TEORIE DELLA PIANIFICAZIONE SOCIALE 1) L’evoluzione della pianificazione sociale ha seguito alterne fortune. Così, se fino agli anni ’70 ha dominato un approccio sistemico-funzionalista – di carattere determinista e accentratore – a partire da quella data hanno cominciato a prendere sempre più piede gli approcci che rivendicavano un diverso ruolo alla dimensione antagonista della pianificazione sociale: dapprima intesa come espressione della conflittualità tra interessi diversi propri di differenti stakeholders – soprattutto gli utenti –, successivamente come espressione delle tendenze di ripiego privatista caratteristiche degli anni ’80. 2) La visione struttural-funzionalista si preoccupa di offrire un 1 resoconto oggettivista della realtà, dei bisogni sociali e delle soluzioni da approntare. I fenomeni sono del tipo causale: A determina B. Una volta compresi i meccanismi, si dovrebbe essere in grado di predire i mutamenti che si verificheranno nella vita sociale, contestualmente al variare dell’incidenza e del peso delle diverse variabili intervenienti. 3) La pianificazione sociale in questo approccio tende a configurarsi come normativa perché è centralizzata e asimmetrica. È centralizzata in quanto il contesto decisionale è gerarchico, ed è asimmetrica perché non tiene conto delle singole unità coinvolte. 4) I compiti che spettano al pianificatore sono diversi e complessi, ma tutti rimandano all’idea di un decisore centrale dal quale dipendono le implementazioni di programmi e interventi. La pianificazione sociale appare come un’attività normativa orientata a costruire un sistema o a modificarlo in caso di 2 disfunzionalità. Come procedimento include elementi di: ricerca (includendovi raccolta dei dati, proiezioni e inventario delle risorse) ; analisi dei valori e agevolazione del manifestarsi di prese di posizione su tali valori, a volte anche a mezzo di meccanismi politici; formulazione degli indirizzi generali; strutturazione degli aspetti organizzativi (programmazione); valutazione e “feed-back”. 5) In definitiva, quindi, per questa prospettiva l’attività di pianificazione sociale si basa in buona misura sulla simulazione di situazioni della vita reale nell'ambito di uffici e di laboratori. Ciò è soprattutto vero per quanto concerne l 'educazione alla pianificazione. Le analisi dei sistemi offrono un metodo 3 apparentemente perfetto di simulazione, dal momento che un buon modello di una situazione reale è un modello che consente in buona misura la predizione della realtà. Il problema a questo punto consiste nel fatto che i modelli di simulazione sono costruiti solo su un piccolo numero di aspetti della vita reale e vengono utilizzati solo per sottoporre a verifica quegli aspetti particolari. 6) Strettamente legata all’ottica strutturalista, pur arrivando a conclusioni diverse sulla funzione della pianificazione, si colloca l’ottica conflittualista. In quest’ottica, infatti, tendono ad essere sottolineate le ragioni del conflitto e dell’opposizione di interesse tra le classi. 7) Questa concezione, quindi, punta a sottolineare gli elementi di contraddittorietà del sistema, quegli elementi strutturali che giustificano, in quanto ne sono causa, il conflitto sociale. Le basi di questo potere consistono, strutturalmente, nel controllo dei 4 mezzi economici e dei mezzi di produzione e, sovrastrutturalmente, nel controllo della cultura, della giustizia e della politica. 8) Le variabili cui prestare attenzione in un’ottica di pianificazione divengono la distribuzione disuguale del potere, la conseguente priorità assegnata all’élite dominante nella definizione, concettualizzazione e delimitazione del bisogno socio-assistenziale. Il conflitto si colloca proprio su questo versante, teso alla delineazione di un sistema in cui quei parametri risultano allargati rispetto alle definizioni ristrette emerse nell’ambito della prospettiva funzionalista. 9) Inoltre, si muovono critiche al concetto stesso di pianificazione sociale gestita dall’élite, quale strumento della coercizione e del controllo sociale. 10) Così, fino alla fine degli anni ‘60 la pianificazione è intesa 5 come un’insieme di direttive e di decisioni che vengono calate dall’alto: dagli organi istituzionali ai soggetti, senza alcuna possibilità di concertazione e di partecipazione. Emerge il modello razionalistico-aprioristico. Questo è di natura prescrittiva, infatti la direzione ed il controllo degli interventi è affidato alle norme politiche ed amministrative, l’implementazione è un problema esecutivo, l’utente è un destinatario passivo e la valutazione d’impatto non è problematizzata. Questo approccio poiché applica al sociale un principio di causalità lineare o multi-lineare, è presente soprattutto nell’Italia degli anni ’60, e si concretizza in una serie di interventi di tipo residuale, mirati cioè sui casi d’insuccesso e quelli più gravi (disoccupati, poveri, ecc.). 11) A partire dagli anni ‘70 si sono moltiplicate le critiche al paradigma positivista, provenienti anche da versanti che avevano fatto propri altri approcci collocati nella dimensione micro della 6 sociologia. Questi approcci fanno riferimento ad orientamenti di vario tipo e origine, accomunati tutti dal fatto di mettere in rilievo un punto di vista costruttivistico, che si oppone all’approccio sistemico. 12) Poiché secondo queste posizioni teoriche la società è il risultato non previsto, emergente, delle interazioni tra gli attori sociali, in cui quelle a carattere comunicativo assumono un ruolo centrale, viene rifiutata l’idea che sia possibile determinare dall’alto i mutamenti e le riforme della società. La pianificazione sociale non può partire dall’alto, perché il sistema sociale, diversamente da quanto asserito dall’approccio positivista, non obbedisce a nessuna logica naturale o storica predefinita (secondo quanto previsto dai determinismi marxiani), né ad alcun bisogno sistemico. 7 13) Il sistema è costruito tramite le interazioni tra gli attori sociali. 14) La sociologia interpretativa pone come essenziale nello studio della realtà sociale la capacità esclusiva dell’uomo di escogitare, negoziare, costruire e progettare il proprio mondo. L’uomo è in primo luogo artefice della propria realtà e non una vittima inerme. 15) La definizione di malattia o benessere è costruita insieme al soggetto target dell’intervento politico-sociale. L’anziano, così come il disabile, o la sua famiglia, “contratta” l’intervento. 16) Le conseguenze nel campo delle politiche sociali e della pianificazione, quindi, sono state rilevanti: si diffuse un modo di pensare la pianificazione sociale secondo programmi evolutivoincrementali improntati ad un incrementalismo selettivo opportunistico. 8 17) Gli attori sociali hanno rifiutato la pianificazione accentrata e si sono ritagliati spazi di intrusione nella programmazione, che hanno dato vita ad un welfare universalistico de-programmato, in cui ciascuno ha cercato di incrementare le opportunità personali a danno di una progettualità di ampio respiro: gli interventi sono divenuti situazionali e tamponatori. 18) Con l’affermarsi delle teorie sociologiche che rifiutano gli approcci olistici, in cui l’individuo è un “epifenomeno del sociale”, si affermano modelli di pianificazione sociale centrati sulla partecipazione dal basso, in cui l’attore sociale, in quanto portatore di bisogni, diviene il principale interprete della propria condizione. Si afferma l’approccio incrementale. Come si comprende dal nome, questo poggia i suoi assunti sulla logica incrementale, per questo ha una natura pragmatica ed evolutiva dove l’influsso del paradigma costruttivista (la costruzione sociale della realtà) che non tollera definizioni pre-determinate, 9 configura interventi frammentati, interventi a pioggia per diverse categorie di soggetti e bisogni, senza una visione organica, ma per scopi pragmatici perseguiti con successivi incrementi. È l’approccio degli anni ’70 condizionato non da norme ex-ante da applicare, ma da contingenze da affrontare (anziani, donne, emarginati, ecc.). 19) Gli anni ’80, quelli del riflusso nel privato, della crisi del welfare e del ritorno delle politiche liberali e liberiste, rafforzano la svolta individualista e gli approcci che rivendicano la capacità e la possibilità di scelta degli attori sociali, di contro alla coercitività e al determinismo asserito dagli approcci olistici. 20) L’attore sociale appare come agente volontario, orientato ad un fine, dotato di razionalità, seppur limitata. Egli “sceglie” e partecipa alla definizione del proprio destino: la pianificazione sociale è concepita come emergenza di un'arena, di un mercato, che può assumere la forma di un ordine che si produce 10 "spontaneamente" attraverso gli scambi individuali fra gli attori. 21) La pianificazione ha qui un suo strumento-principe, che è la privatizzazione (come liberalizzazione) dei comportamenti e delle maniere di risolvere i bisogni sociali». 22) Alla luce di quanto detto è possibile tirare le somme, identificando alcune linee di tendenza. 23) Una prima di queste si riconnette ad un approccio deterministico, di carattere sistemico-organicista, in cui la pianificazione sociale ha un carattere aprioristico e condizionale. La teoria tende ad imporre linee di intervento che si connettono alle sue elaborazioni, senza tenere in alcun conto i feed-back che possono derivarle dalla prassi della pianificazione. 24) Nel secondo modello, di carattere costruttivista, la relazione che lega la teoria sociologica alla prassi della pianificazione sociale tende quasi a confondersi, dal momento che sembrano non apparire linee di demarcazione netta tra le due. Poiché sono 11 gli individui a costruire la realtà, e a definire le stesse etichette rilevanti per la politica sociale, la teoria e la prassi finiscono per sembrare la stessa cosa. Il rischio che emerge si connette all’assenza di una progettualità, di una pianificazione di medio o di lungo periodo. Poiché tutto va concordato e “costruito” con gli attori sociali, la pianificazione tende ad assumere carattere contingente, legata alla soddisfazione opportunista di fini personali e immediati, piuttosto che volti a modificare il sistema in direzione di un miglioramento dell’offerta di servizi e di interventi di sostegno e di accompagnamento ai bisognosi. 25) Infine, la terza linea di tendenza si connette all’idea che la pianificazione sociale debba sottostare all’intenzionalità degli attori, alla loro soggettività. Ciò, alla luce del fatto che le politiche sociali sono intese come elementi residuali rispetto ai singoli percorsi e progetti esistenziali. Solo quando questi falliscono, o incontrano ostacoli difficilmente superabili dal 12 singolo, è giusto correre in aiuto del bisognoso. Il processo ha caratteristiche in parte simili a quanto emerso nel modello precedente, con la differenza che in questo terzo modello si fa più attenzione alle scelte, limitate, degli attori sociali. Le politiche sociali hanno un carattere residuale rispetto alle libera interazione tra gli attori nell’arena sociale, dove vige una legge “darwiniana” che premia i “migliori”, i “più adatti” e i “più utili” per il benessere della collettività. 26) Gli anni ’80, quindi, dominati dalle tendenze individualiste e dalla crisi del welfare, vedono l’affermarsi di un modello di pianificazione sociale che, pur muovendosi in un’ottica individualista, e rifiutando anch’esso gli approcci olistici degli anni ’60, cerca di rimediare ai limiti dell’approccio incrementale. Si parla, a tal proposito, di approccio pragmatico per obiettivi. In questo, la programmazione è intesa secondo una prospettiva circolare che prevede l’uso della ricerca empirica sia 13 in fase conoscitiva che per quanto riguarda la verifica dell’efficacia dei provvedimenti adottati (integrazione degli anziani, riabilitazione dei tossicodipendenti, ecc..) e consente l’adeguamento del processo di pianificazione ai cambiamenti sociali. 27) Arriviamo quindi agli anni Novanta, in cui la pianificazione sociale assume un carattere nuovo, quale processo decisionale a carattere prevalentemente tecnico, in cui attori sociali ai quali viene riconosciuta una specifica competenza (siano operatori degli enti locali o del Terzo Settore), una volta che abbiano fatto una valutazione delle risorse a disposizione e degli obiettivi scelti, preso atto dei contestuali bisogni della popolazione e dell’offerta di servizi, traducono gli obiettivi in interventi concreti, riprogrammando le azioni e gli interventi in relazione alle verifiche compiute. 28) In questi decenni la pianificazione sociale rappresenta 14 l’ambito tecnico-teorico in cui si realizzano le politiche sociali. Essa tiene conto del livello di conoscenza raggiunto dalla riflessione sociologica e ne contiene molte delle derivazioni che essa ha elaborato sul funzionamento della società. Si afferma quello che Donati e la sua scuola definiscono approccio relazionale, la cui caratteristica fondamentale è la stretta e costante interazione tra destinatario dell’intervento e pianificatore, nell’ambito di un intervento di rete che vede coinvolte le realtà più “familiari” all’utente dei servizi sociali. 29) Questo modello presuppone un sistema di osservazione consapevole dei propri problemi e adeguato all’oggetto-soggetto dell’intervento, una ridefinizione del modo in cui viene formulata la diagnosi del bisogno o del problema sociale, un intervento che coinvolga attori e fattori dentro e attorno al problema sociale, l’utilizzo di metodologie che mirino a valorizzare tutte le potenzialità degli attori in gioco. 15 30) In definitiva, quindi, si possono individuare tre linee di tendenza principali rispetto alla pianificazione sociale: a. una linea deterministica, del tipo top-down, caratteristica di un approccio scientista e decisionista, in cui la politica è decisa dall’alto in virtù di un preciso mandato che non viene posto in discussione sino alla prossima elezione; b. una linea soggettivistica, del tipo bottom-up, tipica di una concezione individualista, che rifiuta le determinazioni sistemiche e sottolinea il carattere soggettivo delle scelte e dei percorsi esistenziali degli attori sociali; c. una linea che cerca di sperare i limiti degli approcci precedenti. Secondo questo approccio le strutture condizionanti sono il frutto delle relazioni tra gli attori sociali, che danno vita a reti sociali fondamentali ai fini della pianificazione, poiché costituiscono il capitale sociale dell’individuo e il punto di riferimento di politiche 16 che tendono a sfruttare il sostegno delle reti di solidarietà per sostenere l’intervento a favore dei bisognosi. 17