leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it collana a cura di Riccardo Bertoncelli Riccardo Bertoncelli THE LIGA STORY DA ZERO ALLA FINE DEL MONDO volume 1 Referenze fotografiche: GIANSI CAMPAGNOLI pp. 6, 50, 60, 100, 107, 125 (in basso), 126-127, 130, 136, 138, 142, 144-145, 152, 156, 170 ARCHIVIO LIGABUE FAN CLUB pp. 10, 19, 35, 36, 43, 80, 116 CORTESIA ALBERTO IMOVILLI pp. 29, 31 CORTESIA GIGI CAVALLI COCCHI pp. 48, 62, 63, 65, 66, 68, 69, 70, 81, 91, 93, 94, 98, 103, 104, 112, 114, 122-125 (in alto), 131, 151, 157, 160, 162, 166 ELIS BASSI pp. 53, 57 © FABIO NOSOTTI, grazie a Warner Music Italia p. 77 Progetto grafico, impaginazione e redazione: Giovanni Bartoli Tutti i diritti riservati www.giunti.it © 2013 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia Via Borgogna 5 - 20122 Milano - Italia Prima edizione: maggio 2013 RistampaAnno 6 5 4 3 2 1 0 2017 2016 2015 2014 2013 Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. Stabilimento di Prato Indice 7Introduzione 11 Storia di Luciano da cucciolo 17 Radio Attiva (e altre radiazioni) 26 Arriva il Condor 29 Ora Zero 33 Nebbia in Val Padana 40 Il primo disco d’oro 45 Terremoto Rock 47 Storia di Gigi 54 Storia di Max 56 Storia di Ghezzi 59 Ritmo & Blu 65 Blues dell’hotel Murillo 72 Balliamo sul mondo 76 Il giro delle sette case 79 Dalla bocciofila di Budrio al settimo cielo 82 Il vello d’oro 90L’applausometro 92Un tovagliolo da un miliardo 97 Blues della Ford Sierra (a gas) 103 Lambrusco, rose, coltelli e pop corn 110 Il tour senza fine e il Fan Club 119 Sopravvissuti e sopravviventi 132Uno squarcio d’azzurro: il primo raduno 134 I got the blues 137 Annus horribilis part 1 147 Cambio di passo 149 Annus horribilis part 2 154Un sabbatico al veleno 158 A che ora è la fine del mondo? 164 Dopo la fine del mondo 171 Happy ending 174 Ringraziamenti e coordinate Introduzione Bisogna immaginare un’Italia che non c’è più. Un’Italia non solo prima di Facebook, figuriamoci!, ma prima ancora di Internet, quando i computer erano pochi e ingombranti, solo per “tecnici”, e il massimo della tecnologia era il fax, quella magica scatola capace di trasmettere carta su carta a distanza. Un’Italia che usava la parola “digitale” solo per le impronte o per “genere di piante, comprendente numerose specie, il cui fiore ha forma di ditale”; un’Italia ancora mamma RAI, da poco con tre canali, con quel fastidioso bebé appena svezzato che era Mediaset però lontana dai riti satellitari di Telepiù, Stream, Sky. Il telefono era solo Sip e solo fisso, spesso ancora attaccato al muro, i cellulari si vedevano giusto nei film americani e quando si era fuori casa si usavano le cabine telefoniche con i gettoni. C’era ancora il Partito Comunista, c’erano Craxi e la DC, la Lega erano quattro fissati che andavano ad attaccare manifesti di nascosto a Varese e Gallarate; e in America faceva scandalo che un vecchio mestierante del cinema come Ronald Reagan fosse stato eletto Presidente, senza immaginare che in politica ne avremmo viste di molto più grosse ed eclatanti – “il bello deve ancora venire”, come non aveva ancora scritto un ragazzo di cui tra poco parleremo. La domenica le partite cominciavano tutte allo stesso orario e i calciofili si sintonizzavano sulle onde di Tutto il calcio minuto per minuto, senza staccarsi dalla radiolina neanche se portavano a passeggio la morosa (fateci caso, non se ne vede 7 più nemmeno uno per sbaglio, di fidanzati in giro con il transistor). Ascoltavano Sandro Ciotti, Enrico Ameri e, dallo studio centrale, Roberto Bortoluzzi, come facevano infallibilmente dal 1960, di padre in figlio. La Champions League si chiamava ancora Coppa dei Campioni e le partite si scommettevano al Totocalcio in bar che non erano molto diversi da quello gestito dal Guccini Francesco in Radiofreccia. Le radio libere sì, tanto per restare in tema, quelle erano cambiate: meno ruspanti, idealiste, meno libere di quando avevano infranto il monopolio RAI ma non ancora one nation one station. La gran parte della musica passava da lì, perché la TV non trasmetteva granché nonostante quella dei videoclip stesse diventando una moda obbligatoria. I dischi erano ancora padelloni in vinile, venduti in negozi che solo nelle metropoli avevano grandi spazi e provavano a scimmiottare le mitiche catene americane tipo Tower Records. In provincia erano per lo più premiate ditte che avevano traghettato con buona volontà dai 45 di San Remo al rock progressivo alla new wave, con scaffali in legno, odore di polvere e cellophane, e un signore alla cassa che scuoteva la testa e prendeva nota con la biro quando qualcuno comperava qualche disco dal nome impronunciabile e dalla copertina strana. I più informati vociferavano che quel mondo stava per finire, affossato dalla novità tecnologica dei compact disc che qualche pioniere aveva già cominciato a produrre; ma quelle profezie di fine millennio sembravano una gran perdita di tempo, quel futuro era certamente lontano, lo avrebbero visto i nostri nipoti e pronipoti, magari. O no? Di che anno parliamo? Potrebbe essere il 1985, proviamo a immaginare un’“ora zero” così – il termine ci tornerà buono di qui a poco. Sì, il 1985, un giorno d’estate, può essere perfetto il 14 luglio ma non c’entra la festa nazionale francese. C’entra piuttosto una specialissima festa di rock che si è svolta il giorno prima tra Londra e Filadelfia e che gli appassionati hanno seguito incollati alla TV, in mondovisione. È stata un’assemblea generale degli Stati rock con poche defezioni e molto 8 entusiasmo, un’iniziativa benefica organizzata da un gruppo di artisti britannici e irlandesi riuniti con sigla “Band Aid” per raccogliere fondi per le popolazioni colpite dalla carestia in Africa. I giornali italiani hanno bucato l’avvenimento ma l’Eurovisione ha fatto la grazia e il passa parola ha radunato centinaia di migliaia di ragazzi davanti ai teleschermi, dalle quattro di pomeriggio a mezzanotte, eccitati e tramortiti da quella inattesa girandola di Dylan e U2, Queen e Mick Jagger, Led Zeppelin, Crosby, Stills, Nash & Young, Dire Straits. Una specie di Woodstock però in diretta, e seguita in prima fila, senza fango, senza tende fradicie, senza disagi. Il giorno dopo ne parlano tutti, nelle grandi città e in provincia, dove adesso proviamo a dirigerci con la nostra macchina del tempo e dello spazio. Quarantaquattro gradi e 46 minuti Nord, 10 gradi 47 minuti Est – Correggio, Reggio Emilia, Italia. Vi sembra un posto poco rock? Be’, vi sbagliate. Ricordate che Elvis è nato in un paesino del Mississippi appena più grande e non dimenticate che i primi e più forti vagiti beat in Italia si sono sentiti proprio da quelle parti, fra Modena e Reggio, tra la via Emilia e il West, nei favolosi anni ’60 di Nomadi, Guccini, Equipe 84. Quindi il rock c’entra, eccome, quindi Correggio. Lì ha le radici il nostro racconto. 9 Storia di Luciano da cucciolo Luciano Ligabue, ragioniere non ancora “Liga”, quel 14 luglio 1985 ha venticinque anni compiuti da poco. È un ragazzo emiliano come tanti, almeno sembra: capelli lunghi, stivali western, abiti volentieri gitani (alla Mink DeVille, per intenderci), una vita regolare da bravo ragazzo che dopo il diploma si è trovato un lavoro e sogni neanche tanto segreti di musica rock. Gli piace il calcio, ha giocato in Promozione con la Correggese e quando era nelle giovanili lo hanno cercato dirigenti di squadre importanti per un provino; ma non era una vocazione così forte e gli dispiaceva l’idea di andarsene dalla sua città per fare vita da monaco con tuta e scarpini, chissà dove. La musica è una chiamata molto più forte. Suo padre fra i tanti lavori è stato anche gestore di una balera che la domenica diventava discoteca, ma non è certo stata quella la scintilla. Anzi. Papà Giovanni ha sempre predicato che i musicisti sono morti di fame, e guai a pensare di cavarci da vivere da un mestiere tanto precario e rischioso. Però, guarda il caso, la prima chitarra a Luciano l’ha regalata lui (“Era una Clarissa con le corde di nylon, una sotto-sottomarca che però a me sembrava il massimo della vita”), ed è stata una vera e propria istigazione a delinquere. A quindici anni Luciano ha cominciato a metterci le mani, chiedendo consigli ad amici e conoscenti, comprando spartiti e guardando le tablature di Ciao 2001, il settimanale inevitabile per gli appassionati rock di quegli anni. 11 Intorno gli girano le tante musiche degli anni ’70, tutte stimolanti per le sue orecchie da svezzare. Prima i cantautori, DeGregori Guccini De André, più importanti per le parole che per le musiche, poi i complessi rock, così affascinanti e per forza di cose lontani lontani dalla sua Clarissa. “Presi una cotta per i Genesis, perché era un mondo particolare, molto più ricco da un punto di vista sonoro. C’era questa ricchezza, questa gamma enorme che le musiche dei cantautori non avevano. Alla fine una canzone poteva essere una faccenda di venti minuti, con cambi di tempo, cambi di tonalità, senza strofe né incisi. Mi piaceva l’idea di un’invenzione continua. Ricordo Selling England By The Pound, ce l’avevo su una cassettina che un amico mi aveva regalato. Praticamente sapevo a memoria tutte le parti musicali, le parole non le conoscevo quasi ma quell’album lo sapevo cantare tutto.” Il primo album che Luciano compera viene sempre da quel mondo ed è Darwin, del Banco del Mutuo Soccorso. “Mi serviva anche per esercitarmi, perché da piccolino il mio sogno musicale era fare il batterista. Lì c’era un lungo assolo di batteria alla fine della prima facciata, e non ti dico le volte che lo ascoltai cercando in ogni modo di simularlo.” Naturalmente il Prog è molto difficile da replicare su una Clarissa acustica in mano a un ragazzo alle prime armi. Più facile riecheggiare i cantautori, forse troppo facile. “Ascoltando certe canzoni chiunque poteva pensare: ‘Posso scriverle anch’io’. Perché basta imparare due o tre accordi, e non ci vuole tanto per imparare due o tre accordi sulla chitarra, poi sposti tutto sulla tonalità che vuoi e a quel punto le canzoni te le scrivi tu. Questo trovo che fu un bene perché spinse molti a esprimersi, ma anche un male, perché portò tanti ad adagiarsi su quel mondo e non a cercare altrove.” Tra il bene e il male, Luciano verso i diciott’anni comincia a scrivere canzoni, che per un bel pezzo rimarranno pudicamente chiuse nel profondo dei suoi cassetti. La prima si chiama Cento lampioni “ed era una canzone orribile, parlava di una puttana 12 che stava contando i giorni per riuscire a smettere. Ed era veramente bruttissima, era una canzone sbrodolona, molto moralista. Se posso trovarci un valore, era un brano che dimostrava il mio interesse per il mondo dei losers; ma in realtà non c’era nessun approfondimento e conoscenza vera dell’argomento.” A quel brano ne seguono altri, tutti secretati dal vergognosissimo autore. Neanche gli amici più stretti sanno che Luciano sta imparando da cantautore, e che quello comincia a essere il sogno della sua vita. “Scrivere canzoni smise presto di essere un hobby. Piano piano diventò una forma di urgenza fisica, quasi un bisogno. Andò avanti per anni, sempre come scrivere non finalizzato, un comporre tra me e me.” Luciano finisce ragioneria e pensa al futuro – quello vero, pratico, non i sogni di rock&roll. Vorebbe iscriversi a Lettere e Filosofia ma sono tempi difficili in famiglia, il padre è disoccupato e lui non se la sente di chiedergli quel sacrificio. Fa un corso di marketing organizzato da una cugina ma è giusto per non girare i pollici in attesa della fatidica cartolina. Già, perché fra le tante cose di quell’Italia che non c’è più ci sono anche i dodici mesi da regalare allo Stato come militare di leva. “Fu l’anno peggiore della mia vita, mi ritrovai a fare il CAR a Belluno come artigliere di montagna; e feci il diavolo a quattro per ottenere poi un avvicinamento, ma tutto quello che ottenni fu passare alla caserma di fianco, che in effetti era più vicina alla stazione. Una caserma operativa che era un inferno, con i muli per gli obici e un nonnismo feroce. Credo di averci fatto un esaurimento nervoso, non ho mai accettato l’idea che mi rubassero dodici mesi: e tra i vent’anni e i ventuno poi, un anno così bello e importante della vita, e in un posto che sembrava una galera. Non avevo vie di scampo, solo la libera uscita per girovagare in una città dove le ragazze, appena vedevano che avevi la sfumatura alta, si voltavano dall’altra parte. E d’altro canto non avevo potuto scegliere di fare l’obiettore perché allora erano diciotto mesi, e se anche accettavi ti mandavano il più lontano possibile da casa.” 13 In quell’anno così triste, la musica continua a essere una luce e una speranza. “Gli appigli miei di quei mesi furono qualche raro amico con cui condividere la disperazione della libera uscita, nonostante tutti parlassero veneto stretto e mi chiamassero ‘emiliano rosso teròn’; e due album che non dimenticherò mai. Uno fu Patriots di Battiato, che comperai in cassetta proprio lì a Belluno e diventò compagno fedele di tanti momenti in caserma; l’altro fu Lucio Dalla, il disco di Balla balla, ballerino e di Futura, e lo ricordo come l’album delle mie licenze. Ne ho avute poche ma quando tornavo a casa non potevo farlo in treno, perché era un delirio di coincidenze e orari assurdi; e allora avevo questa Opel Kadett costata trecentomila lire, di cui ventimila per il mangianastri, e quando parlo di un’auto nei miei primi dischi, be’, parlo di quella – nelle canzoni diventa un Maggiolone o qualcos’altro ma il riferimento è sempre la mia Opel Kadett del militare. E quel disco di Dalla, che ancora adesso mi emoziona, l’ho imparato praticamente a memoria. Avevo tre ore prima di arrivare a casa, e se usavo il treno sarebbero state sette, perché c’erano due cambi a Padova e Bologna. Non avevo la radio, solo questa cassetta che continuavo a far girare. E Futura aveva un sapore mentre rientravo a casa e un altro quando tornavo in caserma.” Quei dodici mesi in effetti non sono proprio buttati via; perché Luciano, che continua a massaggiare amorevolmente la sua Clarissa, trova il tempo fra un’esercitazione e l’altra di sostenere due esami per l’ammissione alla SIAE. “Il primo fu a Bologna e fu abbastanza semplice. Presi un 36 ore, andai in treno, non passai neanche da casa. Dovevo scrivere un testo su una metrica stabilita e lo feci senza problemi, anche se non venne certo un capolavoro. Molti anni dopo, quando ho ricevuto il premio Lunezia, qualcuno degli organizzatori ha recuperato quel testo ed è stato divertente anche se un po’ imbarazzante – erano i versi che scrivevo allora, pieni di astrazioni, di artifici. 14 “C’era però un altro esame SIAE che mi interessava, quello di compositore melodista non trascrittore, e lì fu un po’ più dura, perché si teneva a Roma e io avevo sempre e solo a disposizione un 36 ore. Ad ogni modo lo feci e ricordo che si trattava di riprodurre su una chitarra delle note e poi le melodie di certi pezzi. E confesso che non andò bene perché ero stremato, ero fuori esercizio. Tornai al reparto convinto di non aver passato l’esame, e in aggiunta il ritorno fu un’odissea. L’ultimo treno era in ritardo e mi toccò andare alla polizia ferroviaria per la giustificazione. Passai la notte alla stazione di Padova, avevo anche la febbre, tenendomi stretta la chitarra nel timore che qualcuno me la rubasse. Arrivai al mattino e nonostante il foglietto, per punizione mi fecero montare di corvée – ti pareva. Per fortuna ci fu un lieto fine e arrivò la comunicazione che l’esame lo avevo passato.” Quell’anno fra il 1980 e 1981 resta impresso per la memoria anche per qualcos’altro; ad esempio per un grande pericolo scampato che anni dopo ispirerà il secondo film di Ligabue, Da zero a dieci. “Ebbi poche licenze e in una di quelle capitò la strage di Bologna. Avevo un 48 ore e con amici decidemmo di andare in Riviera per cuccare – eravamo tutti militari, tutti un po’ tirati, e un po’ di vacanza ci andava. E appunto per guadagnare tempo, se no in treno chissà quanto sarebbe durato il viaggio, decidemmo di andare in auto – ma lo decidemmo all’ultimo minuto e poi successe quel che successe, e ho sempre pensato che avrei potuto esserci io con i miei amici alla stazione di Bologna quella mattina.” Le poche licenze sono sempre speciali, come quell’altra in cui Luciano scopre un libro e uno scrittore che avranno profonda influenza su di lui. “Vengo a sapere di un romanzo sequestrato scritto da un ragazzo di Correggio che conoscevo di vista, Pier Vittorio Tondelli. 15 Per colpa delle rispettive timidezze ci eravamo incrociati un sacco di volte ma non ci eravamo mai parlati. Andai a cercare quel romanzo, lo lessi e mi diede un’energia nuova. Fu qualcosa di inaspettato, una scossa ma anche una lezione. C’era il racconto di questa fauna umana, in una cittadina che poi era la mia, una realtà che avevo sotto gli occhi tutti i giorni e all’improvviso diventava speciale perché chi l’aveva osservata e descritta aveva disegnato una geografia dell’anima più che una cronaca sociale. Questo mi portò a uno scatto rispetto alla solita scrittura. Fino a quel momento le mie canzoni erano state presuntuosissime, cercavo di fare il cantautore derivativo dei migliori con uno sfoggio imbarazzante di pseudo poetica: parole ricercate anziché vita vera, personaggi astratti, voli pindarici. Quel libro fu un seme importante. Avevo trovato una strada nuova, che nel tempo ha trovato spazio. Ho cominciato a scrivere di quel che conoscevo, liberato dalle sovrastrutture e dall’idea di emulare a tutti i costi i De Gregori Guccini De André. Certo, quel raccontare solo quello che vedevo e vivevo era anche un limite; ma credo sia stata una scelta giusta, compensata dalla profondità di sguardo che ho per forza acuito.” Forte di quella nuova consapevolezza, Luciano prende il coraggio a due mani e, chiuso finalmente con il militare, prova a esibirsi dal vivo alla festa dell’Unità a Correggio. È il 9 luglio 1981, in programma c’è un concerto di Gino Paoli. Ligabue fa un triplo salto mortale e dalle prove in cameretta con la Clarissa passa direttamente al palcoscenico con tre canzoni delle sue nuove, voce e chitarra. Non succede granché ma l’animo è fortificato e a quella prima volta ne seguono altre “con uno spettacolino più articolato, della durata di tre quarti d’ora circa”. Una il 10 ottobre lascia una debole traccia, al circolo di Correggio “Fra i quali”. Dalla scaletta emergono canzoni perdute che farebbero la gioia degli archeologhi musicali: Maria e il colore bianco, Ultimo tram, Ogni riferimento a persone e fatti..., Questione di tempo, Anticarnevale, Al poi ci penseremo poi, Su di un parto. 16 Sono sempre sogni evanescenti, è un futuro improbabile mentre il presente si riempie di ben altro. Luciano fa il metalmeccanico in una fabbrica di stampi di plastica, poi il bracciante e alla fine mette a frutto il diploma di ragioneria impiegandosi in un’azienda che commercializza prodotti da giardinaggio: rasa-erba, motoseghe, decespugliatori. “Curiosamente è stata un’esperienza che è durata tanto rispetto alle altre – quattro anni, anche di più. Non era certo il mestiere dei miei sogni, però era una situazione in cui stavo nel mio ufficio, potevo sentire la mia radio, potevo vestire come volevo e arrivare anche con un po’ di ritardo, perché l’amministrazione la gestivo tutta io ed ero il responsabile di me stesso. C’era elasticità e i miei datori di lavoro erano molto comprensivi, era proprio una famiglia. Fu un bel rapporto.” Radio Attiva (e altre radiazioni) Abbiamo volutamente accantonato una pista importante di questa nostra storia. Tanto è inevitabile finirci addosso; da quando ha girato Radiofreccia, Ligabue è indissolubilmente legato al mondo delle radio libere e alla dolce illusione presto svanita di una nuova cultura dell’etere, dopo la grigia dittatura RAI di tanti e tanti decenni monopolistici. Luciano scopre quel mondo in fretta, quando dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 28 luglio 1976 si moltiplicano le emittenti private in un allegro caos di grandi idee e velleità, dilettantismo e mercato. “Venne un mio cugino e mi disse: ‘Ascolta, ma tu non le senti le radio libere?’, proprio come abbiamo riportato nel film, proprio come fa Bruno con Guccini: ‘Le radio libere? che cazz… cos’è?’. E mi disse: ‘Guarda, c’è questa cosa che è l’FM ed è una novità recente. Praticamente ci sono dei ragazzi che sfruttano questa possibilità e hanno una loro radio’. E mi fece sentire questa radio, che per me resta sempre la radio 17 migliore, la più bella di tutti i tempi: Punto Radio. Trasmettevano da Zocca, c’era anche Vasco Rossi fra i conduttori, con un programma dance che si chiamava “Soul To Soul”. Diciamo che lui si occupava di puro divertimento, altre trasmissioni erano più ricche e di approfondimento, e quello era il bello di Punto Radio. Furono loro, perlomeno per me e per quelli del mio giro, a far sì che dei ragazzini passassero i pomeriggi, quando erano fuori ma anche quando dovevano studiare, con l’orecchio attaccato al transistor. “Il giorno dopo discutevamo sui temi affrontati da quei ‘fratellini’ maggiori. Noi avevamo 16 anni, loro 20 o 22 o 25, e si parlava di temi giovanili oppure di musica in modi molto più informali di quanto non si facesse alla RAI, con una passione molto soggettiva. A quel punto ognuno sceglieva il suo conduttore preferito e si diceva: ‘questo parla della musica che piace a me, quindi scelgo lui.’ Era come un giornale specializzato, una fanzine musicale e ‘sociologica’ fatta da gente di cui ti fidavi. Cosa di cui ci sarebbe sempre un bisogno bestiale. “Quello fu il primo passaggio: venire a conoscenza della novità. Secondo passaggio: beccare subito questo mondo, che era un mondo allora abitato da tre o quattro radio. Al principio delle radio libere, tu giravi per tutta la sintonia della FM e in questa zona non prendevi più di tre o quattro canali: c’era Punto Radio, c’erano Radio Bruno o Canale 7, e Radio Etere. Tutto qui. “La terza cosa fu quando un pazzo che aveva fatto l’istituto tecnico riuscì a mettere insieme nella sua casa in campagna fuori Correggio una radio. Il trasmettitore era un circuito tenuto dentro una morsa, una roba che quando la vedevi non avresti mai detto che era una radio, e invece sì. Arrivava a dieci chilometri di distanza, perché con due watt di potenza la distanza era quella. Era una possibilità pazzesca, perché a quel punto tu adolescente potevi farti prendere da insane smanie di megalomania, ma in ogni caso potevi veramente dire cosa avevi dentro che già di per sé è una cosa rara. Non 18 sempre è facile trovare un modo per incanalare il bisogno di sfogare che uno ha. Diciamo che questi tre momenti precisi decretarono il mio amore nei confronti della radio, un amore che adesso posso coltivare solo con tre-quattro emittenti sempre piuttosto sfigate.” Il pazzo della radio si chiama Luciano Romani, sa qualcosa di elettronica per un corso via posta seguito con Radio Elettra, Torino, e ha montato le apparecchiature nella camera da letto di casa sua in una frazione di Correggio, a Fazzano. La “sede” è assolutamente improbabile e in effetti trasloca quasi subito in una stalla risistemata lì vicino. Cambia anche il nome, diventa più suggestivamente Radio King, mentre un po’ per volta arrivano tutti i ragazzi più curiosi e intraprendenti del circondario. C’è anche Ligabue, c’è Pier Vittorio “Vicky” Tondelli, che ancora non ha scritto libri e frequenta il DAMS, e Claudio Maioli, in veste di appassionato di musica italiana e disc jockey. 19