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collana a cura di Riccardo Bertoncelli
Riccardo Bertoncelli
THE
LIGA STORY
DA ZERO
ALLA FINE DEL MONDO
volume 1
Referenze fotografiche:
GIANSI CAMPAGNOLI
pp. 6, 50, 60, 100, 107, 125 (in basso), 126-127, 130, 136, 138, 142, 144-145, 152, 156, 170
ARCHIVIO LIGABUE FAN CLUB
pp. 10, 19, 35, 36, 43, 80, 116
CORTESIA ALBERTO IMOVILLI
pp. 29, 31
CORTESIA GIGI CAVALLI COCCHI
pp. 48, 62, 63, 65, 66, 68, 69, 70, 81, 91, 93, 94, 98, 103, 104, 112, 114, 122-125 (in alto), 131,
151, 157, 160, 162, 166
ELIS BASSI
pp. 53, 57
© FABIO NOSOTTI, grazie a Warner Music Italia
p. 77
Progetto grafico, impaginazione e redazione:
Giovanni Bartoli
Tutti i diritti riservati
www.giunti.it
© 2013 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia
Via Borgogna 5 - 20122 Milano - Italia
Prima edizione: maggio 2013
RistampaAnno
6 5 4 3 2 1 0
2017 2016 2015 2014 2013
Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A.
Stabilimento di Prato
Indice
7Introduzione
11 Storia di Luciano da cucciolo
17 Radio Attiva (e altre radiazioni)
26 Arriva il Condor
29 Ora Zero
33 Nebbia in Val Padana
40 Il primo disco d’oro
45 Terremoto Rock
47 Storia di Gigi
54 Storia di Max
56 Storia di Ghezzi
59 Ritmo & Blu
65 Blues dell’hotel Murillo
72 Balliamo sul mondo
76 Il giro delle sette case
79 Dalla bocciofila di Budrio al settimo cielo
82 Il vello d’oro
90L’applausometro
92Un tovagliolo da un miliardo
97 Blues della Ford Sierra (a gas)
103 Lambrusco, rose, coltelli e pop corn
110 Il tour senza fine e il Fan Club
119 Sopravvissuti e sopravviventi
132Uno squarcio d’azzurro: il primo raduno
134 I got the blues
137 Annus horribilis part 1
147 Cambio di passo
149 Annus horribilis part 2
154Un sabbatico al veleno
158 A che ora è la fine del mondo?
164 Dopo la fine del mondo
171 Happy ending
174 Ringraziamenti e coordinate
Introduzione
Bisogna immaginare un’Italia che non c’è più. Un’Italia non
solo prima di Facebook, figuriamoci!, ma prima ancora di Internet, quando i computer erano pochi e ingombranti, solo per
“tecnici”, e il massimo della tecnologia era il fax, quella magica
scatola capace di trasmettere carta su carta a distanza. Un’Italia che usava la parola “digitale” solo per le impronte o per
“genere di piante, comprendente numerose specie, il cui fiore
ha forma di ditale”; un’Italia ancora mamma RAI, da poco con
tre canali, con quel fastidioso bebé appena svezzato che era
Mediaset però lontana dai riti satellitari di Telepiù, Stream,
Sky. Il telefono era solo Sip e solo fisso, spesso ancora attaccato al muro, i cellulari si vedevano giusto nei film americani
e quando si era fuori casa si usavano le cabine telefoniche con
i gettoni. C’era ancora il Partito Comunista, c’erano Craxi e la
DC, la Lega erano quattro fissati che andavano ad attaccare
manifesti di nascosto a Varese e Gallarate; e in America faceva
scandalo che un vecchio mestierante del cinema come Ronald
Reagan fosse stato eletto Presidente, senza immaginare che in
politica ne avremmo viste di molto più grosse ed eclatanti – “il
bello deve ancora venire”, come non aveva ancora scritto un
ragazzo di cui tra poco parleremo.
La domenica le partite cominciavano tutte allo stesso orario
e i calciofili si sintonizzavano sulle onde di Tutto il calcio minuto per minuto, senza staccarsi dalla radiolina neanche se
portavano a passeggio la morosa (fateci caso, non se ne vede
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più nemmeno uno per sbaglio, di fidanzati in giro con il transistor). Ascoltavano Sandro Ciotti, Enrico Ameri e, dallo studio
centrale, Roberto Bortoluzzi, come facevano infallibilmente dal
1960, di padre in figlio. La Champions League si chiamava
ancora Coppa dei Campioni e le partite si scommettevano al
Totocalcio in bar che non erano molto diversi da quello gestito
dal Guccini Francesco in Radiofreccia.
Le radio libere sì, tanto per restare in tema, quelle erano
cambiate: meno ruspanti, idealiste, meno libere di quando avevano infranto il monopolio RAI ma non ancora one nation one
station. La gran parte della musica passava da lì, perché la
TV non trasmetteva granché nonostante quella dei videoclip
stesse diventando una moda obbligatoria. I dischi erano ancora
padelloni in vinile, venduti in negozi che solo nelle metropoli
avevano grandi spazi e provavano a scimmiottare le mitiche
catene americane tipo Tower Records. In provincia erano per lo
più premiate ditte che avevano traghettato con buona volontà
dai 45 di San Remo al rock progressivo alla new wave, con scaffali in legno, odore di polvere e cellophane, e un signore alla
cassa che scuoteva la testa e prendeva nota con la biro quando
qualcuno comperava qualche disco dal nome impronunciabile
e dalla copertina strana. I più informati vociferavano che quel
mondo stava per finire, affossato dalla novità tecnologica dei
compact disc che qualche pioniere aveva già cominciato a produrre; ma quelle profezie di fine millennio sembravano una
gran perdita di tempo, quel futuro era certamente lontano, lo
avrebbero visto i nostri nipoti e pronipoti, magari. O no?
Di che anno parliamo? Potrebbe essere il 1985, proviamo
a immaginare un’“ora zero” così – il termine ci tornerà buono
di qui a poco. Sì, il 1985, un giorno d’estate, può essere perfetto il 14 luglio ma non c’entra la festa nazionale francese.
C’entra piuttosto una specialissima festa di rock che si è svolta
il giorno prima tra Londra e Filadelfia e che gli appassionati
hanno seguito incollati alla TV, in mondovisione. È stata un’assemblea generale degli Stati rock con poche defezioni e molto
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entusiasmo, un’iniziativa benefica organizzata da un gruppo
di artisti britannici e irlandesi riuniti con sigla “Band Aid”
per raccogliere fondi per le popolazioni colpite dalla carestia
in Africa. I giornali italiani hanno bucato l’avvenimento ma
l’Eurovisione ha fatto la grazia e il passa parola ha radunato
centinaia di migliaia di ragazzi davanti ai teleschermi, dalle
quattro di pomeriggio a mezzanotte, eccitati e tramortiti da
quella inattesa girandola di Dylan e U2, Queen e Mick Jagger,
Led Zeppelin, Crosby, Stills, Nash & Young, Dire Straits. Una
specie di Woodstock però in diretta, e seguita in prima fila,
senza fango, senza tende fradicie, senza disagi. Il giorno dopo
ne parlano tutti, nelle grandi città e in provincia, dove adesso
proviamo a dirigerci con la nostra macchina del tempo e dello
spazio. Quarantaquattro gradi e 46 minuti Nord, 10 gradi 47
minuti Est – Correggio, Reggio Emilia, Italia. Vi sembra un
posto poco rock? Be’, vi sbagliate. Ricordate che Elvis è nato in
un paesino del Mississippi appena più grande e non dimenticate che i primi e più forti vagiti beat in Italia si sono sentiti
proprio da quelle parti, fra Modena e Reggio, tra la via Emilia
e il West, nei favolosi anni ’60 di Nomadi, Guccini, Equipe 84.
Quindi il rock c’entra, eccome, quindi Correggio. Lì ha le
radici il nostro racconto.
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Storia di Luciano da cucciolo
Luciano Ligabue, ragioniere non ancora “Liga”, quel 14 luglio
1985 ha venticinque anni compiuti da poco. È un ragazzo
emiliano come tanti, almeno sembra: capelli lunghi, stivali
western, abiti volentieri gitani (alla Mink DeVille, per intenderci), una vita regolare da bravo ragazzo che dopo il diploma si è trovato un lavoro e sogni neanche tanto segreti di
musica rock. Gli piace il calcio, ha giocato in Promozione con
la Correggese e quando era nelle giovanili lo hanno cercato
dirigenti di squadre importanti per un provino; ma non era
una vocazione così forte e gli dispiaceva l’idea di andarsene
dalla sua città per fare vita da monaco con tuta e scarpini,
chissà dove.
La musica è una chiamata molto più forte. Suo padre fra i
tanti lavori è stato anche gestore di una balera che la domenica
diventava discoteca, ma non è certo stata quella la scintilla.
Anzi. Papà Giovanni ha sempre predicato che i musicisti sono
morti di fame, e guai a pensare di cavarci da vivere da un mestiere tanto precario e rischioso. Però, guarda il caso, la prima
chitarra a Luciano l’ha regalata lui (“Era una Clarissa con le
corde di nylon, una sotto-sottomarca che però a me sembrava il
massimo della vita”), ed è stata una vera e propria istigazione
a delinquere. A quindici anni Luciano ha cominciato a metterci
le mani, chiedendo consigli ad amici e conoscenti, comprando
spartiti e guardando le tablature di Ciao 2001, il settimanale
inevitabile per gli appassionati rock di quegli anni.
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Intorno gli girano le tante musiche degli anni ’70, tutte stimolanti per le sue orecchie da svezzare. Prima i cantautori,
DeGregori Guccini De André, più importanti per le parole che
per le musiche, poi i complessi rock, così affascinanti e per
forza di cose lontani lontani dalla sua Clarissa. “Presi una
cotta per i Genesis, perché era un mondo particolare, molto
più ricco da un punto di vista sonoro. C’era questa ricchezza,
questa gamma enorme che le musiche dei cantautori non
avevano. Alla fine una canzone poteva essere una faccenda
di venti minuti, con cambi di tempo, cambi di tonalità, senza
strofe né incisi. Mi piaceva l’idea di un’invenzione continua.
Ricordo Selling England By The Pound, ce l’avevo su una cassettina che un amico mi aveva regalato. Praticamente sapevo
a memoria tutte le parti musicali, le parole non le conoscevo
quasi ma quell’album lo sapevo cantare tutto.” Il primo album
che Luciano compera viene sempre da quel mondo ed è Darwin,
del Banco del Mutuo Soccorso. “Mi serviva anche per esercitarmi, perché da piccolino il mio sogno musicale era fare il
batterista. Lì c’era un lungo assolo di batteria alla fine della
prima facciata, e non ti dico le volte che lo ascoltai cercando in
ogni modo di simularlo.”
Naturalmente il Prog è molto difficile da replicare su una
Clarissa acustica in mano a un ragazzo alle prime armi. Più
facile riecheggiare i cantautori, forse troppo facile.
“Ascoltando certe canzoni chiunque poteva pensare: ‘Posso
scriverle anch’io’. Perché basta imparare due o tre accordi, e
non ci vuole tanto per imparare due o tre accordi sulla chitarra, poi sposti tutto sulla tonalità che vuoi e a quel punto
le canzoni te le scrivi tu. Questo trovo che fu un bene perché
spinse molti a esprimersi, ma anche un male, perché portò
tanti ad adagiarsi su quel mondo e non a cercare altrove.”
Tra il bene e il male, Luciano verso i diciott’anni comincia a
scrivere canzoni, che per un bel pezzo rimarranno pudicamente
chiuse nel profondo dei suoi cassetti. La prima si chiama Cento
lampioni “ed era una canzone orribile, parlava di una puttana
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che stava contando i giorni per riuscire a smettere. Ed era veramente bruttissima, era una canzone sbrodolona, molto moralista. Se posso trovarci un valore, era un brano che dimostrava
il mio interesse per il mondo dei losers; ma in realtà non c’era
nessun approfondimento e conoscenza vera dell’argomento.”
A quel brano ne seguono altri, tutti secretati dal vergognosissimo autore. Neanche gli amici più stretti sanno che Luciano
sta imparando da cantautore, e che quello comincia a essere il
sogno della sua vita. “Scrivere canzoni smise presto di essere
un hobby. Piano piano diventò una forma di urgenza fisica,
quasi un bisogno. Andò avanti per anni, sempre come scrivere
non finalizzato, un comporre tra me e me.”
Luciano finisce ragioneria e pensa al futuro – quello vero,
pratico, non i sogni di rock&roll. Vorebbe iscriversi a Lettere
e Filosofia ma sono tempi difficili in famiglia, il padre è disoccupato e lui non se la sente di chiedergli quel sacrificio. Fa un
corso di marketing organizzato da una cugina ma è giusto per
non girare i pollici in attesa della fatidica cartolina. Già, perché
fra le tante cose di quell’Italia che non c’è più ci sono anche i
dodici mesi da regalare allo Stato come militare di leva.
“Fu l’anno peggiore della mia vita, mi ritrovai a fare il CAR a
Belluno come artigliere di montagna; e feci il diavolo a quattro
per ottenere poi un avvicinamento, ma tutto quello che ottenni
fu passare alla caserma di fianco, che in effetti era più vicina
alla stazione. Una caserma operativa che era un inferno, con
i muli per gli obici e un nonnismo feroce. Credo di averci fatto
un esaurimento nervoso, non ho mai accettato l’idea che mi rubassero dodici mesi: e tra i vent’anni e i ventuno poi, un anno
così bello e importante della vita, e in un posto che sembrava
una galera. Non avevo vie di scampo, solo la libera uscita per
girovagare in una città dove le ragazze, appena vedevano che
avevi la sfumatura alta, si voltavano dall’altra parte. E d’altro
canto non avevo potuto scegliere di fare l’obiettore perché allora erano diciotto mesi, e se anche accettavi ti mandavano il
più lontano possibile da casa.”
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In quell’anno così triste, la musica continua a essere una
luce e una speranza.
“Gli appigli miei di quei mesi furono qualche raro amico con
cui condividere la disperazione della libera uscita, nonostante
tutti parlassero veneto stretto e mi chiamassero ‘emiliano
rosso teròn’; e due album che non dimenticherò mai. Uno fu Patriots di Battiato, che comperai in cassetta proprio lì a Belluno
e diventò compagno fedele di tanti momenti in caserma; l’altro
fu Lucio Dalla, il disco di Balla balla, ballerino e di Futura, e
lo ricordo come l’album delle mie licenze. Ne ho avute poche
ma quando tornavo a casa non potevo farlo in treno, perché
era un delirio di coincidenze e orari assurdi; e allora avevo
questa Opel Kadett costata trecentomila lire, di cui ventimila
per il mangianastri, e quando parlo di un’auto nei miei primi
dischi, be’, parlo di quella – nelle canzoni diventa un Maggiolone o qualcos’altro ma il riferimento è sempre la mia Opel
Kadett del militare. E quel disco di Dalla, che ancora adesso
mi emoziona, l’ho imparato praticamente a memoria. Avevo
tre ore prima di arrivare a casa, e se usavo il treno sarebbero
state sette, perché c’erano due cambi a Padova e Bologna. Non
avevo la radio, solo questa cassetta che continuavo a far girare.
E Futura aveva un sapore mentre rientravo a casa e un altro
quando tornavo in caserma.”
Quei dodici mesi in effetti non sono proprio buttati via;
perché Luciano, che continua a massaggiare amorevolmente
la sua Clarissa, trova il tempo fra un’esercitazione e l’altra di
sostenere due esami per l’ammissione alla SIAE.
“Il primo fu a Bologna e fu abbastanza semplice. Presi un 36
ore, andai in treno, non passai neanche da casa. Dovevo scrivere un testo su una metrica stabilita e lo feci senza problemi,
anche se non venne certo un capolavoro. Molti anni dopo,
quando ho ricevuto il premio Lunezia, qualcuno degli organizzatori ha recuperato quel testo ed è stato divertente anche se
un po’ imbarazzante – erano i versi che scrivevo allora, pieni
di astrazioni, di artifici.
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“C’era però un altro esame SIAE che mi interessava, quello
di compositore melodista non trascrittore, e lì fu un po’ più
dura, perché si teneva a Roma e io avevo sempre e solo a disposizione un 36 ore. Ad ogni modo lo feci e ricordo che si trattava
di riprodurre su una chitarra delle note e poi le melodie di certi
pezzi. E confesso che non andò bene perché ero stremato, ero
fuori esercizio. Tornai al reparto convinto di non aver passato
l’esame, e in aggiunta il ritorno fu un’odissea. L’ultimo treno
era in ritardo e mi toccò andare alla polizia ferroviaria per la
giustificazione. Passai la notte alla stazione di Padova, avevo
anche la febbre, tenendomi stretta la chitarra nel timore che
qualcuno me la rubasse. Arrivai al mattino e nonostante il foglietto, per punizione mi fecero montare di corvée – ti pareva.
Per fortuna ci fu un lieto fine e arrivò la comunicazione che
l’esame lo avevo passato.”
Quell’anno fra il 1980 e 1981 resta impresso per la memoria
anche per qualcos’altro; ad esempio per un grande pericolo
scampato che anni dopo ispirerà il secondo film di Ligabue,
Da zero a dieci.
“Ebbi poche licenze e in una di quelle capitò la strage di
Bologna. Avevo un 48 ore e con amici decidemmo di andare
in Riviera per cuccare – eravamo tutti militari, tutti un po’ tirati, e un po’ di vacanza ci andava. E appunto per guadagnare
tempo, se no in treno chissà quanto sarebbe durato il viaggio,
decidemmo di andare in auto – ma lo decidemmo all’ultimo
minuto e poi successe quel che successe, e ho sempre pensato
che avrei potuto esserci io con i miei amici alla stazione di Bologna quella mattina.”
Le poche licenze sono sempre speciali, come quell’altra in
cui Luciano scopre un libro e uno scrittore che avranno profonda influenza su di lui.
“Vengo a sapere di un romanzo sequestrato scritto da un ragazzo di Correggio che conoscevo di vista, Pier Vittorio Tondelli.
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Per colpa delle rispettive timidezze ci eravamo incrociati un
sacco di volte ma non ci eravamo mai parlati. Andai a cercare
quel romanzo, lo lessi e mi diede un’energia nuova. Fu qualcosa di inaspettato, una scossa ma anche una lezione. C’era
il racconto di questa fauna umana, in una cittadina che poi
era la mia, una realtà che avevo sotto gli occhi tutti i giorni e
all’improvviso diventava speciale perché chi l’aveva osservata e
descritta aveva disegnato una geografia dell’anima più che una
cronaca sociale. Questo mi portò a uno scatto rispetto alla solita scrittura. Fino a quel momento le mie canzoni erano state
presuntuosissime, cercavo di fare il cantautore derivativo dei
migliori con uno sfoggio imbarazzante di pseudo poetica: parole ricercate anziché vita vera, personaggi astratti, voli pindarici. Quel libro fu un seme importante. Avevo trovato una
strada nuova, che nel tempo ha trovato spazio. Ho cominciato
a scrivere di quel che conoscevo, liberato dalle sovrastrutture
e dall’idea di emulare a tutti i costi i De Gregori Guccini De
André. Certo, quel raccontare solo quello che vedevo e vivevo
era anche un limite; ma credo sia stata una scelta giusta, compensata dalla profondità di sguardo che ho per forza acuito.”
Forte di quella nuova consapevolezza, Luciano prende il coraggio a due mani e, chiuso finalmente con il militare, prova a
esibirsi dal vivo alla festa dell’Unità a Correggio. È il 9 luglio
1981, in programma c’è un concerto di Gino Paoli. Ligabue fa
un triplo salto mortale e dalle prove in cameretta con la Clarissa passa direttamente al palcoscenico con tre canzoni delle
sue nuove, voce e chitarra. Non succede granché ma l’animo è
fortificato e a quella prima volta ne seguono altre “con uno spettacolino più articolato, della durata di tre quarti d’ora circa”.
Una il 10 ottobre lascia una debole traccia, al circolo di Correggio “Fra i quali”. Dalla scaletta emergono canzoni perdute
che farebbero la gioia degli archeologhi musicali: Maria e il colore bianco, Ultimo tram, Ogni riferimento a persone e fatti...,
Questione di tempo, Anticarnevale, Al poi ci penseremo poi, Su
di un parto.
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Sono sempre sogni evanescenti, è un futuro improbabile mentre il presente si riempie di ben altro. Luciano fa il
metalmeccanico in una fabbrica di stampi di plastica, poi il
bracciante e alla fine mette a frutto il diploma di ragioneria
impiegandosi in un’azienda che commercializza prodotti da
giardinaggio: rasa-erba, motoseghe, decespugliatori.
“Curiosamente è stata un’esperienza che è durata tanto rispetto alle altre – quattro anni, anche di più. Non era certo il
mestiere dei miei sogni, però era una situazione in cui stavo
nel mio ufficio, potevo sentire la mia radio, potevo vestire come
volevo e arrivare anche con un po’ di ritardo, perché l’amministrazione la gestivo tutta io ed ero il responsabile di me stesso.
C’era elasticità e i miei datori di lavoro erano molto comprensivi, era proprio una famiglia. Fu un bel rapporto.”
Radio Attiva (e altre radiazioni)
Abbiamo volutamente accantonato una pista importante di
questa nostra storia. Tanto è inevitabile finirci addosso; da
quando ha girato Radiofreccia, Ligabue è indissolubilmente
legato al mondo delle radio libere e alla dolce illusione presto
svanita di una nuova cultura dell’etere, dopo la grigia dittatura RAI di tanti e tanti decenni monopolistici. Luciano scopre
quel mondo in fretta, quando dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 28 luglio 1976 si moltiplicano le emittenti private in un allegro caos di grandi idee e velleità, dilettantismo
e mercato.
“Venne un mio cugino e mi disse: ‘Ascolta, ma tu non le
senti le radio libere?’, proprio come abbiamo riportato nel
film, proprio come fa Bruno con Guccini: ‘Le radio libere? che
cazz… cos’è?’. E mi disse: ‘Guarda, c’è questa cosa che è l’FM
ed è una novità recente. Praticamente ci sono dei ragazzi che
sfruttano questa possibilità e hanno una loro radio’. E mi
fece sentire questa radio, che per me resta sempre la radio
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migliore, la più bella di tutti i tempi: Punto Radio. Trasmettevano da Zocca, c’era anche Vasco Rossi fra i conduttori, con un
programma dance che si chiamava “Soul To Soul”. Diciamo
che lui si occupava di puro divertimento, altre trasmissioni
erano più ricche e di approfondimento, e quello era il bello di
Punto Radio. Furono loro, perlomeno per me e per quelli del
mio giro, a far sì che dei ragazzini passassero i pomeriggi,
quando erano fuori ma anche quando dovevano studiare, con
l’orecchio attaccato al transistor.
“Il giorno dopo discutevamo sui temi affrontati da quei ‘fratellini’ maggiori. Noi avevamo 16 anni, loro 20 o 22 o 25, e si
parlava di temi giovanili oppure di musica in modi molto più
informali di quanto non si facesse alla RAI, con una passione
molto soggettiva. A quel punto ognuno sceglieva il suo conduttore preferito e si diceva: ‘questo parla della musica che piace a
me, quindi scelgo lui.’ Era come un giornale specializzato, una
fanzine musicale e ‘sociologica’ fatta da gente di cui ti fidavi.
Cosa di cui ci sarebbe sempre un bisogno bestiale.
“Quello fu il primo passaggio: venire a conoscenza della novità. Secondo passaggio: beccare subito questo mondo, che era
un mondo allora abitato da tre o quattro radio. Al principio
delle radio libere, tu giravi per tutta la sintonia della FM e
in questa zona non prendevi più di tre o quattro canali: c’era
Punto Radio, c’erano Radio Bruno o Canale 7, e Radio Etere.
Tutto qui.
“La terza cosa fu quando un pazzo che aveva fatto l’istituto
tecnico riuscì a mettere insieme nella sua casa in campagna
fuori Correggio una radio. Il trasmettitore era un circuito tenuto dentro una morsa, una roba che quando la vedevi non
avresti mai detto che era una radio, e invece sì. Arrivava a
dieci chilometri di distanza, perché con due watt di potenza
la distanza era quella. Era una possibilità pazzesca, perché
a quel punto tu adolescente potevi farti prendere da insane
smanie di megalomania, ma in ogni caso potevi veramente
dire cosa avevi dentro che già di per sé è una cosa rara. Non
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sempre è facile trovare un modo per incanalare il bisogno di
sfogare che uno ha. Diciamo che questi tre momenti precisi decretarono il mio amore nei confronti della radio, un amore che
adesso posso coltivare solo con tre-quattro emittenti sempre
piuttosto sfigate.”
Il pazzo della radio si chiama Luciano Romani, sa qualcosa
di elettronica per un corso via posta seguito con Radio Elettra,
Torino, e ha montato le apparecchiature nella camera da letto
di casa sua in una frazione di Correggio, a Fazzano. La “sede”
è assolutamente improbabile e in effetti trasloca quasi subito in una stalla risistemata lì vicino. Cambia anche il nome,
diventa più suggestivamente Radio King, mentre un po’ per
volta arrivano tutti i ragazzi più curiosi e intraprendenti del
circondario. C’è anche Ligabue, c’è Pier Vittorio “Vicky” Tondelli, che ancora non ha scritto libri e frequenta il DAMS, e
Claudio Maioli, in veste di appassionato di musica italiana e
disc jockey.
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