Che ne sarà del Welfare State?
a cura di Marco Brunod
La funzione svelante della crisi economica
Sono passati ormai diversi anni da quando, nel 2008, la crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti ha reso a
tutti visibile la fragilità del sistema economico occidentale e la fallibilità dei principi su cui si fonda il suo
modello di sviluppo. L’Italia, più di altri Paesi appartenenti a questa area, è stata duramente segnata da una
recessione perdurante e da un progressivo indebolimento del suo sistema produttivo che ha determinato
un complessivo impoverimento della società.
Sono così drasticamente diminuite le risorse a disposizione dello Stato per garantire ai cittadini i loro diritti
inerenti: l’assistenza sociale e sanitaria, l’istruzione, il sostegno in caso di disoccupazione, l’accesso al
lavoro, la previdenza per invalidi e anziani, l’accesso alle risorse culturali, la difesa dell’ambiente naturale.
Contemporaneamente sono cresciute le difficoltà delle famiglie: a fine 2012 il 29,9%, ovvero quasi una
famiglia su tre, presentava almeno una delle difficoltà considerate nel calcolo dell’indice sintetico di
povertà o esclusione sociale1, il 19,4% era a rischio di povertà, il 14,5% soffriva di deprivazioni materiali e il
10,3% non aveva lavoro. A fine 2012 più di 18 milioni di persone in Italia erano in una situazione di rischio di
povertà o di esclusione sociale. Intanto la pressione fiscale effettiva, quella riferita al Pil emerso, saliva nel
2013 al 54% (pressione fiscale ufficiale al 43,8% del PIL a fine 2013) diventando tra le più alte d’Europa2.
La società del benessere sembra essere in via di evaporazione e con essa il suo Welfare State ossia quel
“complesso di politiche pubbliche messe in atto da uno Stato che interviene, in un’economia di mercato,
per garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini, modificando in modo deliberato e regolamentato la
distribuzione dei redditi generata dalle forze del mercato stesso”3.
Per comprendere come la crisi economica iniziata nel 2008 abbia modificato gli scenari del nostro welfare
occorre brevemente richiamare i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni all’interno del sistema di servizi
deputati al trattamento delle problematiche sociali e sanitarie, cambiamenti innescati inizialmente dalla
necessità di garantire a tutti i cittadini i diritti alla salute e alla sicurezza sociale.
Negli anni Settanta si assiste a un consistente sviluppo del sistema di servizi socio sanitari, sono anni
attraversati da una tensione etica alla costruzione dello stato sociale che fa leva sulla necessità di assumere
socialmente le fragilità presenti nella società riconoscendo le diversità e le specificità di ciascuno. I servizi
generati da queste spinte, che allora si presentavano come beni comuni universali e gratuiti, rappresentano
uno dei risultati più significativi di quegli anni. La riforma del Sistema Sanitario Nazionale nel 1978,
sostenuta dall’azione di numerosi movimenti sociali, sancisce formalmente e simbolicamente il
riconoscimento del diritto alla salute.
L’imponente sviluppo di nuovi servizi è accompagnato negli anni successivi da una maggiore strutturazione
dei compiti istituzionali e dalla progressiva introduzione di standard operativi finalizzati a garantire
trattamenti uguali per tutti i cittadini. Si presentano così anche nuove difficoltà: in quei sistemi organizzativi
dove è stato più difficile mantenere un rapporto equilibrato tra le brillanti premesse della nascita dei servizi
e le complessità presenti nella realtà si manifestano primi blocchi e fenomeni involutivi segnati da una
parte da tendenze alla burocratizzazione e dall’altra dalla cristallizzazione e ideologizzazione degli elementi
valoriali istitutivi.
1
Fonte: Eurostat
Fonte: Il Sole 24 Ore, 25.07.2013
3
Treccani.it, l’enciclopedia italiana, alla voce “Welfare State”
2
1
Sul finire degli anni Ottanta, ormai conclusa la fase di sviluppo e innovazione, iniziano a manifestarsi i primi
segnali di crisi di un sistema di servizi che nonostante le aspettative e le speranze è cresciuto in modo
disomogeneo e ha dovuto misurarsi con la sempre più visibile “irrisolvibilità” di molti problemi di cui le
nuove organizzazioni socio sanitarie sono chiamate ad occuparsi.
Allo svoltare del nuovo millennio il declino delle forme collettive di rappresentanza sociale e degli impianti
valoriali che le hanno sostenute lascia spazio a una pervasiva affermazione della dimensione economica
vista come fattore/valore certo e inconfutabile.
Per i servizi non è più sufficiente accogliere le domande dei cittadini, gestire le diversità sociali e lavorare
sulla complessità dei problemi su cui si sviluppano le domande di aiuto. Bisogna sempre più dimostrare con
dati tangibili la concretezza dei risultati, il loro valore, la loro qualità. Le trasformazioni della Pubblica
Amministrazione, i nuovi modelli di erogazione delle prestazioni, lo spostamento di parte dei costi sui
destinatari dei servizi stessi, spingono spesso i cittadini, attraverso le loro forme associative, a passare da
una propensione più partecipativa a prese di distanza critiche sempre più connotate da elementi
rivendicativi.
In questo quadro caratterizzato da movimenti di segno contrastante si afferma in modo inedito una
prospettiva mercantile che propone una stretta alleanza tra dimensione economica e tecnica4 alimentando
l’idea di poter trovare forme e strumenti in grado di rispondere in modo soddisfacente alle domande di
cura presenti nella società. Si ripropone, paradossalmente, in una prospettiva completamente diversa, la
convinzione che ha caratterizzato il sistema dei servizi alla sua nascita, cioè l’idea che un soggetto
(istituzione o mercato) possa da solo assumere la complessità dei problemi sociali e sanitari e porvi rimedio
fornendo soluzioni soddisfacenti (si può sintetizzare questo orientamento con lo slogan spesso declamato:
dallo stato al mercato). Il presupposto ontologico di questa concezione è che il trattamento di tutte le
problematiche sociali e sanitarie sia regolabile attraverso una efficiente gestione del rapporto costibenefici, sia cioè sottoponibile a una logica di redditività economica. Questa razionalità lineare, sostenuta
da una concezione onnipotente della tecnica ha esercitato per un breve periodo una funzione
tranquillizzante, ha oscurato il processo in atto di de-costruzione di quello che fino al 2008, anno
dell’inaspettata esplosione della crisi economica, era stato visto come il sistema di Welfare State italiano.
Negli anni che precedono la crisi, il sistema di welfare, in particolare per la parte costituita dai servizi sociali,
sanitari ed educativi, mostra tutte le sue incompiutezze e le sue incertezze strategiche. I servizi non sono
presenti in modo omogeneo sul territorio nazionale e al di là di uno scontata polemica tra coloro che
vorrebbero privatizzarli e coloro che ne difendono la natura pubblica non si sviluppa un pensiero strategico
in grado di far intravedere realistiche prospettive percorribili.
Il notevole contributo politico e culturale offerto dalla Legge 328 “Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali" promulgata nel 2000 per riorientare il sistema di servizi
sociali viene di fatto fortemente depotenziato dalla riforma del Titolo V della Costituzione che nel 2001
attribuisce alle Regioni le competenze legislative in materia socio assistenziale.
Le Regioni assumono il potere di disciplinare il sistema dei servizi sociali e la responsabilità di garantire il
soddisfacimento dei diritti sociali all'interno dei propri territori ma esercitano queste attribuzioni con molta
lentezza e per lo più con scarsa incisività strategica anche perché l’esercizio di questi poteri non è sostenuto
dall’investimento di adeguate risorse economiche. Questo debole esercizio delle funzioni politiche in
ambito sociale delle Regioni è inoltre favorito dalla mancanza di vincoli giuridici nazionali. Infatti se in
materia sanitaria e sociosanitaria sono stabilite a livello nazionale le prestazioni giuridicamente definibili
come “livelli essenziali di assistenza” che devono essere erogate dal Sistema Sanitario Nazionale in ogni
distretto in cui è suddiviso il territorio nazionale, a livello sociale questo vincolo giuridico non esiste5. Dopo
più di dieci anni dall'approvazione della riforma del Titolo V, lo Stato non ha provveduto alla
4
Brunod M, Le organizzazioni nell’era postmoderna tra trasparenze e occultamenti, n.5 SPUNTI, Milano, 2002.
Costa G, La solidarietà frammentata. Le leggi regionali sul welfare a confronto, Bruno Mondadori, Milano, 2009.
Ranci Ortigosa E., Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni, Prospettive Sociali e Sanitarie, Milano, 2009.
5
2
determinazione legislativa dei livelli essenziali delle prestazioni a tutela dei diritti civili e sociali, questo ha
impedito fino ad oggi ai cittadini di esigere l'erogazione delle prestazioni necessarie a garantire il
godimento di un loro diritto. Nel corso degli anni le Regioni hanno fatto qualche timido tentativo di
rimediare a tale inadempienza, contribuendo però allo stesso tempo a incrinare l'intento egualitario del
testo costituzionale.
La crisi economica iniziata nel 2008 si presenta da subito come una crisi strutturale che non si esaurisce in
poco tempo ma perdura mettendo progressivamente in discussione certezze e conquiste pensate fino a
quel momento come indiscutibili. I fondi per le politiche sociali delle Regioni e delle Province autonome che
nel 2008 ammontavano complessivamente a 1.231 milioni di euro si riducono drasticamente negli anni
successivi e nel 2013 sono costituiti da soli 575 milioni di euro; in sei anni i fondi a disposizione per le
politiche sociali si riducono del 53,3%6. Gli Enti Locali, sui quali pesa di fatto la parte più consistente della
spesa sociale, da una parte sono costretti dai ripetuti tagli dei trasferimenti economici dello Stato a ridurre
le risorse economiche previste per i servizi sociali ed educativi, dall’altra devono fronteggiare una costante
riduzione del personale determinata dal perdurante blocco delle assunzioni. Ne consegue una riduzione, e
in molti casi la chiusura, dei servizi sociali ed educativi offerti ai cittadini in una fase in cui i processi di
impoverimento in atto determinano un allargamento e una crescita delle richieste di aiuto. Questa
situazione si ripercuote consistentemente anche sul Terzo Settore: le cooperative che ormai da qualche
decennio affiancano la Pubblica Amministrazione nella realizzazione dei servizi pubblici vedono ridursi i loro
spazi di lavoro e in molti casi, anche per i ritardi nei pagamenti, devono misurarsi con situazioni critiche che
impongono riduzioni dei livelli occupazionali; le associazioni di volontariato diventano per molti cittadini
l’ultimo rifugio dove poter trovare con sufficiente rapidità aiuti materiali essenziali e vedono quindi
accrescere in modo molto consistente gli accessi ai servizi da loro offerti. In questo quadro dominato da
processi di impoverimento che toccano non solo i cittadini ma anche il sistema di servizi, che dovrebbe
essere loro di aiuto, è presente un fattore in controtendenza costituto dal ruolo giocato dalle fondazioni di
origine bancaria che nei territori di loro competenza immettono risorse economiche crescenti. Il ruolo che
questi nuovi soggetti privati giocano nei cambiamenti in atto nel sistema dei servizi a carattere sociale è
molto rilevante basti pensare che nel 2012 le risorse economiche messe a disposizioni dalle Regioni e dalle
Province Autonome ammontavano, toccando il livello più basso mai raggiunto, a soli 71 milioni di euro7,
nello stesso anno le 88 fondazioni di origine bancaria erogavano per finalità sociali 124,5 milioni di euro8.
La crisi economica si innesta quindi su una crisi del sistema di welfare sociale già presente e ne svela i tratti
più critici, in particolare la mancanza di ipotesi politiche realistiche relative a come fronteggiare i fenomeni
di impoverimento e a come favorire la difesa e il miglioramento della qualità della vita dei cittadini. Le
difficoltà che la crisi immette nel sistema di welfare sociale sono acuite dalla mancanza di una visione
strategica in grado di orientare in modo sensato le azioni dei diversi soggetti coinvolti compensando le
debolezze di uno Stato che dopo aver promulgato una legge di riordino dei servizi sociali (328/2000) non ne
ha poi favorito l’attuazione e di Regioni che hanno esercitato in modo lento e incerto le loro responsabilità
di governo in materia di welfare sociale (riforma del Titolo V), in un contesto caratterizzato da una
crescente penuria di risorse.
6
Fonte: quotidianosanità.it
Fonte: quotidianosanità.it
8
Nel 2012 le 88 fondazioni di origine bancaria “nel settore d’intervento dell’Assistenza sociale hanno erogato 124,5
milioni di euro, il 12,9% del totale delle loro erogazioni. La parte prevalente (90%) va al comparto Servizi sociali,
seguito da Servizi di protezione civile e Assistenza a profughi e rifugiati ai quali va complessivamente il 3,6% degli
importi indirizzati al settore. I destinatari sono in primo luogo i disabili (42,7%), quindi gli anziani (19,6%), i minori
(14,5%) e i tossicodipendenti (0,6%); ad altri soggetti (famiglie a rischio di povertà, persone senza fissa dimora,
detenuti, ecc.) va il 19,7%.” (Fonte: rapporto ACRI, Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio).
7
3
Paradigmi culturali obsoleti: la fine di molte illusioni
Il carattere strutturale della crisi economica, il suo perdurare, le difficoltà nel fronteggiare i processi di
declino che si insinuano nella società, l’incapacità di sviluppare prospettive per andare oltre, mettono a
nudo non solo la fragilità del modello socio economico su cui si fonda la nostra convivenza civile ma anche
l’obsolescenza dei paradigmi culturali con cui si leggono e si interpretano i fenomeni che ne stanno
determinando la decadenza.
E’ oramai sotto gli occhi di tutti che la crisi economica è di fatto l’espressione manifesta di una crisi più
profonda in cui il modo di pensare in essa dominante, centrato quasi esclusivamente sulla presupposta
veridicità delle leggi economiche del mercato, non è più in grado di prefigurare un futuro realisticamente
sostenibile. Su questa razionalità illusoria che ha generato acute delusioni accompagnate da smarrimenti e
crescenti paure si è appiattito il modo di pensare della società, del sistema politico e delle istituzioni. Per
anni si è pensato che il benessere, raggiunto nella seconda metà del 900’ nei paesi occidentali, fosse una
condizione non solo irreversibile ma in costante ampliamento. La società, vista come sistema sociale
caratterizzato da una estesa e intricata molteplicità di relazioni tra individui e gruppi, in cui convivono
dinamiche solidaristiche e conflittuali, si è così progressivamente trasformata in “società dei consumi”9, in
un sistema dominato dalla convinzione che il benessere coincide con la possibilità per ogni individuo di
poter incrementare senza limiti i propri consumi, tutto questo permesso e sollecitato da una crescita
produttiva di beni e servizi apparentemente infinita. In questa prospettiva culturale i processi di
frammentazione della società sono stati progressivamente assunti come aspetti naturali, fisiologici, di una
modernità in cui l’idealizzazione dell’essere individuale, di ciò che ciascuno può raggiungere contando solo
sulle proprie forze, è andata di pari passo con una marginalizzazione, o addirittura con una vera e propria
svalutazione, del senso di comunità, dell’essere cittadino. In questo quadro l’idea stessa di “welfare state” è
entrata progressivamente in crisi e il suo mantenimento è stato messo in discussione indipendentemente
dalle risorse economiche impiegabili e dalla sua evoluzione tecnica e strutturale. In una società fortemente
individualizzata in cui ciascuno è chiamato a risolvere i propri problemi in autonomia, la logica stessa su cui
si fonda il welfare state è superata10.
Questo scenario contradditorio, in cui l’individualismo consumistico convive con attese di protezione e
rassicurazione, non è solo l’esito di un modello di sviluppo finalizzato a soddisfare intenti essenzialmente
economici o la conseguenza di dettami normativi che presentano rilevanti insufficienze e incoerenze
(norme che nella loro legittimità perseguono solo parzialmente gli intenti costituzionali), è anche il
prodotto di un immaginario sociale che ha contribuito a generarlo e che da esso è stato rinforzato11. Questo
immaginario fatto di modi di sentire, pensare e rappresentare la realtà prende corpo negli anni 60’ con il
“boom economico” e si sviluppa come reazione agli stenti, alle costrizioni autoritarie e alle distruzioni patite
nel precedente periodo storico (epoca fascista e seconda guerra mondiale). E’ un immaginario che si fonda
sul sogno americano del “self-made man” e sul ruolo protettivo attribuito allo Stato che attraverso
l’allestimento di un esteso sistema di welfare deve garantire il rispetto dei diritti civili e la sicurezza dei
cittadini. Si afferma così una visione dell’individuo che mette in secondo piano la comunità/società,
sostenuta da un’idea radicale di libertà individuale che costruisce il presupposto culturale per legittimare e
diffondere comportamenti individuali esclusivamente orientati verso il proprio successo e il proprio
arricchimento, al riparo da eccessivi rischi ed esposizioni. In questa prospettiva, in particolar modo in Italia,
i comportamenti di natura illegale (evasione delle imposizioni fiscali, corruzione, clientelismo, economia
illegale) non solo sono diffusamente tollerati ma diventano una componente normalizzata nelle strategie di
affermazione degli interessi di natura individuale. Questo immaginario, prodottosi nella società e rinforzato
da logiche di governo contraddittorie, ha generato la convinzione che una diffusa irresponsabilità sociale
potesse felicemente convivere con un sistema di diritti e di servizi di welfare.
9
J. Baudrillard, La società dei consumi, i suoi miti e le sue strutture,Mulino, Bologna, 2010
Z. Bauman, La società individualizzata, Mulino, Bologna, 2002
11
C. Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino, 1995
10
4
La crisi economica svela la falsità di queste credenze, evidenzia i limiti dell’attuale modello di sviluppo e
l’illusorietà di un sistema di welfare che non può, in queste condizioni, garantire il benessere auspicato,
sottolineando l’inconsistenza e l’obsolescenza dell’impianto culturale e valoriale che ha sorretto la
costruzione dell’attuale sistema socio economico. Paradossalmente l’avvio di questo processo di
decostruzione si configura come una grande opportunità, non solo per ricercare un modello di sviluppo
sostenibile ma anche per ripensare l’idea stessa di benessere e del sistema di sostegno e protezione che le
persone e le comunità necessitano per la loro esistenza. Opportunità che per affermarsi deve
necessariamente essere colta dalla società prima ancora che dalle istituzioni che la governano che per la
loro inerzia tendono di fatto a conservare l’esistente. Un evidente segnale di questa propensione è
costituito dalla decisione di Eurostat (giugno 2014), fatta propria dall’Istat, di inserire una stima dei conti
delle attività illegali (traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando di sigarette
o alcol) nella misurazione del PIL12. Per far crescere il Pil, condizione strutturale su cui si fondano gli equilibri
economici e politici della nostra società, e non modificare l’attuale sistema di regole, le istituzioni europee
e nazionali dopo aver inserito nel conto complessivo l’economia sommersa (il 17% circa del PIL italiano)
procedono ora ad inserire quella illegale (per l’Italia è stata stimata al 3,7%). Di fronte a questi posizioni che
tendono a rinviare, con una notevole dose di ipocrisia, la ricerca di nuovi presupposti su cui rifondare le
dinamiche economiche, spetta alla società, alle sue componenti più vive e costruttive, il compito di
introdurre ed estendere pratiche di innovazione sociale in grado di rigenerare un immaginario in cui
possano trovare posto nuove forme di convivenza sociale. Perché questa fase non sia solo l’espressione del
declino di un modello di società che non è più in grado di riprodursi è necessario guardare i fenomeni
generati dalla crisi, non solo come manifestazioni di destrutturazione dell’ordine precedente, ma anche
come nuovi spazi in cui si possono incuneare idee e forze istituenti.
Cambiare prospettiva, riscoprire il potenziale generativo della dimensione relazionale
Per analizzare e rappresentare la qualità della vita dei contesti sociali e per ridefinire il significato di
benessere Amartya Sen, propone un’interessante prospettiva denominata “approccio delle capability” o
delle “capacità”13. Le ragioni che rendono questa prospettiva particolarmente significativa per ridefinire il
concetto stesso di benessere sono principalmente due. In primo luogo, il benessere individuale è
considerato non come una condizione statica e materialistica, definita dal semplice possesso di un dato
ammontare di risorse materiali (reddito e/o beni) ma come un processo in cui i mezzi e le risorse disponibili
rappresentano uno strumento per ottenere benessere e non sono di per sé un adeguato misuratore del
benessere complessivo delle persone. In secondo luogo, l’approccio delle capacità non si limita a estendere
l’attenzione al di là della sola dimensione monetaria, riferendosi a una molteplicità di indicatori o di
dimensioni del benessere individuale, ma richiama l’attenzione sulla pluralità di fattori personali e familiari,
e sulle molteplicità di contesti sociali, ambientali, economici, istituzionali, culturali, che agiscono nella
determinazione del processo di benessere individuale.
L’approccio delle capacità si presenta come un paradigma teorico critico e alternativo alle classiche visioni
dello sviluppo che guardano esclusivamente al PIL, alla produzione di ricchezza e alla massimizzazione del
benessere economico senza tenere conto del modo in cui le risorse sono impiegate e i beni e le ricchezze
sono distribuite all’interno della società. L’idea di fondo è che lo sviluppo debba essere inteso non solo in
termini di crescita economica ma come promozione dello sviluppo e del progresso umano, delle condizioni
di vita delle persone la cui realizzazione non può prescindere da elementi fondamentali quali la libertà di
scelta e di azione, il benessere, non solo materiale, e la qualità della vita. Le risorse economiche, i beni, il
reddito disponibile sono mezzi, certamente essenziali e irrinunciabili, ma la valutazione del benessere non
può limitarsi a considerare l’ammontare complessivo di tali risorse. Ciò che conta è quanto le persone
riescono effettivamente a fare con le risorse a loro disposizione. Tra le persone vi sono, inoltre, differenze
culturali, familiari, sociali, ambientali che condizionano ciò che l’individuo può fare e può essere e che
12
Fonte: Il Sole 24 Ore, 24.06.2014
A. K. Sen, Scelta, benessere, equità, Mulino, Bologna, 2006; M. C. Nussbaum, Creare capacità, liberarsi dalla
dittatura del PIL, Mulino, Bologna, 2012
13
5
incidono sulla capacità di trasformare questi mezzi in realizzazioni, traguardi e risultati. A parità di reddito e
di risorse, persone diverse hanno necessità diverse e diverse capacità o possibilità di trasformare queste
risorse per conseguire risultati. È l’insieme di questi traguardi potenzialmente raggiungibili (spazio delle
capacità o capability set) o effettivamente realizzati (spazio dei funzionamenti o functionings) che
contribuisce, nel complesso, a determinare il benessere e la qualità della vita delle persone. Per marcare la
differenza tra il tradizionale concetto di benessere (o welfare) inteso come ammontare di risorse materiali e
questa concezione più estesa di benessere, che include a partire dai mezzi e dalle risorse a disposizione le
capacità e i funzionamenti delle persone, Sen utilizza il termine di well-being (letteralmente, “star bene”).
Scostandosi radicalmente da una visione del benessere centrata esclusivamente sul possesso di beni e
redditi e sulla conseguente possibilità di accrescere in modo illimitato i propri consumi, Amartya Sen
propone un’idea di benessere di tipo relazionale. Il well-being, lo “star bene”, è determinato, in questa
prospettiva, dalla capacità che le persone sviluppano nell’utilizzare mezzi che possono anche non essere
posseduti. Non è un’idea del tutto nuova, se pensiamo che le imprese cooperative, fin dalla seconda metà
del 800’, per superare la dicotomia tra proprietà dei mezzi di produzione e dipendenza salariata hanno
introdotto l’utilizzazione dell’impresa, vista come bene comune, per favorire il miglioramento delle
condizioni di vita dei lavoratori. Oggi, in un’epoca dominata dall’idealizzazione della proprietà, questo
generale spostamento di attenzione sulla relazione con i beni, piuttosto che sul possesso, appare
particolarmente innovativo. A questo va sottolineato che le persone nel ricercare opportunità per “star
bene” non si muovono da sole, perché le loro azioni sono condizionate dai mondi culturali di appartenenza,
dai legami famigliari e amicali, dall’attaccamento ad ambienti con cui hanno sviluppato legami. La
possibilità di incrementare il benessere individuale e collettivo è quindi legata alla capacità di vedere queste
interazioni e di rappresentarsi il grado di benessere raggiunto o raggiungibile come esito di processi
relazionali in cui non è possibile escludere gli altri. In questa prospettiva anche l’agire individualizzato
orientato al perseguimento del proprio benessere personale, sostenuto dalle diffuse e dominanti
idealizzazioni relative all’individuo consumatore, si configura come illusorio, una sorta di gabbia culturale
che genera effetti frustranti e socialmente distruttivi.
Questa visione relazionale del benessere è ulteriormente rinforzata dai cambiamenti in atto relativi agli
studi in ambito economico inerenti alla produzione di valore. L’idea che va affermandosi è che la
produzione di valore economico non sia più separabile dal contesto sociale in cui si realizza e che sia
significativamente legata alle relazioni tra soggetti e tra questi e il loro contesto di vita. “Da questo punto di
vista, il valore contestuale, o condiviso, indica la nuova via che le economie mature possono percorrere per
ricominciare a crescere, diversamente da quanto hanno fatto nel passato quando, grazie all’espansione che
ha caratterizzato la prima globalizzazione, è stato possibile slegare l’economia dalla società. Oggi, per
tornare a crescere occorre realizzare il movimento opposto, che rilega economia e società dando valore a
persone e relazioni, significati e territori e riconciliando il successo delle soggettività economiche con quello
delle comunità...”.14
La dimensione della relazionalità, contestualizzata in uno specifico ambito territoriale, sembra essere la
chiave per sviluppare “valore contestuale” e benessere, per contrastare le frammentazioni in atto e
ricostruire legami basati sul riconoscimento e sull’apprezzamento reciproco. Passare dalla centralità
dell’autorealizzazione individualistica alla realizzazione dei contesti implica lo sviluppo di un nuovo
immaginario sociale, in cui la propria individuale realizzazione, il proprio ruolo produttivo e il proprio
benessere è visto nella relazione con il contesto e la comunità piuttosto che a discapito degli altri e
dell’ambiente.
Questa ipotesi, che considera il benessere e la produzione di valore economico come l’esito di una
riscoperta e di una rivalutazione delle dimensioni relazionali, fornisce di conseguenza nuovi riferimenti
valoriali e concettuali su cui fondare la ridefinizione dei sistemi locali di welfare. Perché questo
ripensamento possa avviarsi occorre innanzitutto riconsiderare come i diversi soggetti (individuali, collettivi
e istituzionali) presenti in questi contesti, dando vita a una molteplicità di reti relazionali, interpretano il
14
M. Magatti, L. Gherardi, Una nuova prosperità, quattro vie per una crescita integrale, Feltrinelli, Milano, 2014
6
loro ruolo e contribuiscono ad allestire e far funzionare spazi fisici e temporali per incrementare lo “star
bene” di chi vive situazioni di fragilità o difficoltà. Muoversi in questa prospettiva implica innanzitutto il
superamento della dicotomia tra chi produce servizi e chi passivamente li riceve; partendo dal presupposto
che il servizio che effettivamente serve non è costituito dal trasferimento di qualcosa di preordinato ma è
generato da un processo di coproduzione che valorizza e incrementa le capacità di chi ha necessità di
essere aiutato, favorendo miglioramenti dei suoi funzionamenti. I sistemi relazionali deputati alla
coproduzione dei servizi richiedono quindi dei profondi riposizionamenti dei tecnici a cui è affidato il
compito di contribuire alla realizzazione di servizi di aiuto. Agli operatori è richiesto di rivedere il modo con
cui si rappresentano i problemi di coloro che chiedono il loro aiuto “trasgredendo”15, come sostiene Franca
Olivetti Manoukian, “l’attaccamento al singolo caso”, “gli affezionamenti alle prerogative professionali”, “le
appartenenze istituzionali”, “alcune verticalità fisse, per attivare delle relazioni più mobili, più orizzontali”
nella consapevolezza che questa è “.... una sfida culturale perché implica per i servizi e per gli operatori
distanziarsi dalle culture della beneficenza oblativa e delle competenze specialistiche, evitare di rifugiarsi
nella rassegnazione, per scommettere sulla possibilità di portare pensiero e parola per concorrere alla
costruzione di convivenze sociali nei contesti locali...”.
Così come il lavoro sociale e le attività di aiuto devono essere reinterpretate in un’ottica relazionale per
permettere ai destinatari dei servizi di essere protagonisti dei loro percorsi evolutivi, le organizzazioni (enti
locali, servizi sociali, aziende sanitarie, scuole, cooperative, associazioni, fondazioni... ), in cui operano i
tecnici e i volontari coinvolti in questi processi, devono anch’esse ripensare i loro funzionamenti in una
prospettiva relazionale. Da tempo l’integrazione interorganizzativa e il lavorare in rete sono richiamati
come modelli operativi da perseguire per affrontare con maggiore rispondenza la crescente complessità dei
problemi che le persone e le famiglie vivono nei loro contesti di vita, ma nella realtà continuano a prevalere
logiche di azione settoriali determinate dalla diffusa presenza di istanze autoreferenziali e da propensioni
gerarchizzanti. La riduzione di risorse e di opportunità, che l’attuale stato perdurante di crisi ha
determinato, rende comprensibile il fatto che la maggior parte dei soggetti (pubblici e del terzo settore) che
operano nell’ambito dei servizi a carattere sociale siano fortemente preoccupati della propria
sopravvivenza e che quindi sviluppino strategie d’azione in cui i propri interlocutori, organizzativi e
istituzionali, siano visti perlopiù per la loro parte minacciante. Così come è comprensibile che, quando si
sviluppano interazioni interorganizzative, si manifestino tensioni legate alla definizione di una gerarchia di
comando e di responsabilità16 che tende naturalmente a riprodurre i modelli culturali su cui queste
organizzazioni si sono istituite e hanno fondato fino ad oggi il loro sviluppo. Di fatto questi “comprensibili”
modi di agire contribuiscono ad incrementare la frammentazione dei contesti operativi e si configurano
quindi come dei fattori che rinforzano la crisi dei sistemi di welfare sociale e rallentano, a volte
impediscono, la ricerca di nuove strade per mantenere, riqualificare e estendere l’offerta di servizi di aiuto.
Per aprire spazi a una idea di benessere capace di costituire un’alternativa all’autismo consumistico e
proprietario di stampo neo liberistico, per superare concezioni del lavoro sociale di tipo assistenziale o
tecnicistico e valorizzare le capacità delle persone e delle famiglie, per ridurre settorializzazioni e
frammentazioni operative e incrementare le cooperazioni interorganizzative nei sistemi di welfare locale,
occorre cambiare prospettiva, riscoprire il potenziale generativo della dimensione relazionale. Questa può
essere la nuova base su cui sviluppare realistici e innovativi sistemi di welfare locale. La centratura sulle
prerogative e sulle esigenze individuali dei diversi soggetti che in uno specifico territorio danno vita a questi
sistemi può essere superata con la costruzione di un nuovo soggetto plurale, un nuovo noi che “..... non può
più essere ispirato alle pratiche di welfare partecipativo-solidali del passato, di un tempo cioè che non
conosceva la radicale, vertiginosa novità della società-mondo. Il nuovo noi che siamo chiamati a condividere
e ricostruire implica, in particolare, la difficile consapevolezza che la materia prima di cui sono fatte le
15
Franca Olivetti Manoukian, Quel tanto di trasgressioni per lavorare nel sociale, in Animazione Sociale, gennaio/2012,
Inserto.
16
Le esperienze di esternalizzazione dei servizi pubblici realizzate attraverso appalti, concessioni e voucherizzazioni,
che hanno caratterizzato negli ultimi decenni i rapporti tra la Pubblica Amministrazione e le organizzazioni del terzo
settore, hanno consolidato sistemi di relazioni interorganizzative prevalentemente fondate su logiche gerarchizzanti.
7
nostre vite non è di natura anzitutto individuale, ma anzitutto, e da sempre, relazionale. Fatta cioè di legami
di co-determinazione e di comune appartenenza «filiale» al tutto più grande al quale momento per
momento, circolarmente, diamo vita a nostra volta, attraverso le nostre reciprocità quotidiane..... Verità
neonata, nella nostra coscienza comune ..... da non sbandierare come fosse una robusta ideologia salvifica,
ma da saper soprattutto praticare con cura e con metodo, ricominciando ogni volta daccapo, nel vivo delle
quotidiane pratiche di welfare e di partecipazione sociale, civile e politica.”17
La coprogettazione, una prospettiva per lo sviluppo del welfare locale
Immaginare lo sviluppo di un sistema di welfare locale in una prospettiva relazionale significa considerare
l’insieme di servizi sociali che possono essere realizzati come “beni comuni”, ossia risorse, spazi e
opportunità utilizzati, coprodotti e gestiti dai soggetti che costituiscono la comunità locale, sulla base di
sistemi di regole conosciute e condivise. Questa affermazione porta con sé la necessità di non accostarsi al
tema dei “beni comuni” in termini astratti o idealistici, da una parte occorre quindi precisare che cosa di
fatto connota un servizio di welfare come bene comune, dall’altra è necessario approfondire come può
prendere forma e articolarsi questo soggetto plurale che, in un delimitato territorio, nel contempo utilizza,
coproduce e gestisce i servizi di welfare.
Un servizio a carattere sociale realizzato in una prospettiva relazionale richiede, come prima è stato
evidenziato, il superamento della dicotomia tra produttore e destinatario. Il processo che ne permette la
realizzazione è lo spazio in cui lo scambio tra diverse capacità e la condivisione delle decisioni e delle
responsabilità trasforma il servizio da bene di qualcuno, che viene trasferito, in bene comune coprodotto.
Perché questo possa realizzarsi occorrono due precondizioni essenziali: un sistema di regole, costruito con il
contributo di tutti i soggetti interessati, che orienti le modalità di utilizzazione delle risorse e la realizzazione
dei servizi, delineandone i caratteri qualificanti; un quadro, costantemente aggiornato e diffuso,
dell’insieme di risorse disponibili e impiegabili per la realizzazione dei servizi. Questi presupposti non si
configurano meramente in termini strumentali, sono l’espressione della costruzione e della funzionalità di
un soggetto plurale capace di sviluppare accordi basati sulla condivisione di una visione strategica del
sistema di welfare locale da sviluppare nel proprio territorio.
Gli ancoraggi normativi che permettono di riorientare l’offerta di servizi a carattere sociale in questa
direzione sono contenuti dalla “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi
sociali” n. 328 del 2000, in cui è previsto che la titolarità e la responsabilità della produzione di servizi sociali
non sia più una esclusiva dell’ente pubblico. I soggetti del terzo settore (in particolare cooperative,
associazioni e fondazioni) possono quindi a pieno titolo partecipare alla programmazione, progettazione e
realizzazione del sistema di offerta locale di servizi a carattere sociali. Negli ultimi anni la realizzazione dei
Piani di Zona è stata, per alcuni territori, una fertile occasione di ripensamento del modo di concepire la
produzione di servizi, ma è stata soprattutto la possibilità di allestire spazi di cooperazione tra enti pubblici
e terzo settore che hanno permesso di elaborare sistemi di regole comuni in grado di orientare e
mantenere una qualificata ed articolata offerta di servizi.18
In questa prospettiva non solo i servizi sociali si configurano come beni comuni ma le stesse risorse
necessarie per realizzarli assumono i connotati di beni comuni. Questo richiede un attento riesame di come
le risorse destinate alla realizzazione di servizi a carattere sociale vengono identificate, apprezzate e gestite,
condizione questa essenziale per poter disporre di un quadro complessivo della risorse impiegabili e per
poterne programmare l’utilizzo e la ricostituzione. Occorre quindi superare le tradizionali visioni
economicistiche e stataliste che tendono ad identificare nelle dotazioni economiche e strutturali a
disposizione degli enti pubblici le uniche risorse dedicate alla realizzazione dei servizi a carattere sociale.
Nella prospettiva di un welfare locale relazionale il paniere delle risorse utilizzabili per la realizzazione di
17
Sergio Manghi, Ripartire dal legame fraterno, nuovo welfare, bene comune e pratiche sociali,in Animazione Sociale,
novembre/2012, Studi.
18
IReR, a cura di L. Pesenti e U. De Ambrogio, Piani di Zona in Lombardia, Guerini, Milano, 2009
8
servizi a carattere sociale si allarga ed ha una composizione molto più articolata. Alle risorse economiche e
strutturali messe a disposizione dagli enti pubblici vanno aggiunte quelle dei soggetti del terzo settore
provenienti prevalentemente da donazioni, affidamenti e contribuzioni finalizzate. Ciò che però qualifica
questo paniere è la considerazione e la valorizzazione delle risorse culturali presenti nel territorio, espresse
dalle competenze e dai saperi consolidati dai diversi attori sociali, e del capitale sociale della comunità
locale, espresso dal riconoscimento e dalla fiducia reciproca, su cui si basa la possibilità di intraprendere, di
incrementare e consolidare cooperazioni e assunzioni condivise di responsabilità.
Questa visione relazionale dei servizi a carattere sociale, che li configura come beni comuni, implica
necessariamente un netto allontanamento dalla tradizionale convinzione che la gestione dei problemi di
interesse collettivo possa essere solo appannaggio dello Stato, attraverso le sue articolazioni istituzionali, o
del mercato.
La costituzione di un nuovo soggetto plurale, composto dagli enti pubblici e dalle organizzazioni del terzo
settore operanti in un territorio circoscritto, e le soluzioni organizzative che in modo incrementale possono
essere sviluppate, rappresentano una leva rilevante per favorire il rinnovamento del modo di concepire e
realizzare servizi a carattere sociale. Questo soggetto, strutturalmente ibrido, in cui le diversità presenti
costituiscono un potenziale generativo, per definire una propria fisionomia e condividere la costruzione di
un sistema di welfare locale deve affrontare nuovi problemi connessi al posizionamento dei diversi soggetti
istituzionali e organizzativi. Gli enti pubblici devono abbandonare le tradizionali modalità di esercizio del
potere pubblico, connotate da logiche gerarchizzanti e prescrittive, per assumere un posizionamento più
laterale e flessibile che, pur garantendo le necessarie prerogative politico istituzionali, sia in grado di
favorire un sistematico coinvolgimento dei soggetti del terzo settore nelle attività istruttorie e decisionali
che interessano l’esercizio delle funzioni direzionali e gestionali di un sistema di welfare locale. Gli enti
pubblici devono di fatto agire il loro potere istituzionale sviluppando reali funzioni di governance19, devono
“fare sistema” operando in modo condiviso in contesti caratterizzati in modo crescente da incertezze e
scarsità di risorse. I soggetti del terzo settore, in particolare cooperative e associazioni, non possono più
proporsi in modo frammentato, con eccessive propensioni autoreferenziali e competitive, devono
rinforzare le loro capacità imprenditive e di condivisione delle responsabilità di governo di un sistema di
welfare locale, emancipandosi da una eccessiva dipendenza dalle iniziative degli enti pubblici. La ricchezza e
la complessità di questo soggetto plurale non è solo alimentata dalle differenze di natura istituzionale e
organizzativa delle sue componenti ma è anche determinata dal fatto che al suo interno entrano in stretta
relazione, favorendone l’integrazione, patrimoni culturali diversi prodotti dalle esperienze di lavoro
professionale degli enti pubblici e delle cooperative, e dalle attività di volontariato del mondo associativo.
La Legge n. 328 del 2000, promuove questa prospettiva introducendo un nuovo strumento, denominato
“coprogettazione”, con l’intento di favorire lo sviluppo di partnership tra enti pubblici e soggetti del terzo
settore per facilitare la messa in comune e l’integrazione di risorse pubbliche e private e la condivisione
dell’esercizio e delle responsabilità inerenti la direzione, la programmazione, la progettazione, la gestione e
l’erogazione dei servizi. Nonostante siano trascorsi molti anni dalla promulgazione di questa legge, che di
fatto crea i presupposti per lo sviluppo di esperienze di welfare a carattere relazionale, resistenze di natura
diversa, tra loro collusive (scarsa iniziativa politica e istituzionale, rigidità e timori degli apparati tecnici e
burocratici, frammentazioni e chiusure del terzo settore, scarsi investimenti formativi, interessi speculativi,
...) hanno impedito una adeguata realizzazione dei cambiamenti auspicati. In alcune realtà si sono però
avviate significative esperienze di coprogettazione che sono state in grado di raggiungere apprezzabili
risultati20, confermando la portata strategica e innovativa di questa strada per innovare e sviluppare i
sistemi di welfare locale. In queste esperienze la coprogettazione è stata l’occasione per istituire un
soggetto plurale in cui gli enti pubblici, valorizzando le proprie prerogative istituzionali, hanno potuto
19
Con il termine “governance” si intende generalmente richiamare alcune caratteristiche di un nuovo modo di
esercitare i poteri pubblici che prevede lo sviluppo di reti interorganizzative e di processi decisionali inclusivi per
affrontare questioni di interesse collettivo .
20
M. Brunod, M. Pizzardi, La coprogettazione nel Comune di Lecco, analisi valutativa di cinque anni di esperienza
2006/20010, Lecco, 2012.
9
pienamente espletare le proprie responsabilità nella definizione delle finalità e delle strategie di intervento
in ambito sociale, condividendo con i partner del terzo settore l’esercizio delle funzioni di direzione,
progettazione, gestione e produzione dei servizi. La coprogettazione ha così permesso di rispondere ai
problemi presenti nei contesti sociali, non tanto o non solo in termini di predisposizione ed erogazione di
servizi, quanto di costruzione di una nuova contrattualità condivisa. In questo modo è stato possibile
coniugare positivamente le diverse risorse culturali, professionali ed economiche presenti nelle comunità
locali con le capacità degli enti pubblici di promuovere i necessari sistemi di protezione sociale e di
miglioramento della qualità della vita dei cittadini.
Queste esperienze di coprogettazione si sono fatte strada affrontando molteplici resistenze, sono
esperienze empiriche che stanno costruendo riferimenti per un nuovo paradigma pubblico/privato in cui la
sussidiarietà non si realizza semplicemente nell’esternalizzare l’erogazione di servizi ma si fonda sulla
capacità di sviluppare processi decisionali inclusivi relativi alla costruzione condivisa del sistema (tecnico e
organizzativo) di welfare locale e delle sue regole di funzionamento. La coprogettazione si configura, e
questo certamente è un elemento che rinforza a sua insaputa la validità di questa prospettiva, come una
declinazione delle ipotesi e dei modelli elaborati da Elinor Ostrom21, premio Nobel dell’economia nel 2009,
sul tema della “governance delle risorse collettive”. Criticando la dicotomia dominante tra Stato e mercato,
la Ostrom ha dimostrato che per evitare l’eccessivo sfruttamento o l’inadeguata utilizzazione delle risorse
collettive, considerate come beni comuni, esistono alternative efficienti e sostenibili. Le sue riflessioni
teoriche e le approfondite ricerche empiriche, condotte con una prospettiva multidisciplinare, dimostrano
che le comunità locali sono in grado di gestire le proprie risorse comuni in modo soddisfacente se riescono
a valorizzare la conoscenza, la fiducia e la comunicazione tra i componenti della stessa comunità; se
sviluppano sistemi di regole e soluzioni organizzative comuni; se contengono le interferenze di autorità
istituzionali esterne. A conclusione dell’analisi di molte esperienze di gestione di risorse collettive, realizzate
in diversi contesti ambientali, la Ostrom è arrivata a definire otto “Principi Progettuali”22, che si configurano
come elementi ricorrenti che spiegano il successo delle esperienze analizzate:
1. “Chiara definizione fisica dei confini” (chiara definizione di coloro che possono utilizzare le risorse
collettive e delle loro modalità di utilizzazione);
2. “Congruenza tra le regole di appropriazione (utilizzazione) e di fornitura e le condizioni locali” (le regole
che orientano le modalità di utilizzazione delle risorse collettive devono essere congruenti con le regole
di fornitura, che implicano l’esercizio di attività lavorative e l’utilizzazione di strumenti e denaro, e con
le specificità del contesto locale);
3. “Metodi di decisione collettiva” (la maggior parte dei soggetti interessati dalle regole operative,
utilizzatori e fornitori, può contribuire a modificarle);
4. “Controllo” (coloro che esercitano il controllo sulle condizioni d’uso delle risorse collettive e sul
comportamento degli utilizzatori rispondono agli utilizzatori);
5. “Sanzioni progressive” (coloro che violano norme operative possono ricevere sanzioni progressive);
6. “Meccanismi di risoluzione dei conflitti” (sono previsti ambiti dedicati a trattare rapidamente i conflitti
che possono insorgere tra gli utilizzatori o tra utilizzatori e fornitori)
7. “Riconoscimento dei diritti di organizzarsi” (gli utilizzatori delle risorse collettive possono organizzarsi e
darsi una rappresentanza, questo diritto non può essere contestato da autorità governative esterne);
8. “Organizzazioni articolate su più livelli” (quando i sistemi d’uso di risorse collettive fanno parte di
sistemi più grandi occorre sviluppare un’articolazione organizzativa su più livelli concentrici) .
Le esperienze di coprogettazione avviate e quelle che in numero crescente stanno nascendo possono trarre
importanti spunti da questi studi che, oltre a evidenziare con chiarezza specifiche questioni a cui prestare
attenzione, forniscono una cornice teorica, preziosi tasselli di un modello di riferimento, una concreta
traccia per lo sviluppo di esperienze di welfare locale capaci di emanciparsi dalle tradizionali e infruttuose
logiche stataliste e mercantili.
21
22
E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio Editori, Venezia, 2006.
Op.cit., pp. 134-135.
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