padre...” Cosa intende il Credo con l’espressione “siede alla destra del Padre”? Se questo frammento di sacra Scrittura compare nel Simbolo, ha evidentemente una sua importanza. Prendendo in mano il Vangelo si scopre innanzi tutto che il lato destro è citato con particolare rilievo: l’occhio destro, la mano destra (Mt 5,29-30), la guancia destra (Mt 5,39), le reti che Gesù comanda di gettare a destra (Gv 21,6). Durante la passione è con la destra che Gesù deve tenere la canna dello scherno (Mt 27,29), e nel sepolcro vuoto è “seduto a destra” il misterioso giovanetto in vesti bianche che annuncia la risurrezione (Mc 16,5). E come il pastore divide le pecore buone da quelle cattive, ponendo quelle buone sulla destra, e quelle cattive sulla sinistra (Mt 25,33), così anche quando il Figlio dell’uomo “si siederà sul trono della sua gloria” porrà i giusti sulla sua destra ed i dannati sulla sua sinistra (Mt 25,31-46). Nel Vangelo dunque il lato destro non è solo il lato forte, il lato regale, ma è anche il lato buono, quello dei giusti. Alla luce di questo si comincia a comprendere perché Gesù indichi il suo trono alla destra del Padre, come quando durante il processo di Caifa afferma: “D’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo” (Mt 26,64). Naturalmente questa frase bastò perché il sommo sacerdote si stracciasse le vesti e accusasse Gesù di bestemmia, condannandolo a morte. Era una frase che da una parte richiamava un’antica profezia di Daniele sul Messia (cfr Dan 7,13), e dall’altra faceva eco ad un salmo di Davide in cui il Signore invita alla sua destra un personaggio cui pure è riconosciuta suprema signoria (Sl 109,1): si trattava di un salmo su cui Gesù si era già trovato a discutere con gli israeliti, che facevano assai fatica ad accettare l’idea che Dio potesse avere un Figlio, che questo Figlio fosse anch’egli Dio, e che era venuto fra gli uomini. In questa discussione Gesù li interrogò chiedendo come fosse possibile che Davide sotto ispirazione scrivesse “Ha detto il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra...”. Com’era possibile che Dio si rivolgesse a Dio? Ma “nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno, da quel giorno in poi, osò interrogarlo” (Mt 22, 4146). Sarà l’apostolo Pietro a riprendere, dopo la morte di Gesù, questo difficile discorso: Davide poté scrivere così perché alla destra del Padre c’è il Figlio (At 2,32-38). Pietro aveva infatti riconosciuto per primo la figliolanza divina di Gesù (Mt 16,13-17). Un’altra icona di Gesù seduto alla destra del Padre ce la offre Marco, raccontando l’ascensione: “Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio” (Mc 16,19). Questa gloria fu vista anche dal diacono Stefano: durante quel suo discorso al sinedrio in cui tutti vedevano “il suo volto come quello di un angelo”, Stefano fissò lo sguardo verso l’alto e “vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra”, e disse: “Ecco, io contemplo i cieli aperti, ed il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio” (At 6,15; 7,55-56). Ma com’era accaduto per Gesù, anche in questo caso “proruppero in grida altissime turandosi gli orecchi” e lo misero a morte. San Giovanni Damasceno, dottore della Chiesa orientale (650-749), ci regala quanto segue: “Per destra del Padre intendiamo la gloria e l’onore della divinità, ove colui che esisteva come Figlio di Dio, prima di tutti i secoli come Dio, e consustanziale al Padre, s’è assiso corporalmente dopo che si è incarnato e la sua carne è stata glorificata” (in De Fide Orthodoxa). Anche il nostro Catechismo ci fornisce lumi su questo punto: “L’essere assiso alla destra del Padre significa l’inaugurazione del regno del Messia, compimento della visione del profeta Daniele riguardante il Figlio dell’uomo: «a Lui fu concesso potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto» (Dn 7,14)” (CCC 664). La stupenda preghiera di Gesù per la sua glorificazione ci svela il resto: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a Te, con quella gloria che avevo presso di Te prima che il mondo fosse” (Gv 17,1-5). “E di nuovo verrà nella gloria, per giudicare i vivi e i morti” Cristo è il Signore, ed il suo regno di grazia ha avuto inizio con la sua venuta nel mondo. Egli sta già regnando sulla terra, ma lo fa attraverso la Chiesa. Non tutte le cose di questo mondo gli sono però sottomesse, perché “questo regno è ancora insediato dalle potenze inique” (CCC 671). Del resto Gesù aveva avvertito: “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33). La fase storica che stiamo vivendo è quella che San Giovanni chiama “l’ultima ora” (1Gv 2,18). Dice il Concilio Vaticano II: “Già dunque è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi, e la rinnovazione del mondo è stata irrevocabilmente fissata e in un certo modo è realmente anticipata in questo mondo; difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di una santità vera, anche se imperfetta” (LG 48). Alla luce della “teologia della speranza”, i credenti stanno attendendo il ritorno finale e glorioso di Gesù che conclude la storia: la Parusia, termine che anticamente indicava la visita ufficiale di un sovrano in qualche città. Ma “questo avvento o apparizione di Gesù, chiamato “parusia” nel Nuovo Testamento, non viene felicemente tradotto con “ritorno”, perché si suggerisce così che si tratta di un evento già avvenuto una prima volta. In realtà si tratta del compimento di ciò che è cominciato con l’incarnazione, croce e risurrezione di Gesù Cristo, del compimento dell’opera di Gesù Cristo e della definitiva manifestazione della sua gloria. Si intende dunque che alla fine sarà manifesto che Gesù Cristo era ed è fin dal principio alla base e al centro significativo di ogni realtà e di ogni storia, l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine” (Catechismo Cattolico degli Adulti, Conf. Ep. Tedesca, III,V,2,4). Questa considerazione degli ultimi tempi (che prende nome di escatologia, dal greco èskata, cose ultime), emerge già dalle sacre scritture. E’ Gesù stesso che annuncia e promette la sua parusia (cfr il suo lungo discorso escatologico racchiuso in Mt 24), anche se “non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta” (At 1,7). Animato dallo Spirito Santo, Pietro dopo la Pentecoste annuncia agli ebrei di Gerusalemme: “Pentitevi dunque, e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore, ed egli mandi quello che vi aveva destinato come Messia, cioè Gesù. Egli dev’essere accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose, come ha detto Dio fin dall’antichità, per bocca dei suoi santi profeti” (At 13,1921). Per questa ragione “la Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora, e attendono la manifestazione dei figli di Dio” (LG 48). La Parusia è dunque la vera meta di tutta la storia dell’umanità. Per questo le chiese cristiane sono rivolte verso oriente, ad indicare quest’attesa del Cristo, sole che sorge, pur essendo, noi, già avvolti dalla luce dell’alba. Il trionfo definitivo sulle tenebre, porterà agli uomini “nuovi cieli e una nuova terra” (2Pt 3,13). Il regno di Cristo sarà eterno, ma verrà preceduto dal giorno del Giudizio, come Gesù annunzia, in linea coi profeti e col Battista. Non si tratta di un giorno del calendario, ma della ricapitolazione in Cristo di tutte le cose. “Allora saranno messi in luce la condotta di ciascuno e il segreto dei cuori. Allora verrà condannata l’incredulità colpevole che non ha tenuto in alcun conto la grazia offerta da Dio. L’atteggiamento verso il prossimo rivelerà l’accoglienza o il rifiuto della grazia e dell’amore divino. Gesù dirà nell’ultimo giorno: “Ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”” (CCC 678). In realtà il giudizio di Dio sta già operando, nella storia, per promuovere il bene e liberare dal male. Dice il Catechismo degli Adulti della CEI: “Il giudizio opera già in questo mondo, ma va verso un momento supremo: “Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male” (2Cor 5,10). E’ il giudizio definitivo, che per le singole persone avviene al termine della vita terrena (“giudizio particolare”) e per il genere umano, nel suo insieme, al termine della storia (“giudizio universale”)” (N.1199). Sebbene queste riflessioni escatologiche ci mettano davanti la reale possibilità di una nostra eterna condanna, il nostro timore è confortato dalla teologale speranza che accompagna le parole dell’Apocalisse: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini, e dimorerà con loro, ed essi saranno il suo popolo, ed egli sarà il Diocon-loro. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. Non vi sarà più morte né lutto e grida di dolore. Sì, le cose di prima sono passate” (Ap 21,3-4). Per cui il cristiano non deve temere di dire: Marana-tha, vieni Signore Gesù (1Cor 16,22). “...E il suo Regno non avrà fine...” Il nostro Credo annunzia la venuta di un Regno divino che non finirà mai. Su cosa si fonda questa grandiosa speranza escatologica? Si fonda su numerosissimi passi della sacra Scrittura. Fin dall’Antico Testamento è annunciato un Regno di Dio che durerà per sempre, soprattutto negli scritti dei profeti: “Egli è il Dio vivente, che dura in eterno; il suo regno è tale che non sarà mai distrutto, e il suo dominio non conosce fine” (Dn 6,27). E’ significativo però che questo Regno venga già collegato alla venuta del Messia: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto.” (Dn 7,1314). In questa profezia viene messa in luce la particolare relazione fra il Padre e il Figlio, che sarà rivelata pienamente al mondo solo con la venuta di Gesù. E’ Gesù che dà inizio al Regno di Dio sulla terra, e con la sua missione salvifica lo consegna vittorioso al Padre. Potrebbe sorgere la domanda: ma Dio non era già prima Re dell’universo? Sì, come creatore e Signore di tutte le cose, Dio godeva già della signoria su tutto il creato. Tuttavia, a causa del peccato entrato nel mondo, i cuori degli uomini si erano oscurati, e poiché la signoria di Dio governa il mondo attraverso i cuori degli uomini, la perdita di regalità dei cuori comporta un oscuramento della regalità divina. Se però l’uomo torna in Dio, Egli può regnare attraverso il suo essere e le sue azioni. Dio, infatti, ha creato il mondo per noi, e desidera governarlo con noi condividendo la sua natura divina. Cristo, operando con lo Spirito la conversione dei cuori, allinea di nuovo il creato al suo creatore. Per prima cosa è avvenuto in Lui questo allineamento, grazie alla realizzazione della sottomissione della sua natura umana al Padre, alla sua obbedienza perfetta, alla sua passione e morte in croce, alla sua Risurrezione. Già in Cristo si realizza per la prima volta il Regno: il Padre regna in lui ed attraverso di lui estende la sua grazia sul mondo e compie miracoli sulla natura. E’ Gesù stesso che ce lo annuncia: “Il Regno di Dio è già in mezzo a voi” (Lc 17,21). Vi sono dunque tre grandi fasi di realizzazione del Regno: la prima fase è quella presente nell’Antica Alleanza, in cui Dio regna attraverso un popolo, quello d’Israele: “Voi sarete per me un regno di sacerdoti ed una nazione santa” (Es 19,6). La seconda fase è quella realizzata nella nuova Alleanza, in cui Dio regna attraverso il Figlio, il Kyrios, il Signore, ed attraverso i cuori uniti a lui, e cioè attraverso la Chiesa: “Ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,6). I cristiani possono già essere cittadini del Regno se fin da quaggiù aderiscono alla Grazia, e contribuiscono anche a costruirlo operando per la giustizia, la carità, la promozione umana e la pace. Infine vi è una terza fase di realizzazione del Regno, che prende nome di Gerusalemme celeste, il paradiso eterno promesso a tutti i santi che saranno rimasti fedeli fino alla fine: “E io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno, e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele (Lc 22,29-30). Si tratta del Regno dei cieli, ma il creato non ne è escluso, perché alla fine dei tempi vi sarà la redenzione universale di tutte le cose, e con la cancellazione definitiva del male sarà ristabilito il dominio dello Spirito su tutte le cause; si attuerà il ricongiungimento perfetto tra il mondo terreno e mondo celeste, tra la materia e lo spirito, tra il fisico ed il metafisico, tra il naturale ed il soprannaturale. Ciò che prima era diviso verrà ricongiunto: sono queste le “nozze dell’Agnello” di cui parla il libro dell’Apocalisse (Ap 19,7). E questo matrimonio è realizzato dall’Amore di Dio: è l’amore che ricongiunge. La sostanza stessa del Regno è l’amore di Dio; la signoria che Cristo esercita è una signoria della grazia, che si manifesta attraverso la luminosità dell’amore. Per questo possono parteciparvi solo i cuori che si sono aperti alla grazia e se ne sono lasciati trasformare. Amare e regnare diventano in Dio un solo verbo. “Credo nello Spirito Santo” A farci conoscere e a donarci lo Spirito Santo è Gesù. Egli lo chiama Paraclito (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7), che letteralmente vorrebbe dire “Colui che è chiamato vicino”, e che spesso traduciamo con Consolatore. Nell’annunciarne la sua venuta lo chiama anche Spirito di verità. Il termine “Spirito” è la traduzione dell’ebraico “Ruah”, che significa soffio, aria, vento; e Gesù utilizza proprio l’immagine sensibile del vento per spiegarci, durante il suo dialogo con Nicodemo, la natura misteriosa e trascendente dello Spirito di Dio, di cui nessuno può sapere “da dove viene e dove va” (Gv 3,5-8). In questa dimensione misteriosa entrano anche, dice Gesù, “i nati dallo Spirito”. L’ingresso in questa vita nuova e soprannaturale avviene col sacramento del Battesimo. Scrive Sant’Ireneo di Lione (II sec.): “Il Battesimo ci accorda la grazia della nuova nascita in Dio Padre, per mezzo del Figlio suo nello Spirito Santo. Infatti coloro che hanno lo Spirito di Dio sono condotti al Verbo, ossia al Figlio; ma il Figlio li presenta al Padre, e il Padre procura loro l’incorruttibilità. Dunque, senza lo Spirito, non è possibile vedere il Figlio di Dio, e, senza il Figlio, nessuno può avvicinarsi al Padre, perché la conoscenza del Padre è il Figlio, e la conoscenza del Figlio di Dio avviene per mezzo dello Spirito Santo” (Demonstratio Apostolica, 7). Senza il Battesimo nello Spirito non vi è dunque vita cristiana. Come dice San Paolo, “Nessuno può dire “Gesù è il Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3). San Paolo chiama il divino Paraclito anche Spirito della promessa (Gal 3,14; Ef 1,13), Spirito di adozione (Rm 8,15; Gal 4,6), Spirito di Cristo (Rm 8,9), Spirito del Signore (2Cor 3,17), Spirito di Dio (Rm 8,9.14; 15,19; 1Cor 6,11; 7,40), mentre a chiamarlo Spirito della gloria è San Pietro (1Pt 4,14). Lo Spirito Santo è all’opera con il Padre ed il Figlio dall’inizio dei tempi fino al compimento della storia della salvezza. Lo Spirito è luce che ci rivela le verità di Dio, ma proprio perché illumina le cose, si nasconde. Si adombra per fare luce sul Padre e sul Figlio. Non dice se stesso, è la Persona divina di cui sappiamo meno sebbene ogni nostra conoscenza spirituale venga da Lui. “Non lo conosciamo che nel movimento in cui ci rivela il Verbo e ci dispone ad accoglierlo nella fede” (CCC 687). Gesù ci spiega che pur guidandoci verso “la verità tutta intera”, lo Spirito Santo “non parlerà da sé, ma quanto sentirà dirà” (Gv 16,13). E’ l’annientamento tipico degli umili. Anche l’umiltà è, infatti, virtù divina; ben visibile attraverso la trasparenza di Maria, la colma di grazia che si adombra per mettere in luce il Figlio. Diversi sono i simboli attraverso cui si esprime lo Spirito Santo: 1) L’acqua: segno di purificazione e di rinascita, che nel battezzato zampilla per la Vita eterna; 2) L’olio: compare nelle unzioni di re e profeti, fino alla venuta di Cristo, l’Unto di Dio, che pone, tramite lo Spirito, il sigillo del sacro crisma sulla fronte di ogni cristiano; 3) Il fuoco: simboleggia l’azione trasformante dello Spirito Santo, che consuma il male e rende ardenti nel bene: questa presenza di Dio in noi si realizza con le “lingue di fuoco” della Pentecoste (At 2,3); 4) La nube luminosa: dal Sinai alla Trasfigurazione di Gesù ed alla sua Ascensione, accompagna le principali rivelazioni di Dio (Es 24,15-18; 33,9-10; 40,36-38; 1Re 8,10-12; Lc 9,34; At 1,9), così come accompagna le principali teofanie di Maria nella storia umana, fino al ritorno definitivo di Gesù nella nube (Lc 21,27); 5) La colomba: apparve alla fine del diluvio come segno di un’alleanza che ricomincia, e pure quando Cristo risalì dall’acqua durante il Battesimo nel Giordano, all’inizio della sua missione di salvezza (Mt 3,16); anche la colomba ricompare in molte teofanie mariane, perché Maria è columbarium, tabernacolo di Cristo. Dove possiamo incontrare oggi lo Spirito Santo? In moltissimi ambiti della vita di fede come singoli cristiani o come chiesa: nelle Scritture, che Egli ha ispirato; nella Tradizione che ci giunge attraverso i Padri da Lui illuminati; nel Magistero della chiesa che Egli assiste; nella Liturgia, in particolare quella della Santa Messa, che lo Spirito vivifica con la sua azione invisibile e nella quale realizza la miracolosa transustanziazione del pane e del vino; nei Sacramenti, ove opera con la sua grazia trasformante; nella preghiera, possibile solo perché mossa da Lui; nei sacramentali, come le benedizioni o gli esorcismi; nei diversi ministeri che edificano la Chiesa; nei carismi, che sono un suo dono; nello stato di grazia, a cui ogni cristiano è chiamato, ed a cui anche il peccatore può tornare tramite il sacramento della Riconciliazione; nella carità, perché essa è pura emanazione dello Spirito Santo che è amore; nell’evangelizzazione, perché Egli è anche Spirito di Verità; nella testimonianza di vita con cui si prolunga la salvezza, perché lo Spirito è spirito di santità. “...E’ Signore e dà la vita...” Cosa s’intende quando professiamo che “lo Spirito Santo è Signore e dà la vita?”. Quale vita ci viene donata dallo Spirito Santo? Lo Spirito di Dio ci fa dono sia della vita fisica sia della vita spirituale. Ci fa dono della vita fisica perché la creazione è mossa da Lui: Egli la disegna, la permea, e la sostiene; ne rende fecondo il grembo e la vivifica. Come dice la liturgia bizantina “Egli ha potere sulla vita, perché essendo Dio, custodisce la creazione nel Padre per mezzo del Figlio”. Fin da quando “lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn 1,2), Egli non ha mai cessato di dispensare la vita alle diverse creature, agli esseri umani: “Mandi il tuo Spirito ed essi sono creati” (104,30). Per questo il nostro Catechismo può, a giusto titolo, proclamare: “La Parola di Dio ed il suo Soffio sono all’origine dell’essere e della vita di ogni creatura” (CCC 703). Ma così come agisce dentro l’atto del creare, lo Spirito Santo, dopo l’ingresso nel mondo del peccato, agisce anche nel ricreare. Ispirando divinamente i santi patriarchi ed i profeti, Egli non ha non ha mai smesso di parlarci ed illuminarci: nelle Teofanie e nella Legge, nel Regno d’Israele e nell’esilio, nella lunga attesa messianica, fino a quando matura la pienezza del tempo, ed allora lo Spirito del Signore prepara la “piena di Grazia”, ed in lei realizza il disegno misericordioso del Padre. Come annunciato dall’angelo (“Lo Spirito Santo scenderà sopra di te”), Egli la copre con la sua ombra e la Vergine concepisce “per opera dello Spirito Santo” (Lc 1,35). Nel disegno di salvezza, Maria diventa dunque il roveto ardente della Teofania definitiva (CCC 724), ed attraverso di Lei lo Spirito manifesta al mondo il Figlio di Dio. In Maria Egli inizia a mettere in comunione gli uomini con Cristo. Infine, tramite Gesù, Egli scende sui battezzati, santifica attraverso le sue parole, istituisce attraverso l’imposizione delle mani, e cancella i peccati degli uomini. “Tutto il secondo articolo del Simbolo della fede deve essere letto in questa luce: l’intera opera di Cristo è missione congiunta del Figlio e dello Spirito Santo” (CCC 727). Questi dà vita alla Chiesa, ed ancora oggi la vivifica perché continuamente ci viene fatto dono “dello Spirito Santo che era stato promesso... in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato” (Ef 1,13-14). Lo Spirito di Dio ci conferisce, quindi, anche la vita spirituale. Gesù è la vite e noi ne siamo i tralci: questo significa che siamo vivificati dalla stessa linfa vitale della vite, e questa vita che scorre in essa ed anche in noi è lo Spirito Santo. Egli ci vivifica, perfezionando la nostra natura, liberandola dal male e purificandola; ci arricchisce con le virtù teologali e cardinali, ci conferisce doni e carismi particolari, ci abilita alla dimensione soprannaturale dell’esistenza umana. Nella Bibbia, dal roveto ardente alla Pentecoste, lo Spirito di Dio sembra amare l’immagine del fuoco. Perché il fuoco? Perché brucia, trasforma, consuma. Ma soprattutto perché il fuoco è da sempre sinonimo di due cose: la luce ed il calore. L’azione dello Spirito, infatti, investe sempre entrambe le realtà dell’uomo: la mente ed il cuore. La luce è sinonimo di verità (luce della mente): la verità che Dio ci comunica. Ma non si tratta mai di una verità fredda, puramente conoscitiva, ma di una verità che passa attraverso il cuore, che scalda, che s’identifica con l’Amore. “Dio è Amore”, scrive S. Giovanni (1Gv 4,8.16), e l’Amore è il primo dono, quello che contiene tutti gli altri. Quest’amore, Dio “l’ha riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato” (Rm 5,5). Lo Spirito Santo, che fa il suo ingresso definitivo nella storia della Chiesa con la Pentecoste, e nella nostra storia personale col Sacramento della Confermazione, è “primizia” della nostra eredità celeste. “Dio stesso ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, e ci ha dato il sigillo e la caparra dello Spirito Santo nei nostri cuori” (2Cor 1,21-22). Questo Spirito, che soccorre la nostra debolezza e prega attraverso di noi con “gemiti inesprimibili” (Rm 8,26), ci rende a nostra volta strumento di salvezza delle anime, continuando ancora oggi la sua missione nel mondo attraverso di noi, affinché i tralci staccati che toccano il nostro tralcio diventino anch’essi vite e si salvino. “...Procede dal Padre e dal Figlio...” Lo Spirito Santo è Dio. Questa Terza Persona della Santissima Trinità non ha, dunque, come del resto anche il Figlio, un inizio nel tempo; ma è da sempre. Dal Padre procede l’amore verso il Figlio, e dal Figlio procede l’amore verso il Padre: è l’amore che unisce le Divine Persone del Padre e del Figlio. Poiché Dio ama in modo perfetto, questo Amore è perfetto. Ma cosa vi è di perfetto se non Dio? Dunque questo Amore è Dio, quello che noi chiamiamo Spirito Santo, Terza Persona della Trinità che è un solo Dio. Questa eccelsa verità che i Padri ci tramandano, emerge direttamente dalla Sacra Scrittura, e sostanzia il secondo articolo del nostro antico Credo. L’unico elemento che non ritroviamo nel testo originario del Simbolo, è il cosiddetto “filioque” (“e dal Figlio”). Leggiamo infatti così: “ex patre [filioque] procedentem”. Tale aggiunta, che Roma ammise nella versione liturgica latina nel 1014, fu in particolare contestata dalla Chiesa Ortodossa, anche se essa non fu certo l’unica causa del Grande Scisma d’Oriente avvenuto nel 1054. Ma come avvenne esattamente la storia di questo inserimento? La sequenza è questa: l’antichissimo Simbolo degli Apostoli riportava solo l’espressione “Credo nello Spirito Santo”. Nel 325 il Simbolo di Nicea proclamava pertanto: “Crediamo nello Spirito Santo”. Successivamente, il primo Concilio di Costantinopoli, nel 381, aggiunse “ex Patre procedentem”: un’aggiunta più che lecita perché desunta direttamente dal Vangelo (Gv 15,26). Nel quinto secolo già circolavano, però, professioni di fede che definivano lo Spirito Santo “procedente dal Padre e dal Figlio”, come l’autorevole Simbolo Atanasiano, chiamato così perché attribuito a Sant’Atanasio (295-373), arcivescovo d’Alessandria d’Egitto. Anche antichi Padri quali San Basilio vescovo e dottore della Chiesa (330-379), o San Gregorio Nazianzeno vescovo di Costantinopoli (329-390) si erano aperti alla teologia del filioque. Infine, nel 447, papa San Leone I, sulla base di queste antiche tradizioni, non solo latine ma anche alessandrine, affermò dogmaticamente il filioque (cfr CCC 247). Ed anche i successivi concili (Toledo nel 589; Aquileia nel 796; Aquisgrana nell’809) confessarono la teologia del filioque. E’ pertanto comprensibile il perché Roma abbia finito per accoglierlo nella liturgia latina nel 1014. Da allora, esso si diffuse in tutto l’Occidente, e fu accettato sia dai Latini sia dai Greci nei concili ecumenici di Lione (1274) e di Firenze (1439). Tuttavia, nel corso dei secoli furono innumerevoli le dispute su questo argomento, specie tra teologi cattolici ed ortodossi. Perché? Quale concezione dello Spirito Santo vi è dietro il filioque? La risposta la leggiamo negli atti del Concilio di Firenze del 1439: “Lo Spirito Santo ha la sua essenza e il suo essere sussistente ad un tempo dal Padre e dal Figlio e [...] procede eternamente dall'uno e dall'altro come da un solo principio e per una sola spirazione [...]. E poiché tutto quello che è del Padre, lo stesso Padre lo ha donato al suo unico Figlio generandolo, ad eccezione del suo essere Padre, anche questo procedere dello Spirito Santo a partire dal Figlio, lo riceve dall'eternità dal suo Padre che ha generato il Figlio stesso” (Denz.-Schönm., 1300-1301). Gli ortodossi usano il termine greco ekporeuomenon, che noi traduciamo con procedentem: il primo significa che lo Spirito Santo “trae la sua origine” dal Padre, il secondo è invece un termine più comune che non vuole significare altro che la comunicazione della divinità consostanziale del Padre sia allo Spirito Santo sia al Figlio (o, come dicono gli stessi ortodossi, “allo Spirito Santo attraverso il Figlio”). Ecco perché in latino è possibile estendere il procedentem anche al Figlio. Si tratta allora solo di una questione linguistica? Di fatto, quando la chiesa cattolica celebra il rito latino nella lingua greca, l’espressione “e dal figlio” non compare. “Dai tempi del Concilio Vaticano II si svolge un proficuo dialogo ecumenico, che sembra aver portato alla conclusione che la formula “Filioque” non costituisce un ostacolo essenziale al dialogo stesso e ai suoi sviluppi” (Giovanni Paolo II, Udienza Generale del 7 novembre 1990). Ai fini di operare la riunificazione completa coi fratelli di rito bizantino, il Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, a poche settimane di distanza dal celebre incontro di Giovanni Paolo II col Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, avvenuto il 29 giugno 1995, ha presentato sull’Osservatore Romano del 13 settembre 1995 una lunga trattazione sulla questione, ove compare una nota molto forte: “La chiesa cattolica riconosce il valore conciliare ed ecumenico, normativo e irrevocabile, quale espressione dell'unica fede comune della chiesa e di tutti i cristiani, del simbolo professato in greco dal II concilio ecumenico a Costantinopoli nel 381.” In pratica viene ricostruita l’unità dei cristiani attorno al Simbolo niceno-costantinopolitano. Questo naturalmente non ha impedito al “filioque” di abitare ancora nella liturgia (per lo meno di rito romano e di rito ambrosiano), così come abitano le tante altre formule più o meno antiche delle professioni di fede (CCC 192). Molto serenamente, il Catechismo della Chiesa Cattolica, è giunto infatti a dichiarare una compatibilità fra le due formule: “Questa legittima complementarità, se non viene inasprita, non scalfisce l'identità della fede nella realtà del medesimo mistero confessato” (CCC 248). Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato Le tre Persone divine vivono nella gloria. Non solo la gloria che scaturisce dalla natura trinitaria, ma anche quella riflessa dalle creature. Scrive l’apostolo Giovanni nell’Apocalisse: “Ogni volta che quei viventi rendono gloria, onore e ringraziamento a Colui che siede sul trono, e che vive nei secoli dei secoli, i ventiquattro vegliardi si prostrano dinanzi a Colui che siede sul trono per adorare Colui che vive nei secoli dei secoli; lanciano le loro corone dinanzi al trono dicendo: «Tu sei degno, Signore nostro e nostro Dio, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, perché sei tu che hai creato l’universo, ed è per tuo volere che l’universo, che non esisteva, fu creato»” (Ap 4,9-11). A noi umani non è facile comprendere correttamente il termine “gloria”, perché sulla Terra questa parola s’intreccia con la superbia, con la brama di potere, con la stessa “vanagloria”. La gloria terrena è qualcosa di vuoto, un’illusione; di essa l’antico Qoelet direbbe: “Tutto è vanità” (Qo 1,2). Ma in Cielo questa logica è completamente capovolta dall’ineffabile amore di Dio che pervade tutto ed irradia ogni creatura. Dio è certamente il Kyrios, il Signore assoluto di tutto, ma la sua signoria è una signoria d’amore: Egli regna amando, ed il suo regno è l’amore stesso in cui sono immersi i viventi, la sua luce di grazia che penetra sottilmente ogni essere conferendogli la somiglianza celeste, quella trasparenza e limpidezza che orienta ogni moto dello spirito unicamente al bene ed al puro servizio. E’ sì una sottomissione, ma una sottomissione angelica, in cui il riconoscimento di Dio come l’unico Signore è gioia piena, intima comprensione del senso di tutto alla luce della giustizia divina, che è pienamente compartecipata, consostanziale al proprio sentire. La gloria di Dio è per noi paradiso. Se la s’intuisse un solo istante, milioni di comportamenti abituali sarebbero stravolti; l’intera vita sbalzerebbe verso l’alto, e la nostra esistenza terrena verrebbe vissuta in modo totalmente diverso, perché diverrebbe irresistibile il desiderio di assomigliare a tutto questo, di attuare già quaggiù, nella misura del possibile, questa signoria celeste, che i vangeli ci hanno annunciato come in mezzo a noi, col nome di “Regno di Dio” (Lc 17,21). Cosa intende dunque il Simbolo del Credo con glorificare? Che significa rendere gloria? Se Dio è già nella gloria, come possono le creature, nella loro povertà, dare gloria a Dio? Significa rendere a Dio ciò che è di Dio, restituirgli quella somiglianza che ci ha donato. E c’è un solo modo per restituirla: viverla. Il mondo rende continuamente gloria ai suoi idoli, rende gloria al suo Cesare che impera ancora oggi. Ma Gesù, col noto esempio della moneta, ci indica che, pur rispettando i compiti che il mondo ci assegna, dobbiamo nella nostra vita voltarci verso Dio e rendere gloria solo a lui (Mt 22,21); perché noi assomigliamo a ciò verso cui rivolgiamo la gloria. Ecco perché ci è assai conveniente rendere gloria a Dio. Quella domanda che Gesù rivolge al popolo, “Di chi è questa immagine?”, non viene fatta, in realtà, indicando la moneta del tributo, ma la nostra anima. E’ puntando il dito alla nostra anima che Gesù ci chiede: “Di chi è questa immagine?”. Di chi portiamo l’impronta? Di chi siamo “immagine e somiglianza” (Gn 1,26)? Dobbiamo quindi restituire a Dio ciò che è di Dio. Tutto nel creato rende gloria a Dio. Anche un fiore che sboccia. Anche una stella che brilla rende gloria a Dio. E l’uomo? Come può rendere gloria a Dio? Cosa ha da dare a Dio se non ciò che da Dio riceve? L’uomo rende gloria a Dio quando gli restituisce la sua stessa luce. In fondo è come se tutti custodissimo dentro uno specchio. Spesso questo specchio è coperto di polvere, è sporco, non riflette alcuna luce, tanto che a volte non lo vediamo nemmeno. Ma se viene restituito alla sua funzione, se viene lucidato e ripulito, se viene di nuovo “orientato verso il sole”, verso Dio, ecco che anche noi rendiamo gloria a Dio. Restituendogli la sua luce. Diventando altri soli. Diventando anche noi stelle che brillano. E portando così la sua immagine. Rendendo gloria siamo in realtà glorificati noi. Allora la moneta della nostra vita è restituita a lui. Ed anche le nostre corone sono lanciate ai suoi piedi. Perché se è amando che si regna, regnando si dona. “Ha parlato per mezzo dei profeti” Il Dio della Bibbia è un Dio che parla. La sua comunicazione, però, non è mai astratta trasmissione di conoscenze o di voleri. Quando Dio rivela, innanzitutto si rivela, cioè comunica se stesso, e nel comunicarsi dona se stesso. Dire che Dio ha parlato per mezzo dei profeti significa dire che Dio ha salvato per mezzo dei profeti. E dentro questo modo di operare, i profeti non sono mai stati trattati come un semplice mezzo. Essi erano amati quanto e più dei destinatari del messaggio che attraverso loro scorreva. Ed anche quando la loro missione li poneva a dura prova, sottomettendo perfino ogni orgoglio, Dio alla fine si chinava su di loro coprendoli col conforto della sua ombra, così come fece amorevolmente ombra a Giona nello sconforto del deserto. E’ poi vero che ai profeti non è dato di sedersi a riposare in quella ombra, ed anche Giona vide seccare la sua pianta di ricino, ma questo proprio perché egli crescesse maggiormente, proprio perché la vita del profeta non è mai un mezzo, ma sempre anch’essa fine (Gio 3-4). Anzi, la vita dei profeti diventa spesso ai nostri occhi un vero modello, uno stile di vita, un esempio di condotta, o meglio un esempio di come porsi rispetto alle cose, di come metterci all’ascolto, di come entrare a nostra volta nel flusso ininterrotto delle comunicazioni di Dio. Senza i profeti, davvero alle nostre spalle ci sarebbe solo il deserto, il piatto scorrere del tempo privo di un senso. Con gioia leggiamo pertanto, anche a millenni di distanza, Isaia e Geremia, Baruc ed Ezechiele, Daniele ed Osea, Gioele ed Amos, Abdia e Giona, Michea e Naum, Abacuc e Sofonia, Aggeo e Zaccaria, Malachia e tanti altri che pure possiamo chiamare profeti perché hanno vissuto e parlato nel solco della parola di Dio. Profeti che, nella loro libertà, questo solco hanno talvolta lasciato; profeti che hanno corretto profeti, come Natan. Ma tutti protagonisti di un mistero che entra nel tempo e nella storia degli uomini. Un mistero che chiamavano JHWH, Elohim, El, El Shaddai, El Olam, El Haj, El Elion, Kodesh Israel, Elohe Hashamajim, il Signore Sebaoth, l’Unico, dai nomi infiniti. La brezza leggera, il vento impetuoso. Il fuoco ardente nel roveto. Fino al giorno in cui questo fuoco venne finalmente acceso per non essere più eccezionale teofania, ma permanente quotidianità. “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49). E gli apostoli lo videro questo fuoco. Era un fuoco acceso sulla riva del mare come sempre ne venivano accesi per asciugarsi, per cucinare e nutrirsi. Ma stavolta preparato e acceso da un Risorto (Gv 21). Un fuoco che li scaldava dentro, come sulla strada di Emmaus (Lc 24,32), un fuoco che come “vento gagliardo” aveva fatto irruzione nella loro vita posandosi su di loro (At 2,1-4). Era lo Spirito Santo. Il medesimo Spirito che aveva parlato per mezzo dei profeti. E che ora ardeva non in un roveto, ma nella stessa Parola fatta carne. E di conseguenza ardeva e parlava attraverso coloro che in Lui vivevano e vivono. Da Cristo è disceso un “popolo di profeti”, ed ogni cristiano ha, a suo modo, il dono della profezia, cioè di parlare in suo nome, di essere sale e luce. Certo occorre la “vigilanza del cuore”, occorre “essere sentinelle”, occorre prestare udito al richiamo di Dio ad Ezechiele e farlo nostro: “Figlio dell’uomo, ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia” (Ez 3,16-17). Troppe volte, dinanzi amici, parenti, colleghi di lavoro, il cristiano si rifugia nella finta amarezza del “Tanto non mi ascolterebbero!”. Se non ascoltano non si salvano, viene detto ad Ezechiele, ma se non parli non ti salvi nemmeno tu! (Ez 3,18.20). Dire “Ha parlato per mezzo dei profeti”, dirlo durante il Credo, cioè pregando, significa dire: riconosco che lo Spirito parla e si esprime per mezzo di me, che dentro questo popolo di profeti, che è la Chiesa, mi viene consegnata una speciale responsabilità: quella innanzitutto di ascoltare, rendendomi idoneo all’ascolto di Dio, e, come immediata conseguenza, quella di annunciare, vigilando sulle ferite dell’altro, accendendo il fuoco che lo scalda, “rimanendo svegli durante la passione”, come una sentinella, come una pianta di ricino che fa la sua ombra. “Credo la Chiesa...” Un bambino scappa di casa perché non ne può più di sua madre. In un primo tempo si gode tutta la sua libertà, vuole “sentirsi adulto”, e quindi va dove vuole e fa ogni cosa che gli passa per la testa; si diverte a compiere tutto ciò che prima gli appariva proibito. Col gruzzoletto che gli è rimasto in tasca si compra ogni genere di cose che desidera, mangia e beve tutto ciò che gli pare, si rotola completamente vestito nel fango, si arrampica per luoghi impervi e pericolosi. Ma dopo un po’ di tempo il bambino comincia a sentire un grande vuoto, si accorge che le sue giornate sono tutte uguali, che la sua vita non va in alcuna direzione. Non sopporta più i suoi vestiti sporchi e sudati, ed inoltre, finito il suo gruzzolo, comincia a fare i conti con la fame e con la sete. Le ferite che si è procurato arrampicandosi cominciano a fare infezione, e sente la febbre salirgli su per tutto il corpo. Lentamente riprende allora la strada di casa, pur aspettandosi le sfuriate di sua madre. Costei invece, appena rivede il figlio, piange di gioia, lo abbraccia, lo porta in casa, lo lava, gli cura le ferite, gli cambia i vestiti, lo nutre e lo disseta. Questo piccolo racconto, per certi versi molto simile a quello del figliol prodigo, fotografa gran parte dell’umanità attuale, che spesso rivendica capricciosamente una libertà fine a se stessa, e rifiuta la chiesa come madre. Vi sono cose, indispensabili alla nostra salvezza, che non possiamo procurarci da soli. Inizialmente quel “gruzzolo rimasto in tasca” ci dà come un senso di onnipotenza. Il tralcio staccato dalla vite, non ne conserva forse, per qualche giorno, ancora un po’ di linfa? Presto però ci si accorge che la vita viene meno, che l’anima si dissecca, che l’ubriacatura di libertà lascia in realtà, col tempo, una grande sete; una sete che può essere appagata solo dall’“acqua che scaturisce dalla roccia”, quella che sgorga dal costato di Cristo, che colma i fonti battesimali di tutto il mondo. Ci si accorge che solo presso questa Madre la nostra fame si sazia col pane che nutre davvero, quello che si diffonde da tutti gli altari come cibo di vita eterna. Ci si accorge che solo presso i suoi confessionali possiamo venire lavati dal male commesso, curati nelle più profonde ferite dell’anima, rivestiti di abiti nuovi nella luce del ritrovato stato di grazia. Ed è così che si diventa davvero adulti. E’ in questa Madre che a nostra volta si diventa madri, si genera e si salva con lei. Dai bassifondi di Calcutta alle periferie delle grandi città, non c’è angolo di mondo che non sia abbracciato dalla salvezza della Chiesa. Eppure, dicono alcuni, “Cristo sì, chiesa no”. Come se avessero in cantina la macchina del tempo per ritornare nella Palestina di 2000 anni fa ed incontrare là il Cristo, come se potessero sedersi ancora nel cenacolo fra Giuda e Gesù e prendere lì l’eucaristia, come se potessero travestirsi da mendicanti ciechi alle porte di Gerusalemme per sentirsi dire, anch’essi, “va’, ti sono rimessi i tuoi peccati!”. La Chiesa non è cosa “altra”, rispetto al Cristo, ma è bensì il modo con cui Cristo mi salva oggi, nel mio tempo e nella mia storia. Quando Gesù parla della Chiesa dice “Me”: chi tocca voi tocca Me, chi perseguita voi perseguita Me. E quando Saulo ordinava stragi contro la chiesa, facendo versare il sangue di molti cristiani, Cristo Risorto sulla via di Damasco lo rimprovera così: “Saulo, Saulo, perché Mi perseguiti?” (At 9,4). Un richiamo che dovrebbe far rabbrividire tutti coloro che, oggi infervorati dalla stessa febbre di Saulo, attaccano e devastano la Chiesa. Ma nessun attacco, né accusa, né diffamazione potrebbero staccare i cristiani dalla Chiesa (come Satana vorrebbe per aver buon gioco), poiché essi la amano come proprie membra. Di più, sanno scorgere in essa le membra del Cristo, ed ogni attacco alla Chiesa lo avvertono come colpo di flagello alle membra del Cristo, alle proprie membra. Essi non possono fare a meno di amarne i ministri, di amare intensissimamente il Papa, di amare tutti i propri Pastori e sacerdoti. E li amano anche quando ne vedono i difetti. Nessun laicista potrà mai capire questo, perché tutto avviene per vie soprannaturali ed invisibili, per incorporazione mistica al Corpo di Gesù. E’ la punta della lancia del cherubino, è la trasverberazione al nostro costato, è l’incarnata partecipazione al mistero di salvezza. Noi amiamo la Chiesa, e, dopo Cristo, non vi è nulla che amiamo di più. Essa è Cristo che cammina nella storia, che coi suoi piedi possenti estirpa arbusti e rovi, che con le sue mani piagate ci redime, con le sue spalle possenti ci sostiene: noi tutti indegni dal primo all’ultimo, noi tutti con passione così amati. “...Una, santa, cattolica e apostolica...” Perché il nostro antico Credo definisce la Chiesa una? Perché ha come origine Dio che è uno, e inoltre perché Gesù volle fondare una sola Chiesa. Si legge nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica che la Chiesa ha “come fondatore e capo Gesù Cristo, che ristabilisce l’unità di tutti i popoli in un solo corpo” (CCCC 161). La Chiesa dunque non solo è una, ma grazie allo Spirito che la anima è anche unificante. Si può dire che è unificante proprio in quanto una, ossia proprio in quanto attinge, tramite Cristo, direttamente all’unità di Dio. Oltre a questo, oltre cioè ad essere una ed unificante, la Chiesa è anche unica. “Essa ha una sola fede, una sola vita sacramentale, un’unica successione apostolica, una comune speranza e la stessa carità” (CCCC 161). Grazie a quest’unica fede, “l’unica Chiesa di Cristo, come società costituita e organizzata nel mondo, sussiste (subsistit in) nella Chiesa Cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui. Solo per mezzo di essa si può ottenere la pienezza dei mezzi di salvezza, poiché il Signore ha affidato tutti i beni della Nuova Alleanza al solo collegio apostolico, il cui capo è Pietro” (CCCC 162). Talvolta è stata fraintesa quest’espressione “subsistit in”, peraltro già presente nel Concilio Vaticano II (LG 8,2); qualcuno si è chiesto: perché invece di dire “sussiste nella” non si è semplicemente detto “è”? Non viene sminuita la piena identità tra la Chiesa Cattolica e l’unica Chiesa di Cristo? Proprio di recente, il 29 giugno 2007, una nota della Congregazione per la Dottrina della Fede ha precisato che in realtà l’uso di questa espressione “indica la piena identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica” (Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa, 3). Quanto alle Chiese e Comunità separate, “quantunque crediamo che abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso. Poiché lo Spirito di Cristo non ricusa servirsi di esse come strumenti di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica” (Unitatis Redintegratio 3,4). Naturalmente occorre distinguere fra chiese che hanno conservato intatti i sacramenti (come quelle ortodosse), e chiese prive della successione apostolica (come quelle protestanti). Le prime “pur non essendo in perfetta comunione con la Chiesa Cattolica, restano unite ad essa per mezzo di strettissimi vincoli, quali la successione apostolica e la valida eucaristia”, le seconde, prive per loro stessa scelta del sacerdozio ordinato, “non sono Chiese in senso proprio; tuttavia i battezzati in queste comunità sono dal Battesimo incorporati a Cristo e, perciò, sono in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa” (Dominus Jesus 17). La Chiesa di Cristo non è quindi la somma differenziata di tutte le chiese e le comunità cristiane, accidentalmente separatesi, ma è già visibile per intero nella Chiesa Cattolica “nella quale soltanto sono rimasti e rimarranno tutti gli elementi da Cristo stesso istituiti” (Unitatis Redintegratio 3). In essa si trova “la pienezza dei mezzi di salvezza” (CCCC 165), e per questo la chiamiamo anche santa, in quanto è la santità di Dio che l’ha fondata, ed è lo Spirito Santo che la abita e la vivifica (CCCC 165). Tramite questa stessa santità i cristiani possono perseguire la propria santificazione. Il Credo chiama anche la Chiesa cattolica, che significa universale perché “è inviata in missione a tutti i popoli di ogni tempo e a qualsiasi cultura appartengano” annunziando la totalità e l’integrità della fede (CCCC 166). Nella Nuova Alleanza, destinatario della salvezza non è solo un popolo, bensì l’universalità delle genti. Il messaggio della Chiesa, che è poi il messaggio di salvezza di Gesù, può essere rettamente assimilato da qualsiasi cultura e mentalità, e nessuno è escluso dalla totalità dei benefici portati e custoditi dalla Chiesa; perché katholikòs in greco non indica solo una somma, una pluralità di destinatari, ma, per ogni destinatario, la totalità della sua persona, in tutte le variabili delle sue espressioni. Infine il nostro antico Simbolo della fede chiama la Chiesa apostolica: questo non significa solamente che, per la sua origine, discende dagli apostoli o che è costruita sul loro fondamento; ma anche che la sua attuale struttura è apostolica, “in quanto istruita, santificata e governata, fino al ritorno di Cristo, dagli Apostoli, grazie ai loro successori, i Vescovi, in comunione col successore di Pietro” (CCCC 174). Pertanto anche l’intiero insegnamento della Chiesa “è quello stesso degli Apostoli”. Sant’Ireneo da Lione (130-202), nel suo scritto Adversus Haereses, dopo aver evidenziato il valore della successione apostolica, tanto da enumerare i successori di Pietro fino al suo tempo, e dopo aver messo in risalto il primato della Chiesa di Roma “nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la Tradizione che viene dagli Apostoli”, scrive: “Tali essendo dunque le prove, non si deve cercare presso altri la Verità, che è facile prendere dalla Chiesa, poiché gli apostoli ammassarono in lei, come in un ricco tesoro, nella maniera più piena, tutto ciò che riguarda la Verità, affinché chiunque vuole prenda da lei la bevanda della Vita”. “Professo un solo Battesimo per il perdono dei peccati...” “La Terra era informe e deserta, e le tenebre ricoprivano l’abisso, e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn 1,2). Fin dall’inizio la colomba dello Spirito cercava la propria immagine nell’acqua che aveva creato. Così “Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gn 1,26), e in Eden fu posto l’uomo, fra quattro corsi d’acqua generati nel deserto perché Dio ne aveva fatto scaturire un fiume (Gn 2,4-10). E come in uno specchio d’acqua, nell’uomo si riflettevano gli attributi di Dio. Ma, tra questi, anche quello della libertà, che comportava anche la libertà di sceglierlo come Padre. In verità, Dio era già “padre naturale” dell’uomo, ma nel suo amore non voleva che questa condizione non venisse scelta con consapevolezza, fatta propria come risposta a questo amore. Tale figliolanza non solo era un Suo diritto, ma era anche l’unica scelta ragionevole per l’uomo, se nella stessa Luce voleva vivere. Assenza di Dio poteva significare solamente assenza di Luce, e quindi tenebra. E poiché Dio è Bene perfetto e senza macchia, e non ama le mescolanze, “separò la luce dalle tenebre” (Gn 1,5). Ma “le tenebre ricoprivano l’abisso” (Gn 1,2), e pertanto scegliere le tenebre anziché la Luce, avrebbe certamente comportato la disperazione dell’abisso, la lontananza senza limiti. E così fu; una distanza incolmabile, che comportò non solo la perdita della figliolanza con Dio e della Sua immagine, ma anche una discendenza di peccato, perché chi nasce dalle tenebre vive nelle tenebre. Affinché questa discendenza si purificasse, nei giorni di Noè venne completamente immersa nell’acqua: “poche persone, otto in tutto, furono salvate. Figura, questa, del battesimo” (1Pt 3,20-21). Salvate dall’annunzio di una colomba, uscirono dalle acque, e dalla loro discendenza fu generato Abramo, che attraversò l’acqua del Giordano (Gn 32,11), ove “era un luogo irrigato da ogni parte” (Gn 13,10). Abramo seppe accettare il sacrificio del proprio figlio per riacquistare la paternità di Dio, e i suoi figli, numerosi come le stelle cielo, costellarono la storia. Attraversarono anch’essi di nuovo le acque, sotto la guida di Mosè. “Sia il firmamento in mezzo alle acque, per separare le acque dalle acque” (Gn 1,6). E così, attraverso il Mar Rosso, si diressero verso la Terra Promessa, immagine dell’Eden perduto, dissetandosi dall’acqua che sgorgava dalla roccia nel deserto (Es 17,1-7). Fino ai giorni in cui, in quella stessa terra, il sacrificio che era stato trattenuto in Abramo, non fu trattenuto in Cristo, come se il Padre avesse detto: “Sarò Io a sacrificare mio figlio”. Anche Gesù, dopo aver attraversato il deserto, attraversò le acque del Giordano, e dinanzi al Battista ricevette la colomba dello Spirito. “Splendono d’argento le ali della colomba, le sue piume di riflessi d’oro” (Sl 67,14). Giovanni aveva battezzato con acqua, invitando alla penitenza: era una preghiera penitenziale, non un sacramento, preparava il cuore dell’uomo, ma non toglieva i peccati. Gesù invece “passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente” (Sl 83,7). Tanto che il Battista poté dire: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato dal mondo! Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele. ... Ho visto lo Spirito Santo scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo” (Gv 1,29-33). Questo stesso battesimo, ora sacramento, Gesù lo consegnò alla sua chiesa: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo” (Mt 28,19). Da allora, Egli ancora toglie i peccati dal mondo, ma lo fa tramite la sua Chiesa, roccia da cui sgorga l’acqua nel deserto. “Chi ha sete venga a Me e beva, chi crede in Me; come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,37-38). Il santo Battesimo non venne mai interrotto, perché chi non ne attraversa le acque non può salvarsi: “In verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio (Gv 3,5). E poiché questo sacramento proviene da Dio che è uno, anche il battesimo è uno solo. “Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo” (Gn 1,9). In esso siamo strappati dalle tenebre e restituiti alla luce. Tramite questo sacro segno il cristiano è invitato a far proprio l’invito del profeta Isaia: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te” (Is 60,1-2). Grazie a questa immersione, il cristiano non solo riceve la vera vita, ma la trasmette agli altri: “Chi beve dell’acqua che Io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che Io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14). Ecco perché, come il profeta, il credente grida al suo prossimo: “O voi tutti assetati venite all’acqua!” (Is 55,1). Egli sa che dall’acqua del costato di Cristo, come da una roccia, sgorga di nuovo la vita che si riproduce, e perciò annuncia il miracolo operato dallo Spirito affinché di nuovo “le acque brulichino di esseri viventi” (Gn 1,20). “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà” “Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: saprete che io sono il Signore” (Ez 37,5-6). La profezia di Ezechiele (598 a.C.), passando attraverso la risurrezione di Cristo, diventerà promessa escatologica per tutti i credenti. Sarà proprio il Figlio di Dio, infatti, a identificarsi con la risurrezione stessa: “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11,25). Risurrezione, vita: le due realtà “aspettate” dal nostro Credo. Dicendo “aspetto la risurrezione”, diciamo, infatti, lo stesso che “aspetto Cristo”. E dicendo “aspetto la vita”, diciamo ancora “aspetto Cristo”. L’antichissimo Simbolo degli Apostoli, rispetto a quello di Nicea-Costantinopoli, sottolinea ancora di più la fisicità della nostra futura risurrezione, chiamandola “risurrezione della carne”. Scrive il profeta Ezechiele: “Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi resusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio” (Ez 37,13). E, quasi a voler fugare ogni perplessità, Dio conclude: “L’ho detto e lo farò” (Ez 37,14). Allo stesso modo, il Simbolo degli Apostoli, sottolinea però anche la dimensione spirituale di questa risurrezione, affermando che la vita del “mondo che verrà”, e da noi nel Credo attesa, non è la vita di questo mondo, ma è “la vita eterna”. Perché “chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno” (Gv 11,25-26). L’apostolo Giovanni vide, in visione, la realizzazione di questa promessa, e così la descrive nel libro dell’Apocalisse: “Vidi poi un grande trono bianco e Colui che sedeva su di esso. Dalla sua presenza erano scomparsi la terra e il cielo senza lasciar traccia di sé. Poi vidi i morti, grandi e piccoli, ritti davanti al trono. Furono aperti i libri, e fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a quanto scritto in quei libri ciascuno secondo le sue opere. Il mare restituì i morti che esso custodiva, e la morte e gli Inferi resero i morti da loro custoditi, e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere” (Ap 20,11-13). Successivamente l’apostolo descrive anche, dopo la scomparsa del cielo e della terra, la venuta del “mondo che verrà”: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap 21,1-3). Ecco la “dimora di Dio con gli uomini”, ove “non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà” (Ap 22,5). Si legge nel Catechismo degli Adulti della C.E.I.: “Con la letteratura sapienziale e apocalittica la speranza si estende anche ai morti: i giusti continuano a vivere nell’amicizia di Dio e nell’ultimo giorno risorgeranno con il corpo a nuova vita, mentre crollerà il vecchio mondo e dalle sue rovine ne germoglierà uno più bello. Intanto bisogna essere fedeli e perseveranti” (CdA 1173). L’attesa della realizzazione di questa stupenda promessa non deve vederci inattivi ed inoperosi, perché “ciò che è dono della Provvidenza è anche frutto della libera cooperazione dell’uomo. Gli uomini contribuiscono a preparare il futuro e a disegnarne la figura” (CdA 1179). Quest’insegnamento era già stato messo in luce dal Concilio Vaticano II: “Ignoriamo il tempo in cui saranno portati a compimento la terra e l’umanità, e non sappiamo il modo con cui sarà trasformato l’universo... Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, ma piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova, che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo” (Gaudium et Spes 39). La profezia del libro dell’Apocalisse che annuncia: “Tergerà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap 21,4), può già cominciare a compiersi fin da ora con i nostri gesti di amore e di carità, verso i fratelli che vanno custoditi come sentinelle, perché, se si risvegliano nella fede, si affiancheranno a noi e ci supereranno. Profeta non è, infatti, solo colui che vede il futuro, ma anche colui che ce lo fa vedere, che lo incarna, lo vive, lo anticipa, facendo suo il richiamo udito da Ezechiele: “Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano” (Ez 37,9). “Amen” Amen: così sia, cosi è, così credo. Il nostro antico Simbolo della Fede termina, come del resto anche la Bibbia, con la parola ebraica Amen, la cui radice si rifà alla stessa radice della parola credere. L’Amen finale della nostra Professione di Fede richiama quindi la stessa parola con cui inizia: Credo. Credere significa dire Amen alle promesse di Dio, fidarsi totalmente di Lui, essergli solidale e fedele (CCC 1064). Gesù Cristo stesso è l’Amen, come scrive l’apostolo Giovanni nel libro dell’Apocalisse: “Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio” (Ap 3,14). L’Amen ci rimanda quindi al principio della creazione, per riconoscere le nostre radici e ripercorrerne la storia della salvezza. Oltre alla nostra fiducia in Dio, l’Amen esprime anche la sua fiducia in noi, la sua fedeltà, la speranza che quanto promesso si realizzi. La virtù cristiana della speranza non è un semplice desiderare o auspicarsi, ma attesa certa. Quando Maria riceve l’annuncio dell’Incarnazione, ella non vive la speranza come semplice desiderio di una probabilità, ma attende, sa. Allo stesso modo il cristiano, col suo Amen, attende in modo certo che tutto si compia, perché già “tutto è compiuto” (Gv 19,30). Fecondato dal Credo anch’egli attende, e, portando in grembo Cristo, sa che Egli viene. Tutta la Chiesa, anzi tutta la creazione, Lo ha in gestazione, vivendo continuamente le doglie del parto (Rm 8,22). Il Dio dell’Amen non manca alla parola data. Questo lo crediamo e lo speriamo. “Spe salvi facti sumus”, nella speranza siamo stati salvati, scrive San Paolo (Rm 8,24). “Speranza, di fatto, è una parola centrale della fede biblica, al punto che in diversi passi le parole ‘fede’ e ‘speranza’ sembrano interscambiabili” (Enciclica Spe Salvi, 2). E questa speranza noi cristiani la esprimiamo col nostro Amen a Cristo. Scrive San Paolo ai Corinzi: “Tutte le promesse di Dio in lui sono diventate ‘sì’, Per questo sempre attraverso di lui sale il nostro ‘Amen’ per la sua gloria” (2Co 1,20). Il momento liturgico in cui facciamo nostre queste promesse, e ci impegniamo a realizzarle anche con la nostra vita, è il Credo, il nostro Amen a Dio. “La vita cristiana di ogni giorno sarà allora l’Amen all’«Io credo» della professione di fede” (CCC 1064). Riconoscendosi nei contenuti del Credo, il cristiano ne assume la forma, incarna la missione di Cristo nella sua storia. Sant’Agostino (354-430), la cui vita è attraversata proprio dal Concilio di Costantinopoli del 381 che regala alla cristianità la formula definitiva e completa del Simbolo della Fede, scrive nei suoi Sermoni: “Il Simbolo sia per te come uno specchio. Guardati in esso, per vedere se tu credi tutto quello che dichiari di credere e rallegrati ogni giorno per la tua fede” (Sermones, 58,11,13). E se davvero il cristiano, col suo Amen, dice questo sì a Dio, allora tutta la sua vita proclama: “Grazie Signore per avermi pensato fin dagli inizi, per aver creato l’Universo, e, in esso, gli uomini a immagine di te; grazie per il tuo piano di salvezza che fin dal giorno della prima caduta ci ha mostrato i segni della tua misericordia; grazie per i patriarchi ed i profeti da Te inviati, per il dono delle Scritture che nei secoli ci hanno illuminato e guidato; grazie per la Tua venuta sulla Terra, per le parole di luce e di vita con cui ci hai ammaestrati, per come ci hai amati e fatti tuoi discepoli; grazie per la Tua opera di redenzione che hai attuato attraverso la Croce e la tua Risurrezione; grazie per l’immenso dono della Chiesa, in cui hai riposto ogni tesoro di salvezza; grazie per la saggezza donata ai suoi Padri, per mezzo dei quali lo Spirito Santo ha continuato a parlarci; grazie per il mistero di sapienza custodito nella Tradizione, che attraverso il Magistero giunge fino a me; grazie per il dono di tutti i santi e sante che nei secoli hanno riflesso la tua immagine ed il tuo volto; grazie per il dono della vita, naturale e spirituale, per i miei talenti innati e per tutti i carismi dello Spirito; grazie per il dono soprannaturale dei tuoi Sacramenti, nei quali hai racchiuso, coi tuoi meriti, la Grazia santificante; grazie per avermi reso compartecipe al tuo disegno di salvezza, perché tu ami attraverso di me, annunci attraverso di me, salvi attraverso di me; nella speranza della vita eterna. Amen”. ooo§§§ooo