1. INTRODUZIONE 1.1 Angioplastica coronarica percutanea transluminale L’angioplastica coronaria percutanea transluminale (PTCA) è una metodica ampiamente utilizzata che consente di dilatare le arterie che diffondono il sangue al cuore (arterie coronariche) nel caso che queste siano totalmente o parzialmente occluse da placche aterosclerotiche. L’angioplastica prevede l’utilizzo di un catetere a palloncino in grado di provocare vasodilatazione e ristabilire il normale flusso sanguigno. E' una procedura di rimodellamento meccanico della parete di un'arteria coronarica in segmenti stenotici (ristretti). Il suo uso è oggi sempre più frequente, tanto da aver notevolmente ridotto il ricorso alla cardiochirurgia. Nell’angioplastica tradizionale viene usato un catetere munito di un palloncino in punta che viene introdotto in anestesia locale nell’arteria femorale o radiale e spinto verso il cuore fino alla sede della stenosi. Quindi si gonfia il palloncino fino al diametro della coronaria (da 2 a 5 mm) dilatando così il vaso sanguigno ristretto (Fig. 1). L’angioplastica tradizionale conduce alla dilatazione della stenosi con successo nella grande maggioranza dei casi. Esiste però una piccola percentuale in cui, invece della dilatazione si verifica l'occlusione acuta del vaso. In passato l'occlusione acuta era spesso causa di complicanze quali infarto miocardico acuto, by-pass aortocoronarico d'urgenza, decesso. Attualmente l'impianto di protesi coronariche (stent) ha ridotto notevolmente queste complicanze. 1 Negli ultimi anni alla metodica di dilatazione sopra descritta, se ne sono affiancate altre. Queste nuove metodiche permettono di trattare restringimenti coronarici difficilmente aggredibili con il solo catetere a palloncino. La scelta di quale metodica usare è essenzialmente tecnica e lasciata all'esperienza dell'operatore. Lo stent coronarico è una protesi metallica a forma di piccolo tubicino che, posizionata a livello del restringimento, consente di allargarlo in maniera più efficace e duratura rispetto all'angioplastica tradizionale. La protesi non va incontro a rigetto, non provoca tumori e assolutamente non si sposta dopo che è stata posizionata. Dopo 4-6 settimane la protesi è incorporata nella parete della coronaria, viene cioè ricoperta dalle cellule della parete (endotelio) che la isolano dal sangue. Fino a che questo processo non si completa è richiesto l'uso di farmaci che rendono il sangue più fluido ed, in particolare, rendono le piastrine meno attive. I farmaci che si usano con più frequenza sono l’Aspirina e la Ticlopidina. L'impianto di stent può essere deciso elettivamente, o per trattare una complicanza quale l'occlusione acuta o la dissezione. In tutti questi casi il successo di impianto è molto alto. Il continuo evolvere della ricerca tecnologica ha permesso la distribuzione sul mercato di protesi di diverso tipo: a rilascio di farmaci, radioattive etc. La scelta di queste dipende dall'esperienza dell'operatore e non può essere definita sempre prima della procedura. Talvolta, per trattare delle lesioni estese, sono necessarie più protesi. Particolari procedure sono le angioplastiche con l’utilizzo del cutting balloon (un palloncino corredato di 2 lamelle che tagliuzzano le stenosi), l’aterectomia rotazionale (una fresa simile a quella del dentista che con una punta ruotante dissolve la stenosi) e la direzionale che con un sistema di lame permette di tagliare l’ostruzione e aspirare il materiale. 1.2 Restenosi L’angioplastica è però complicata dalla restenosi, un processo di cicatrizzazione esuberante nel punto trattato che può portare alla comparsa di un nuovo restringimento dopo 2-6 mesi dal trattamento. La restenosi si può verificare in circa il 30% dei casi dopo angioplastica tradizionale e dopo aterectomia rotazionale o direzionale (Holmes et al., 1984; Serryus et al., 1988; Califf et al., 1991). L'impianto di stent riduce questo rischio, che può essere inferiore al 10% se sono trattati restringimenti brevi e in coronarie principali. Comunque nessuna di queste metodiche può ridurre a zero il rischio di restenosi. La comparsa di restenosi generalmente si manifesta gradualmente con angina pectoris (dolore al petto) dopo 2 o 4 mesi e non porta in genere a complicanze acute drammatiche. Spesso la restenosi dà sintomi modesti o assenti. Per tale ragione il paziente deve sottoporsi a periodici controlli cardiologici e a tutte le prove consigliate includendo spesso una prova da sforzo dopo 3-6 mesi e soprattutto non deve sottovalutare eventuali sintomi che compaiono nei mesi successivi alla dimissione anche se con sintomatologia sfumata. Quando la restenosi si manifesta può essere trattata con una nuova angioplastica o, in alcuni casi, 3 può essere richiesto un intervento cardiochirurgico. Il rischio di restenosi è legato ad un processo di rimodellamento precoce (cicatrizzazione dopo l'intervento) e quindi, una volta superato il periodo di rischio (6-8 mesi dopo il trattamento) il buon risultato può essere considerato definitivo. Nonostante i meccanismi fisiopatologici alla base della restenosi non siano ancora del tutto chiariti, diverse evidenze sperimentali sia nell’uomo che nell’animale suggeriscono che l’infiammazione svolge un ruolo centrale in questo fenomeno (Schwartz et al., 2002; Welt et al., 2002). Il danno vascolare conseguente alla procedura di rivascolarizzazione induce un immediato e progressivo rilascio di fattori trombogenici, mitogeni, nonché di molecole vasoattive con conseguente aggregazione piastrinica, formazione di trombi e reazione infiammatoria con attivazione dei macrofagi e delle cellule muscolari vasali lisce (VSMCs) (Ip et al., 1991; Ferns et al., 1991; Welt et al., 2002). Questi eventi causano la produzione ed il rilascio di fattori di crescita e di citochine che a loro volta sono segnale per la loro stessa sintesi e rilascio dalle cellule infiammatorie (Clowes et al., 1983; 1989). Conseguenza di tale meccanismo è la migrazione delle VSMCs, dalla loro posizione usuale nella media dei vasi, nell’intima dove vanno incontro ad un cambiamento nel fenotipo che causa la loro proliferazione con formazione di una nuova struttura chiamata “neointima” (Libby et al., 1992; Schwartz et al., 1992). Da questo punto di vista il fenomeno della restenosi può essere considerato come una risposta infiammatoria-proliferativa al danno vascolare (Schwartz., 1999). 4 Tuttavia, in questi ultimi anni diverse evidenze sperimentali mettono in dubbio l’ipotesi che alla base del processo restenotico, che si osserva in seguito a procedure di rivascolarizzazione mediante tecniche di caterizzazione quale è la PTCA, vi è una reazione proliferativa. L’ipotesi attualmente più accreditata è che la causa della riduzione del lume vascolare sia un fenomeno di rimodellamento vascolare “vascular remodelling”, che contribuirebbe in maniera più significativa al fenomeno della restenosi (Mintz et al., 1996; Kimura et al., 1997; Indolfi et al., 1999). Al contrario, è stato dimostrato che il fenomeno della restenosi che si osserva dopo impianto di stent non è dovuto a fenomeni di “remodelling” ma soprattutto a proliferazione delle VMSCs con formazione di neointima (Indolfi et al., 1999). Il “remodelling” è un complesso e ancora non ben chiaro processo probabilmente dovuto ad uno squilibrio tra proliferazione cellulare e apoptosi (Cho et al., 1997), ad una disregolazione tra produzione e degradazione della matrice proteica (Coats et al., 1997), così come a cambiamenti emodinamici nel flusso sanguigno (Davies, 1997; Ward et al., 2001), tutti fenomeni che tendono a causare meccanismi compensatori del diametro del vaso e del lume vascolare. 5