29 giugno - Progetto Culturale

XX Giornata Mondiale della Gioventù
Colonia 16 – 21 agosto 2005
Catechesi
Mercoledì 17 agosto 2005
“Dov’è il re dei giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella” (Mt 2,2)
Introduzione
Abbiamo iniziato la celebrazione della XX GMG...
Forse dovremmo anzitutto salutarci con un accogliente e fraterno “Benvenuto”, o forse, meglio,
anche con un più gioioso “Bentornato”.
Senza nulla togliere al ruolo di “padroni di casa” che è proprio dei nostri fratelli tedeschi che ci
ospitano in questi giorni, credo che, almeno per aver partecipato ad altre più o meno numerose
GMG possiamo salutarci come quelli che nella GMG si sentono di casa.
Personalmente io, purtroppo esclusa quella di Buenos Aires del 1987, ho partecipato a tutte le
GMG e, naturalmente, anche a qualcuna delle Giornate Europee della Gioventù.
Se vi venisse spontaneo il fare un po’ di conti, … considerando che nel 1985, quando il Papa
Giovanni Paolo II convocò per la prima volta una GMG, ero sacerdote già da sette anni … forse
vi chiederete come possa pensare, a 55 anni, di partecipare ancora ad una GMG.
Credo, però, che se ci sente di casa nella GMG, non possa essere diversamente.
Infatti chi ha cominciato il cammino delle GMG sembra non saperlo più interrompere: davvero
rimane giovane nel cuore, ovvero sente che la giovinezza è un suo modo di essere, un modo di
essere fatto di ricerca gioiosa e di desiderio di dialogare, di amicizia e speranza di camminare
insieme.
Per questo l’invito del Papa, risuonato costantemente, e con forza, in ciascuno dei messaggi ai
giovani in questi venti anni, ha sempre messo al centro l’annunzio della presenza di Gesù, del
Signore della vita, che viene a dialogare con noi e accoglie ogni nostra ricerca di verità e di luce,
ogni nostra speranza di libertà nel bene, ogni nostra ansia di fraternità tra gli uomini e ci permette
di stare con Lui, nella sua amicizia… per sempre.
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Nella lettera Apostolica con cui indisse la prima GMG, nel 1985, Giovanni Paolo II commentò a
lungo l’incontro di Gesù con un giovane ricco che aveva chiesto al Maestro cosa dovesse fare,
avendo già sempre osservato i comandamenti, “per ottenere la vita eterna”. (Mt 19, 16) E
poiché, come ricordate, il giovane non accettò l’invito di Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va, vendi
quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”, ed anzi,
come raccontano gli Evangelisti, “se ne andò triste; poiché aveva molti beni” (Mt 19, 22), il
Papa si chiedeva cosa potesse aver spinto quel giovane ad avvicinarsi con tanta speranza a Gesù e
poi ad allontanarsene con tanta tristezza nel cuore. E scriveva:
“ … sulla decisione del giovane di allontanarsi da Cristo hanno pesato in definitiva solo le
ricchezze esteriori, ciò che quel giovane possedeva (“i beni”). Non ciò che egli era! Ciò che egli
era, proprio in quanto giovane uomo, cioè la ricchezza interiore che si nasconde nella
giovinezza umana l'aveva condotto a Gesù. E gli aveva anche imposto di fare quelle domande, in
cui si tratta nella maniera più chiara del progetto di tutta la vita. Che cosa devo fare? “Che cosa
devo fare per avere la vita eterna”? Che cosa devo fare, affinché la mia vita abbia pieno valore
e pieno senso?
La giovinezza di ciascuno di voi, cari amici, è una ricchezza che si manifesta proprio in questi
interrogativi. L'uomo se li pone nell'arco di tutta la vita; tuttavia, nella giovinezza essi si
impongono in modo particolarmente intenso, addirittura insistente. Ed è bene che sia così.
Questi interrogativi provano appunto la dinamica dello sviluppo della personalità umana, che è
propria della vostra età. Queste domande ve le ponete a volte in modo impaziente, e
contemporaneamente voi stessi capite che la risposta ad esse non può essere frettolosa né
superficiale. Essa deve avere un peso specifico e definitivo. Si tratta qui di una risposta che
riguarda tutta la vita, che racchiude in sé l'insieme dell'esistenza umana”.
Sono domande che coinvolgono tutta la nostra esistenza e si pongono e si ripropongono
continuamente in tutte le età dell’uomo che ama la vita e la ricerca nelle sue forme più intense e
più vere.
Eccoci, allora, qui, con tanta gratitudine al Signore che ci ha convocato nella Chiesa,
indipendentemente dalle nostre età anagrafiche, a dialogare in fraternità per cercare la presenza di
Colui che è “la luce del mondo” e per adorare Lui, per immergere la nostra vita in Lui che è “la
luce della vita” (Gv 8,12).
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La domanda
Quando si parla dei Magi, o dei Re Magi, come spesso diciamo nella nostra tradizione, il
pensiero va subito al presepe, a quella costruzione spesso ricca di molte e diverse figure di
personaggi che verosimilmente potrebbero aver popolato l’ambiente e la notte santa della nascita
di Gesù. Nel presepe, forse anche nelle nostre case, da bambini abbiamo sempre messo i Magi,
con i loro doni, con i cammelli e con i loro accompagnatori, nel punto più lontano dal povero
luogo (una grotta o una capanna…) in cui avevamo collocato le immagini della Natività del
Signore, così, avvicinandoli a brevi tratti, un po’ per volta ogni giorno, potevamo riprodurre il
loro viaggio guidato dalla stella.
Il Vangelo di Matteo, però, al capitolo 2, non si attarda in particolari per annunziarci la nascita di
Gesù, infatti, con la semplicità delle cose intense, dice:“Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al
tempo del re Erode” (Mt 2,1). Poi subito aggiunge: “Alcuni Magi giunsero da oriente a
Gerusalemme e domandavano: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua
stella e siamo venuti per adorarlo»” (Mt 2, 1-2).
Betlemme, in quel tempo, era un modesto villaggio a non molti chilometri da Gerusalemme.
Gesù nacque a Betlemme, i Magi arrivarono prima a Gerusalemme e lì posero la loro domanda.
Considerata la distanza e la diversa condizione dei due centri, non ci meraviglia che a
Gerusalemme, la capitale del regno, non si sapesse nulla di quel bambino nato a Betlemme, “così
piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda” (Mi 5,1), come l’aveva descritta il Profeta, e per
giunta in condizioni di grave povertà e di emarginazione sociale.
Ma la domanda dei Magi non fu una semplice richiesta di informazioni, come di chi potrebbe
chiedere indicazioni circa una direzione da prendere, tant’è che l’evangelista Matteo annota che
“All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme” (Mt 2,3). La
domanda dei Magi, infatti, aveva il sapore di un’affermazione sicura: “è nato”, c’è il segno, la
stella.
La domanda dei Magi somiglia, credo, a quella di tanti uomini e donne, a quella di tanti giovani
che, come spesso è accaduto nel corso della storia, hanno chiesto di essere aiutati ad incontrare la
verità. Tanti uomini e donne hanno chiesto di essere aiutati ad incontrare la verità che essi
sentivano già forte e viva nel loro cuore come la speranza della loro vita. E lo hanno chiesto a chi
forse avrebbe dovuto saper dare indicazioni vere, sicure: a maestri, a sacerdoti, a sapienti, a
religiosi, a dotti, a governanti, ad amici.
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Da questi, a volte si sono avute risposte ricche di un fecondo entusiasmo di condivisione del
cammino. Altre volte, o forse più spesso, la convinzione di chi voleva proiettare tutto se stesso
nella ricerca ha incontrato il balbettio imbarazzato di chi non è riuscito ad argomentare altro che
delle incertezze. Purtroppo, spesso l’entusiasmo convinto, proprio di un animo giovane,
generosamente e totalmente proteso nella ricerca della verità, della vita, si è come frantumato
davanti alla presunzione o alla sufficiente delusione di chi ha potuto pensare di dimostrare che la
verità in assoluto o è tanto astratta da risultare irraggiungibile, o non è realizzabile se non
attraverso una serie di compromessi con i limiti delle situazioni e degli interessi di più bassa
levatura dell’umanità.
La verità non è lontana
Se tanti hanno chiesto, e continuano in ogni epoca del mondo a chiedere, di essere aiutati ad
incontrare la verità, significa che nel loro intimo è già maturata una certa consapevolezza di ciò
che cercano, ma che la ricerca non è veramente giunta a quella maturità, a quella pienezza di
consapevolezza o di condivisione da diventare la propria vita, l’orizzonte di interpretazione e di
giudizio per ogni scelta, la speranza che muove tutta la propria passione per il bene.
Pensate a quando si avvicinò a Gesù “uno degli scribi” che… gli domandò: «Qual è il primo di
tutti i comandamenti?». Il Vangelo di Marco ci dice che tra questo scriba e il Maestro si sviluppò
un dialogo intenso ed articolato sull’ “Amare Dio con tutto il cuore… ed il prossimo tuo come te
stesso”. E Gesù apprezzò quell’uomo tanto che concluse dicendogli: “Non sei lontano dal regno
di Dio” (Mc 12, 34).
Non sappiamo se quello scriba sia poi entrato nel numero dei discepoli del Signore, o se, come il
giovane ricco se ne sia allontanato perché richiamato da altre realtà o da altre forme di ricchezza.
Certo, Gesù, come rimase triste nel vedere il giovane ricco che si allontanava dopo averne accolto
la domanda, così qui sembra riconoscere che lo scriba ha incrociato la verità, ha intuito la via
della perfezione, della pienezza della vita.
Giovanni Paolo II, nella lettera enciclica “Fides et ratio”, nel 1998, scriveva:”Sia in Oriente che
in Occidente, è possibile ravvisare un cammino che, nel corso dei secoli, ha portato l’umanità ad
incontrarsi progressivamente con la verità e a confrontarsi con essa”.
Come dire che ogni pensiero dell’umanità, ogni sentimento dell’uomo, le sue conoscenze e le sue
tensioni sono un continuo cercare la verità del suo essere e la verità del suo rapporto con gli altri,
con la terra, con l’universo, con il tempo e con ciò che è oltre il tempo. Quando una persona si
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mette con sincera libertà sulla via di questa ricerca, possiamo dire che “non è lontano” dalla
verità, da Dio che è la verità. La domanda di verità e di vita, allora, è quanto di più vivo emerge e
spinge la nostra giovane persona verso l’incontro con Colui che è l’Altro che viene incontro a noi
e ci accoglie e ci offre la luce della sua sapienza.
Nel messaggio per l’VIII G.M.G. che si tenne a Denver nel 1993, Il Santo Padre Giovanni Paolo
II scrisse: “Per poco che siamo attenti a noi stessi ed agli scacchi a cui l’esistenza ci espone, noi
scopriamo che tutto dentro di noi ci spinge oltre noi stessi, tutto ci invita a superare la tentazione
della superficialità o della disperazione. E’ proprio allora che l’essere umano è chiamato a farsi
discepolo di quell’Altro che infinitamente lo trascende, per entrare finalmente nella vita vera”.
Dunque non c’è da temere la difficoltà e nemmeno quelle forme di insuccesso che sembrano
spingere verso il nulla la nostra esistenza: in tutte le espressioni della nostra vita risuona come
una parola che, a volte con voci di entusiasmo, a volte come smarrita in un grido di dolore,
testimonia la ricerca della presenza di ciò che è altro: della luce oltre le tenebre, della giustizia
oltre la prepotenza, della bontà oltre la meschinità, della libertà oltre la necessità, della verità oltre
l’apparenza, della vita oltre la morte.
L’altro che cerchiamo non è qualcosa, ma è l’Altro uomo, l’ uomo nuovo, il Figlio di Dio, la
verità che ci è donata dal Padre della vita, Gesù è il nostro Maestro e Signore.
Il Vangelo è la “buona notizia” perché in ogni sua pagina leggiamo il racconto del mirabile venire
di Dio incontro alla domanda dell’umanità, alla sua sete di verità. Sono stupendi tutti quei
dialoghi che Gesù intesse con tanti peccatori, con tanti ammalati, con tanti personaggi di cui
anzitutto sembra far emergere la profondità della loro ricerca di vita e di verità. Ancora più
stupendo è il fatto che Gesù non solo accoglie con simpatia la fatica della ricerca degli uomini,
ma in alcuni casi sembra addirittura commuoversi davanti ai loro sforzi ed alla confusione in cui
si dibattono.
Gli uomini e le donne che Gesù incontra sembrano chiedere tante cose, ma il Maestro riesce a
mettere ordine nelle loro domande e riconduce il discorso all’essenziale, alla loro ricerca di quella
verità che è acqua viva per la quale non si avrà più sete, “… sorgente di acqua che zampilla per
la vita eterna” (Gv 4, 14), come disse alla Samaritana al pozzo di Giacobbe.
Le confusioni che soffocano la ricerca
Una delle preoccupazioni fondamentali ed un’esortazione costante del Pontificato di Giovanni
Paolo II, espressa con forza anche nelle G.M.G., è stata quella di richiamare tutti a non perdere la
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fiducia nella ricerca della verità, ma anzi a mettersi “sul cammino che conduce alla vera
sapienza… per raggiungerla e trovare in essa riposo alla fatica e gaudio spirituale” (Fides et
ratio 6).
Questo, per noi, e forse per voi più giovani in particolare, oggi non è facile. Infatti, in questo
nostro tempo, così segnato dal relativismo, c’è il rischio che anche la più positiva forma di
rispetto della soggettività di ciascuno facilmente scada nell’affermazione che tutte le posizioni si
equivalgono, che tutte le fedi, religiose o non religiose, siano tra loro simili, che ogni verità è
infine verità solo per chi la ritiene tale. “Non si può negare”, scriveva il Papa, “che questo
periodo di rapidi e complessi cambiamenti esponga soprattutto le giovani generazioni… alla
sensazione di essere prive di autentici punti di riferimento”.
Il relativismo, che sembra oggi condizionare le scelte ed il pensiero della nostra società, è un
pericolo grave, banalizza ed annulla la domanda di verità che nasce dal cuore dell’uomo, la
strumentalizza, nel senso che la immagina come una mera necessità da soddisfare per raggiungere
una situazione di benessere individuale. Vi confesso che ho provato veramente grande tristezza
quando ho sentito qualcuno che, magari con un sorriso compiacente, veniva ad accompagnare in
chiesa un proprio bambino, o anche una persona più anziana solo perché questa ci teneva tanto e
dopo… si sarebbe sentita meglio…
E’ ovvio che questa è la più subdola e terribile negazione della verità, perché nega la possibilità
dell’esistenza di una verità viva e universale, e usa la domanda propria del cuore dell’uomo come
un banale istinto che chiede una soddisfazione.
Di questo, che già il Concilio Vaticano II chiamò “materialismo pratico” (GS 10), è come
impregnata la vita di molti uomini e di ogni epoca. Ne sono esempio concreto il re Erode e “tutti i
sommi sacerdoti e gli scribi del popolo” (Mt 2,4). Essi, pur avendo trovato proprio nelle pagine
dei loro Libri Sacri, proprio in quelle parole dei Profeti che erano il fondamento e la speranza
della loro orgogliosa appartenenza al popolo di Dio, la più autorevole conferma dell’annunzio
contenuto nella domanda dei Magi, non parteciparono al cammino vissuto con determinazione da
quegli strani personaggi venuti da un lontano oriente. Erode ed i suoi consiglieri sembrano essere
di quelli che, pur avendo la possibilità di conoscere la verità, mentre l’affermano sembrano
giudicarla astratta, lontana e non realizzabile nella loro vita.
Forse sono tra coloro che pensano che al mondo troppe cose vanno in senso contrario alla volontà
di Dio per affidarsi veramente alla sua misericordia. Essi sono tra coloro che sanno che esiste un
Dio, ne ascoltano la parola, ma forse non credono più alla possibilità di vedere realizzata la
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promessa della sua presenza redentrice nella storia del mondo, o la sentono tanto lontana che
quasi non li riguarda direttamente. Sono tra coloro che usano il nome di Dio, ma non cercano e
non sentono la novità della sua presenza.
Il dramma di Babele
Erode ed i suoi non hanno raccolto l’invito a guardare al cielo, né hanno volto la loro attenzione
alla parola che li chiamava ad un dialogo di vita. Ma nella storia tanti altri uomini hanno alzato lo
sguardo al cielo. E quando non lo hanno fatto come i Magi per cercare la presenza della verità,
hanno immaginato di usare il cielo per tentare di affermare un loro dominio sulle cose della terra.
Le conseguenze sono state sempre terribili per la vita dell’uomo che è finita sempre per
ripiombare nella miseria della sua drammatica solitudine.
E’ stato questo, e per tanti è ancora questo, il dramma di chi ha sentito come scritta nei
movimenti degli astri la propria sorte. Favorevole o sfavorevole che potesse essere la propria
sorte, chi ha guardato ai cieli con questi pensieri ha sentito la sua vita come un’impietosa
condanna scritta da un destino irragionevole. Quanta rassegnata tristezza in questa umanità che
non osa neppure alzare il capo e si rifiuta di pensare e di coltivare sentimenti propri sentendosi
soffocata dall’ineluttabilità della sorte.
Ma: ricordate la storia della Torre di Babele?
E’ narrata nel Libro della Genesi (capitolo 11). Racconta di uomini che si intendevano bene tra
loro, infatti parlavano “una sola lingua” e usavano “le stesse parole”. Sono l’immagine di
un’umanità che ha acquisito una certa capacità di fare, un’umanità che ha molta sicurezza per
aver imparato a costruire con la tecnica ciò che ordinariamente si cerca nella natura. Sono gli
uomini che sanno fare i mattoni cuocendoli con il fuoco, e quindi possono sostituire
efficacemente la pietra per le loro costruzioni. Come dire che possono creare da sé ciò che è utile
e serve alle loro necessità. Sono talmente soddisfatti delle loro capacità che guardano ogni cosa
nell’ottica dell’utilità e non hanno alcun bisogno di un Altro. Fare qualcosa di grande dovrà
servire solo ad affermare la loro presenza: “costruiamoci una città ed una torre, la cui cima
tocchi il cielo e facciamoci un nome” (Gen 11, 4).
Il loro tentativo finì miseramente nella confusione dei linguaggi e con la dispersione dell’umanità
frantumata in una miriade di identità e caratterizzazioni diverse al posto dell’unico nome che
avevano tentato di costruirsi.
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Ancora più drammatico, credo il più terribile di tutti i racconti in cui l’antichità ha sintetizzato
l’immagine di un atteggiamento dell’umanità nei confronti della terra e del cielo è il mito di
Prometeo. Il racconto descrive la miseria dell’umanità che, vivendo su una terra totalmente e
sempre avvolta da una nebbia fitta ed impenetrabile dai raggi del sole, soffre una condizione di
enorme difficoltà per la sua sopravvivenza. Poiché la mancanza di sole non permette alla terra di
produrre i suoi frutti, l’umanità soffre la fame e subisce tutti i malanni propri di un ambiente
sempre freddo ed umido. Unica speranza di sopravvivenza per gli esseri umani è il cercare di
guadagnarsi i favori della divinità che li concede in cambio di doni abbondanti e ricchi. Prometeo
è l’eroe che si ribella a questa drammatica condizione e mostrando un coraggio sovrumano
attraversa la nebbia e raggiunge il sole da cui ruba una scintilla del suo fuoco. Diventata capace di
usare il fuoco, l’umanità impara a cucinare i cibi, a riscaldarsi, a fondere i metalli e a fabbricarsi
più efficaci utensili per il suo lavoro, così che non ha più bisogno di portare doni alla divinità per
ottenerne i favori, ma realizza da se stessa ciò che rende più agevole la sua vita. Ciò,
naturalmente non piacque alla divinità che condannò l’eroe Prometeo ad un supplizio terribile ed
eterno.
Anche il racconto di questo mito offre la lettura di tanti elementi significativi, sicuramente anche
molto attuali, ma a noi interessa qui sottolineare come da esso emerga la tensione di un conflitto
insanabile ed irriducibile tra due realtà che mirano a combattersi per tentare l’una di sottomettere
l’altra e contendersi gli elementi vitali. Prometeo è l’immagine di quell’umanità che guarda al
cielo come ad una presenza prepotente e nemica contro cui lottare per emancipare la terra da
un’ingiustizia mortale. Anche in questa situazione la conclusione è drammatica nella disperazione
di una rabbiosa solitudine. Da questo racconto escono tutti apparentemente vincitori ma
sostanzialmente sconfitti: è vincitore Prometeo che ha vinto la crudele prepotenza della divinità
portando il fuoco sulla terra, ma rimane sconfitto nel terrore di un supplizio ingiusto quanto
incancellabile; è vincitore la divinità che sfoga la sua rabbia su Prometeo che le ha rubato il
fuoco, ma rimane sconfitta nel momento in cui non può più fermare il progresso che l’umanità
vive ora in assoluta autonomia, ignorando le sue pretese di superiorità.
I Magi e la stella
Ma torniamo finalmente a i nostri santi Magi. Anch’essi sono un’icona: rappresentano quella
stupenda parte di umanità che non vuole possedere né la terra né il cielo, ma in ogni cosa della
terra e del cielo riconosce un segno, una parola. I Magi non vogliono possedere le stelle per
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potervi leggere o per determinare una loro sorte favorevole, né vogliono innalzarsi sulla terra per
affermare una loro capacità e potenza, nemmeno vogliono strappare ad alcuno ciò che potrebbe
sviluppare energia utile ad una propria necessità. Nemmeno vogliono pensare di possedere una
parola di Dio per trovare in essa il fondamento ad un sistema di organizzazione sociale. I Magi
vedono un segno nel cielo e si mettono in cammino per andare ad un incontro. Portano dei doni
con i quali, nel linguaggio umano esprimono ciò che cercano e ciò che sanno di trovare in Colui
che “è nato”. L’oro esprime la regalità di Gesù, ma anche la ricchezza che Egli, “uomo nuovo”
porta all’umanità; l’incenso testimonia la fede nella divinità di Gesù, ma anche l’apertura
all’eterno ed all’infinito che Egli viene ad annunziare alla vita ed alla storia dell’umanità; la mirra
è il riconoscimento della passione redentrice di Gesù, ma anche la presentazione della sofferenza
di tutta l’umanità a Colui che solo l’accoglie con amore che salva e guarisce.
Qui si celebra il mirabile incontro tra la terra ed il cielo, quel dialogo di vita per il quale tutto è
segno di una presenza che si offre ad una comunione generosa. I Magi, diceva S. Pietro Crisologo
nel V secolo: “con grande stupore… vedono … il cielo calato sulla terra, la terra elevata fino al
cielo, l’uomo in Dio, Dio nell’uomo”.
Nella ricerca dei Magi, nella loro fedeltà al cammino segnato dalla stella, nella loro libertà di
tensione verso la verità, si riconosce il dono di Dio all’uomo: la rivelazione della sua presenza di
pace, di riconciliazione, di comunione, di vita.
Concludo ancora con le parole di Giovanni Paolo II: “La Rivelazione cristiana, che si incontra in
Gesù di Nazareth, è la vera stella di orientamento per l’uomo che avanza tra i condizionamenti
della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica; è l’ultima possibilità
offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto originario di amore iniziato con la creazione”
(FeR 15).
+ Angelo Spinillo
Vescovo di Teggiano-Policastro
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