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Daniele Bernardi
Tutto questo andare a rotoli
A macchi(n)a d’olio
I.
Ogni opera è dunque palese
celebrazione dell’in-compimento,
è forma devota al tralasciato,
pressoché tragicomica nella sua
articolata e laboriosa lirica poe-patetica,
inevitabile quantunque. Ri-pone
a sé/ in sé/ per sé l’apoteotica
eredità di ogni nostalgia corporea,
anziché farsene un baffo, ne fa una
declamatoria repertuale. Data
l’idiosincrasia in vigore tra il
contrarsi e il ritrarsi linguistico
occorre ordunque (con-)/tra(tta)rsi
d’impiccio, prolungarsi in extenso,
far mente locale, loco mentale,
de-territorializzarsi a macchi(n)a d’olio
insomma, per far corpo col corpo-opera,
divenire-protesi (s)confinante in
metamor-phone(s) – solvente universale –
atto alla dis-soluzione delle incanalazioni:
sgorga nei condotti uditivi, cozza
contro il timpano dis-chiudendo
al terzo orecchio, in bilico sulla soglia.
II.
L’opus è comunque un dunque – dovunque:
è un corpo a corpo che si gongola, a dispetto
di ogni qualsivoglia gesto che si recide
in un così maldestro compiersi, si fa beffe
di ogni danno, e di tutto ciò che è, si può dire:
“organismo”; prolifera in quanto a botole
che sbotolano le une nelle altre, rotolano
dall’una all’altra in connessione continua,
di botola in botola rotolano botolando
i rotoli in tutto questo andare a rotoli.
Questa dis-organizzazione, traccia
de-stabilizzante ogni conseguenza,
che sfugge a tutto ciò che viene etichettato
sotto la sigla “causa-effetto”, questa trama
caotica che causa cause attraverso le maglie
rotte dei numeri tirati in causa, quando tutto
è bandolo della matassa, e tra un valore e
l’altro ribollono plus-valori indecifrabili,
in immersione ed emersione (quando si
danno i numeri!), valori cifrati in ascesa
e discesa – movimenti incontrollabili, e
ogni cosa, caos, causa, si accavalla, “tutto
sgomita”, questo gozzoviglio, i suoi numeri,
segni infinitesimali in crepitìo, dall’intensità
che sfilaccia ogni tessuto, rompe ogni
contorno – dilaga – sfigurta la forma.
Scrivi col sangue
“Scrivi col sangue”: ri-conducendo il convulso
mo(t)to algebrico al formicolante e minuto
dimenarsi che alberga nelle forze della natura,
fluente modulazione corpuscolare catturabile
in carattere, l’anemia falciforme forma le
falci per falciare le forme, in perpetuo
assemblaggio e il suo contrario attraverso
le lettere dalle infinite proliferazioni.
Questo il “sistema letterario”: e “allora
imparerai che il sangue è spirito”, spirito
connaturato, parte vivente della trama
molecolare in carta canta sotto torchio:
astro nascente troncato nel compiersi
borbotta mimando il metallico brulichio
dei segni sventrati dei grafemi.
In un corpo a corpo col foglio-vuoto:
“riempiti sesamo!”: e la carta bianca
si sgretola sotto ai colpi della machina
verbale, la trama dei vuoti tipografici
diviene mosaico, in breve: è poemateria.
Qui, nero su bianco, il flusso soffio-scrittura
fluisce con il soffio-mondo, continuo rotolare
da una parola all’altra, da una lettera all’altra,
un porta a porta in rizoma, di rotolo in rotolo
e finché c’è carta, il gafema canta.
In parole po(l)vere (IV movimento)
IV.
– In principio era il verbo –
senza tempo, inteso, in tensione – forse,
verbo ed intenzione, senza tempo, non
già tempo verbale, ma tempio. Ergo:
“vivi nascosto”, dis-costo: donde:
non sei null’altro che questo collage
di movimenti, di dialettiche infrante,
somma sbriciolata della tua dimessa
inappartenenza, larva cicatrizzata,
concentricamente traspare l’assenza
dell’involucro, man mano si svela
una superficie rotta di sfaccettature
dalle mille impersonificazioni.
Per dirla breve: “prima ero, ora
erro ancora”. Cata-strofando in
questo dis-continuo estirparsi dal
reale, dis-essere e tessere un ricamo
di parole, parole, parole, di corpi
in divenire – ri-percorrersi di corpo
in corpo – ri-voltarsi di ventri
concentrici in un solo punto-matrice,
centro nevralgico del continuum
motorio, filone che salda in lacci
gli ombelichi in un solo cordone
cosmico, la fibra uterina – cavo
intrecciato di ogni carne – il tempo fu,
null’altro che fragile babele sull’orlo
del tonfo, in tondo, cieco giringirare,
senza parola d’ordine, questo dis-gregarsi
in poli d’idiomi, ammutoliti sul confine
del codice occulto che è il corpo,
in parole po(l)vere.
Quattro poesie
uno sbuffo
volta in volta
muta
la volta torta
sacca cardiaca
un
soffio
arde
i cardini giugulari
inalbera
il
fiotto purpureo
vela del ventricolo
si tendono funi rosse
annodate alle giunture
scricchiolano
finchè un sospiro
del sangue
non le spezza
lungo
l’eco
del tonfo conseguente
che di
apre
della
preme
contro gli archi del costato
ingorga spugna
trapuntata di alveoli
a fior di labbra
l’orifizio sgrana l’occhio
la brace squilla
onda azzurra che palpita
a fior di pelle
sul pelo dell’emisfero
coagula il fulmine delle ciglia
sull’illimitata fessura
tra la pelle e lo spazio
di un calice piangente
una corsa in controcanto
con le falangi
serrate
sul manico del mondo
rapprende il fiato della resistenza
trattenuto nel dimenarsi del sangue¹
¹questo è il mondo
Per Elia
Che succede allora
su questa stradina di buchi
e tracce
per incontrare il giusto
ormeggio non devi panicare
tra le gambe a crepacci
di un’infermiera da bettola
una mamma puttana santa e bambina
se vuoi che le orme non si
mettano a nanna e i piedi
sanguinino di placido orrore
ti devi far fuori
giorno per giorno
e al tuo compare di tresca
lasciare l’osso migliore
del suo scheletro burlone
da sgranocchiare quando
si bivacca lungo i marciapiedi.
E così mi sono chinato
e così mi sono chinato
come un fiore bruciato
e ho pianto petalo per
petalo la terra della
tua carne involata
e ho letto
nelle pagine del tuo
costato riarso il giorno
e l’ora in cui la benedizione
della tua fine avrebbe
coinciso come una
sentenza sulla mia vita
e ho udito
nel cavo della tua bocca secca
il mio respiro murato
nell’estremo e freddo
nascondiglio del ventre
di pietra del mondo
Cielo bianco accecante
Cielo bianco accecante
Piume lampeggianti
Lucente leggerezza
Sorseggiando vino
Sorseggiando vino
Barba e capello alla rinfusa
Che cosa pensano i muri?
L’orecchio del mare
I.
l’orecchio del mare è una fiamma
si china come su di un viale
che conduce alla pietra scottata
nella carne dura dei tronchi
Venere sopra i temporali
II.
venere sopra i temporali
sopra un dirupo di lenzuola sudate
porta come nella casa di Bernarda Alba
una tempesta in ogni stanza
Alla fine essere attore
alla fine essere attore forse
non è altro che questo rientrare ad ora tarda
masticare lentamente pollo al curry
tenendo un dialogo con i propri occhi
di fronte ad uno specchio laido
chiudere piano la porta
della propria stanza soli
dopo aver fatto tanto rumore
Ma Bohème
“Potrei sempre stuzzicare qualche fascista”
V. Majakovskij
come Rimbaud è giunto per me
il momento di mettere per iscritto
il sunto domestico della mia
sventurata Bohème
se lui
il poeta dalle suole di vento
andava a zonzo con i pugni
serrati a chela di ragno nelle tasche sfondate
io devo ahimé ammettere
che di pantaloni non ne ho quasi più
nell’ammasso rabbuffato dei cenci da lavare
scorpioni in ghisa ci hanno fatto il nido
ed io li pesto disinvolto come mozziconi
con il tallone guasto
all’uscita fecale della doccia
(dico fecale
perché essa ha le dimensioni di sfintere
di un neonato con il culo ustionato
dalle irritazioni)
il pavimento della stanza è soffocato di polvere
e come la stele di rosetta
se con una mano si solleva il velo delle cose oscure
sotto quel pulviscolo
una costellazione perforata nel piastrellato
in lavagna
racconta la disgraziata storia di un letto
a due piazze (e mezza) che pesa quanto
un pisolino del Grande Flavio in amaca tesa
tra due scogli in quel di Lampedusa
(benché in mezzo scorra il mare)
luce ne entra ben poca e le finestre
sono comunque irraggiungibili
la tazza del cesso da tempo è zoppa
e il fascismo discreto della borghesia
ha bruciato il nascondiglio dei miei versi
come un assetto di nazisti si scalda le mani
al chiarore di pagine in fiamme
dalle pareti si scollano fotografie
e con esse i muri
la mia donna piange e non le vengon le sue cose
ma con lo spirito con cui Monopoli ha archiviato aprile
(il mese più crudele) io la racconto così come viene
questa vita e queste poche righe gli dedico
Qualcosa di sprofondato
qualcosa di sprofondato
che riluce sulla carta
la carcassa d’una parola arranca
la battaglia vinta è persa
timido come un viso spaccato
con la mano allacciata
alla mandibola contratta
nella smorfia rovesciata dello specchio
si solleva dal palato e lievita
si qualifichi
degenerando in una crepa
affondata affogata come polmone
neonato sul palmo di terra
una mano fragile si suona
al modo d’una conchiglia che bacia
il proprio orecchio
Plus douce qu’aux enfants la chair des pommes sures
« Tutto questo andare a rotoli »
di Daniele Bernardi
è parte dell’Antologia della durata
nr . 10 della collana Quadra
l’immagine è di Daniele Bernardi
Novembre 2003
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