SCENE DI CONSULENZA Tiziano Possamai aut aut, 332, 2006, pp

annuncio pubblicitario
SCENE DI CONSULENZA
Tiziano Possamai
aut aut, 332, 2006, pp. 67-84
Scene di consulenza
TIZIANO POSSAMAI
Se la felicità fosse veramente desiderabile per l’uomo, l’idiota
sarebbe l’esemplare più bello di umanità.
F. Nietzsche
V
edi, Falk, c’è una grande saggezza nelle barzellette. Sul serio! Ce n’è una
vecchia su un pugile che sta sul ring e lo stanno uccidendo. Gli stanno
spappolando il cervello. La madre è tra il pubblico e lo guarda mentre lo
fanno a pezzi sul ring. E c’è un prete accanto a lei, così gli dice: padre, preghi per lui,
preghi per lui! E il prete dice: beh, io prego, ma se lui dà qualche cazzotto è meglio!
C’è più acume in questa barzelletta, in ciò che io chiamo l’immenso, che in tanti libri
di filosofia.
Riso e pericolo
Una delle più interessanti e originali introduzioni (di certo la più divertente) al fenomeno
“consulenza filosofica”, a mio parere, non è un libro ma un film. Un film che si prende gioco,
fin dalle battute iniziali, di entrambi i termini della questione, filosofia e consulenza appunto.
Eppure non dalla “filosofia” e nemmeno dalla “consulenza” sembra prendere, più o meno
definitivamente, le distanze. Semmai proprio nel prendere tale “distanza” sembra piuttosto
suggellarne lo spazio di una possibile, futura, proficua convergenza. Nel senso che il riso
provocato dalle scene iniziali non può fare a meno di rievocare, quasi ne fosse il limite di
apertura corrispondente, un altro ben più famoso iniziale sorriso: quello che inaugura la storia
stessa del pensiero filosofico, che ha per protagonista Talete (il primo filosofo e saggio della
nostra tradizione antica) e che Gerd Achenbach (il primo “filosofo consulente” della nostra
epoca) riflettendo su di esso e sulla storia della sua ricezione,1 “al fine di dare una
1
Cfr. H. Blumemberg, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria (1987), Il Mulino, Bologna
1988.
2
presentazione indiretta della consulenza filosofica, ma anche, in particolare, dei pericoli che la
minacciano”,2 definisce come il “pericolo specifico della filosofia” e della suddetta
convergenza. Più precisamente: “Quel pericolo estremo a cui si espone colui che si butta
nell’impresa rischiosa della consulenza filosofica”;3 che la filosofia, cioè, in tutta questa
storia, e sempre con le sue parole, “subisca ancora il destino di Talete. Le servette che oggi
deridono e che si troveranno sul posto se noi falliremo, non sono più certo provenienti dalla
Tracia, ma saranno di provenienza viennese”.4
Una precisazione che se da un lato sembra farsi sfuggire il buon auspicio di un tale
“destino”, dall’altro non manca di segnalarci, prima ancora di una qualsiasi differenza, una
prima curiosa prossimità tra filosofia nella sua veste teorica e filosofia nella sua veste pratica
della consulenza, curiosa perché trova nel sopra indicato “pericolo” il suo punto di massima
convergenza5 (come se essa, in qualunque modo si muovesse, portasse sempre con sé l’ombra
– o piuttosto l’assillo? – del proprio scherno); e che rende al contempo ancor più indicativo
l’accostamento al film in questione, la cui comicità, in un intricato sovrapporsi di risa, non
risparmia di certo tali “provenienze”. E se in parte, questa volta, per certi versi lo fa, è solo il
segno del venir meno di una loro preminenza. Ma cerchiamo di andare con ordine.
Innanzitutto il film in questione è Anything Else di Woody Allen: la storia di un giovane
aspirante scrittore, Jerry Falk, in crisi e in analisi da diversi anni (da uno psicanalista
pressoché muto), che trova la soluzione ai suoi problemi grazie agli illuminanti consigli
filosofici di uno scentrato professore, David Dobel (lo stesso Allen), conosciuto per caso in un
ufficio di New York.6 Chi se non Allen d’altronde poteva continuare a dilettarci con gli
“effetti collaterali”7 di questo passaggio d’epoca su cui schiere di “scienziati sociali”
dibattono da tempo? A cominciare dal sempre più rumoroso silenzio di un sapere e di una
pratica (la psicanalisi appunto) che, dopo averne percorso e fissato alcuni luoghi essenziali,
sembra sempre più collocarsi dall’altro lato di questo passaggio, lasciando così sempre più
2
G. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita (1987), Apogeo, Milano
2004, p. 41.
3
Ivi, p. 46.
4
Ivi, p. 56.
5
Se il riso della donna di Tracia, come ci ricorda Blumenberg, segna la distanza fra teoria e mondo della vita, e
se la consulenza filosofica, come ci insegna Achenbach, è quel movimento che si propone in qualche modo di
ridurre questa distanza, allora forse dovrebbe cominciare a farsi carico di questo riso invece di viverlo come un
pericolo da evitare. In questo senso, il timore di Achenbach non è molto in linea con se stesso, anche perché,
come egli stesso scrive, se la filosofia “teme i pericoli – a cui certo soccombe, ma nei quali solo può giungere a
se stessa – è persa” (ivi, p. 50).
6
Insieme a quelle in esergo, il film si apre con una battuta (con cui anche si chiude e a cui deve il titolo) di un
tassista “filosofo” a un passeggero sconsolato che si interroga sull’inesplicabile mistero della vita: “La vita? È
come tutto il resto!”.
7
Cfr. W. Allen, Effetti collaterali (1975), Bompiani, Milano 1981.
3
spazio a nuove forme di manovra. Concretizzate, nello specifico, in un insolito rovesciamento
laterale: cedendo (per la prima volta) la parte del protagonista in crisi al suo alter ego più
giovane e tenendo per sé quella dell’anziano “consulente”, Allen sembra mettere in scena, in
una sorta di liberatorio (contro)transfert, anche un tentativo di risposta “nuova” a quegli effetti
e a quel silenzio.
Quanto poi di questa messa in scena sia legato a un effettivo bisogno o a un semplice
desiderio è materia su cui si potrebbe discutere. Il che non mancherebbe di farci imbattere in
quell’“evento catalizzatore” (il sentimento di delusione) che, come ci ricorda Albert
Hirschman, è “una delle principali forze motrici nelle faccende umane”,8 proprio perché (a
conferma del nostro paradossale statuto di soggetti desideranti9 oltre che bisognosi) ne è al
contempo una delle principali fonti di esaurimento.10 Non deve (o dovrà) proprio a esso, la
stessa “consulenza filosofica”, in entrambi i suoi termini e componenti,11 insieme alla sua
nascita, ogni sua opportunità di successo e di scacco?12
Questo però non è certo il punto, bensì solo uno spiraglio, da cui cominciare a
intravedere alcuni sfondi (im)possibili di questo scenario ancora in via di costruzione; e
soprattutto che il “riso” in questione, implicando Talete non meno di Allen, della donna di
Tracia o di Vienna, può rivelare degli spazi di senso ben meno angusti e minacciosi di quelli
sottesi dai timori di Achenbach. Ma cerchiano, appunto, di andare con ordine.
Le donne! Camus ha detto: le donne sono quanto di più vicino esista al paradiso in terra.
Ora, in quanto a te, Falk, c’è una barzelletta quintessenziale, che io trovo perfetta. È il
compendio perfetto per quanto riguarda te. Un tizio va nello studio di un medico e dice:
8
A.O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica (1982), Il Mulino, Bologna 2003, p. 33.
A tal punto paradossale che, forse, come afferma François Jullien in un penetrante appunto a Freud, “senza
osare confessarselo, l’uomo non desidera la felicità a cui dichiara di tendere” (F. Jullien, $utrire la vita. Senza
aspirare alla felicità, 2005, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 118).
10
“Nella misura in cui la delusione non è completamente eliminata da un istantaneo aggiustamento verso il basso
delle aspettative, ogni modello di consumo o di uso del tempo porta dentro di sé, per citare la nota metafora, ‘i
semi della sua distruzione’” (A.O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, cit., p. 28).
11
Sia dal lato del “consultante”, come conferma l’esperienza di Achenbach (e a suo modo la stessa storia di
Allen): “Finora ho avuto a che fare soprattutto con persone che avevano alle spalle esperienze di terapia
psicologica o anche cure psicanalitiche, che le avevano deluse” (G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p.
21). Sia dal lato del “consulente”, come testimonia ancora l’esperienza di Achenbach, quando descrive la sua
delusione nei confronti non solo della filosofia accademica (“macchina per lo smaltimento dei rifiuti spirituali”,
ivi, p. 59) e “di tutto il filosofare tradizionale” (cfr. ivi, pp. 100, 107, 172), ma anche di una certa pratica medica
“consulenziale” (cfr. ivi, p. 98). A questo punto, ci si potrebbe chiedere se in tale confluenza di delusioni non si
situi, oltre che il limite, la forza di questo fenomeno; e soprattutto se questo non sia, oltre che un sintomo, un
frutto di quel disagio di cui vorrebbe farsi carico.
12
Al di là del fatto che, non lasciandosi “dominare da un bisogno” né ponendosi “al servizio del desiderio”, la
stessa “consulenza filosofica – per Achenbach – è una delusione mirata” (ivi, p. 85).
9
4
dottore, mi fa male quando faccio così. E il dottore gli dice: e lei non lo faccia!
Riflettici.
Dentro o fuori
Questa specie di apologetica parodia della consulenza filosofica, insomma, come spesso
accade (ossia inavvertitamente), tocca diversi nervi coperti della cosa. Alcuni dei quali
proverò a scoprire brevemente.
Il primo ha a che fare con uno dei suoi aspetti più specifici, sebbene a prima vista meno
propri, e dico significativamente perché tale (in)apparente incongruenza è anche uno dei primi
sintomi del disturbo che cela. Partendo dal suo livello più “basso” è presto detto: l’eccentrico
professor Dobel, come nella migliore tradizione socratica,13 chiarisce i dubbi al giovane Falk
discorrendo liberamente e filosoficamente con lui, per le strade e i parchi di New York, senza
percepire o riscuotere alcun compenso o parcella.
La questione è delicata, parlar di soldi fa sempre un certo effetto in filosofia.14 Ma
interessante in definitiva, più che per se stessa, per quello che ci permette di vedere grazie a
ciò che non mette in scena. Achenbach ne fa un significativo accenno quando, riflettendo
sulla filosofia come professione, molto coscienziosamente si chiede:
Ma la domanda essenziale che nasce, secondo me, in questo contesto non è: come si può
magari procurare alla disciplina un riconoscimento sociale e, in questo modo, procurarle
lo status di una professione consolidata e con diritto di compenso, ma, sostanzialmente,
in primo luogo: dobbiamo volerlo?
Non si deve temere che la filosofia degeneri a trivialità mondana, nel momento in cui
diventa una professione? Non si espone alla seduzione di rinunciare alla fine a se stessa
e al suo niveau cristallizzato, in nome di un successo troppo mondano? E poi, in
secondo luogo, che cosa mostriamo, in quanto filosofi, facendoci pagare?15
“Che cosa mostriamo, in quanto filosofi, facendoci pagare?” Un ulteriore timore, per
un’ulteriore possibile figuraccia, si aggiunge al precedente. Questa volta non più di ordine
epistemologico (il non riconoscere una parte di mondo, pena appunto la caduta, che fa ridere
13
Non a caso già nel 1975 Allen dichiarava: “Fra tutti i grandi uomini famosi, quello che avrei voluto essere io è
Socrate” (W. Allen, Effetti collaterali, cit., p. 33).
14
Per una semplice ragione: la relazione che essa intrattiene con il denaro deve sempre essere, o quanto meno
apparire, al di sopra di ogni sospetto.
15
G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 79.
5
la donna di Tracia), ma innanzitutto ontologico (il rinunciare al proprio modo di essere: alla
grande festa della vita, racconta una delle più antiche scene della filosofia, attribuita al
leggendario capostipite Pitagora, il filosofo non si reca per commerciare ma solo per
osservare lo spettacolo).16 Un timore che da ontologico si fa subito etico (il non fare la cosa
giusta, pena un altro tipo di caduta, della quale nessuno ride): “Che cosa mostriamo in quanto
filosofi facendoci pagare?”. Una domanda su cui vale la pena soffermarsi.
Il discorso si è spostato di livello, così come le altezze da cui si rischia di cadere. Dalla
filosofia naturale alla filosofia morale, dal problema del cosmo al problema dell’uomo. In
breve: da Talete a Socrate. E questo “breve” – come “una cancellatura che lascia leggere ciò
che sopprime”,17 si potrebbe dire, con le parole di chi ha fatto di questo “doppio gioco” uno
dei perni del proprio agire filosofico (ma nel tentativo di scardinarne ogni fissità e chiusura) –
già ci mostra ciò che manca. Il nervo (s)coperto di questo (non) passaggio e pericolo.
In primo luogo il suo regista supremo: Platone, al quale dobbiamo oltre alla scelta delle
scene anche quella degli attori, e quindi – in secondo luogo – delle (s)comparse occorrenti per
la configurazione del proprio discorso. Per la sua apparizione, appropriazione, conservazione,
potremmo aggiungere con Michel Foucault, tanto per ridimensionare il ruolo di questo, pur
supremo, regista; e per non dimenticare, in terzo e ultimo luogo, quello di un (altro) “campo
pratico che è autonomo (benché dipendente) e che si può descrivere al suo livello (benché lo
si debba articolare in qualcosa di diverso)”.18 Ovvero di quelle dinamiche d’emergenza e
soprattutto di limitazione ed esclusione che sottostanno a ogni sua (e nostra) pratica
discorsiva. “La più evidente, ed anche la più familiare, è quella dell’interdetto”,19 ci dice
Foucault, indicandoci subito dopo quella su cui tanto ha lavorato e per cui forse è
maggiormente ricordato: “Non più un interdetto, ma una partizione (partage) e un rigetto”.20
E su una partizione e un rigetto sembra giocarsi, a un altro livello, anche la posta meno
visibile, ma non meno cospicua, di questo secondo pericolo avvertito da Achenbach. In
particolare su quella che fa propria l’opposizione del vero e del falso quale ulteriore criterio
d’esclusione e che, con chiaro riferimento a Nietzsche, Foucault chiama “volontà di verità”:
“Partizione storicamente costituita, senz’altro. Poiché, già nei poeti greci del
VI
secolo, il
16
Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 12 e VIII, 8.
J. Derrida, Posizioni. Scene, atti, figure della disseminazione (1972), Ombre corte, Verona 1999, p. 15.
18
M. Foucault, L’archeologia del sapere (1969), Rizzoli, Milano 1999, p. 164.
19
Id., L’ordine del discorso (1971), Einaudi, Torino 2004, p. 5.
20
Ibidem. Sulle quali, tra l’altro, non ha lavorato di meno uno dei suoi più grandi amici/nemici, se è vero che
“decostruire” la storia della filosofia è, tra le diverse cose, “un determinare ciò che tale storia ha potuto
dissimulare o interdire, quando si è fatta storia, appunto, attraverso questa repressione interessata” (J. Derrida,
Posizioni, cit., p. 15).
17
6
discorso vero – nel senso forte e valorizzato del termine – il discorso vero per cui si aveva
rispetto e terrore, quello al quale bisognava pur sottomettersi, perché regnava, era il discorso
pronunciato da chi di diritto, e secondo il rituale richiesto; era il discorso che diceva la
giustizia e attribuiva a ciascuno la sua parte; era il discorso che, profetizzando il futuro, non
solo annunziava quel che stava per accadere, ma contribuiva alla sua realizzazione”.21 Poi,
come sappiamo, qualcosa muta. Nuove forme di verità entrano in scena. E con esse nuove
divisioni ed esclusioni, timori e pericoli, che riecheggiano ancora nelle (non) parole di
Achenbach.
Torniamo dunque al suo quesito e proviamo a immaginare il “discorso vero” cui sembra
sottomettersi: che cosa mostriamo, in quanto filosofi, facendoci pagare? Di essere forse dei
sofisti? È questo il pericolo adombrato e da evitare per non passare, in tutta questa storia,
direttamente dalla parte del torto? Achenbach in realtà non risponde, non dice nulla a tale
proposito. E questo è già di per se stesso significativo. Un silenzio che ritroviamo in tanta
parte della letteratura specialistica sulla consulenza filosofica. Il meno che si può dire è che
denota un certo imbarazzo, il più è che il “prodigioso macchinario”,22 per quanto arrugginito,
continua a funzionare. L’“anatema” di Platone non smette di incombere. E con esso tutto il
peso di una tradizione, e di una ri-partizione, che continua a ordinare e disporre i “dentro” e i
“fuori” del proprio “discorso”; e di quelle stesse pratiche discorsive che pur dichiarano di
volerne rinnovare le linee e le derive, senza però fare i conti, o cercando di farli fin troppo
bene, con questi suoi presupposti, inseparabili da quelle “strategie di potere” su cui si
concentrerà l’attenzione del quasi ultimo Foucault.23 Sentiamo allora la prosecuzione del suo
discorso:24 “Ed ecco che un secolo più tardi la più alta verità non risiedeva più ormai in quel
che il discorso era o in quel che faceva, bensì in quel che diceva: un giorno è venuto in cui la
verità si è spostata dall’atto ritualizzato, efficace e giusto, d’enunciazione, verso l’enunciato
stesso: verso il suo senso, la sua forma, il suo oggetto, il rapporto con la sua referenza. Tra
Esiodo e Platone si è stabilita una certa partizione, che ha separato il discorso vero e il
discorso falso; partizione nuova perché ormai il discorso vero non è più il discorso prezioso e
desiderabile, poiché non è più il discorso legato al potere. Il sofista è cacciato”.25
21
M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 8.
Ivi, p. 11.
23
Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 2005.
24
Come ci avverte Mauro Bertani in effetti: “Tutto ciò non deve farci dimenticare che siamo comunque di fronte
a un discorso solenne. L’ordine del discorso è infatti il testo della lezione inaugurale di Foucault al Collège de
France pronunciata il 2 dicembre 1970” (M. Bertani, “Postfazione”, in M. Foucault, L’ordine del discorso, cit.,
p. 74).
25
M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 8.
22
7
Cacciato, il sofista avrà sempre meno luogo. “Questa volontà di verità, come gli altri
sistemi d’esclusione, poggia su di un supporto istituzionale: essa è rinforzata e riconfermata
insieme, da tutto uno spessore di pratiche come la pedagogia.”26 D’ora in avanti avranno
luogo l’Accademia e il Liceo. Bisognerà attendere l’apparizione, la crescita e
l’invecchiamento di un’altra forma di volontà di verità, perché una nuova stanza si renda
ancora praticabile. Certo, non una camera, ma almeno un corridoio sul quale sostare. Il
ricordo e il timore di quella prima cacciata tuttavia permane; anzi si raddoppia, perché ora
sono due le case cui chiedere asilo.27 Questa volta onorerà se non la madre almeno il padre.
Capra e cavoli
Ma il rischio, come si dice in questi casi, è di curare il malato uccidendo il paziente. A scanso
di equivoci, in altre parole, qui non si tratta affatto di segnalare “il ritorno del sofista”, come
titolava un caustico articolo di Roger Scruton alcuni anni fa,28 semmai il disatteso auspicio
per un ritorno in definitiva mancato e ancora mancante, se non nei suoi aspetti di “rottura”
meno destabilizzanti e critici. Non si tratta neanche di ridurre la questione al semplice livello
da cui siamo partiti, la cui incongruenza può essere ora così ri-articolata: al di là di ogni, per
quanto legittimo e per molti versi plausibile, desiderio e sforzo di professionalizzare la cosa,
proprio alcuni dei suoi elementi più propri continuerebbero a tenerla, per la sua stessa
salvaguardia e coerenza, al di fuori di tale ambito. In particolare riconoscere in Socrate
l’ispiratore primario del proprio agire,29 il quale, come noto, non ha mai voluto “accettare da
nessuno né un dono né una paga”.30
Si tratta piuttosto di cominciare a scorgere in questo “riconoscimento” il rischio di un
ritorno fin troppo ossequioso e acritico a quella tradizione – e ri-partizione – che è all’origine
della propria stessa esclusione, proprio perché all’origine di quella stessa filosofia
“degenerata” di cui la consulenza filosofica – sempre con le parole di Achenbach – dovrebbe
essere “la sfida”.31 Il rischio in altri termini di ricollocare quest’ultima al di qua di se stessa, al
26
Ivi, p. 9.
E se la “seconda” è quella che potrebbe permettere un’entrata senza identificazioni sconvenienti, che lo
ricaccerebbero fuori, è anche quella da cui bisogna tenersi lontano per non ritrovarsi fuori prima ancora di essere
entrati.
28
R. Scruton, The Return of the Sophist, “The Time”, 11 agosto1997 (disponibile al seguente indirizzo:
http://www.geocities.com/Athens/Forum/5914/press/scruton.html). Un articolo che reitera pedissequamente quel
gesto d’esclusione (cattiva coscienza inclusa), senza riconoscere alcun possibile sovrappiù in gioco.
29
“Io non critico. Constato e procedo per un’altra strada: una strada che parte da Socrate” (G. Achenbach, La
consulenza filosofica, cit., p.19).
30
Senofonte, Apologia di Socrate, La Vita Felice, Milano 2004, p. 41; cfr. anche Platone, Apologia di Socrate,
31b-c.
31
Cfr. G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 142.
27
8
di qua di ciò che pur afferma di perseguire, riproponendo a un altro livello proprio ciò da cui
si vorrebbe distinguere.32
Le avvisaglie non mancano. Basti pensare a come la “cosa” stia già mostrando, a diversi
livelli, quella autoreferenzialità che Achenbach imputa alla filosofia accademica. Di questa
tendenza il libro del consulente canadese Peter Raabe, “il primo – e tuttora unico – ‘manuale’
di consulenza filosofica ad essere pubblicato nel mondo”,33 ne è un chiaro esempio. Come
rileva, in una sua recensione all’edizione italiana, Ermanno Bencivenga, “gli esigui
riferimenti a Platone, Aristotele e Kant impallidiscono, nel libro di Raabe, di fronte alla sua
straordinaria conoscenza della letteratura ‘specializzata’ di consulenza filosofica; si ha
l’impressione di assistere a uno di quei seminari (a pagamento) in cui gli psicoterapeuti (!) si
informano con rapidità ed efficacia su quel che ‘tira’ nella loro comunità”.34 In questo modo
(e ciò può valere anche per i corsi di formazione che stanno nascendo in questi anni nel nostro
paese, mutuando i propri assetti dal mondo accademico e prescindendo da qualsiasi effettiva
domanda), quasi a riflettere quella sintomatologia del pensiero di cui ci si vorrebbe prendere
cura,35 si rischia di riprodurre un meccanismo di riciclaggio e di smaltimento analogo a quello
denunciato da Achenbach più di vent’anni fa: in cui i “consulenti filosofici”, come quei
“filosofi, alimentati dallo Stato nelle scuole superiori della Germania dell’Ovest, sono
impegnati principalmente nel fornire un self-service filosofico, nel quale loro stessi sono gli
unici clienti”.36
A questo punto potremmo provare a riformulare la questione in questi termini: al di là di ogni
per quanto legittimo e per certi versi plausibile desiderio e sforzo di dar vita alla cosa,
facendola uscire in qualche modo da una certa tradizione, proprio alcuni dei suoi elementi più
propri (compreso questo stesso desiderio e sforzo) continuerebbero a tenerla sostanzialmente
dentro, disconoscendone rilevanti aspetti di possibile distinzione, a cominciare dal principale:
il ritorno a una “filosofia pratica”.37
32
Inclusa quella strana situazione di cui parla Foucault in una lezione del 27 gennaio 1982, “ovvero il fatto che,
parallelamente alla progressiva diffusione della pratica di sé, il personaggio del filosofo di professione – che
almeno a partire da Socrate, come sapete, era sempre stato accolto con non poca diffidenza, e che aveva suscitato
parecchie reazioni negative – diventa a sua volta sempre più ambiguo” (M. Foucault, L’ermeneutica del
soggetto. Corso al Collège de France 1981-1982, 2001, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 130-131).
33
N. Pollastri, “Introduzione. Un primo ‘manuale’ per l’apprendista consulente filosofico”, in P. Raabe, Teoria e
pratica della consulenza filosofica (2001), Apogeo, Milano 2006, p. XVI.
34
E. Bencivenga, Cercasi consulente pratico di felicità, “TuttoLibri”, supplemento di “La Stampa”, 10 giugno
2006.
35
“L’esperienza di girare in qualche modo in tondo” (G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 66).
36
Ivi, p. 58.
37
In questo senso, ricalcando e un po’ forzando una nota osservazione di Derrida, si potrebbe forse aggiungere
che “non potendo operare fin dal momento che si dichiara, se non all’interno della “teoria”, questa rivoluzione
contro la “teoria” rischia di avere sempre la dimensione limitata di ciò che si chiama, nel linguaggio appunto del
9
L’imbarazzo della questione economica, a questo punto, è solo un lieve riverbero di una
più ampia difficoltà, di cui l’appello a Socrate può rimanere comunque l’emblema più
rilevante e proprio. E questo non tanto per il fatto che, come ci avvertono Enrico Berti e
Franco Volpi, un attento esame della storia del concetto “dovrebbe indurre, per correttezza, ad
usare l’espressione ‘filosofia pratica’ solo nell’ambito della tradizione aristotelica”.38 Ma
perché proprio nella concretezza di questa dimensione la sua figura sembra ancora più la
posta di un rientro che di un rilancio;39 più di un’“intesa” che di una sfida. Come scrive
Blumenberg, in quel libro da cui siamo in qualche modo partiti: “A Socrate e alla sua
autodescrizione dell’individuarsi della filosofia è intrinseca una carenza che fa apparire assai
poco meditata la dedizione dell’avanguardia della filosofia pratica a questo capostipite: una
mancanza di socializzazione”.40 Dato che in fondo “ciò che Socrate aveva scoperto, dopo
aver abbandonato la filosofia naturale, era la sfera della concettualità per le cose dell’uomo;
ma anche da questa si mancava la realtà dell’immediato, la quale di conseguenza si
trasformava in un trabocchetto. Infatti la teoria della prassi non è meno teoria della teoria
delle stelle”.41
Un trabocchetto che farà di Socrate il “martire” della verità del concetto e del valore
assoluto della scelta morale, a scapito di quella della vita. E in cui rischia di cadere anche
questo movimento, nel momento in cui lo eleva a modello e irrigidisce la propria critica su
quello che in fondo, adesso, può essere solo un falso problema, e una falsa alternativa. Dietro
la denuncia della partizione teorico/pratico, insomma, rischia di uscire in qualche modo
rafforzata una partizione ben più dispotica e arrogante (di cui Socrate può essere ancora la più
illustre maschera e il suo “discorso”42 la più palese attestazione), unitamente a quella che
ministero degli interni, una agitazione” (Cfr. J. Derrida, “Cogito e storia della follia”, 1963, in La scrittura e la
differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 46).
38
E. Berti, Filosofia pratica, Guida, Napoli 2004, p. 5; cfr. anche F. Volpi, Che cosa significa “filosofia
pratica”? Per una storia del concetto, “Paradigmi”, 19, 2001, pp. 587-597.
39
Cfr. F. Volpi, “La rinascita della filosofia pratica in Germania”, in C. Pacchiani (a cura di), Filosofia pratica e
scienza politica, Francisci, Abano Terme (Pd) 1980, p. 29.
40
H. Blumenberg, Il riso della donna di Tracia, cit., p. 19.
41
Ivi, p. 18. Continua Blumenberg: “La ‘rivoluzione socratica’, che doveva far scendere la filosofia dal cielo e
darle da indagare il più prossimo di tutti i temi – ‘cosa è, e che cosa alla natura dell’uomo, a differenza degli altri
esseri, conviene fare e patire’ –, non aveva trasformato in nulla l’azione teoretica: aveva solo sottratto il suo
oggetto alla dimestichezza quotidiana, portandolo a quella distanza in cui esso appare non meno esotico degli
astri” (ibidem).
42
“La grande tradizione del dialogo, a partire da Socrate fino alla diatriba stoico-cinica, mostra in maniera
convincente che l’altro […] tutto sommato non ha il compito di parlare, e comunque sia quel che gli si fa dire
fornisce semplicemente, al discorso del maestro, un modo e un’occasione per insediarsi e svilupparsi. Non esiste
autonomia del suo proprio discorso, non esiste una funzione specifica per il discorso di chi viene diretto.
Fondamentalmente, infatti, il suo ruolo è quello di conservare il silenzio. E la parola che gli è strappata, la parola
che gli è estorta, quella che da lui viene estratta, quella che viene in lui suscitata, per mezzo del dialogo o della
10
Nietzsche chiama la sua seduzione più grande, “la vera e propria Circe dei Filosofi”,43 di
quelli cioè che Tibor Fischer chiamerebbe “la gang del pensiero”. Cos’era scritto sulla
copertina di quell’esilarante romanzo?44
“Avere in mano una pistola è come essere dalla parte giusta in un dialogo socratico.”
Chi è il consulente?
Questo discorso, più o meno indirettamente, si lega a un altro nodo sensibile messo in scena
dal film di Allen: se Dobel risolve i dilemmi esistenziali al giovane Falk non per questo è in
buone relazioni con se stesso e il mondo; tutt’altro, basti pensare che è stato in manicomio, e
ha provato la camicia di forza, per aver tentato di far fuori il suo analista a colpi di estintore.
Ora, scansando ogni possibile implicazioni metaforica di questa specifica sequenza, la
stravaganza, al confine tra il ridicolo e il tragico, di questo personaggio trova un’altra curiosa
corrispondenza nella stravaganza del filosofo così come si mostra nella storia. A partire, come
abbiamo visto, dai suoi prototipi più arcaici, Talete (entro il limite del ridicolo) e Socrate (fino
al limite del tragico), che nel Teeteto dice di sé: “Sono il più stravagante (atopos) degli
uomini e genero soltanto aporia”.45
Anche in questo caso, insomma, il film coglie nel segno, toccando uno dei punti più
imbarazzanti della questione; e da entrambi i suoi lati. Se da una parte infatti la messa in
scena di questa stravaganza, (s)coprendo l’insita idiosincrasia tra la figura del filosofo
(essenzialmente, e necessariamente, “un cittadino sfasato”46) e quella del consulente
(decisamente, e necessariamente, più equilibrato47), ci riporta al timore iniziale di Achenbach:
“Con una tale reputazione, si può seriamente pensare il filosofo come consulente?”;48
dall’altra, mostrando che tale “sfasatura” (e reputazione) non è per forza un limite (al di là di
tutto, e a differenza del suo inappuntabile analista, Dobel risolve i problemi al giovane Falk),
non fa che ridimensionarlo; ridimensionando pure lo sforzo in cui troppo spesso si traduce:
quello di dare un’immagine di rispettabilità e affidabilità che, a ben guardare, poco si confà al
primo, e molto – forse appunto troppo – al secondo. In definitiva quindi ci mostra che
diatriba, non sono altro, in fondo, che dei modi intesi a mostrare che solo nel discorso del maestro risiede la
verità nella sua interezza, lì e soltanto lì” (M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., pp. 325-326).
43
F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali (1881), Adelphi, Milano 1996, p. 5. Anche in questo caso
gli indizi non mancano, a cominciare da tutta la retorica giustificatoria sulla povertà di senso e di autenticità del
nostro tempo.
44
T. Fischer, La gang del pensiero (1994), Garzanti, Milano 1998.
45
Platone, Teeteto, 149a.
46
P. Riffard, I filosofi: vita intima (2004), Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 41.
47
Da lui ci si aspetta, infatti, “sedute regolari, puntualità; che sia una persona quadrata, ragionevole” (J. Hillman,
in Id., M. Ventura, Cent’anni di psicoanalisi. E il mondo va sempre peggio, 1992, Rizzoli, Milano 2005, p. 48).
48
G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 40.
11
considerare la “consulenza” e la “filosofia” come fatti convergenti può comportare non solo
fare una mediazione dove esiste una distinzione, ma anche, e in un’ottica di
professionalizzazione soprattutto, il rischio di farla a scapito della seconda.
Ora, se da un lato tutto ciò fa entrare in gioco quella domanda che Achenbach definisce
“il fondamento della consulenza filosofica”: la “più imbarazzante e per questo
meticolosamente evitata, ‘chi è il filosofo?’”,49 dall’altro ci fa pensare che non meno
imbarazzante, e forse per questo evitata dallo stesso Achenbach (o più semplicemente troppo
in fretta assimilata alla prima) è piuttosto la domanda: chi è il consulente?
Nondimeno, provare a rispondere alla prima è forse ancora il modo migliore per
cominciare a mettere a fuoco entrambe, inclusa la suddetta distinzione, senza per questo voler
escludere (semmai in vista di) una possibile mediazione.50
E non a caso sarà ancora la figura di Socrate in una sorta d’ironia doppia (Gregory
Vlastos la chiamerebbe “complessa”51) e capovolta, a sostenerci in questo tentativo. In essa
infatti (e ora, precisamente, in quello che sempre Vlastos definisce il suo “paradosso
centrale”),52 si può rintracciare non solo il “diritto” (e i possibili inciampi) di questa
“distinzione/mediazione”, ma anche il suo più inaspettato “rovescio” (e rilancio).
Chi è il filosofo?
All’inizio della prefazione al libro già citato di Pierre Riffard, Maurizio Ferraris mette in
scena un ipotetico spassoso siparietto di philosophical counseling, che, a differenza di quello
ancor più ipotetico, ma non meno spassoso, preso a prestito da Allen e messo in scena
all’inizio di questo scritto, comincia (e finisce), almeno a prima vista, subito male.
Il supposto consultante, infatti, non fa a tempo a entrare nello studio del supposto
consulente che già si chiede “perché diavolo è finito lì, e come possa scappare”.53 Un
velocissimo surreale scambio di battute e la consulenza si chiude con questa riflessione di
Ferraris: “Il Cliente tornerà a casa nelle condizioni di partenza ma, e questo è il punto che
vorrei sottolineare sin dall’inizio, era proprio questo che si aspettava dalla consulenza, se ha
un minimo di sincerità con se stesso. Dal consulente non si aspettava saggezza, né consiglio,
né conforto, ma solo la rassicurante sensazione che anche quelli che credono di saperla lunga,
49
Ivi, p. 29.
In questa prospettiva, l’interesse di un personaggio come David Dobel (“ufficialmente”, non dimentichiamolo,
né “filosofo” né “consulente”), sta proprio nel riuscire a incarnare entrambe.
51
“In cui ciò che è detto è, e al tempo stesso non è, ciò che s’intende” (G. Vlastos, Socrate: il filosofo dell’ironia
complessa, 1991, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 17).
52
Ivi, p. 4.
53
M. Ferraris, “Prefazione all’edizione italiana”, in P. Riffard, I filosofi: vita intima, cit., p. IX.
50
12
più lunga degli altri o comunque più lunga di lui, sono dei disgraziati e dei pasticcioni
qualsiasi, dei poveri diavoli nel migliore dei casi”.54
Conclusione interessante perché a suo modo, come a suo modo l’opera di Allen, mette
in scena una componente essenziale di quella che ora potremmo anche chiamare la “pratica
filosofica” di Socrate (la sua famosa ironia in effetti, come leggiamo in ogni dizionario,55 si
fonda, tra le altre cose, proprio su una dissimulazione analoga); e in questo modo ci permette
di cominciare a immaginare una possibile risposta alla domanda su cui ci siamo lasciati, “chi
è il filosofo”?
Ci aiuta dunque, ma ancor più ci può aiutare a questo punto la celebre definizione del
filosofo formulata nel Simposio da Platone, attraverso il discorso di Diotima riportato da
Socrate. Dove quest’ultimo assurge a modello stesso del filosofo: colui che, come Eros, “sta
in mezzo fra la sapienza e l’ignoranza”.56 E qui per sapienza si può intendere anche saggezza,
se è vero che, come ci insegna Pierre Hadot, “nella tradizione greca il sapere, ovvero la
sophia, è più un saper-fare, un saper vivere che un sapere puramente teorico. Si troveranno
infatti le tracce della sophia nel modo di vivere, non nel sapere teorico, del Socrate filosofo
che Platone evoca, appunto, nel Simposio”.57 Continua quindi Hadot: “Ci sono, dice Diotima,
due categorie di esseri che non filosofano: gli dei e i saggi, perché appunto sono saggi, e gli
stolti, perché credono di essere saggi”:58
Nessuno degli dei filosofa o desidera diventare sapiente (sophos), infatti, lo è già; e se
esiste qualche altro saggio, neppure quello filosofa. D’altra parte neppure gli ignoranti
filosofano né aspirano a diventare saggi: infatti è questa la disgrazia dell’ignoranza,
quella di credere di essere belli, buoni e saggi quando invece non lo si è. Colui che non
è consapevole di essere privato di una cosa non desidera ciò di cui non pensa di avere
bisogno.59
Chi saranno allora i filosofi − chiede Socrate a Diotima − se non lo sono né i sapienti (o
saggi), né gli ignoranti (o stolti)? “Sono quelli che si trovano a metà strada fra i due, e Amore
54
Ivi, pp. IX-X.
“Il procedere speculativo del celebre filosofo che, dichiarandosi ignorante, chiede lume all’altrui sapienza, per
mostrare come questa si riveli inferiore al suo stesso ‘sapere di non sapere’” (G. Devoto, G.C. Oli, Il dizionario
della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 2002, alla voce “Ironia”).
56
Platone, Simposio, Adelphi, Milano 1980, 203e.
57
P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica? (1995), Einaudi, Torino 1998, p. 46.
58
Ibidem.
59
Platone, Simposio, cit., 204a.
55
13
è uno dei due”,60 risponde appunto Diotima. E Hadot, dopo aver rilevato l’identificazione tra
Socrate, il filosofo ed Eros, tutti e tre accomunati da una carenza (di saggezza, bellezza e
bene), dalla consapevolezza di questa carenza e dal desiderio di compensarla, trae le
conseguenze del discorso di Diotima con un’analisi che vale la pena riportare per intero:
In apparenza, non vi è nulla di più semplice e di più naturale di questa posizione
intermedia del filosofo: a metà strada tra il sapere e l’ignoranza. Si potrebbe supporre
che gli sarà sufficiente praticare la sua attività di filosofo per superare definitivamente
l’ignoranza e raggiungere la saggezza. Ma le cose sono alquanto più complesse.
In effetti, sullo sfondo della contrapposizione tra saggi, filosofi e stolti, affiora uno
schema logico di divisione di concetti di estremo rigore, che non dà spazio a prospettive
troppo ottimistiche. Diotima, infatti, contrappone saggi e non-saggi, esprime due
termini opponendoli uno all’altro in una contraddizione che non ammette vie di mezzo:
o si è saggi, o non lo si è. Da questo punto di vista, non si potrà dire che il filosofo sia
un termine intermedio tra saggio e non saggio, perché egli non è “saggio”, anzi, è
necessariamente e decisamente “non-saggio”. Egli è dunque votato a non raggiungere
mai la saggezza. Tuttavia, tra i non saggi, Diotima ha stabilito una divisione: ci sono
quelli che non sono coscienti della propria non-saggezza: gli stolti; poi ci sono quelli
che sono coscienti della propria non-saggezza: i filosofi.61
Queste parole di Hadot ci conducono dritti all’ultimo nervo coperto della questione, uno dei
suoi nodi più paradossali e inconfessabili: nella consulenza filosofica il “filosofo”, quel nonsaggio (e non-sapiente) cosciente della propria non-saggezza (e non-sapienza), è innanzitutto
il consultante, non il consulente. Solo chi ha raggiunto una tale consapevolezza può chiedere
una consulenza: chi “sa”, chi è già “saggio” (o “sapiente”), evidentemente, non ha alcuna
ragione per chiederla (ma molte semmai per avviare un’attività di consulenza: di solito infatti
gliela si chiede, come fa Socrate con Diotima), mentre chi non sa di non esserlo (l’ignorante o
stolto del discorso di Diotima ) semplicemente non è nella condizione per poterla chiedere
(ma non in quella di non poterla offrire), dato che ignora la sua stessa mancanza.
In questo senso, è esattamente il socratico sapere di non sapere a fondare l’evento
“consulenza”,62 tanto più, dunque, l’evento “consulenza filosofica”. Ma non dal lato del
60
Ivi, 204b.
P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, cit., p. 47.
62
A ben riflettere ciò vale per qualsiasi tipo di consulenza.
61
14
consulente (come per certi aspetti già vorrebbe una parte di questo movimento)63 bensì da
quella del consultante. È quest’ultimo colui che, prima di ogni altro, porta con sé la domanda
filosofica per eccellenza, la domanda del perché? In lui, prima di ogni altro, si manifesta una
carenza,64 la consapevolezza di questa carenza (di sapere, saggezza, bellezza, bene, ecc.) e il
desiderio di compensarla che è all’origine di ogni filosofare. È quindi lui, in definitiva e
innanzitutto, il cercatore, l’interrogante. E solo nella misura in cui il primo sa assumere
l’atteggiamento del secondo può dirsi a sua volta filosofo, ma non più consulente (e
viceversa).65
Riconoscere questa antecedenza, per la consulenza filosofica, significa riconoscere la
sua più propria (im)possibilità: Socrate, Eros, il filosofo, non è il consulente, ma il consultante
per eccellenza.
La domanda che entra in gioco a questo punto, allora (forse davvero la più imbarazzante e per
questo finora evitata), è la seguente: e se passasse proprio da questo riconoscimento (“pratico”
prima ancora che “teorico”) la sfida più alta e pericolosa della (e per la) consulenza
filosofica?
63
Quella tra l’altro “filosoficamente” più illuminata e che fa capo al suo fondatore Achenbach.
“La sensazione di non essere ciò che si dovrebbe essere” la chiama Hadot (Id., Che cos’è la filosofia antica?,
cit., p. 31).
65
E solo nella misura in cui il secondo riesce a mostrare come il supposto sapere del primo si riveli inferiore al
suo stesso sapere di non sapere, si può parlare di riuscita della consulenza, come riscoperta e rilancio della
propria “competenza” filosofica.
64
15
Scarica