Nel 1770 Kant diventa professore ordinario di logica e metafisica

IMMANUEL KANT (1724 - 1804)
Kant è il massimo esponente dell'illuminismo europeo, ossia di quel movimento che lui stesso
definì in maniera icastica come "l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità". L'opera di Kant viene
di solito suddivisa in due fasi: il periodo precritico e il periodo critico. Al primo appartengono gli
scritti anteriori al 1770, l'anno in cui Kant diventa professore ordinario di logica e metafisica con
la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis. Al secondo periodo
appartengono gli scritti usciti dopo il 1770; ma è solo nel decennio successivo che inizia la fase
più feconda della sua ricerca. Stando alle parole di Kant la svolta del 1770 fu segnata
dall'incontro con la filosofia di David Hume, che lo avrebbe svegliato dal "sonno dogmatico"
della metafisica: ovvero la convinzione che la mente umana sia come uno specchio in grado di
riflettere le strutture dell'essere nelle forme della conoscenza (secondo la concezione della la
verità intesa come adaequatio rei et intellectus) .
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Nel 1781 esce la prima edizione della Critica della ragion pura (nel 1787 presenta una
seconda edizione riveduta e ampliata),
nel 1788 esce la Critica della ragion pratica,
nel 1790 esce la Critica del Giudizio.
La Critica della ragion pura è dedicata principalmente al problema della conoscenza e al
tentativo di individuare un criterio di demarcazione tra l'autentica conoscenza scientifica e la
pseudo-conoscenza metafisica. Secondo Kant, i due filoni principali delle filosofie passate, il
razionalismo e l'empirismo, non hanno saputo giustificare realmente il processo conoscitivo. Il
razionalismo, infatti, muovendo da una concezione innatistica, pur giustificando il conoscere
come fatto a priori e quindi necessario e universale, non riesce a spiegare come il sapere abbia
anche una capacità espansiva e cumulativa. L'empirismo, a sua volta, partendo dal presupposto
che la conoscenza deriva unicamente dall'esperienza, riesce a giustificare la capacità espansiva
del sapere, ma non riesce a dimostrare la sua universalità e necessità. Kant ritiene che il giudizio
possa essere considerato valido solo in quanto universale e necessario, cioè quando è a priori.
Allo stesso tempo però la validità di un giudizio deve essere dimostrata anche dalla sua capacità
espansiva, dal suo essere sintetico. Solo il sapere basato su giudizi sintetici a priori è un sapere
del tutto valido. Tuttavia, al di là delle loro differenze, razionalismo ed empirismo sono
accomunati dal presupposto "ingenuo" secondo cui il processo della conoscenza consiste in una
adeguazione del soggetto all'oggetto, della mente alla realtà, dell'io alla natura. Per superare i
limiti di questa impostazione occorre un nuovo metodo, che Kant chiama metodo
«trascendentale» (termine che può essere considerato come sinonimo di «critico»): si tratta di
distinguere tra gli elementi puri delle conoscenza, ossia quelli che non derivano dall'esperienza, e
gli elementi a priori, che pur non derivando dall'esperienza si applicano soltanto agli oggetti che
questa ci mostra, ossia i «fenomeni» distinti dalle cose in sé ( i «noumeni»).
Nell'Estetica trascendentale Kant analizza la sensibilità in quanto prima fonte di conoscenza,
definendola come attività intuitiva che si realizza attraverso le forme pure dello spazio e del
tempo, condizioni indispensabili per accedere agli oggetti dell'esperienza fenomenica. Intuizione
in Kant significa "conoscenza immediata di un oggetto". L'uomo, in quanto essere finito e
limitato, dispone soltanto di intuizioni sensibili, perché l'idea di una "intuizione intellettuale"
presuppone un intelletto dotato del potere di creare attraverso il pensiero. È facile vedere come
soltanto una mente divina, ammesso che esista, corrisponda a questo criterio. Il momento
successivo della conoscenza è quello dell'intelletto, affrontato nella prima parte della Logica
trascendentale, ossia l'Analitica trascendentale. L'intelletto umano opera secondo pure forme a
priori che Kant chiama categorie (causa-effetto, sostanza-accidente, ecc.) recuperando il
linguaggio della logica di Aristotele. Attraverso le categorie l'intelletto organizza e dà forma ai
materiali della conoscenza sensibile, già disposti nello spazio e nel tempo dalle forme pure
dell'intuizione. Le categorie sono espressione dell'attività (Kant dice: «spontaneità»)
dell'intelletto, e non hanno origine empirica dato che le conoscenze che derivano da esse hanno
un valore universale e necessario. La categoria più importante è la causalità, secondo cui ogni
evento fisico è l'effetto di una causa che lo precede nel tempo e a sua volta la causa di un effetto
che lo segue inevitabilmente. Ma per spiegare come sia possibile che il mondo dei fenomeni
obbedisca alle leggi dell'intelletto è necessario effettuare una "deduzione trascendentale" delle
categorie. In questa sezione articolata e difficile Kant elabora il concetto dell'Io penso. Per
unificare il molteplice dei dati sensoriali nell'unità delle categorie è necessario che ogni oggetto
dell'esperienza possibile (ogni fenomeno) sia riferito all'Io, alla coscienza del soggetto che lo
pensa e lo rappresenta. Nessun oggetto può essere dato se non "di fronte" a un io che pensa, per
cui ogni oggetto è tale in quanto viene immediatamente riferito all'attività conoscitiva del
soggetto. Ma dato che l'Io penso è anche la fonte da cui scaturiscono le categorie, questo spiega
come sia possibile che gli oggetti che ci vengono offerti dall'esperienza fenomenica, in quanto
correlati dell'Io penso, siano riferiti anche alle categorie. A mediare tra l'universalità astratta del
concetto e la concretezza dei dati delle intuizioni concorre una terza facoltà intermedia tra sensi e
intelletto: l'immaginazione. Nella seconda parte della Logica trascendentale, ossia l'Analitica dei
principi, Kant dimostra anche che i tre principi della dinamica di Newton non sono altro che tre
espressioni differenti dell'unica legge di causalità presente in ogni aspetto della natura.
Nella Dialettica trascendentale Kant esamina l'attività della ragione che, al di là del sapere
fornito dall'intelletto nell'ambito dell'esperienza, mira a cogliere la totalità, cioè l'insieme di tutti i
fenomeni, la causa totale e assoluta. In questo sforzo grandioso la ragione usa però in modo
illegittimo le categorie intellettuali e fallisce quindi il suo compito. Tuttavia, il senso di una
realtà assoluta e totale non abbandona Kant. È per questo motivo che egli ammette al di là
dell'esperienza, cioè del mondo fenomenico, una realtà in sé: il noumeno. Data l'impostazione
del problema conoscitivo, Kant afferma di aver compiuto una vera rivoluzione copernicana
nell'ambito della filosofia perché come Copernico aveva rovesciato il tradizionale rapporto tra la
Terra e il Sole, anch'egli ritiene di aver rovesciato il rapporto tra il pensiero e il mondo sensibile,
tra il soggetto e l'oggetto della conoscenza. Inoltre la ragione umana non è solamente teoretica,
ossia capace di conoscere, ma è anche pratica, perché è capace di determinare la volontà e
l'azione morale.
Quest'ultimo tema è sviluppato nella Critica della ragion pratica, l'opera che affronta il tema
della libertà. Kant determina la natura della legge morale e il genere di adesione che i principi
pratici comportano. Egli respinge le giustificazioni tradizionali dell'attività morale (come quelle
utilitaristiche, teologiche, ecc.) perché impongono un'etica dall'esterno, di fronte alla quale
l'uomo è passivo («eteronomo»). L'attività morale invece deve essere autonoma. L'obbligazione
morale si presenta come una legge che la ragione impone alla volontà. Mentre gli imperativi
ipotetici prescrivono certe azioni come mezzi per qualche altro fine, cioè sono ipotetici (secondo
la forma «se… allora…»), l'imperativo della moralità è categorico, vale a dire incondizionato,
assoluto, e di conseguenza universale: «Agisci in modo tale che la massima delle tue azioni
possa essere assunta dalla tua volontà come una legge universale». Solo le massime che possono
essere cosi universalizzate dalla volontà ci propongono un fine razionale, un fine in sé. In questo
modo, è l'essere ragionevole che esiste come fine in sé, da cui deriva una seconda formula:
«Agisci in modo tale da trattare sempre l'umanità, in te e negli altri, come fine e mai come
mezzo». Il regno dei fini è quello «in cui ogni cittadino sarebbe insieme legislatore e suddito».
Di qui la terza formula del dovere: «Agisci come se tu fossi legislatore e suddito nel regno delle
volontà libere e ragionevoli». Il solo movente dell'azione morale deve essere il rispetto della
legge. A questi principi generali della ragion pratica sono legati alcuni postulati: quello della
libertà, condizione della moralità; quello dell'immortalità dell'anima, necessaria per il
compimento della virtù; quello dell'esistenza di Dio, il quale, autore della legge morale e delle
leggi naturali, assicura l'unione finale della felicità e della virtù. La Critica della ragion pratica
conclude, se non nella conoscenza speculativa di queste realtà trascendenti, almeno nella fede in
esse.
È nella Critica del Giudizio (1790) che Kant rivaluta una terza facoltà corrispondente al
campo del sentimento, capace di riconciliare libertà e necessità in un concetto più ampio che
includa entrambi. In quest'opera Kant individua un nuovo tipo di giudizio, detto riflettente.
Mentre le prime due critiche cercavano di individuare un sistema capace di unificare dati
molteplici in una categoria, i nuovi giudizi partono da oggetti già conosciuti per cercare in essi
una corrispondenza con le esigenze di finalità e armonia del soggetto conoscente. Questi giudizi
non sono validi scientificamente, e quindi non hanno alcun valore dal punto di vista teoretico, ma
rispecchiano un'esigenza tutta umana di conciliare la nostra interiorità alle cose del mondo.
Partendo dal presupposto che il giudizio è la facoltà di pensare il particolare come contenuto
nell'universale, si danno due possibilità: o si ha il giudizio determinante, quando è data la regola
generale a cui soggiace il caso particolare; o si ha il giudizio riflettente, quando è dato il
particolare e da esso si cerca di risalire a una regola universale. Il giudizio riflettente a sua volta
può essere estetico o teleologico. Il giudizio estetico concerne il bello e si produce quando si
instaura tra noi e gli oggetti del giudizio un rapporto di armonia. Il bello si determina in relazione
alla quantità (il bello è ciò che piace universalmente), alla qualità (il bello è ciò che piace in
modo disinteressato), alla relazione (il bello è una finalità senza scopo), alla modalità (il bello è
oggetto di un piacere necessario). Al concetto di bello bisogna affiancare quello di sublime, che
sorge dalla percezione della sproporzione tra l'oggetto contemplato e le possibilità conoscitive
del soggetto. Quando la sproporzione riguarda l'infinitamente grande si ha il sublime
matematico, quando riguarda la forza si ha il sublime dinamico. Di fronte a tali esperienza si
prova meraviglia e sgomento e l'uomo avverte la propria limitatezza e tenta di superare i propri
limiti nella libertà delle istanze morali. Il giudizio riflettente teleologico, invece, ci induce a
credere in una finalità oggettiva presente nella natura quando sentiamo che deve esistere un
principio soprasensibile ed unificatore di tutti i fenomeni, ovvero Dio. Mentre la finalità che si
può riscontrare in un'opera d'arte è puramente soggettiva, negli esseri della natura è possibile
riscontrare una finalità oggettiva. Negli organismi viventi studiati dalle varie branche della
biologia si riscontra una finalità oggettiva interna: per spiegare un organismo noi partiamo dal
presupposto che nessuna parte in esso sia inutile. Ogni organo, ogni singola parte di un
organismo vivente è una struttura alla quale corrisponde una funzione vitale precisa che spetta
allo scienziato individuare attraverso la ricerca. Alle spiegazioni meccanicistiche della fisica, che
studiano la natura come se fosse una macchina regolata unicamente dal principio di causalità,
subentrano le spiegazioni teleologiche della biologia, che studia gli organismi viventi, dotati di
un maggiore grado di complessità. Quando Kant afferma che "non ci sarà mai un Newton del filo
d'erba" egli intende ribadire l'impossibilità di ridurre le leggi della biologia alle leggi della fisica.
La Critica dei giudizio ebbe una grande influenza, in particolare sull'estetica di Goethe, di
Schiller e sulla metafisica di Schelling. Dopo la pubblicazione della seconda edizione (1794)
della Religione nei limiti della semplice ragione Kant venne a trovarsi in contrasto con il
governo prussiano, ma con l'avvento al trono di Federico Guglielmo III (1797), la libertà di
stampa fu ripristinata e Kant riuscì quindi nel Conflitto delle facoltà (1798) a rivendicare la
libertà del pensiero e della parola, contro gli arbìtri del dispotismo. Negli ultimi anni Kant fu
colto da una debolezza senile che lo privò gradualmente di tutte le sue facoltà fino alla morte,
avvenuta il 12 febbraio 1804.
Nella storia del pensiero Kant è una tappa fondamentale. In lui convergono le correnti
speculative della filosofia moderna, mentre dopo di lui riprendono per vie diverse nuove correnti,
tutte segnate da un confronto continuo con la sua opera. Tra i primi che si richiameranno con
forza al suo insegnamento ci sono i filosofi dell'idealismo tedesco (Fichte, Schelling, Hegel).