Aldo Rossi, Autobiografia scientifica: scrittura come progetto Abstract Aldo Rossi assume i modi ed i termini strutturali di una autobiografia, programmaticamente definita dall’autore ‘scientifica’, per raccontare la propria architettura, il proprio mondo di riferimenti, le proprie origini; «in discreto disordine». [1] Richiamandosi all’omonima opera di Max Planck, Rossi evoca ricordi di luoghi e cose abbandonate, frammenti di oggetti, forme, luci, gesti, sguardi, letture, citazioni di testi e di autori amati. Rossi non vuole esporre rigorosamente, attraverso lo strumento del racconto autobiografico, i principi della morfologia urbana, vuole – al contrario – «ripercorrere le cose o le impressioni, descrivere, o cercare un modo di descrivere». [2] Quella che Rossi adotta, nella redazione dell’autobiografia, è una struttura aperta in cui il disordine apparente rimanda tuttavia ad un ordine di carattere superiore il quale non può, in modo alcuno, aderire ad un metodo, ad una struttura logico-temporale, ad un impianto organico: fluisce come fluiscono il pensiero, il ricordo, l’arcana ed imprevedibile struttura dell’emergere della memoria affidata ad una vera e propria macchina della memoria. Raro, come rari sono gli scritti autobiografici di Rossi, questo scritto, che non è un ‘diario’, apre squarci biografici e poetici sempre sottesi dal pensiero coltivato verso l’architettura: evoluzione artistica e personale si fondono in un continuum in cui l’esposizione della teoria architettonica, nella sua genesi, assume il fascino e la bellezza del racconto. Le architetture di Rossi sono della stessa natura delle fiabe. Le fonti primigenie delle fiabe sono archetipiche e mitologiche ad un tempo, variegate e mutevoli possedute, nello stesso tempo, dal genio della ripetizione infinita e della infinita e circolare metamorfosi. Così come le fiabe vivono e si nutrono dell’ambiguità di appartenere strettamente ad un luogo, pur essendo per loro natura migratorie, le architetture di Rossi appartengono ad un tempo e ad un luogo capaci tuttavia di trascendere tali coordinate per assurgere ad un livello superiore di appartenenza che non è più solamente vincolo materiale. Viaggiando nel tempo e nello spazio – nelle culture – Rossi, attraverso i secoli ed i continenti, cattura nel circuito della propria narrazione citazioni, frammenti, ricordi, impressioni, memorie che si riducono e si trasformano incessantemente. Rossi è pienamente consapevole di come il progresso tecnologico abbia sovrastato l’architettura e assume questa realtà per tradurla e sperimentarla in una nuova dimensione che avvicina l’attività dell’architetto – inteso come artifex – a quella del regista teatrale e cinematografico. La costruzione è fatta di tempi così come il teatro o il cinema vivono dei propri tempi, è fatta altresì di misura. Il problema della misura è per Rossi fondamentale nell’architettura. Alla misura lineare Rossi associa una complessità di livello superiore; quella del "metro" che custodisce inalterata l’astrazione di una convenzione: è strumento e apparecchio, il più preciso dell’architettura. Proprio attraverso la materia e la costruzione Aldo Rossi riscopre l’importanza del tempo. Controcorrente ed in contrapposizione a taluni scenari neutri, Rossi comprende come l’architettura non possa esimersi dal misurarsi con le stesse eterne questioni che da sempre ne hanno determinato la sopravvivenza. «Non esiste l’illimitato e puro ‘avvenire’ così come non esiste niente che vada definitivamente ‘perduto’. Nell’avvenire c’è il passato. L’antichità può sparire dai nostri occhi ma non dal nostro sangue. Chi ha visto un anfiteatro romano, un tempio greco, una piramide egizia, o un utensile abbandonato dall’età della pietra, sa che cosa ho in mente». [3] Per ammissione dello stesso Rossi, nell’Autobiografia scientifica, l’osservazione delle cose è stata la sua più importante educazione formale, restando, essa stessa, la parte più trasmissibile dell’insegnamento dell’architettura; l’osservazione delle cose, poi, si è trasmutata nella memoria di esse stesse. «Ora mi sembra di vederle tutte disposte come utensili in bella fila; allineate come in un erbario, in un elenco, in un dizionario. Ma questo elenco tra immaginazione e memoria non è mai neutrale, esso ritorna sempre su alcuni oggetti e ne costituisce anche la deformazione e in qualche modo l’evoluzione» [4]. L’educazione al progetto e all’architettura di Aldo Rossi è tutta qui, in queste parole chiare, semplici e tuttavia profonde, quanto profondo è il tempo. Le sue architetture mostrano e testimoniano come la copia, la citazione possono egregiamente coesistere nell’invenzione di nuove architetture e mantenere lo status di vera e propria lezione viva e operante, a patto che non vengano intese come un mondo di forme che una volta determinate valgano per sempre, privandole degli elementi dialettici consustanziali del modello originario, svilendo e banalizzando le smisurate potenzialità di una ricerca che, alla meditazione sulle forme dell’architettura e sui loro statuti persistenti, deve aggiungere la singolarità della propria esperienza. Aldo Rossi ha saputo determinare un "punto di vista" diverso su cose già note, in grado di trasformarle, anche le più banali. [1] A. Rossi, Autobiografia scientifica, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1999, p. 79. [2] Ibid. [3] J. Roth, Le Città Bianche, Adelphi, Milano 1987, p. 83. [4] A. Rossi, Autobiografia cit., p. 32.